domenica 12 marzo 2017


Ma tra fascismo e vicenda personale di Mussolini qual è la differenza? Si dovrebbe essere d’accordo col Nolte quando afferma: «il fascismo è la propria storia e questa storia è indissolubilmente connessa alla biografia di Mussolini» (op. cit. pag. 226).

Le vicende richiamate erano però faccende dei lontani e brumosi territori di Milano e Bologna perché se ne possano cogliere significatiche rispondenze nella solatìa Racalmuto, alle prese con lo zolfo, la mano d’opera contadina, gli agrari liberali e gli esercenti di miniere che in parte con i primi si confondevano e si parte se ne diversificavano. La guerra in ogni caso non era appetibile: contadini e zolfatai che andavano soldati erano braccia sottratte alla terra ed alle miniere, e ciò significava crisi. Quanto alle masse esse erano ostili alla guerra, andandone di mezzo la vita della loro migliore gioventù (la guerra del 1915-18 comporterà la morte di 196 racalmutesi oltre a 33 dispersi: a scorrerne i nomi, i figli dei “galantuomini” erano riusciti quasi totalmente a farla franca; forte fu la corruzione per esoneri di comodo). Quanto agli agrari e ai titolari delle miniere, la guerra era un guaio per il diradarsi della mano d’opera. Una volta tanto, padroni e proletari erano d’accordo nel professare il non interventismo. Eugenio Napoleone Messana propende per una qualche presenza locale degli interventisi. Se vi fu, fu comunque molto limitata, anche a credere a  quello storico locale, cui invero accordiamo poca credibilità: tutto si sarebbe limitato a questa singolare vicenda: «L’interventismo, che fece leva sulla politica italiana e condusse alla guerra la nazione, a Racalmuto fu rappresentato da Vincenzo Tulumello di Giovanni , giovane ardente dalla parola suasiva e convincente, il quale però, a guerra scoppiata, fece di tutto per non andarvi e la voce popolare vuole che anche sia morto perché si provocò il diabete.» ([1])

In ogni caso, siamo certi del fatto che il «Popolo d’Italia» giunse a Racalmuto solo al tempo della completa affermazione del fascismo e i «fasci d’azione rivoluzionaria» i racalmutesi non seppero neppure cosa fossero.

Ben diverso è il discorso per la fondazione dei fascismo ed in particolare del primo Fascio di combattimento in data 19 marzo 1919. Un racalmutese il notaio Giuseppe Pedalino di Rosa sarebbe stato nientemeno che un “sansepolcrista”. Il personaggio, sul quale sono disponibili alcune fonti che però sono di segno divergente, rassomiglia a quello del Rubè di A.G. Borgese, anche se qui la storia può dirsi a lieto fine. Nato a Racalmuto il 3.11.1879, si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1901  e si trasferisce a Milano per esercitarvi la professione di avvocato fino al 1925, e dopo quella di notaio sino. Morì a Merate il 15\10\1957. Risulta iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. E.N. Messana così ce lo descrive: «Fra i socialisti divenuti interventisti si ricorda il notaro Giuseppe Pedalino di Rosa, finito poi al fascio e divenuto un sansepolcrista. Questi fu anche un poeta in vernacolo, un tipo bizzarro, che amò molto il paese. Scrisse «Lu cantastorie d’America» in cui cantò luoghi e persone di Racalmuto nell’aulico dialetto siciliano. Visse molti anni a Milano e vi morì». ([2]) Salvatore Restivo riscrive, palesemente agiografico, così la biografia nel giornaletto locale del maggio 1993 ([3]) « ... Fin dalla prima giovinezza appartenne al partito socialista; in Sicilia con Giuseppe Lauricella della vicina Ravanusa, a Milano con il gruppo di cui facevano parte tra gli altri Pietro Nenni ed Emilio Caldara.    [ ..] Il 23 marzo 1919 partecipò alla fondazione dei fasci  di combattimento, dai quali si allontanò progressivamente fino ad essere “eliminato per diserzione”. [...] Nel 1934 organizzò a Racalmuto un raduno di poeti siciliani a cui parteciparono anche Luigi Natoli e Ignazio Buttitta [..]». Il Pedalino ebbe, invero, la sventura di una sorella che andò sposa ad un appartenente alla celebre famiglia di anarchici di Grotte: i Vella. Il casellario politico centrale registra alla busta 5342 gli anarchici: 1°) Vella Antonio (fasc. N.° 6504) nato a Grotte il 6.9.1886; 2°) Vella Giuseppe (fasc. N.° 3908) nato a Grotte il 10.11.1895; 3°) Vella Diego (fasc. N.° 22144) nato a Racalmuto il 15.2.1901, 5°) Vella Dante Nunziato (fasc. N.° 4621) nato a Racalmuto il 24.3.1908, ed alla busta n.° 5344, il più celebre di tutti, 5°) Vella Randolfo (fasc. 17912) nato a  Grotte il 2o.4.1893. Non è questa la sede per accennare, anche brevemente, all’affascinante storia di questa famiglia di anarchici, socialisti, antifascisti, ma anche in rotta con gli esuli comunisti. Ai nostri fini, il richiamo al C.P.C. dell’Archivio Centrale dello Stato (busta n.° 5342) ci serve per inquadrare la figura del notaio Pedalino. Il 27 dicembre 1937, le questure d’Italia sono alle prese con un dei suddetti schedati: Vella Dante Nunziato. Scoprono che è parente del notaio milanese. Chiedono informazioni . Ecco la risposta: «27 dicembre 1937 - anno XVI. Oggetto: Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il 24/3/1908 residente a Lugano ... Prefettura di Milano ... “comunico che l’avv. Pedalino Giuseppe fu Fedele e di Rosa Maria Vita, nato a Racalmuto il 3.11.1879 (e non 1895) risiede in questa città dal paese di origine, ed abita in via Pergolesi n.° 23 con studio in via Monforte n.° 14.

«Coniugato con Passoni Maria di Emilio e Speranza Rosa nata a Milano il 29.9.1897 ha una figlia a nome Vitamaria Alfonsina, nata a Milano il 2.10.1926. Il Pedalino è zio materno del Vella Dante. Il Pedalino risulta di regolare condotta in genere ed è iscritto al P.N.F. dal 23.3.1919. Il prefetto: (G. Mangano).» ( [4])

Fino al 1937, il Pedalino è dunque ancora un “regolare fascista” che può vantare la prestigiosa tessera dei primordi fascisti. Recante la data dei sansepolcristi. Certo, fu tessera presa a Milano e Racalmuto c’entra solo per un fatto anagrafico del Pedalino. Non è da escludere che questi ebbe guai dopo quella richiesta d’informazioni della polizia poltica del 1937. I due suoi nipoti, per parte della sorella, Dante Nunziato e Rodolfo Vella, proprio in quell’anno si erano arruolati nelle “milizie rosse” della guerra di Spagna.

Ma davvero il Pedalino partecipò a quella adunata tenuta la sera del 23 marzo 1919, fra le mura di un vecchio palazzo milanese in Piazza San Sepolcro, donde uscì il primo Fascio di combattimento?  Non va dimenticato che quella fu una adunata che poi si tinse di un’aura veramente leggendaria. ([5]) Lo stesso Mussolini non ricordava più quanti veramente fossero. Una volta parla di cinquantadue che “giurarono  che la lotta che avevano intrapresa - quella sera del 23 marzo 1919 - non poteva finire se non con una trionfale vittoria”, ed altra volta rettifica in cinquantatre  (12 febbraio 1925) ([6]) Il Pedalino, in quello ristretto stuolo, forse non fu mai. Una qualche piccola astuzia (o menzogna), forse utilizzato al tempo del concorso a notaio. Era un avventuroso siciliano, dopo tutto! Quei nipoti, della III Internazionale, finiti nelle milizie rosse di Spagna ebbero fose a guastargli quella vantata primogenitura politica.

Ma il Pedalino - a conferma della validità di certe valutazioni storiche - potè aderire all’adunata di San Silvestro per lo sfumato socialismo che si riverberava. Le sue origini socialiste ed anarchiche racalmutesi poterono spingerlo in tal senso. Con il Nolte ([7]) bisogna ammettere che, fondato il 23 marzo 1919 a Milano, nel corso di una non mumerosa assemblea, in massima parte da ex-inyterventisti  di sinistra, vuole essere inteso come l’inizio di un socialismo nazionale, primo germe della socialdemocrazia ..». E questa tendenza mussoliniana verso un blando socialismo - a mo’ di richiamo delle origini - gli storici la rinvengono puntualmente in varie contingenze, almeno sino al congresso di Roma del 1921. ([8]) Non è questa la sede per trattare tale atteggiamento mussoliniano. Vi si inseriscono i travagli della sconfitta elettorale del 1919; l’autunno violento del 1920; l’intrigo con la borghesia agraria emiliana; l’insuccesso dell’astuta manovra di coinvolgimento di Giolitti; la resurrezione elettorale del maggio 1921 (elezioni volute - e perse - da Giolitti); l’accordo firmato con i socialisti il 3 agosto 1921; la retromercia innestata al congresso di Roma (7-10 novembre 1921); la trasformazione in partito del “movimento fascista”; la professione mussoliniana della “tendenza repubblica”, etc. Dalla sera di San Silvestro del 23 marzo 1919 all’abbraccio con Dino Grandi nel novembre del 1921 la storia italiana ha le sue stigmate fasciste e la vicenda mussoliniana con collima del tutto con quella del fascismo. Eppure tutto questo sembra, per la Sicilia, ed ancor più per Racalmuto, avvenire in un alienissimo mondo, persino totalmente ignorato. Annota il Nolte (pag. 288):«.. le regioni meridionali (salvo la Puglia) e le isole non ne sapevano praticamente nulla fino a poco prima della marcia su Roma.»

Ma che tipo di partito venne fuori dal Congresso dell’Augusteo del novembre 1921? A questa domanda tenta di rispondere il Ragionieri ([9]). «Non era poi un partito troppo differente dagli altri partiti di massa», afferma lo storico di sinistra e continua: «La sua caratteristica più originale era in foldo  rappresentata dal fatto che esso era dotato di un’organizzazione paramilitare [ma trasformatasi nella Milizia solo nel 1923]»; ma era un partito «completamente diverso dalle organizzazioni della borghesia italiana»; in esso «la prevalenza anche quantitativa degli strati della borghesia indica già il processo in atto di ricomposizione di un blocco di forze piccolo e medio borghesi sotto la direzione dei gruppi superiori degli indusrtiali e degli agrari»; «figlio dei tempi nuovi portati dal conflitto mondiale, il fascismo poteva trovare nella massiccia presenza dei giovanissimi nelle sue file una solida garanzia per l’avvenire».

Sarà stato per la mancanza di quei “gruppi superiori degli industriali”; sarà stato per la presenza della mafia (stando al quasi sillogismo sciasciano), fatto sta che neppure sotto la nuova forma di partito il fascismo riesce a diffondersi in Sicilia - tra il 1921 ed il 1922 - e men che meno a Racalmuto (ove peraltro mancava un vero e proprio latifondo perché si ptesse parlare di agrari nel senso del ragionieri, in senso cioè di classe borghese con una propria coscienza di ceto egemone).

Nell’agosto del 1922 - con il fallimento dello sciopero dei giorni 1-3 voluto dal PSI e dalla CGDL - si registra la definitiva sconfitta del socialismo italiano e si apre il viatico per l’avvento di Mussolini al potere (con il suo viaggio a Roma in vagone letto nella notte del 29 ottobre, dopo la Marcia su Roma).

Nulla troviamo che in qualche modo comprovi la minima percezione in quel di Racalmuto che la storia era cambiata, che il cosiddetto stato liberale era spirato, che i padrini della Democrazia Sociale (Guarino Amella a livello strettamente locale, di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò per un referente  a respiro unpò più vasto, regionale) erano avviati verso uno scialbo tramonto.

 Racalmuto, invero, era troppo in periferia, persino rispetto alla storia siciliana, per avere acume di analisi e lungimiranza d’orizzonte. Quel che sorprende che in quel biennio cruciale per la storia nazionale anche filosofi alla Croce, o raffinati giornalisti alla Albertini, o, in particolare, economistti già celebre alla Einaudi non riuscissero a vedere molto lontano, quanto al fascismo che esplodeva sotto i loro occhi. Sorprende, ad esempio, la miopia di Luigi Einaudi. Sfogliando le sue Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), lo vediamo impegnato nel gennaio 1921 in una retriva polemica con i socialisti sull’ «ostruzionismo del pane». Scriveva che «il primo atto concreto dei socialisti unitari e concentrazionisti è stata la deliberazione di intensificare alla camera l’ostruzionismo contro il progetto sul pane. Era facile prevedere che la scisssione tra socialisti e comunisti avrebbe istigato ambedue le frazioni ad una lotta acerba di concorrenza non per fare il bene, ma per dimostrarsi ognuna di esse più accesa, più rossa, più avanzata.» ([10]) Sull’argomento tornava con l’articolo dell’11 febbraio “Alla ricerca di una formula definitiva per risolvere il problema del pane” (op. cit. pag. 40 e segg.) e con quello del 24 febbraio “ed ora all’opera!” (op. cit. pag. 44 e segg.). Colpisce il linguaggio insolitamente pugnace contro i socialisti, anche blandi, del suo intervento giornalistico del 13 aprile 1921  (op. cit. pag. 111 e segg.): «Bisogna avere - scrive a pag. 112 - il coraggio di dire che siffatto latte e miele è pernicioso. Costoro, che dopo così recenti esperienze socialistiche dichiarano ancora che tutto il mondo è socialista, sono gente senza idee, o sono semplici procacciatori di voti. Bisogna escluderli dall’onore di fare parte del blocco anticomunista. Non si può combattere il comunismo es eddere disposti ad ogni sorta di socializzazioni, statizzazioni, controlli e simiglianti pesti. Coloro, i quali hanno paura di essere detti “nemici del popolo o del proletariato” e son pronti ad ogni sciocchezza, si dichiarino apertamente socialisti. Provvederanno meglio alla propria dignità e coerenza. Noi non abbiamo bisogno di noverare nelle nostre file siffatti amici del popolo. I quali, alla pari e forse peggio dei comunisti, ne sono i veri nemici  In una parola occorreva essere solo «liberali» (op. cit. pag. 118 e segg. Articolo del 17 aprile 1921); cioè «L’unica nota veramente distintiva del blocco anticomunista è sempre quella di “liberale”. Questa sì è una qualità che né socialisti né comunisti possono far propria. Liberalismo e socialismo sono due concetti contraddittori. Lungo tutti i secoli della storia sempre il concetto della libertà fu in guerra aperta con concetto della tirannia - e socialismo e comunismo altro non sono che asservimento completo dell’uomo alla collettività [ ....]». L’astuzia di Giolitti che quelle premature elezioni del 1921 volle finì male, come ben si sa per doverla qui commentare. Quel blocco “liberale” apriva irrimediabilmente la porta al fascismo della dittatura. Proprio quella dittatura che l’Einaudi non voleva  (op. cit. pag. 766  e segg.). Ma siamo già all’8agosto 1922. Troppo tardi.

Cert, a questo punto Einaudi è in grado di fornire una perspicua fotografia dei tempi, anche se ancora scarsamente previggente. Val la pena di riprodurla per ampi stralci.

«Lo spettacolo di incapacità offerto dal parlamento e dal governo, le agitazioni continue, la guerriglia civile fra partiti ed organizzazioni armate hanno avuto, fra gli altri disgraziati effetti, quello di aver reso popolare in una parte notevole dell’opinione pubblica una parola: “dittatura”. Si parla da molti oggi dittatura come della sola via di salvezza dal disordine e dalla crisi profonda che attraversiamo. Gli uominiai mali di cui soffrono vogliono trovare un rimedio semplice, preciso, definitivo. Il governo dei molti, il governo dei partiti, il governo dei chiacchieroni e degli ambiziosi di Montecitorio appare una cosa talmente disgustevole, vana, impotente che a poco a poco l’idea della dittatura ha finito per perdere quella nebbia di terrore e di tirannia da cui era circondata. Si crede che l’uomo forte, che l’uomo sapiente saprà trarre il paese dall’orlo della rovina. Mettiamo al posto di quindici ministri provenienti da parti politiche opposte, neutralizzandosi gli uni gli altri, alla mercè continua di un voto politico incerto, impotenti a concepire qualunque piano d’avvenire e più ad attuarlo, costretti a render favori agli elettori ed agli eletti per trascinare innanzi la loro vita quotidiana; mettiamo al posto di questa parvenza di governo un uomo solo, fornito di poteri illimitatiper un tempo limitato, il quale possa e sappia porsi una meta, il quale sia libero di scegliere a suoi collaboratori i migliori tecnici nei vari rami di governo e noi saremo in grado di arrestarci sulla china spaventevole lungo la quale precipitiamo verso l’anarchia.

 

«Contro questa tesi non non torniamo a citare la vecchia sentenza di Cavour: la peggiore delle camere essere preferibile alla migliore delel anticamere:; noi non diremo ancora una volta che la dittatura è il rimedio degli impotenti e degli incapaci. Noi non ricorderemo che l’esperienza contemporanea è tutta contraria ai governi addoluti e dittatoriali [..]

 

«Lasciamo pure da parte le massime dettate dall’esperienza ed i precedenti e gli esempi stranieri. Chiediamoci soltanto: dove sono gli uomini capaci di essere i dittatori dell’Italia contemporanea? Per quale ragione non si sono fatti innanzi così da accogliere intorno a sé il consenso dell’opinione pubblica? Degli uomini chiamati negli  ultimi tempi a capo della politica italiana alcuni sono a mala pena considerati degni di essere presidenti costituzionali di un consiglio; intorno a nessuno di essi esiste tale favore di pubblico, non diciamo parlamentare, da farli ritenere capaci di governare il paese con poteri dittatoriali. Possibile che, se esistesse, l’uomo superiore, il Napoleone, poiché a questo si pensa quando si parla di un dittatore capace di salvare il paese, non si sarebbe fatto in qualche modo conoscere? E se c’è, ma non è conosciuto come tale, quale probabilità vi è che egli e non altro sia scelto?

 

« [..] Ridotta alla sua semplice espressione, la dittatura è una qualche cosa che noi conosciamo molto bene, di cui abbiamo parlato molto male fino a ieri: è il governo per mezzo di decreti-legge.

 

«  [ ...]

 

« [ ...] Il problema da risolvere non è già di trovare dei grandi insustriali disposti a governare la cosa pubblica con la mentalità industriale. Essi non potranno fare che del male. Saranno degli straordinari improvvisatori. Chi può immaginare quali stravaganze è capace di compiere un giovane audace e fidente in sé, un uomo d’azione, un industriale abituato a decidersi rapidamente da solo, quando si troverà dinanzi a problemi complessi e terribili come il disavanzo, le imposte, il cambio, il latifondo, la giustizia? L’impulso primo che viene dagli audaci è di tagliare i nodi gordiani, di mandare a spasso il giudice che non decide un processo in ventiquattro ore, di ordinare ai direttori delle banche di emissione di far scendere il cambio del dollaro a 10 lire e così via.  [...]

 

«La verità è che la capacità e la pratica di governo non sono innate e non si acquistano facendo grandi cose negli altri campi dell’attività umana. Orator fit; così l’uomo di governo si fa governando gli uomini, discutendo con gli avversar, cercando di convincerli del loro errore e rimanendo anche persuaso dagli avversari della necessità di mutare parzialmente la propria strada. [...]

 

«Insistiamo oggi su queste considerazioni fondamentali perché le vicende di questi giorni hanno avuto per effetto, come si diceva in principio, di render popolare presso una parte del pubblico l’idea di forme più o meno larvate di governo autocratico, e da molte parti si è parlato di spedizioni fasciste su Roma per prendere possesso del potere, di colpi di stato, di dittature o di direttori nazionali, e via dicendo. Lo stesso direttorio del partito fascista si è affrettato a smentire una parte di queste chiacchiere, il che non impedirà che certe fantasie continuino a correre basandosi sui «si dice» immancabili nei momenti agitati come questo, e sulla riserva fatta dall’on. Mussolini durante l’ultimo discorso alla camera circa la scelta che il partito fascista si riservava di fare fra la legalità e l’insurrezione.

 

«Ora noi non vogliamo ammattere neppure per un momento che le voci correnti possano corrispondere a reali propositi e che propositi di tal genere possano trovare il consenso di coloro che hanno la responsabilità del movimento fascista.

 

«Oggi i fascisti hanno ragione di credersi sorretti dalla pubblica opinione; hanno probabilmente ragione di credere che la loro rappresentanza parlamentare è assai inferiore al consenso che essi riscuotono nel paese. Appunto per ciò essi non hanno nessun interesse ad imporre agli altri le loro opinioni con l’ordine secco e perentorio, con la facile arma della dittatura. Attraverso alla discusssione ed alle vie legali essi possono ottenere tutto. Un parlamento di neutralisti diede durante la guerra il voto a Salandra ed a gabinetti di guerra, perché esso sentiva che l’opinione pubblica era per la guerra. Domani, il parlamento attuale darà il proprio voto ad un gabinetto in cui entri come uomo rappresentativo il leader del fascismo ed in cui qualche altro fascista sia a capo di dicasteri importanti ed il fascismo impronti di se stesso e dei suoi ideali l’azione intiera del governo. Il paese è ora favorevole ai fascisti perché essi hanno dato il colpo decisivo che lo ha salvato dalla follia e dalla tirannia bolscevica. Ed è pronto a consentire ad essi per le vie legali l’ascesa al potere quando essi dimostrino di essere atti ad esercitarlo. Sinora sappiamo che essi hanno fervore d’azione, che essi amano intensamente la nazione, che essi la vogliono salva dalle malattie distruttive; che essi vogliono ridare a tutti i cittadini la libertà di vivere e di agire e di pensare, fuori della mortificante cappa di piombo della tirannia socialista. Per quanto essi hanno fatto per ridare tonalità al paese, per trarlofuori dal brutto materialismo ventraiolo denigratore della guerra combattuta, della vittoria ottenuta, dei valori spirituali della nostra stirpe, tutti siamo loro grati.

 

«Ora si aprono ad essi le porte del potere, le vie dell’azione immediata e diretta. Non più lotta per vincere, ma traduzione in atto dei principii per cui si è vinto. Due vie si aprono a loro dinanzi: quella rapida della dittatura, via brillante, senza avversari costretti alla fuga, senza critiche dei giornali, soggetti a censura, con uomini fidi di governo, dotati di poteri illimitati; e quella noiosa, fastidiosa, minuta della legalità costituzionale, dinanzi ad un parlamento di scettici e di ambiziosi, attraverso le lungaggini della procedura parlamentare, e sotto al maligno vaglio di giornali avversari ed infidi.

 

«Ma la prima via, così attraente e promettente, conduce fatalmente alla tirannia ed alla rovina del paese. Con un re devolto al suo giuramento di fedeltà alla costituzione come è Vittorio Emanuele III, essa vuol dire proclamazione della Repubblica; vuol dire l’inizio di un periodo convulsionario di sperimenti politici, di contrasto fra le varie tendenze aristocratiche e demagogiche a cui una nuova costituzione repubblicana potrà essere informata; vuol dire necessità di giustificare ‘razionalmente’ i nuovi sistemi costituzionali; vuol dire oscillare tra un governo di generali, un consiglio dei dieci aristocratico od un consiglio di commissari socialisti. A che scopo, quando non si vedono i generali ed i geni capaci di governare dittatorialmente e quando i nostri comunisti sono goffe imitazioni di quei Lenin che, nonostante il loro fanatismo, trassero la Russia alla morte?

 

«Quanto più gloriosa e feconda, agli occhi degli uomini amanti del paese, è la seconda viadel rispetto alla costituzioneed alla legalità! La costituzione e la monarchia valgono non per sé, ma come incarnazione di tre quarti di secolo di vita nazionale e di un millennio di sforzi verso l’egemonia e la formazione di uno stato unitario nella penisola italiana. In quest’ora decisiva, tutti coloro i quali attribuiscono un pregio ai valori spirituali, alla tradizione, alla continuità della storia nazionale, tutti coloro i quali sentono che in politica le creazioni nuove non hanno probabilità di vita, ma che ogni più audace novità può essere innestata nel vecchio tronco e suggere dalla linfa di questo una vita assai più vigorosa e lunga di quanta possa derivare dall’improvvisazione di dittature incapaci, devono contrastare l’avvento della dittatura! [..]»

 

Einaudi raggiunse quei livelli di «gratitudine» alle lotte politiche dei fascisti - se essa fu sincera e non strumentale al suo regionamento - molto tardi, alla vigilia della “marcia su Roma”. Prima aveva sottovalutato il fenomeno fascista. In quel biennio, rarissimamente aveva accennato al fascismo sulle colonne del Corriere della Sera. Il 14 gennaio 1922, polemizzando con i socialisti, aveva accordato loro «causa vinta»  «contro ai casi singoli di violazione dei diritti degli operai, verificatisi sporadicamente ad opera di qualche nucleo fascista.» A parte il lungo articolo citato, sembra - a scorrere le cronache einaudiane di quel torno di tempo - che non esista una questione fascista. L’articolo «per lo stato» del 4 novembre 1922  (op.cit. pag. 926 e segg.), con tutta la sua dose di supponenza, con il suo tono arrogantemente monitorio, sbuca fuori inopinato, arcano, inspegabile che non si sapesse aliunde della capitolazione del re di fronte agli ultimatum di Mussolini del 28 ottobre. ([11]). Ottusità della pur colta alta borghesia o miopia politica di un economista? Sottovalutazione di un fenomeno di massa o marginalità effettiva della realtà politica del partito fascista, prima della scelta di Vittorio Emanuele III, improvvisa e sollecitata da gruppi di pressione (borghesia agraria, corpi militari dello stato, etc.)? Domande cui non è dato qui dare ponderate risposte, se non altro per economia di lavoro. Un approccio alla storia del fascismo di tal fatta non pare, però, che sinora sia stato mai tentata. Quel che anoi preme qui rimarcare è che se ad un osservatore del calibro di Einaudi sfuggiva l’importanza del fascismo ante-marcia, ben speigabile è che - come avverte Nolte - nelle plaghe sperdute di Sicilia (e noi appuntiamo il nostro osservatorio su quelle di Racalmuto) non venisse neppure percepita.

 

Attorno al 1922, a Racalmuto premeva in sommo grado la questione della crisi finanziaria del settore zolfifero.

Nel settembre del 1922 una  commissione degli esercenti le miniere di zolfo della Sicilia si era recata a Roma per premere al fine di ottenere un decreto-legge autorizzante l’emissione di obbligazioni per 120 milioni di lire garantite dallo stato. Vagava tra la camera ed il senato un disegno di legge in tal senso. A dire il vero la camera l’aveva approvato, ma il senato ancora no, per via della crisi ministeriale. Si cercava, con il decreto-legge, di ovviare al pericolo che la legge naufragasse in quel bailamme parlamentare. Pronubo il sottosegretario Lo Piano.

La crisi zolfifera era allo stremo. La concorrenza degli Stati Uniti era stata micidiale. Solo che con la guerra, si era estratto zolfo a prezzi politici. Si era costituito il «consorzio obbligatorio per l’industria  zolfifera siciliana» al quale il produttore era obbligato di consegnare  il minerale estratto. Il consorzio, aveva accumulato uno stock di zolfo invenduto. Al 30 aprile del 1922 erano giacenti nei magazzini consortili 270.000 tonnellate di zolfo. Su tale quantitativo le banche avevano anticipato 85 milioni di lire e si rifiutavano di accordare altre anticipazioni sullo zolfo che frattanto si era continuato a produrre. Si profilava un blocco nella produzione dello zolfo. Gli industriali chiedavo di togliere - con l’emissione obbligazionaria - di togliere lo stock dalla circolazione e di rendere quindi possibile la immediata vendita della nuova produzione. ([12])

Einaudi era sferzante ed irriducibile: «Chi ha stock da vendere, - rintuzzava (pag. 887) -   si arrangi. Può darsi che il modo migliore di arrangiarsi sia di accantonare lo stock, facendo un’operazione con istituti bancari, nella speranza di poterlo vendere in tempi migliori. E’ accaduto parecchie volte che l’operazione è riuscita bene. Riuscirà tanto meglio, quanto meno lo stato ci ficcherà dentro il naso. [...] Ma  - si obietta - il consorzio fu creato dallo stato; i prezzi li fissa il consorzio, col consenso del governo. Quindi il governo o mantenga le sue promesse o sciolga il consorzio. Parliamoci chiaro. A chi vuol dare ad intendere l’ing. Raverta questa solennissima bubbola che il governo osi sciogliere di sua iniziativa il consorzio solfifero? Il consorzio rimarrà finché lo vogliono deputati, rappresentanze, industriali solfatai siciliani. Essi lo hanno creato ed essi lo vogliono. Il resto d’Italia non ci ha messo bocca  e non osa metterci bocca, per timore di far cosa spiacevole ai siciliani. E’ uno di quei casi di leggi, in cui deputati e senatori delle altre regioni hanno ritegno di parlare, temendo, se parlano contro, di suscitare delicate recriminazioni regionali. Tutta la responsabilità del cosiddetto ‘governo’ è qui: nel non avere osato, se aveva un’opinione contraria al consorzio, di farla valere per timore di dire o di fare cosa spiacevole ai siciliani. Se ora questi si persuadono, e sarebbe tempo, che il consorzio è stato un errore, che la sua esistenza nuoce alla Sicilia, ed è una minaccia all’industria solfifera, lo dicano chiaro e netto; e lo dicano tutti. Troveranno governo e parlamento disposti a mandare a carte quarantotto un esperimento tollerato solo per reverenza al volere che sembrava unanime di quella grande e patriottica e nobile regione.»

Quel numero  del Corriere della Sera sarà arrivato a Racalmuto e letto dagli interessati. Einaudi era anche senatore. Sarà stato considerato alla stregua del nostro Bossi. Negli ambienti degli esercenti sarà corso un brivido; forse una fibrillazione. Intanto saliva al potere quel Mussolini di cui si era appena sentito dire. A lui si guardò certo con acuto interesse in quel di Racalmuto, più in speranzosa attesa che con timore politico. Il «liberismo» di Einaudi non era proprio un’appetibile scelta politica!

 




[1]) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della Sicilia - Canicattì 1969 - pp. 344-5.
[2]) ibidem, pag. 345.
[3]) Malgrado tutto - periodico cittadino di Racalmuto - maggio 1993 Anno XII n.°2, pag. 3.
[4]) Archivio Centrale dello Stato - Casellario Politico Centrale (C.P.C.) - Busta n.° 5342 - fasc. N.° 4621 intestato a Vella Dante fu Giuseppe e fu Concetta Pedalino, nato a Racalmuto il 24.3.1908.
[5]) Francesco Ercole - La Rivoluzione Fascista - Ciuni Editore Palermo 1936, pag. 82
[6]) ibidem pag. 83 e pag. 84.
[7]) E. Nolte, op. cit., pag. 266.
[8]) Paradigmatiche ci appaiono in tal senso le pagine del Nolte: pagg. 266-302.
[9]) op. cit., passim, ma in particolare pag. 2111 e ss.
[10]) Luigi Einaudi - Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925)  - VI (1921-1922) - Giulio Einaudi Editore  1963 - pag. 14. (Articolo sul Corriere della Sera del 25 gennaio 1921).
[11]) Per la cronaca puntuale dei fatti, valgano le pagine, magari giornalistiche, di Antonio Spinosa - Vittorio Emanuele III, l’astuzia di un re - Milano 1990
[12]) Illuminante al riguardo la polemica dell’Einaudi  con il siciliano ing. Raverta sul Corriere della Sera in data 13 ottobre 1922 op. cit. pagg. 881-888, a seguito dell’articolo del 10 settembre (op. cit.  pag. 824 e segg.)

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