Il teatro, Giugiu Di Falco e gli “altri” (con un pizzico di Sciascia, indefettibile come il prezzemolo).
Malgrado tutto, nonostante dovremmo essere classificati fra gli ingrati “altri” – saprofiti di chissà quali ricerche altrui – Giugiu Di Falco, amico antico e vero sin dalla nostra infanzia, ci prodiga delle sue ricerche, queste vere e valide, e del suo costosissimo archivio fotografico. Tutto naturalmente riferito al baraccone di moda, il teatro Regina Margherita di Racalmuto. Divenuto sacro perché Sciascia vi tenne una prolusione quando cominciò a pensare che questo era diventato un paese terribile, sol perché qualcuno osava contraddirlo.
Dicevamo che secondo le insinuazioni di un settario foglio [1]locale (plagi sciasciani a parte) noi saremmo tra quelli che avremmo depredato la documentazione di aliene ricerche nei vari archivi statali, provinciali, locali. Ma non è vero il contrario? Non sono stati “altri” quelli che hanno premesso la firma come precipuo autore di un testo che neppure avevano letto? E costoro non sono finiti nel luccichio di un CD comprato già, a dire il vero, dal Comune? E lì non v’era quanto ora a spese sempre del Comune si vuol pubblicare per la terza volta, ed anche molto di più? Ma quando a sindaco la cittadinanza ha voluto il nipote del proprio campiere si può pretendere questo e ben altro; persino con gli osanna del giornaletto di famiglia.
Noi fummo tra quelli che pagammo di tasca nostra viaggi da Roma – e pesantissime bollette telefoniche – per consentire a qualcuno di assolvere ridevoli onorificenze. Sappiamo ora che in cambio un passato sindaco ebbe informazioni sulle carte giacenti in tanti archivi persino stranieri. Ma per questo basta consultare pubblicazioni ponderose ed informatissime, basta che si conoscano. Non fui forse io a guidare nelle ricerche d’archivio? Naturalmente mi servivo di quelle pubblicazioni. Ovviamente il destinatario ora – per quei miracoli della cattiva memoria – finge di ignorarlo.
Scrivevamo un tempo – e ci pare che il sullodato foglio non mancò di ospitarci –:
Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
Ci pensa adesso l’aulico foglio a darcene conferma; ovvio che la voglia di riesumazioni di carcasse storiche ci pare imbecillotta. Dovremmo dunque commuoverci e spingerci a gratitudine eterna perchè un “signorino” venuto dalla città non si poteva mescolare con i locali coetanei essendo cosparsi di infettive malattie “esantematiche” (che cosa erano? I banali “coccia”?). Dovremmo poi esaltarci perché gli amici del signorino erano mezzadri pastori ed affini pronti al sussiego servile. Per fortuna loro, alcuni – anche se non tutti – erano di sufficiente intelligenza – come i soci del circolo unione – capaci persino di discutere per qualche ora su vari argomenti. Vivaddio avevano apprezzabili intelligenza sapienza ed equilibrio.
Tra costoro c’era forse il bisnonno del Sindaco che abbiamo conosciuto stimato ed onorato (anche come autorevole membro della mia plebea famiglia)? Ma quello aveva superiore intelligenza, sagace operosità ed anche ironica marpioneria per non essere capace di abbindolare i figli o meglio i nipoti di signori divenuti tali dopo le peripezie rimaste memorabili per la penna di Eugenio Napoleone Messana.
Pare che tra breve il Comune – che ci ha tartassato elevando l’aliquota ICI al debordante 6 per mille (più di Roma) – abbia voglia di sperperare quel che rimane delle esauste casse municipali in riverenti pubblicazioni, frutto si dice di decennali fatiche. O quanto annaspante è quella penna, o quanto stanca quella fantasia. Tanto rumore per nulla si recita nel teatro che Giugiu di Falco ha osannato con le carte e le foto che ci accingiamo a commentare. Ma quanto denaro per tanto rumore – teatrale e storico-letterario! Paghiamo o cittadini contriti e riverenti, servi e saccenti, attualmente il 6 e poi il 7 e poi l’8 e poi .. dato che dobbiamo mantenere fondazioni ove non arrivano neppure le carte dovute o ove si deve far locupletare stranieri ingordi, e dobbiamo pubblicare tutto anche ciò che è sgangherato ed insenso per compiacenza verso chi magari ci fa causa per non essere stato subissato di denaro dopo un modesto esproprio di terreno marginale occorrente per una bretella salva vite, plebee però. (Ricordate la scritta marmorea sotto la centrale? E’ davvero lontana questa vita racalmutese dalla giustizia e dalla verità, cioè dalla libertà annotava irriverente ma con migliore forma della nostra Leonardo Sciascia).
Dicevamo, dunque, di Giugiu Di Falco. Ci ha rassegnato copia di un suo quaderno dattiloscritto e del corredo fotografico risalente al 1988 A penna, si intitola IL TEATRO COMUNALE REGINA MARGHERITA DI RACALMUTO.
PARTE SECONDA – NOTE IN MARGINE DEL TESTO DI GIUGIU DI FALCO
Iniziamo con … la conclusione del libro del mio amico. Ci vuol notificare che “all’opinione pubblica … ha fatto piacere la collaborazione di un personaggio che nella costruzione di spettacoli teatrali è il massimo a cui si possa aspirare. E’ il noto scrittore, regista e sceneggiatore Andrea Camilleri”. Invero l’ultraricco scrittore empedoclino ci vuol solo far sapere che in risposta a taluna piaggeria interessata lui è disposto a limitarsi solo “a quella che può essere la formazione di un cartellone e l’indicazione dei percorsi artistici”. Anche qui – come per tutto il resto – molto rumore per nulla come con sapida anche se inconscia autoironia si conclamava nella recita di inaugurazione del “rinascente” teatro Racalmutese, dopo il flop della sala vuota per insipienze burocratiche.
Noi che il nostro amico lo conosciamo – e stimiamo – da una vita pensiamo che quella ingenua sdilinguata non sia frutto del suo sacco. Il lavoro, austero circostanziato leggibile, esordisce ben bene Diligente, rispettosa lettura di carte dell’archivio di Racalmuto consentono al Nostro di notiziare meticolosamente sulle vicende amministrative dell’epoca matroniana nell’avventurarsi in una maniacale e dispendiosissima impresa: quella di farsi un teatro elitario per lor signori, a somiglianza di quello capitolino, della Palermo appena post-borbonica.
Naturalmente il giudizio di valore in negativo è nostro. Giugiu Di Falco ama il teatro, quel teatro; lo considera cosa propria, ed a ragione visto che tutto sommato lui ne è il vero salvatore. Con le sue ricerche, con il suo interessamento, con l’entrature che l’alta carica fiscale allora rivestita gli consentiva, sfruttando magari le accidiose sortite del suo grande compaesano e coetaneo, potè dar inizio al salvataggio che in quest’anno finalmente si dice concluso, sia pure dopo un ventennio di spese improvvide e per noi superflue. Vi era altro a cui pensare a Racalmuto: un paese su cui ricade un’ICI gonfiata, a riflesso pure di una siffatta opera neppure lussuosa, solo pretenziosa.
Sbotta ad un certo punto della sua ricerca il Di Falco che tanti particolari, molte notiziole, certe singolarità ce li può rappresentare perché si è molto adoperato nella investigazione di carte nascoste in locali ad affitto parentale con accesso a noi interdetto. Così per le nostre operazioni di scopertura di tali vicende minuscole del vivere paesano dell’Ottocento ci siamo avvalsi delle solitarie peregrinazioni nell’archivio di stato centrale di Roma o in quello – prima bazzicato solo da Eugenio Napoleone Messana – di Agrigento. Chi ha orecchie da intendere, intenda. Lungi ovviamente da noi la malignità che il Di Falco si sia avvalso per questa sua minuziosa indagine archivistica dell’opera di chi si proclama l’unico e prodigo dispensatore di carte storiche racalmutesi.
Giugiu D Falco ha semmai il nostro identico difetto; con tecnica burocratica tipica del Ministero delle Finanze ci piace investigare, verificare, accertare. Nel momento elaborativo, in solitudine; prima sfruttando le dabbenaggini altrui oppure le voglie esibizionistiche o delatrici degli estranei.
Ma bando alle superfetazioni. Giugiu Di Falco ama il teatro – non solo quello murario ma anche quell’altro recitato – da tempi immemorabili. Rifuggendo dal postumo carro di Tespi di taglio paesano – propenso all’erotismo plurimo secondo natura con l’eccezione di chi vi andava contro – il Di Falco diveniva alla fine degli anni quaranta il pigmalione della filodrammatica parrocchiale. Nel teatrino che l’encomiabile arciprete Casuccio – chi l’avrebbe mai pensato – mise a disposizione ebbero applaudita anche se effimera vita recite come il patetico “Ho ucciso mio figlio” – con straziante preludio della Traviata – o come l’ilare “Pastorale” che mi si dice ora essere di un monaco san biagese.
Certi maligni del Circolo Unione mi ragguagliavano l’altra sera sulla boccaccesca vicenda di tanti arrapati galantuomini – peraltro noiosamente sposati - finiti in blenorragia per non avere resistito alla tentazione di godersi a pagamento le grazie di una prima donna caduta con i compagni in ristrettezze economiche per la latitanza dei locali spettatori dalle recite cui quella compagnia si cimentava nel nostro teatro comunale.
Noi rammentiamo una splendida bionda, che ebbe a turbare peccaminosamente i nostri quasi impuberi sguardi, una Lia Guazzelli, coniugata o compagna di Renato Pinciroli assurto poi a gloria cinematografica e pensiamo a benessere economico. E la ricordiamo intenta a recitare piamente una santa Rita proprio sulle scabre tavole del teatrino parrocchiale, appunto per guadagnare almeno la pagnotta quotidiana.
Giugiu Di Falco, unico allora a disporre di uno stipendio, comprò da mio padre la “musulina” residua per le quinte del teatrino parrocchiale. Non recitava, neppure in minuscole particine. E noi non possiamo nobilitarlo inventandoci regie rapsodiche di chi poi fini scrittore famoso.
Ecco il nostro filodrammatico, nella parte di direttore s’intende. Giovanissimo eppure già grande con i grandi, uno della triade; gli altri: l’austero arciprete Casuccio ed un serioso padre Puma, allora semplice cappellano. E poi, il solito presente-assente Lillo Savatteri, il falso barbuto Guido Picone, ed altri che non ci azzardiamo ad individuare temendo di sbagliare. Come corre il tempo! Lo giuro: eravamo tutti racalmutesi autentici e non avevamo schiviltoserie razziste. Eravamo i migliori.
La troupe eccola tutta qui; assenti quelli in veste talare e presenti mio fratello Giacomo, il regista Gino Caprera (più bravo e soprattutto più efficiente del futuro grande scrittore). Vi notiamo Pino Agrò, attore spumeggiante, Angelo Morreale. Naturalmente il leader Giugiu Di Falco non può mancare.
E siamo sulla scena: quadri radio di lusso, sedie e tavolinetto in vimini (prestati da Ernesto di Naro?). Le parti minori hanno qui eguale risalto, si tratti di un piccolo cameriere o di un telefonista quasi sosia di Amedeo Nazzari. Di nobile portamento Guido Picone ed a Cosimo La Rocca non difetta la mimica singolare. Pino Agrò, il bello della compagnia, disdegna di conferire con un Luigi Giudice, prima degli impegni ministeriali. Ed Angelo Morreale, bifronte: accetto dai pretenziosi virgulti della locale crestomazia – che facevano clan e circolo a parte – e presente tra noi della modesta plebe.
Il lavoro sul teatro comunale resta comunque prezioso fugando imprecisioni storiche false attribuzioni di paternità improprie requisizioni regime. Ci piacerà o meno ma la tela dei Vespri Siciliani (Sciascia precisino li vuole al singolare) non potremo più toglierla a Giuseppe Carta per attribuirla magari ai sigg. Tavelli e Belloni sulla scia dell’impreciso Messana. A Giovanni non dite – mi raccomando – che le varie tesi sull’attribuibilità del telone a vari artisti (e Sciascia ed Aldo Scimè ed altri vi ci sono cimentati) potrebbero integrarsi dato che Carta avrà ricevuto la commissione ma nulla fa pensare che l’abbia integralmente eseguita di suo pugno. Non vi è dubbio che si sia servito di suoi discepoli o aiutanti. Non per nulla non sembra che quello sciatto scenario l’abbia firmato. La vasta dimensione non significa pregio artistico, che invero è più arduo quanto più vasta è la superficie da colorare.
In altri tempi, con altri intenti parleremo del lavoro di Giugiu Di Falco sul teatro Margherita e ci permetteremo qualche licenza critica che qui non sarebbe opportuna. Ci limitiamo a trasmettere alcune foto ad illustrazione del testo descrittivo del nostro grande amico Giugiu Di Falco. Ad malora Giovanni!
Una pinacoteca a Racalmuto dedicata a Pietro d’Asaro
L’associazione racalmutese ECCLESIA (presidente padre PUMA, direttore Calogero TAVERNA) ha organizzato l’inaugurazione della pinacoteca Pietro d’Asaro aprendo i locali della vecchia chiesa di S. Sebastiano (tra S. Anna e S. Giovanni di Dio).
E’ stata una manifestazione di grande rilievo – oltre che per la comunità racalmutese – per l’intera realtà culturale agrigentina e persino regionale, tanto che non è mancato il patrocinio del Comune e della Provincia.
Nei locali di S. Sebastiano – dopo i restauri pubblici più o meno condivisibili – sono già custodite pale d’altare, tutte attribuite a Pietro d’Asaro, ma con disinvoltura critica, visto che solo le pale firmate sono indubitabilmente del pittore racalmutese; le altre attengono, ad avviso di alcuni critici, ad una scuola, non necessariamente racalmutese, cinquecentesca, tutta da studiare anche per la ricognizione della veridica microstoria locale e provinciale.
Comunque, la mostra pittorica si è estesa alla pittura dell’Arciprete, pittore ragguardevole, di notorietà nazionale. Vanta, infatti, varie esposizioni, la più prestigiosa in Piemonte, Altrove, in questo sito, potrà leggersi una critica non convenzionale sul Puma pittore.
L’inaugurazione è stata solennizzata dalle massime autorità religiose della Diocesi, da quelle militari e civili della Provincia. Presente per l’intera giornata il Sindaco Restivo.
In contemporanea, a supporto e ad amplificazione, si è svolta una giornata di studio, a completamento o a rettifica di quella già svoltasi per il V centenario della Saga del Monte. Il fulcro è stato la dottissima prolusione del prof. Mazzarese Fardella, direttore dell’istituto di storia del diritto all’Università di Palermo, che ha esplicato storia, diritto, araldica e costumi della Sicilia feudale. Non sono mancati perspicui riferimenti alla microstoria racalmutese (avendo il professore degnato di attenzione, naturalmente critica, lo studio di Calogero Taverna sulla “signoria racalmutese dei Del Carretto”); vi sono stati del pari coinvolgenti relativi alla “vinuta di la Bedda Matri di lu Munti”.
Con l’occasione il padre Stefano Pirrera ha dato incarico al Taverna di illustrare la figura del defunto padre Calogero Salvo, personalità poliedrica, sacerdote integerrimo, uomo di fede profonda (forse persino con tocchi giansenistici), studioso perspicuo anche delle nostre cose racalmutesi. Appartiene a quell’olimpo di grandi racalmutesi (pur se in veste talare) che vanno rievocati, apprezzati, onorati e studiati “a futura memoria”. Non possono essere per ignavia dei vivi cacciati nelle gore dell’oblio.
Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Una introduzione è d’obbligo
come giudicare il Traina? Tra il Camilleri del Re di Girgenti e mons, De Gregorio nella sua storia della diocesi di Agrigento a chi dar ragione?
Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale, vorrei tratteggiare la figura del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651 – non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le disavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il Traina, l’uomo, il vescovo
Ma che vescovo fu codesto monsignor Traina?; anzi vien voglia di domandarci: che razza di uomo fosse? Con la nostra mentalità, dopo un secolo di lotte sociali, dopo una rivoluzione che non può certo dirsi esaurita per totale fallimento sol perché è crollato il muro di Berlino, il giudizio scivola verso la condanna con infamia. Ma saremmo fallaci. Il Traina visse nel Seicento, in quella parte del secolo che produsse ovunque, nell’Italia soggiogata dalla Spagna, rivolte e torbidi. Un vescovo aveva ruoli pur sempre religiosi ed il suo influsso sociale poteva essere rimarchevole ma non determinante. Il Traina vi fu travolto. Poteva districarsi meglio. Non ebbe né polso né cultura per farlo. Fu debole, improvvido. Slittava in una senescenza precoce. Diffidava degli amici e si aggrappava ai parenti. Questi non erano di eccelsa statura. Un fratello, già al quarto voto fra i gesuiti, diventa la sua anima nera. E’ rapace. Tende alle espoliazioni dei benefici ecclesiastici. Il Traina lo preferisce in modo sempre più smaccato. Canonici che in un primo tempo non gli erano stati avversi, il Blasco ed il Picella, ad esempio, gli si rivoltano contro con livore, animo malevolo, tono bilioso. C’è persino da pensare che durante i torbidi siffatti canonici, fingendo di difendere il presule, si siano infilati nelle stanze più segrete, si siano appropriati di beni e soprattutto di carte, quelle custodite più gelosamente perché piuttosto infamanti, quelle della scomunica vaticana del 1631. Escono, comunque, dal segreto quelle carte. Al vescovo diranno che sono state bruciate dai rivoltosi. Ed invece, un frate dell’ordine di S. Francesco di Paola, tal Trimarchi, un autore di libelli di successo, un pubblicista, si direbbe oggi, dedito alle enfiature scandalistiche, può abbondantemente servirsene per una delazione ed una stroncatura del vescovo di Giorgento. E, dopo, quasi reo confesso, è lo stesso canonico Picella a farne smaccato uso in processi intentati a Palermo presso quel particolare tribunale che fu quello cosiddetto della Monarchia, e al contempo a Roma presso la sacra congregazione del Concilio.
Pensate che il Picella fino ad un certo punto godeva di tanta fiducia da parte del vescovo Traina da essere delegato ad una visita dei cosiddetti Sacri Limini.
Codeste visite a Roma erano diventate triennali dopo il Concilio di Trento. Il papa voleva sapere qual era lo stato della chiesa. In effetti, era un’occasione per liquidare i tanti tributi che un vescovo doveva al Vaticano ed alle varie strutture pontificie per avere avuta assegnata una diocesi. Se non vi si ottemperava scattavano censure pesantissime e si spiegano dati i risvolti finanziari. Il denaro sarà sterco di Mammona, ma nella realtà ecclesiale cattolica ha sempre avuto predilezioni financo morbose, dai tempi della simonia sino a quelle incredibili opere di religione cui dovrebbe attendere l’attuale IOR. Se si era condannati di inadempienza, scattava l’interdetto, i canonici agrigentini eccelsero nel sottilizzare: non occorreva condanna, la censura operava ipso facto. Ad Agrigento si era forbiti nella conoscenza di tutte le pieghe sanzionatorie di una fondamentale bolla in proposito di Sisto V.
Fra le carte che siamo andati a trovarci nell’Archivio Segreto Vaticano, abbiamo rinvenuto una lunga comparsa accusatoria del Picella contro il vescovo Traina, una sorta di elucubrazione in diritto, de jure, colma di citazioni normative, giurisprudenziali e persino dottrinarie. E c’era anche qui una ragione economica.
L’interdetto comminato al vescovo inadempiente nell’obbligo della visita triennale dei Sacri Limini comportava anche la privazione delle rendite e pensioni del soglio episcopale che passavano – ipso facto sostenevano i canonici del Capitolo agrigentino – a quel medesimo Capitolo. Tra vescovi e canonici capitolari vi fu sempre attrito a motivo delle prebende. Tra il Traina ed il suo capitolo la contesa fu aspra sino dall’inizio. Subito il Traina predilesse il giovane nipote Tomasino, né particolarmente nobile, per nulla agrigentino, finito tragicamente per mano dei rivoltosi. Il nepotismo del Traina fu inarrestabile, produsse rotture, accese odii. Se il lettore ci degnerà di attenzione anche quando cercheremo di illustrare la faccenda del tesorierato, una ambita e lucrosa dignità canonicale, converrà con noi su tale assunto.
Vedremo come il canonico Blasco prima relaziona a Roma amichevolmente sullo stato della diocesi agrigentina, nel processo di investitura del prescelto regale Traina e 24 anni dopo si accoda al Picella in accuse persino smodate. Il processo vaticano si è incardinato nel 1650 sol perché è l’intero capitolo agrigentino che vuole la testa del vescovo. Il quale appare ora solo, senza parenti, infermo, dedito soprattutto ad acquistare città (Agrigento e Licata) per cifre esorbitanti e per un tempo ineludilmente breve, il breve protrarsi del suo occaso.
Il Camilleri prende questo vescovo tutto secentesco e persino racchiuso nei tempi delle calamità del dopo peste e lo trasporta nel 1718 a vedersela con Zosimo il “re di Girgenti”, storico e vero ma attivo nella parte terminale del breve regno dei Savoia. Fatti come quelli del ’47 rifuggono da inquadramenti nella dominazione savoiarda, epocalmente, culturalmente, socialmente diversa. Si pensi che nel 1718 Zosimo non poteva incontrare alcun vescovo ad Agrigento, essendo sede vacante per la celeberrima defezione del vescovo Ramirez. Il secolo dei lumi operava già ad Agrigento; scomuniche e interdetti lasciano piuttosto indifferenti non solo i ceti colti, ma anche le alte gerarchie ecclesiastiche e persino gli arcipreti periferici come quello di Racalmuto. Nel 1647 tanto non aveva riscontro. La scomunica era temuta e colpiva anche gli stessi vescovi, per quel che si dirà. Certo la marionetta di monsignor Reina – l’alter ego di monsignor Traina – è letterariamente riuscitissima e tanto soddisfa, crediamo, il Camilleri. Risvolti sociali, tragedie popolari, arroganza del potere, rancide visioni classiste, sopraffazioni, manipolazioni della plebe, istinti asociali, ribellismi, atteggiamenti simoniaci, abusi tributari, sono quelli. Il Camilleri è magistrale nel rievocarli, farli rivivere. Dall’ordito letterario prorompono l’indignazione, la condanna, ed al contempo il disgusto verso l’uso delle opere di religione per locupletazioni individuali, per l’arrichimento di parenti imbecilli di mitre episcopali. Ma lo storico – o chi si va a cacciare in fisime tali da volere ostentare comunque una testa di storico – quale giudizio può formulare? E’ legittimato alla condanna? Può togarsi per un processo a distanza di quasi mezzo millennio e spingersi sino alla censura, o alla legittimazione, o magari all’assoluzione per insufficienza di prove?
Lascia che i morti seppelliscano i morti, dice il Vangelo. E il Traina è morto, il modo secentesco di essere vescovo è oggi impensabile, il nepotismo di allora non più praticabile, l’aristocratico linguaggio cui indulgevano allora vescovi ed alto clero oggi totalmente ridevole (gregge, pastore, plebi infime, etc,), l’arbitrio episcopale, la dilatazione della giurisdizione ecclesiastica e faccende analoghe sono in atto solo reminiscenze erudite. Allora noi, che comunque andiamo a rivangare quelle storie, siamo a nostra volta dei morti protesi a seppellire altri morti?
Cenni biografici del Traina
Per una strana singolarità, nelle due cupe tavole di bronzo del sacello funerario del vescovo Traina risultano omessi gli anni di vita. Nell’epitaffio che, ancora vivente, il vescovo si era predisposto, stava la consueta specifica degli anni, mesi e giorni della sua umana esistenza, ovviamente con gli opportuni puntini (vixit annos …menses… Dies … , ha riportato il Pirri). E nel fluente latino del Netino si ha: «in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreum construi curavit, hoc addito epithaphio.» La lapide marmorea fu rimossa, sostituita da quelle bronzee sotto un grifagno busto e nel ricamo all’autoelegio che già il presule si era tessuto saltò l’indicazione degli anni mesi e giorni. Mi sussurra padre Alessi che in effetti il completamento del sacello avvenne nel Settecento dopo risse e controversie dei familiari. Nessuno sapeva più a quale età fosse cessato di vivere l’ingombrante antenato. Del resto l’età del Traina restò misteriosa anche durante vita. Non vi è documento pubblico da cui emerga l’anno di nascita. Qualche spiraglio lo si rinviene nel “processus consistorialis” celebrato a Roma nel 1627 per l’elevazione alla dignità episcopale. (cfr. ASV – Processi vescovi – vol. 23, anno 1627, ff. 415 e ss.) A dire il vero neppure i due referenti di fiducia, il messinese don Dario Costa ed il palermitano don Vincenzo Antonio de Bardis, ne sapevano molto. Entrambi se ne uscirono, aggirando la domanda, con questa circonlocuzione: «l'età sua sarà intorno alli 48 in 49 anni in circa». Diamola per buona; possiamo quindi ipotizzare l’anno 1578 o quello successivo come l’anno di nascita. Essendo morto il 4 ottobre del 1651, possiamo dire che visse 72 o 73 anni.
Per quel che si vedrà, il medico Albanesi giudicherà bello e cotto monsignor Vescovo nel 1647, quando il Traina era un paio d’anni lontano dal settantesimo anno di vita. Non ci si venga a dire che allora la vita media era breve. Nostre ricerche ci suggeriscono che la mortalità infantile era feroce, oltre il 50%, ma poi vi erano come steccati standard: si moriva spesso nel primo ventennio di vita; se però si aveva la ventura di superare quella barriera sino ai cinquant’anni ordinariamente tutto filava liscio. Altro ostacolo sui sessanta e poi si poteva arrivare tranquillamente sino a punte ultracentenarie, più di ora e con una qualità della vita migliore della nostra senescenza. La selezione naturale aveva il suo vantaggio.
Il certificato medico dell’Albanesi – stilato peraltro a distanza di tre anni – è da sospettare falso, più di quelli dei moderni medici officiati delle notorie visite fiscali avverso professori ed impiegati pubblici avvezzi all’assenza per malattia. Il Traina, che notte tempo raggiunge a dorso di mulo la città di Naro, che è assiduo in Palermo per affari che lo riguardano, che quando vuole sa essere oltraggiosamente energico, a 68-69 anni possiamo sospettare che fosse ancora di sana e robusta costituzione. La tanto ostentata decrepitezza, la sua precoce vecchiaia segnata da terzane di natura maligna, le sue gambe enfiate per podagra erano belle scuse per non andare a fare la visita ai Sacri Limini e soprattutto per assecondare i già bene predisposti cardinali romani. Ci pare almeno di doverlo sospettare.
Il Traina si proclama nobile e noi gli crediamo: sia inteso, trattasi di una nobiltà infima, di un non meglio precisato ordine senatorio.”Pervetusto Senatorio ordine ortus” scrive di sé nella lapide marmorea. Abbiamo voglia di credere che gli araldisti hanno di che storcere il muso. Questo Traina, senatore palermitano, chi era poi? Si pensi che non vi è carta conosciuta in cui si indicano i genitori del Nostro. I soliti referenti dichiarano testualmente, il Costa: « Il dottore Francesco è nativo della città di Palermo di famiglia nobile di quella città. et de cattolici parenti, et se bene io non hò conosciuto suo padre, ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato da legittimo matrimonio, nobili et cattolici parenti, et io conosco li suoi fratelli, quali sono presenti della città di Palermo et poi la Maestà Cattolica non ammette cappellani, se non provano, che siano nati di legittimo matrimonio cattolici, et nobili, come si è fatto in persona di esso dottor Francesco et poichè è publicamente tenuto, et reputato da tutti, et l'età sua è di 48 in 49 anni in circa per quanto raccoglio dalla sua cognitione, et dall'aspetto.»; ed il de Bardis: «Il detto dottor Francesco è nato in Palermo mia patria di famiglia nobile, et de parenti cattolici se bene io non ho conosciuto suo padre ne sua madre, ho però inteso dire che egli sia nato di legittimo matrimonio, et come tale l'ho visto publicamente tenere, et reputare da tutti ne mai ho inteso cosa in contrario, anzi quale consta che lui è nato da legittimo matrimonio.»
Dal medesimo de Bardis apprendiamo poi che il Traina fu ordinato sacerdote nel 1602 e conseguì la laurea nella sua teologia in Catania (S.T.D.) appena due anni dopo.
Il de Bardis ci informa che per alcuni anni il Traina fece il cappellano a Palermo. Solo nel 1610, diciamo così, avanzò di carriera andando a fare il cappellano al re a Madrid, ove dimorò per diciassette anni. Il Costa si dichiara suo collega nella capitale spagnola, amico e padre spirituale. La differenza di età non era poi molta, meno di cinque anni. Il referente, un messinese, è prodigo di elogi nei confronti del palermitano: non ha mai dato scandalo alcuno né in materia di fede, né nella condotta di vita, né nei costumi. Ortodosso nella fede, non denuncia vizi e difetti. Nessuno impedimento canonico sussiste alla sua elevazione al soglio episcopale della diocesi di Agrigento. Parola di un amico, attestazione di un conoscente con ventennale frequentazione. Non ci deve essere dubbio: il Traina è persona di vita integerrima, di buoni costumi, zelante dell’onore di Dio, pietoso verso il prossimo, prudente nell’uso delle cose. E’ dotato di grande dottrina ed è molto atto al governo della chiesa di Agrigento. Elettovi vescovo, sarà di giovamento alla chiesa agrigentina ed alla salute delle anime di quella diocesi, per le sue buone qualità e per le sue virtù, quali il Costa dice di avere esperimentato di persona, ragione per cui deve così attestare per dettato della propria coscienza. Il linguaggio è ovviamente curiale, ma qualcosa di vero doveva pur esserci. Il de Bardis conferma, rincara anzi la dose di elogi. La sua trentennale conoscenza del futuro vescovo, a Palermo ed a Roma, il suo essergli “paesano”, l’averlo praticato a lungo lo rendono teste affidabilissimo. Sulla fede, sulla vita, sui costumi il suo giudizio collima perfettamente con quello del Costa. Di suo aggiunge che il Traina è persona timorata di Dio, integerrimo, di irreprensibili costumi, notoriamente “anzi è tenuto pubblicamente nella città di Palermo per un santarello”. Non per nulla il vescovo gli diede licenza di poter celebrare nei monasteri delle monache. Prudente e dotato di dottrina «merita non solo questa Chiesa, ma qualsivoglia maggiore, la cui promotione stimo che sarà utilissima per quella chiesa, et anime di essa, essendo dotato di quelle buone virtù, che si ricercano in un vescovo, aggiungendo, che io non ho detto tanto quanto è della sua vita e costumi.»
Nel gennaio del 1627 giunge al cardinale Barberino dalla Spagna una segnalazione: il re ha prescelto il suo cappellano Francesco Traina quale vescovo di Agrigento. Essendo.vacante il vescovado di Girgento per la morte del signor cardinale Ridolfi, « el Rey senor como patron de las Iglesias de Sicilia se ha servido de nombrar y presentar ala dicha Iglesia al Dottor Don Francisco Trahina su Capelan». Il re si riserva quattro mila e seicento scudi di pensione nuova per le persone che sua Maestà vorrà segnalare. Per converso il Traina potrà mantenere la precedente pensione di mille e trecento scudi. La nomina dovrà aver luogo nel primo concistoro utile cui dovrà seguire la relativa Bolla. Lettera datata “a 20 del Enero 1627”, invita “Y Cardinal Barverino” e firmata da tal Fumasor. Secca, intrigante; la dice lunga sulla iattanza spagnola, sul senso regale di Filippo IV anche con il Papa. Documento dunque che trascende il semplice taglio burocratico.
Il 10 febbraio il concistoro ha luogo ed all’ordine del giorno c’è proprio la disposizione del re: il processo di investitura del Traina. Presiede il cardinale presbitero Francesco Barberini, ex fratre germano nepos del papa. Alla sede vacante di Agrigento, per desiderio del papa, si segnala il dotto Trahina presbitero palermitano come nominato da sua maestà cattolica, per suo giuspatronato. Il cardinale dispone che subito si indaghi sulla vita, sui costumi e sugli altri requisiti del candidato. I testimoni sono lì pronti e cioè don Gaspare Blasco presbitero della diocesi di Agrigento, nonché canonico di quella cattedrale; don Dario Costa presbitero messinese, don Vincenzo Antonio de Bardis, palermitano e d. Giuseppe Micheli, presbitero agrigentino,
Il Blasco si dilunga nella descrizione, non molto precisa in verità, della diocesi di Agrigento, che la curia vaticana peraltro conosceva nei dettagli non foss’altro per le precedenti “relationes ad limina”. Del Costa e del de Bardis abbiamo già detto. Giuseppe Micheli è un prete di Bugio di soli 30 anni. Fa da bordone al Blasco. Una testimonianza scialba, priva di interesse, sulla chiesa agrigentina.
Trascriviamo alcuni passi in latino che precisano i meriti, i titoli e le prerogative del Traina.
«Eidem anno, indictione, mense die, et pontificatu quibus supra. Supradictus ad m. Ill. D. Franciscus ad docendum de eius doctoratu in Sacra Tehologia facto produxit Privilegium, in publicam formam subscriptum per d. Philippum Taranto vicarium Generalem, et Vice Cancellarium dicti Almi Studij, et solito sigillo munitum, quod ad effectum hic inserendi mihi etc. consignavit tenoris infrascritti videlicet:
In Nome Domini Amen, Nos don Philippus Taranto U.J.D. Can.us Cath. Ecclesiae Catanensis in spiritualibus et temporalibus Vicarius Cat. sede vacante ... (solita forma) ... significamus .. et serie fidem facimus, quod vigore privilegiorum fel. rec. D. Eugenii Papae 4i et gloriosae mem.ae Don Alphonsi Aragonum et utiusque Siciliae regis quorum auctoritate et potestate, qua in hac parte fungimus in presentiam R.P. M. Vincentii de Mainoin defectu lectoris non doctoris etiam Compromotoris, et respondit d. Alex.ri Belmuso pro Decani et Compronotaris, stante absentia P.M. Hieronimi De Catanea Decani, et Compronotaris eiusdem facultatis D. Francisci Traina felicis urbis Panormi habita prius debita informatione de eiusdem religione, et fidei catholica professione, ac juramento super sacramentis Dei evangeliis palam publice in manibus nostris praestito per venerabile Collegium s.t.d. et ministrorum studij presenti in nostra praesentia exstentium et pro Tribunali sedentium unanimeter et concorditer vive vocis oraculo ... suffragijs d.d. Franciscus idoneus, et sufficiens doctor, et magister in sacra pagina merito exibit judicatus, et approbatus , sicut ex eorum votis vivis suffragijs datis constit evidenter. Nos igitur consideratis scientia, facundia, modo legendi genere, moribus, virtutibusque predicti D. Francisci quibus Altissimus eum decoravit, et illustravit, prout in eius rigoroso et tremendo examine visibiliter demonstratum et cuncta sibi assignata recitando, et declarando argumenta, dubia, et qualibet sibi factas oppositiones seriatim replicando, et clare confutando ac solvendo de consilio et pari voto ad d. collegi magistrorum et doctorum eundem d. Franciscum nomine approbavimus
magna cum laude
Datum Catinae die 9 Junii 2a Ind. 1604. Don Philippus Taranto
Nec non ad docendum se esse de legitimo matrimonio procreatum facto produxit fidem primae Tonsurae subscriptam per rev. d. Archiepiscopum Panormitanum solito sigillo mun. videlicet
Nos don Didacus de Aedo Dei et ap. sedis gratia Arch. Panormitanus regiusque consiliarius etc. ... notum facimus presente die datae presentium in Cappella Arciepisc. Palatii huius urbis dilectus nobis in Christo filium Frasciscus Traina Panormitanum ex legitimo matrimonio procreatum scholarem panormitanum clericali carattere insignisse eidemque hab. primam clericalem tonsuram cum ceremonijs ... etc.
in die veneris XVIII presentis mensis decembris quatuor temporum nativitatis, D.N. Jesu Christi..
datum un Urbe feli. Panormi die quae supra sextae Ind. 1592
Ego Odoardus Tibaldesius clericus Spoletinae..
E dopo tanto latino che pochi dei miei pochissimi lettori avranno seguito ecco ancora, per un altro pizzico di pazienza, la chiusa cardinalizia, purtroppo sempre in latino, che consacra Traina quale degno presule della Diocesi della estrema parte sud della Sicilia.
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