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· Wednesday, March 11, 2015
QUANDO SCIASCIA ERA SOTTO ATTACCO…
10 marzo 2015 di Agostino Spataro
Di fronte al ri-esplodere del problema, latente e
crescente, dei carrieristi dell’antimafia, il pensiero corre alla feroce
polemica scatenata contro Leonardo Sciascia per avere egli scritto, nel
gennaio del 1987 sul Corriere della Sera, un “provocatorio”articolo dal titolo
“I professionisti dell’antimafia”. Lo scontro degenerò in una sorta di
linciaggio morale in cui taluni giunsero a bollare lo scrittore come un
“traditore” della lotta alla mafia, un “quaraquaqua” e via blaterando.
Pur non condivendo taluni passaggi dello scritto (lo scrittore sbagliò persona- Paolo Borsellino- ma avvertì del pericolo di un possibile snaturamento di quella lotta), non ritenni di accodarmi a quelle dichiarazioni offensive che criticai pubblicamente e per iscritto non per per amicizia (giacchè amico di Sciascia non fui, lo frequentai in quelle rare sue venute a Montecitorio), ma solo per onestà intellettuale e politica e anche per rispetto della mia autonomia di giudizio.
Dello scrittore ho sempre apprezzato lo stile conciso, denso, la capacità d’intuizione, anche politica, senza considerarlo “profetico” e/o mitizzarne l’opera, il pensiero come taluni continuano a fare.
Aveva ragione Sciascia o i suoi detrattori e accusatori?
Nel Pci le opinioni erano contrastanti: al di là della personalità di Sciascia, in ballo c’erano una certa concezione e pratica della lotta antimafia.
Per capire l’atmosfera del tempo, sono andato a cercare fra le mie carte e ho trovato questa intervista a Marcelle Padovani, pubblicata dall’agenzia “Parcomit” nell’agosto 1989 (che allego anche come documentazione), nella quale si riflette l’asprezza di quella polemica che indusse la famosa giornalista francese, che con Sciascia aveva publicato il bellissimo “La Sicilia come metafora”, a un giudizio molto pesante sullo scrittore.
Pur trattandosi di un’Agenzia di stampa del mio Partito, dissentii da quel giudizio tranciante, ingiusto specie quando la Padovani definisce Sciascia “uno che sta dall’altra parte.”
Pur non condivendo taluni passaggi dello scritto (lo scrittore sbagliò persona- Paolo Borsellino- ma avvertì del pericolo di un possibile snaturamento di quella lotta), non ritenni di accodarmi a quelle dichiarazioni offensive che criticai pubblicamente e per iscritto non per per amicizia (giacchè amico di Sciascia non fui, lo frequentai in quelle rare sue venute a Montecitorio), ma solo per onestà intellettuale e politica e anche per rispetto della mia autonomia di giudizio.
Dello scrittore ho sempre apprezzato lo stile conciso, denso, la capacità d’intuizione, anche politica, senza considerarlo “profetico” e/o mitizzarne l’opera, il pensiero come taluni continuano a fare.
Aveva ragione Sciascia o i suoi detrattori e accusatori?
Nel Pci le opinioni erano contrastanti: al di là della personalità di Sciascia, in ballo c’erano una certa concezione e pratica della lotta antimafia.
Per capire l’atmosfera del tempo, sono andato a cercare fra le mie carte e ho trovato questa intervista a Marcelle Padovani, pubblicata dall’agenzia “Parcomit” nell’agosto 1989 (che allego anche come documentazione), nella quale si riflette l’asprezza di quella polemica che indusse la famosa giornalista francese, che con Sciascia aveva publicato il bellissimo “La Sicilia come metafora”, a un giudizio molto pesante sullo scrittore.
Pur trattandosi di un’Agenzia di stampa del mio Partito, dissentii da quel giudizio tranciante, ingiusto specie quando la Padovani definisce Sciascia “uno che sta dall’altra parte.”
Quando è che ci accorgeremo che certa magistratura ha
trucidato Sciascia? Una francesina, la Padovanì, che si permette di infangare
un uomo illibato, alieno da ogni cosca, teso solo a scriver libri prima
ipotattici poi sempre più diafani, e buttarlo nella caienna dei quaquaraqua di una mafia alla
Sindona e del suo caudatario a nome Joe Macaluso, mi indigna sino allo
sconcerto.
E chi ha dato alla francesina Marcelle siffatte pasture? Ma colui che ebbe a dettargli le “ Cose di
Cosa Nostra"!
Tra le quali finirebbe impalato per contiguità il nostro
Sciascia. E non dovremmo linciare quel paludato giudice? Ed invece gli
dedichiamo un'ampia via che, guarda caso, congiunge Racalmuto con Favara quasi a
maliziosa allusione.
Furono cose che davvero fecero arrabbiare Sciascia, specie
quando il figlio del Generale della Chiesa ci mise lo zampino. Spulciamo da “A FUTURA MEMORIA”,
articolo sull’Espresso del 6 marzo 1983.
«Domenica scorsa , prima che mi portassero il giornale “La
Repubblica” con l’intervista al figlio
del generale Della Chiesa, ho avuto molte telefonate che me la segnalavano e la
commentavano. Tutti, a definirla, la dicevano “delirante”; e più d’uno
aggiunse: “Cose dell’altro mondo”. […] ne è seguita
[una reazione] sollecitata dall’automatico affiorare alla memoria di una
grande, emblematica frase del ‘Don Chisciotte’. Il delirio, le cose dell’altro
mondo; ma dell’altro mondo vengono dei ragli, è segno che sono di questo mondo.
E l’intervista era quasi tutta un ragliare, un rabbioso ragliare di questo
nostro mondo in cui più non si analizzano i fatti e non si discutono le
opinioni».
Credo di essere un assiduo lettore di Sciascia; mai l’avevo
visto tanto irato. A fargli perdere la sua usuale calma direi colpa di un passaggio dell’intervista
al Nando milanese: «Questo passo dell’intervista – soggiunge infatti Sciascia –
val la pena riportarlo: “Non vorrei che
in tutto questo qualcuno seguisse lo stesso ragionamento fatto a suo tempo a Michele
Sindona nei confronti di Sciascia, quando gli mandò degli emissari per chiedergli
di impostare una campagna di opinione a suo favore, che poi Sciascia non fece, limitandosi
a dare qualche consiglio”.»
Ed ecco come Sciascia illustra l’episodio: «Ora io ho raccontato
subito, allora, a tutti i miei amici, della visita che avevo avuto da un mio concittadino
residente in America e che soltanto mi
aveva parlato dell’innocenza del suo amico Sindona e di come fosse vittima di
una macchinazione. Senza nulla chiedermi, mi disse che mi avrebbe fatto avere
dei documenti che provavano innocenza e macchinazione. Documenti che non ebbi;
e soltanto nell’estate dell’anno scorso mi è pervenuto un memoriale, che non ho
ancora letto. Più tardi , da una lettera di Sindona pubblicata da un
settimanale, seppi quel che Sindona avrebbe voluto da me, ma che il mio
concittadino non si attentò a chiedermi.
Che io abbia dato “qualche consiglio” è dunque una menzogna e una diffamazione:
e se il figlio del generale non specificherà da quale fonte ha appreso che io
abbia dato consigli a Sindona e in che questi consigli consistessero, sarò in
diritto di considerarlo un piccolo
mascalzone. »
Anche noi abbiamo avuto la ventura di vivere una vicenda
analoga. Io dovetti vedermela col giudice Imposimato che, alquanto invadente in
esordio, poi ebbe a trattarmi con umana civiltà; Sciascia, purtroppo, dovette
vedersela con Falcone e tutti mi dicono che non fu certo civile con Sciascia.
Non ne avremmo saputo nulla se il fFlcone fregandosene di tutti i segreti istruttori
non avesse rilasciato la famosa intervista alla Padovanì che, dimentica
dell’antica amicizia con Sciscia, lo fa divenire colluso, quasi un quaquaraqua
e come uno “passato dall’altra parte”, cosa davvero infamante e direi una vera
e grande mascalzonata. Sciascia sbarellò. Nando della Chiesa ha di sicuro i
suoi torti, ma per le autorevoli dicerie della Padovanì una qualche attenuante
ce l’ha. E Falcone? Noi per questa ed
altre faccende specie nel trapanese non riusciamo a mitizzarlo. Figurarsi Sciascia.
E da qui l’articolo sui “professionisi dell’antimafia”. E cavolo se aveva
ragione Sciascia. Borsellino anche lui professionista dell’antimafia? Sciascia
questo non lo ha mai affermato. Quel che pensasse Sciascia di Borsellino è
pesto detto: basta leggere A FUTURA MMORIA (se la memoria ha un futuro). E là anche il pezzo giornalistico del 6
agosto 1988, di recente riesumato dall’acuto Piero Carbone. Rissa quasi con
Scalfari, ma rappresa, moderata. Leggiamo questa ghiottoneria di Sciascia: «Ci
sarà un tempo in cui non saremo più e Scalfari sarà meno potente: chi sa che
qualcuno non si metta a fare i conti con un certo candore.»
Noi speriamo tanto che il neo eletto alla Fondazione Felice
Cavallaro si ritenga quel qualcuno invocato da Sciascia che si “metta a fare i
conti con un certo candore”. Nando della
Chiesa accompagnato magari dal nostro concittadino l’editore Garlisi, e
l’astuto Enrico De Aglio magari
accompagnato dalla Padovanì, e forse Imposimato e se mi vogliono anche me, di certo
nel caso testimone a discarico di Sciascia,
potremmo far luce su questa incresciosa disavventura giudiziaria del
grande intemerato Nanà Sciascia.
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