PERTINACE MENDACIO SU FRA’ DIEGO LA
MATIMA
PERTINACE MENDACIO
SU FRA’ DIEGO LA MATIMA
di Calogero TAVERNA
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Povero fraticello dell’ordine centerupino dei
sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe
la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([1]) si tentava di scardinare, almeno in quel di
Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a
S.Erasmo in Palermo per un atto incolsulto di rabbia omicida. Morì con
ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di alate
mistificazioni.
Lo di dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale
lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di
battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una
imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anzichè nel 1621
e, palesemente, non si ha consuetudine con le datazioni indizionarie, chè
diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione
corrispondeva appunto al 1621. E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni
assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine
raccapricciante frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in
tal modo Sciascia non avrebbe potuto sproloquiare sui vezzi astrologici del
Padre Matranga ([2]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in
materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto
l’inquisitore Matranga dice circa i vagabbondaggi ed i ladronecci del monaco
agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se
deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina,
gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a
qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando arraspa nel
retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’
Sagramenti .. superstizioso ... empio
... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime
innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più
consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra’ Diego a vivere
da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna,
in abito secolaresco’ tanto da finire nella meglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo
‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un
individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le
campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia
ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal
Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del
Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco
Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta
in latino, ove malaccortamente il
presulo si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et
proposizioni» risultate indigeste alla potetente e prepotente famiglio dei Del
Porto del capoluogo agrigentino.([3]) Da un contesto di canonici libertini e concubini,
maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore,
imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana
diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo
- che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Scaiascia - doveva
pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i
vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è
molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per
godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta
anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non
si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori
temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che
fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente
acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro
ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([4]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che
avesse proprio ragione Leonardo Sciascia a autodefinirsi ne’ «La Morte
dell’Inquisitore» uno ‘sprovveduto’ sull’argomento.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra’
Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia
lo infilza «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto
dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che
il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». L’intrigato dottore acquista,
però, tutta intera fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto
sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione per
avergli trovato nelle “sacchette” “un
libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal
crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per
Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il
fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro”. E dire che gli sarebbe
tornato oltemodo comodo per doversi abbarbicare in evidenti tortuosità per
conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta
la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tòcco blasfemo - [si
sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra
Diego scrisse di sua mano con mille
spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze».
Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti
alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno
dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico
fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della
Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno,
‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva
al secondo grado degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal
sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile
traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré si dà alla macchia
da ‘fuoriscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. A quei
tempi, non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di
beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, rinvengo la derscrizione
di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni suoi
compagni di religione, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le
campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi
qualcosa do molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si
imbatterono con briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero
della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma in
cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la
vita. I gesuiti naturalemnte non mantennero la promessa. Appena incontrati i
militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu
immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte:
furono senza indugio giustiziati sul posto. ([5])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a
morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad
Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Offizio da parte del
conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto
leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo
accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era
il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’
- un uomo di 42 anni - «susceptis
sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae
regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et
resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in
ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il
Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale
della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo allapiazza, avendo avuto
tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo
Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([6])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i
suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per
le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur
essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo,
per lo stato religioso del mocaco al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo
elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto
plausibile. Fu dunque una fortuna per fra’Diego La Matina potersi avvalere del
Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti
subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P.
Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate
agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà
di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E
Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel
linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza
dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia,
nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro
di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione
in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è
del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo
snaturamento del pensiero del Matranga è putroppo fin troppo scoperto.
L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo
scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione -
non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se
si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali.
Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restorato” così lapidarie nel
descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per
sottrarsi alle grinfie del Vicerè, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece
franca da un irridente assassinio. [7]
[1]) Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso
l’Archivio della Matrice di Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore il padre
fra’ Giovan Battista FALLETTA degli
Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia all’età di
63 anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da Racalmuto, agostiniano,
un frate in odore di santità, che solo in questi ultimi tempi si cerca di farlo
emergere dalle nebbie di un colpevole oblio. Per volontà del vescovo
agrigentino frà Ferdinando Sancèz de
Cuellar, invero in esecuzione di
disposizioni pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto andava chiuso,
per carenza di uomi e di mezzi. Fra’
Giovan Battista Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre, anziché a
S. Guliano, dato che, come viene annotato: «stante soppressione conventui
Sacre Congregationis per decretum sub die 26 augusti 1667 ». Ma come, come avremo modo di precisare, il Convento riaprì e
sopravvisse per un altro secolo almeno.
[2]) Leggasi quanto elucubrato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182
dell’edizione Laterza 1982. Per inciso, è tutt’altro che provata la storia del
priore agostiniano mandante dell’omicidio di Girolamo del Carretto, avvenuto il
1° (e non 6) maggio del 1622, ammesso che di omicidio si sia trattato e non
della stroncatura per “un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto. I
documenti in nostro possesso ci fanno propendere per quest’ultima congettura.
[3]) Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e
Religiosi - Anno 1602: positiones D-M.
[6]) ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER
MORTUORUM 1811. Dove fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non
sappiamo con certezza: tutto però induce a pensare che si trattasse della parte
antistante l’attuale Piazzetta Crispi. Il toponimo tradizionale del «cuddaro» sembra comprovarlo.
L’attribuzione di quel macabro posto alle male esecuzioni dell’Inquisizione -
come fa Sciascia - puzza alquanto di astioso anticlericalismo.
[7]) Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro quarto, pag. 335. Per un
approfondimento si leggano le splendide pagine di C.G. Garufi: Fatti e
personaggi dell’Inquisizione in Sicilia - Palermo, Sellerio - pp. 255
e 262-263.
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