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sabato 2 febbraio 2013

In onore del fratello suicida di Nanà


Mi si accuserà di esibizionismo, di ostentazione  intellettualistica, di presunzione letteraria, lo so ma non desisto. Snocciolerò queste quattro pagine erudite su Catullo, Gadda  ed altro. Perché? Per via che voglio spendere qualche parola sulla tomba del fratello di Nanà Sciascia e sotto sotto fare un appuntino cattivello all’amico (meglio al figlio dell’amico) Tano Savatteri. Lutti per fratelli defunti giovani tanti grandi scrittori ne piansero. Da Sciascia a Rosso di San Secondo. E poi Pasolini, Gadda, Calvino: meritano tutti accorato rispetto.
 A Racalmuto non si legge: si suppone; si ha voglia di credere che si sappia già troppo per dovere ancora apprendere; si sale spesso in cattedra ad insegnare a chicchessia  quello che non si sa.
Noi racalmutesi siamo fatti così: un po’ presuntuosetti lo siamo. Per illustrare la celebre frase latina scolpita  sulla tomba del fratello di Sciascia trascriviamo questa ampia nota di Emanuele Narducci su Catullo:
«L’esperienza di un giovane fratello caduto in guerra può distruggere la nostra vita. Si ricordino i versi disperati di Catullo», dichiarava Gadda, con ovvio riferimento autobiografico, in una intervista del ’63 a proposito della Cognizione (Gadda 1983b: 87). E già in una recensione del ’45 alle traduzioni catulliane di Quasimodo, appar       se nel medesimo anno, l’accento batteva sulla profonda consonanza emotiva con i versi più dolenti del liber (SGF I 899 sgg.):

In una accettazione del dissolvimento Catullo raggiunge, anche nel riso, l’estrema amarezza. I versi dolorosi con cui rievoca il fratello perduto (carme 68; 68a) testimoniano circa lo spegnersi d’ogni fede in una possibile sopravvivenza sua propria:

Tecum una totast nostra sepulta domus [Tutta la nostra casa è sepolta insieme con te].

E il carme 101 e il più tragico de’ suoi versi:

Et mutam nequiquam adloquerer cinerem [Per parlare invano con la tua muta cenere],

riecheggiato in modo meraviglioso dal Foscolo: «parla di me col tuo cenere muto».

Si tratta di uno dei rarissimi omaggi di Gadda all’arte poetica di Foscolo, i cui versi sono assai più spesso bersaglio di ironie dissacranti (così, ad esempio, nel dialogo Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia irride beffardamente al riuso, nell’Ode a Luigia Pallavicini, di una delle espressioni di apertura del carme 3 di Catullo, Veneres Cupidinesque – SGF II 413; Narducci 2003: 95). Può darsi, allora, che l’omaggio vada inteso in funzione polemica nei confronti della resa quasimodiana del medesimo verso di Catullo («e a dire vane parole alla tua cenere muta»), che Gadda avrà sentito scialba e priva di musicalità. In realtà tutta la recensione è, a dir poco, algida nei confronti delle traduzioni di Quasimodo; in maniera più esplicita lo scrittore si sarebbe espresso in una lettera dell’ottobre ’59 al cugino Piero Gadda Conti, manifestando la propria irritazione per il conferimento del Nobel al poeta siciliano: «Di Salvatore ho ricevuto, nel 1946, la sua traduzione da Catullo: uno spasso!» (SGF I 1350).

Nella recensione, Gadda contrappone continuamente il suo Catullo a quello che emerge dai rifacimenti quasimodiani: perciò tutto lo scritto si rivela assai utile per comprendere la maniera in cui Gadda si accosta al poeta veronese. L’obiezione principale rivolta a Quasimodo è di avere privilegiato, sia nella selezione dei carmi da tradurre, sia nelle scelte lessicali, gli elementi alessandrini della poesia di Catullo: quelli che rivelano «un Catullo orafo, un Catullo benedettino», verso il quale il gusto di Quasimodo mostra la maggiore congenialità. Sono in larga parte esclusi dalla traduzione, invece, i carmi brevi (quelli che Gadda definisce italiani), che lasciano emergere «l’impeto, il dolore, la impotente rivendicazione, la tristezza puerile, la oscenità gloriosa, lo scherno»; le scelte di Quasimodo hanno spostato «il centro barico della poesia catulliana: addomesticando il nembo a uno zefiro».

La lettura di Catullo delineata da Gadda si inserisce in maniera abbastanza agevole nel quadro complessivo delle interpretazioni di questo poeta predominanti fino alla metà del Novecento, e sostanzialmente condizionate da un gusto di ascendenza romantica, nelle sue diverse varianti. Gadda insiste a più riprese sulla componente fanciullesca della personalità poetica di Catullo, laddove parla, per es., di «libertà làlica […] del bambino», di «tristezza puerile», della «sua natura di fanciullo delicato e impertinente»; o descrive il rapporto dell’ingenuo poeta con l’aggressività violenta del mondo circostante nei termini del «dolce sorriso d’un bimbo che si ridesta, inconscio, alla presenza d’una pantera».

Neppure mancava, nel discorso critico circolante all’epoca in cui Gadda scriveva, l’idea di un Catullo dalla psicologia tormentata ai limiti del patologico – anche se Gadda calca un po’ le tinte parlando di «nevrosi», di «atteggiamenti potenzialmente ebefrenici (arresto, o retrogressione, a puerizia) o ipotimici (depressivi)», di «una psicopatia che oscilla tra lo spirito amoroso […] e un senso disperato di abbandono» (SGF I 899).

Gadda arricchisce questi spunti critici tutto sommato convenzionali con gli scintillii della sua prosa artistica; maggiori elementi di originalità interpretativa vi sono forse nell’apprezzamento esplicito della componente oscena della poesia di Catullo, da altri interpreti, all’epoca, per lo più tenuta fuori campo, o addirittura più o meno apertamente biasimata. L’attenzione si spiega bene con la personale predilezione di Gadda per una scrittura capace di spaziare, senza censure di sorta, tra tutti i diversi livelli del lessico e dello stile; ed è perfettamente coerente con il fastidio verso il decoro e il perbenismo linguistico che Gadda, ancora negli anni del fascismo, aveva già espresso a proposito del vocabolario latino in corso di elaborazione presso l’Istituto di Studi Romani: un testo nel quale era presente l’invito a non operare esclusioni nei confronti del lessico di autori come Plauto, Catullo, Petronio, Marziale o Giovenale (SGF I 870; Narducci 2003: 38).

Se lo abbiamo visto profondamente commosso dai versi catulliani sulla morte del fratello, dal liber del poeta latino Gadda sembra tuttavia avere attinto soprattutto spunti satirici (in questo senso operano anche le riprese da Catullo nel Primo libro delle Favole; Narducci 2003: 93). Così nel passo con cui si apre uno dei racconti dell’Adalgisa (Strane dicerie contristano i Bertoloni), poi ripreso nella Cognizione (RR I 381; RR I 584):

Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi […] esposte mezzogiorno, o ponente, o levante, o levante-mezzogiorno, o mezzogiorno-ponente, protette d’olmi o d’antique ombre dei faggi avverso il tramontano e il pampero, ma non dai monsoni delle ipoteche, che spirano a tutt’andare anche sull’anfiteatro morenico del Serruchon e lungo le pioppaie del Prado; di ville! di villule! di villoni ripieni di villette isolate […] gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco, un po’ tutti, i vaghissimi e placidi colli delle pendici preandine, che, manco a dirlo, «digradano dolcemente»: alle miti bacinelle dei loro laghi.

La nota di Gadda rimanda esplicitamente al modello catulliano (RR I 404; Flores 1964: 390):

Catullo, carmina, XXVI: «villula nostra non ad Austri flatus oppositast neque ad Favoni ecc.… verum ad milia quindecim et ducentos»: (di ipoteche). «O ventum horribilem et pestilentem!» [La mia villetta non è opposta ai soffi dell’Austro né del Favonio… bensì a quindicimila e duecento sesterzi. Proprio un vento terribile, e malsano!].

Un componimento catulliano del quale Gadda si è ricordato più volte è il carme 29, un’invettiva violentissima contro il corrotto e avidissimo Mamurra e i suoi protettori, Cesare e Pompeo. Nella Appendice alla Cognizione l’autore, difendendosi dall’accusa di barocchismo rivolta alla sua scrittura, si impegna a ribaltarla nel «più ragionevole e più pacato asserto “barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”» (RR I 760). Tra gli esempi che illustrano l’affermazione figura il seguente: «le trippe del pretore Mamurra, panzone barocco, erano trippe barocche»; l’allusione è alla incredibile rapacità e voracità del personaggio, che Catullo rappresenta come capace unicamente di «divorare grassi patrimoni» (Flores 1964: 383). Dallo stesso carme catulliano proviene l’aggettivo «superfluente» (traboccante, detto di Mamurra in 29, 6), riferito all’immagine in dagherrotipo del generale Pastrufacio (assai somigliante a quella di Garibaldi) che, sempre nella Cognizione, campeggia su una delle pareti della camera di Gonzalo («superfluente dalle cornici dei ritratti»: RR I 625). E altre coniazioni lessicali che sicuramente rimandano a Catullo trapelano qua e là dall’opera di Gadda (Flores 1964: 389 sg).

Al carme 29 allude scopertamente anche il titolo di uno dei racconti degli Accoppiamenti giudiziosi, Socer generque, scritto nel ’47, e ambientato nelle cerchie della borghesia italiana del ’41: il rimando è al v. 24 del carme, socer generque perdidistis omnia [suocero e genero, ogni cosa avete mandato in rovina]; da parte di Gadda, il riferimento catulliano a Cesare e Pompeo è trasferito su Mussolini e Galeazzo Ciano, ai quali nel racconto è dedicato un excursus tanto spassoso quanto degradante.

è abbastanza tipico della scrittura gaddiana il fatto che le sue citazioni da autori antichi e moderni subiscono talora una trasformazione così profonda che qualsiasi interprete faticherebbe alquanto a riconoscerle, se non fosse per le esplicite dichiarazioni dell’autore. Leggiamo un brano delle Meraviglie d’Italia, dove lo scrittore indugia sugli odori che emanano da una pescheria milanese:

nel nostro animo si accendono, traverso le nari, fantasie di fiumi e di fontane e di docce, e i cori gocciolanti dei tritoni e delle nereidi, con codazzo infinito di pesci d’ogni freschezza e sapore, d’ogni sale e d’ogni melma. (SGF I 59)

Per l’espressione «d’ogni sale e d’ogni melma» Gadda rimanda in nota ai vv. 2-3 del carme 31 di Catullo, in liquentibus stagnis marique vasto [nelle distese chiare dei laghi e nel vasto mare]; la trasformazione opera qui in funzione talmente degradante, che l’interprete stenterebbe assai a coglierla. Analoghe considerazioni valgono per un passo del Castello di Udine, che descrive la villa del Cardinale d’Este a Tivoli:

Cento fistole, quinarie tutte, comandò il Cardinale in delizia, e poi mille, da beverarne le piante a’ cipressi. (RR I 258)

Le note apposte da Gadda a questo testo fanno scherzosamente il verso a quelle di un commento, compresa la registrazione delle dubbiose perplessità dell’interprete, posto di fronte a un passaggio irto di difficoltà esegetiche. Egli ci informa, per esempio, che «piante» sono qui da intendersi quelle dei piedi (per gli alberi, le radici); e che tutto il passo va pertanto tradotto nella maniera seguente: «Il cardinale (Ippolito II da Este, 1509-1572) commise ai fontanari la fontana delle cento cannelle e i giochi tutti dello specioso giardino; ma la freschezza dell’acqua abbevera le radici dei cipressi». Qualche sorpresa è riservata dal seguito del commento:

I due numeri ricordano Catullo, Carm. V, 7 «mille deinde centum» [mille e poi cento (i baci che il poeta desidera da Lesbia)], la qualità degli alberi Orazio, Carm. II, XIV, 22-24 «neque harum quas colis arborum | Te praeter invisas cupressus | ulla brevem dominum sequetur» [Di questi alberi che fai coltivare e possiedi per poco tempo nessuno ti seguirà, a parte l’odioso cipresso]. (RR I 278)

Un interprete di particolare acume sarebbe forse riuscito a individuare la citazione da Catullo; ma era praticamente impossibile scovare, all’interno del dettato gaddiano, il ricordo dei versi di Orazio, pure essenziale per cogliere l’allusione alla precaria transitorietà dei fasti del Cardinale. La maniera in cui Gadda trasforma e rivela i testi che nutrono la sua immaginazione letteraria sembra davvero fatta per invogliare alle più avventurose speculazioni intertestuali.
Nel 1948 nelle squallide lande di Pasquasia  (o Assoro?) si suicida il fratello di Leonardo Sciascia. Dirà di lui lo scrittore a Biagi; “mio fratello era giovane, faceva il perito minerario, e si è suicidato per ragioni che non ho mai capito”. O non ha voluto ammettere? Il padre tiranno?
Certo da allora Sciascia è tutt’altro uomo. Ci pare che abbia bandito il riso a squarciagola. Fotografie tante ma solo un timido rappreso sorriso: melanconico, quasi sfuggito. Con le figlie è tenero, tenerissimo. La primogenita Anna Maria stecca con gli studi: in una toccante intervista ci svela che il padre fu ancora più tenero; non osava rimproverarla di nulla. Non importava.
Ricomposto, fatte austere onoranze funebri (ebbero i preti ad accordare le commemorazioni in chiesa?), seppellito sul frontale del quarto cimiteriale di nord-est, chi pensò alla epigrafe? Non certo ancora affermato scrittore, ma Nanà non era già uomo dal dire banale e dal frasario convenzionale. Tre versi, latini, di Catullo, furono scolpiti sulla lapide marmorea. Questi:
Tecum una tota est nostra sepulta domus,
omnia tecum una perierunt gaudia nostra,
 quae tuus in vita dulcis alebat amor.
E da allora per Nanà i gaudia furono composti, umani, sofferti. Ci pare che non scrisse più versi. Amò i suoi figli, adorò i suoi nipoti: lui, in fondo ateo, insegnò loro persino il catechismo. Sbocciava una religiosità irrazionale, non metafisica, pregna solo di empiti per la giustizia, per la libertà, per l’intima norma etica. Fu rigoroso sino al moralismo.
Questa è Racalmuto, nutrice di ingegni e di derelitti, di gioiosi virgulti che d’incanto si rattristano e fanno anche anzitempo, per atto volitivo, il passo estremo. Non meritiamo la gogna che ministri ignari ci dispensano.  

Lettera a mons. De Gregorio su cose di chiesa. Horozco vescovo di Girgenti


Roma 1° febbraio 1995

 

Rev.mo Mons. De De Gregorio,

 come monomaniaco della storia del mio paese (Racalmuto), mi rivolgo a Lei per avere lumi e consigli in un campo in cui dire che Ella è l’indiscusso Maestro è dire poco.

 

Da ultimo, ho studiato il periodo del Vescovo Giovanni Horozco de Covarruvias de Leyva. Il Suo lavoro in “Miscellanea in onor di Mons. Noto ..” non poteva che essere illuminante ed imprescindibile.

Racalmuto vi  compare a pag. 70 per le vicende del (provvisorio ?) segretario([1]) di quel vescovo, Alessandro Capoccio che fu anche “arciprete di Racalmuto (1597).”  Qualche spunto lo avevo trovato nei libri parrocchiali della Matrice di Racalmuto ([2]). Non risulta che il Capoccio abbia però frequentato quel paese; per converso, il suo successore Vincenzo del Carretto appare di dubbio titolo e restano ignote le date d’insediamento e di cessazione della sua arcipretura.

Nel Suo studio  si accenna, pure,  alle vicende del chierico Giacomo Vella e dei contrasti del vescovo con il conte Giovanni del Carretto a proposito delle spoglie dell’arciprete Michele Romano (pag. 73). Ne ho trovato riscontro nell’Archivio Segreto Vaticano, presso il fondo della Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari. Trattasi di una fonte che non mi pare adeguatamente sfruttata per la storia della diocesi agrigentina. Qualche acenno è rinvenibile in Raffaele Manduca: Il sinodo di Giovanni Horozco (Girgenti 1600-1603) ([3]): il valente studioso - cui va attribuito il merito di avere rintracciato la fonte vaticana - appare piuttosto distolto dall’oggetto della sua ricerca sui sinodi ed ha tralasciato i tanti documenti di rimarchevole portata per la storia della diocesi di Agrigento.

Ne scrivo, ora qui, a Lei perché nel fondo vaticano trovasi del tutto svelato l’incidente del vescovo spagnolo relativo al libro messogli all’indice, e bruciatogli pubblicamente. Con grande acume, Ella osserva (pag.91): «Non sembra che possa trattarsi dell’edizione agrigentina degli Emblemi...». Ed infatti è così: causa della traversia di cui parla il Pirri fu un libercolo intitolato «De Rebus suis» ([4]). Incautamente il vescovo si era lasciato andare, sia pure sotto forma allusiva, al disvelamento dell’inchiesta papale sui suoi contrasti con i nobili locali, e con i Lo Porto in particolare. Il libro destò l’irrefrenabile ira di papa Clemente VIII, che ne volle la messa all’indice. Ecco perché il volume - come dice Manduca - «non si trova nella stessa busta..» [ASV-SCRV, Positiones 1602 G-M]. Da lì ebbero inizio i veri guai del vescovo spagnolo che ad un certo punto non seppe far di meglio che ritornarsene in Spagna, sia pure con rilutannza del Papa, presso cui interpose i suoi buoni uffici l’ambasciatore spagnolo a Roma il Duca di Sessa.

Una sintesi del libro ce la fornisce il massimo accusatore del vescovo, il gerosolimitano fra don Francesco  Lo Porto con una infuocata lettera del 27 agosto 1602 ([5]) ove si stigmatizza il fatto che il vescovo avesse potuto impunemente mettere «in sbaraglio, e perdita di vita, robba, e reputatione alcuni gentiluomini, et anco persone private di quella città e diocese, e che non satio anchora di simil impietà contro l’uso et buona regola de Prelati, che devono dar christiani, et honesti documenti altrui, habbia voluto per compiacer sè stesso far fede al mondo della malignità, odio, et intrinseco veleno che contra quelli haveva concepito nell’intelletto suo, si come ha fatto per un libretto stampato in forma di Apologia /quale si presenta alla S. V./ macchiando altrui come si legge in detto libretto in scholiis lib. 3 da fol. 119 insino à 230 in diverse figure, et propositioni, ma però bene intese da Diocesani...». Il vescovo, peraltro, aveva fatto carcerare un membro della potente famiglia Lo Porto per una denuncia di un bestemmiatore greco, certo Daniele Landano - questa almeno la confusa e poco credibile accusa del Lo Porto. Della vicenda il prelato si era poi vantato proprio in quel libretto, sotto forma di apologo. «La qual carcere - viene infatti nella lettera annotato - è rinfacciata da detto Vescovo in detta Apologia à f. 195..». In conclusione, «la casa del Porto hà voluto far sapere il tutto alla S V., acciò si degni ordinare precisamente che si facci riflessione nel detto processo ... et che si pigli quel temperamento, et resolutione dalla S V. come padre universale, che la qualità del fatto ricerca,   et la coscienza della salute di tante anime, et conservatione di quelle comporta...».

 

Quella lettera fece effetto sul pontefice: v’è apposta una annotazione che senza dubbio è di pugno di Clemente VIII. Recita: «tradatur congregationi Indicis ut prohibeatur». Quindi i fatti accennati dal Pirri che Lei richiama alle  pagine 90 e 91 (resoconto quello del Pirri che mi pare però abbia bisogno di qualche rettifica).

 

Gliene sto scrivendo perché credo che quel libro tornerebbe particolarmente utile alla storia di quel periodo di vita agrigentina. E’ possibile che presso le biblioteche agrigentine (la Lucchesiana, quella del Seminario, oppure presso gli archivi delle grandi famiglie agrigentine)  non ne sia rimasta traccia? Forse la copia inviata dal Lo Porto al Papa è stata conservata dalla Congregazione dell’Indice. Per quanto ne sappia, gli archivi dell’Indice non sono, però, messi a disposizione degli studiosi non accreditati, quale è il sottoscritto. Forse Lei potrebbe avervi accesso, sempreché ovviamente la questione Le interessi.

 

Il fondo della Congregazione dei Vescovi e Regolari non si limita a questo evento della Chiesa agrigentina, ma abbonda di documenti relativi ad uno scabrosissimo processo per sodomia che coinvolgeva il canonico Navarra (che Lei cita nel Suo libro su “Cammarata”  pag. 218). La crudezza del linguaggio usato per stendere i processi verbali mi impedisce di darne qui qualche stralcio, anche  se - almeno per la storia della lingua siciliana -  ne varrebbe la pena. Per altro verso, un fuoco incrociato di memoriali tra i nobili di Agrigento ed il Vescovo illustra una congiuntura veramente torbida e, secondo me, tutt’altro che esemplare per la Chiesa agrigentina e per la figura del vescovo spagnolo, che ne esce veramente malconcio. Certo è che se Lei mi consentisse uno scambio di vedute in proposito, ne sarei veramente lusingato.



[1]) Lo indico con questo titolo, dato che così lo chiama il Vescovo nella sua lettera del 13 settembre 1595, inviata a Roma per accreditarlo nella ‘Visita ad Limina’. «Quando no venira negocios en essa Corte aque embiar a Don Alexandro Capocho mi secretario, me diera contento embiarle ...” (Archivio Segreto Vaticano - Relationes ad limina - Agrig. 18/A f. 1)
[2]) Vedasi  ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO  - atti di  matrimonio -  1582-1600. Le annotazioni, a margine degli atti, sono:  'DIE 16 Julii XI ind.nis 1598: Pigliau la possessioni don Vito  Belloguardo e don Antonio d'Amato procuratori di don Lexandro CAPOZZA per l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto  plubico'.                                                  
 'DIE 14 agusti XIIe ind.nis 1599 - Pigliao la possessioni don Vito BELGUARDO canonico di Gergenti et don Maziotta di la  magiore ecclesia di Racalmuto per don Lexandro Capocia';
[3]) in Archivio Storico per la Sicilia Orientale 1991 - anno LXXXVII - fasc. I-III - pagg. 242-296.
[4]) Ne fa cenno il Manduca, ma, o per svista tipografica o per erronea trascrizione, lo indica col titolo «deribus suis» (op. cit. pag. 260 n. 42).
[5]) Riportata pressoché integralmente dal Manduca op. cit. pagg. 259-260.

A quelli che odiano lo sparlittio di Racalmuto


Una delle menti più fulgide della nuova Racalmuto, così chiosa un mio post, volto invero ad un inane tentativo di spingere la Ministra ad un meritevole atto di resipiscenza: toglierci il commissariamento.

Tentativo arduo far passare un luogo di prevalente sparlittiu...come luogo della memoria culturale!

Aggiungo subito il tempo dello “sparlittiu” è morto e sepolto: oggi tra le brume di un’Ade in melanconica raccolta di anime evaporate soffiano, di tanto in tanto, aliti queruli una triade di vecchi mariti senza più moglie sotto l’egida di un sempiterno homo schettus.

Il tempo dello sparlettiu vi fu: non per nulla vergai

 è il più vecchio circolo di Racalmuto, il più glorioso, quello maggiormente emblematico di una classe media con aspirazioni nobiliari. Oggi è di certo meno pretenzioso, più riservato, amante del pettegolezzo d’alto bordo - tra il politico, il sociale, l’irriverente, il caustico, il miscredente. A sera pochi soci ormai cercano di perpetuare il cicaleccio arrogante, impietoso ed ilare dei personaggi passati alla storia (letteraria) per la penna di Leonardo Sciascia. Ma di don Ferdinando Trupia, di Martinez, di Lascuda, di don Carmelo Mormino, del dott. La Ferla, di don Antonio Marino ormai neppure l’ombra. I loro eredi - quasi tutti professionisti affermati in Continente o a Palermo - hanno ritenuto di potere sbeffeggiare il circolo dei loro sbeffeggiati (da Sciascia) antenati facendosi espellere per morosità da una deputazione post-sessantotto, di estrazione non nobile e talora persino proletaria. La fuoriuscita dei virgulti degli antichi galantuomini  vorremmo dire è persino fisiologica.

A sera, ora, tocca alla facondia suadente e beffarda di Guglielmo S. mantenere viva la conversazione al circolo: gli fa eco il tranchant assiomatismo di Calogero S.; sorride con intelligente silenzio Gioacchino F.; fino a qualche anno fa scoppiava l’ira funesta dell’avv. Salvatore C.; al dott. Gioacchino T. il compito del divertito spettatore; Ignazio P. ascolta silente, ma si arrabbia se gli toccano la sua Democrazia; il Presidente non è faceto: se occorre stigmatizza; Salvatore S. arriva tardi, in tempo per un paio di sorrisi se Guglielmo S. è in vena nelle sue sforbicianti allusioni. Quando vado a Racalmuto, partecipo anch’io a tali dibattiti serotini: nessuno ha voglia di prendermi sul serio: provoco, sono provocato, insolentisco, vengo insolentito: la serata passa piacevole: val la pena di pagare quel piccolo contributo quale socio con “dimora precaria”.

Di tanto in tanto arrivano poesie in vernacolo: sono composizioni miserande, cattive, senza gusto: sono intollerabili. I soci però sembrano divertirsi lo stesso.

Leonardo Sciascia trasse motivi ed argomenti per il suo iconoclasto deridere i poveri galantuomini di Racalmuto. Vi era associato; lo eleggevano deputato e persino cassiere. Ma amava stroncare quei figuri nati effettivamente per lasciare “un’affossatura nelle poltrene del circolo”. Ebbe il cattivo gusto di morire lasciando in sospeso il pagamento dei “buoni” associativi: inflessibili i membri della deputazione non mancarono di verbalizzare nel 1992 la circostanza.

Lo scrittore è disinvolto nell’accennare alle gloriose origini del circolo: «Il circolo della concordia - annota quasi con prosa burocratica [1] - prima denominato dei nobili, poi della concordia poi dopolavoro 3 gennaio, sotto l’AMG sede della Democrazia Sociale (il primo partito apparso in questa zona della Sicilia all’arrivo degli americani e dagli americani protetto) e infine ribattezzato della concordia, pare sia stato fondato prima del 66, se appunto nel 66 la popolazione infuriata contro le sabaude leve, istintivamente trovando un certo rapporto tra la leva che toglieva i figli e i nobili che se ne stavano al circolo molto volenterosamente vi appiccò il fuoco; ma pare ne ricevessero danno soltanto i mobili, le persone si erano squagliate al primo avviso, le sale restarono superficialmente sconciate.»  

Quanto a storia locale ci reputiamo più fortunati di Sciascia e siamo in grado di retrodatare di almeno un trentennio la fondazione dello storico circolo. Se si spulcia l’Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il Luogotenente generale, Polizia vol. 412, si rinviene il “Notamento dei Così detti Caffè e luoghi di riunione esistenti nei vari Comuni di questa Provincia ..., Girgenti, 26 agosto 1839.” Sotto tale data abbiamo dunque la consacrazione ufficiale del nostro circolo o se si vuole il riconoscimento giuridico. Scrive Carmelo Vetro  [2] «In provincia i sodalizi si registrano a Licata (due circoli), Palma, Racalmuto, Ravanusa, Bivona, Villafranca, S. Giovanni, Santa Margherita, Montevago, Sciacca, Naro, Canicattì, Alessandria, Campobello, Cammarata, Caltabellotta, Menfi, Sambuca, Burgio ed Aragona: tutti con i loro bravi regolamenti, autorizzati dalle autorità di polizia, ... E’ da dire che molti di questi circoli erano favoriti dall’autorità locale che in tal modo poteva registrare gli umori politici e gli orientamenti prevalenti. Non a caso parecchi sodalizi nascono negli anni Trenta dell’Ottocento dopo la tempesta politica del 1820-21 ed il tentativo borbonico di riavvicinarsi agli intellettuali e borghesi.» Siamo pressoché certi che il circolo sorgesse in piazza su un marciapiede “sopraelevato rispetto al resto della piazza, ove era vietato, per inveterata consuetudine, passeggiare alla ‘gente comune’ ... Si aveva così un effetto quasi grottesco, che sottolineava la gerarchia feudale, essendo i notabili una ‘spanna’ più alti degli altri”. Il Vetro soggiunge: «Un rigido cerimoniale regolava l’ammissione dei nuovi soci ai vari circoli.... si poteva essere ammessi riportando la maggioranza di “voti segreti per bussoli”, nell’assemblea dei soci. Ogni due anni venivano eletti quattro deputati, il più giovane dei quali faceva da segretario. Nelle assemblee avevano diritto di voto i soli contribuenti. Ai deputati erano affidati la “polizia interna” e il “buon ordine della conversazione. Nelle sere di gala la conversazione era illuminata “a cera”. Al circolo erano ammessi solo “gli associati, le loro mogli, i figli e le figlie nubili e fratelli conviventi nella stessa casa”. Infine gli ospiti non si  dovevano “permettere di discorrere e discutere di cose” che si allontanavano “dallo scopo di una onesta conversazione”. Parimenti vietata era la lettura di fogli, giornali, libri o stampe non autorizzati dalla polizia. ... I contribuenti avevano la facoltà di presentare alla conversazione “forestieri distinti e di loro conoscenza, chiesta il permesso ai Deputati, salvo alla deputazione di deliberare in seguito l’esclusione se non li avesse riconosciuti “meritevoli”.  ... Il circolo era provvisto dei “fogli officiali”   di Palermo e di qualche altro giornale letterario. Un cameriere ed un “bigliardiere” si occupavano di servire i soci con un vestito decente e a testa scoperta”. Un puntuale tariffario  stabiliva le quote da versare per i diritti di gioco. Le illuminazioni “a cera” erano ordinariamente previste nella sera di gala ed in talune ricorrenze. ... Leonardo Sciascia ci introduce nello spazio dorato, quasi senza tempo del Circolo della concordia di Regalpetra, dove vecchi e nuovi notabili vengono a celebrare il rito della fedeltà al passato ed alimentare inutili sogni di difesa dei propri privilegi. Il circolo è situato nella parte centrale dei corso: “Consiste di una grande sala di conversazione, con tappezzeria di color pesco e poltrone di cuoio scuto, una sala di lettura, tre sale da gioco”. I soci del circolo non sono, ormai, più i ricchi: “I ricchi si trovano nel circolo del mutuo soccorso, una società operaia che è venuta trasformandosi ...; il più ricco dei “don” non possiede più di dieci salme di terra” ma i soci del circolo della Concordia “continuano ad essere il sale della terra”. Anche qua si discute di politica “scienza di cui molti soci del circolo si sentono al vertice e fanno previsioni che, verificandosi poi fatti esattamente opposti, si possono considerare attendibilissime.” Dopo la politica, le donne. E allora “le mani si muovono a plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere.

Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione”. Nella rappresentazione letteraria la ritualità della “conversazione”, che autogratifica con la sua immobilità l’Olimpo paesano, dà quasi un senso alla stessa esistenza: ci si sente, allora, “lievi e giustificati, d’aver vissuto tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una grazia insolita e particolare, quest’ora che compendia le ragioni ideali del mondo, che chiarifica e motiva finalmente l’esistenza, rianima l’immoto flusso dei giorni, riattacca la morta gora dell’abitudine al canale della continuità”. Una continuità che nell’illusione di molti esercita, ancor oggi, come un fossile vivente, esercita il fascinoso richiamo di un’elitaria società che più non esiste.»

A quel cicaleccio serotino vi partecipati con ghiottoneria . Se Sciascia scrisse le “parrocchie” così LUCENTEMENTE come le scrisse lo deve alla lama lucente dei suoi tempi. Ai miei, era un altro la lama dello sparlittiu. Oggi c’è ancora ma non sa più con chi interloquire. Sapido e tintinnante, per accumulo di atavica mania sparlettiera, sa tutto di tutti. La vera cronaca del paese da lui l’ho saputa. I morti ammazzati lui ben sapeva come erano stati folgorati e da chi e su mandato di chi. Il loquace era lui, i loquaci della letteratura paesana mi risultano sbiadite e disinformate controfigure.

Si deve a me, alla mia entratura sino all’alta presidenza del Banco di Sicilia, sino al mio ex collega dottor Alfio Noto, se il circolo c’è ancora. Ed il connubio con l’ex BdS è antico e nobile, comprendendo anche il soave Gasparino Salvo.

La sopravvivenza del sodalizio si deve a me. Ma volendo risorgere a nova vita, i residui della vecchia generazione si consegnarono a giovani da poco senza i pantaloni corti che speravano in lanci nello scrivere quotidiano; vi approdarono anche aedi del giornalismo d’oggidì; taluni rampanti della politica locale credettero che con aria sagrestana o con cipiglio libertario potessero trovare linfa elettorale. Ma di votanti che salgono lo sbarrante  architettonico accesso di Via Rapisardi non ne conosco. Si allargarono le maglie selettive celeberrime e si fecero soci onorari industrialotti di paese o ministre affaccendate. Un disastro! Spero che tante menti fulgide della Racalmuto  risorgente più dell’araba fenice approdino in una istituzione che pur appartiene loro anche per dovere ereditario delle crestomantiche loro famiglie.



[1] ) Leonardo Sciascia: Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 51.
[2] ) Carmelo Vetro - L’associazionismo borghese nella Sicilia dell’800: le case di compagnia - in Il Risorgimento, anno XLVI n. 2-3 - Milano 1994, pag. 301

LE STATISTICHE DI contra omnia racalmuto

HO IL PIACERE DI OSTENDERE LE STATISTICHE di questo mio blog CONTRA OMNIA RACALMUTO. Non nego il mio orgoglio di avere portato a livelli alti questo parterre informatico che per avveneza e contenuto non poteva essere nient'altro che un salottino tra quattro nostalgici amici.
In sommo grado ebbo ringraziare Lillo Mendola che il blog ha disegnato, ordito e personalizzato. Per il resto è faccenda mia personale: i vizi e difetti sono tuti di mia esclusiva responsabilità. La peculiarità non consueta in cose della specie mi sia accreditata in toto. Grazie

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Che fare di questo Paese? Basta rispettarlo..Comune di Racalmuto, Fondazione Sciascia, Teatro Margherita
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Gentilissimi, rispettabilissimi, onorevolissimi si...Comune di Racalmuto, Imposta, Tarsu, Tassa
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DIVISIONE SECENTESCA DI RACALMUTO IN DUE PARROCCHI...Conte del Carretto, Fontana, Matrice, San Giuliano
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Ecco un commento che ho cercato di inviare a Regal...Bloger, Regalpetra libera, Tares, Tarsu
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10/01/13

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10/01/13

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10/01/13

MONNEZZA A SPIOVERE: pur di quadrare il bilancio a...Comune di Racalmuto, Immondizia, Tares, Tarsu, Tia
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09/01/13

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09/01/13

Ti si cerca per quel che vali..e per quello che se...Calogero Taverna, contraomniaracalmuto
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08/01/13
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