mercoledì 8 marzo 2023
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'età del Bronzo e di quella del Ferro in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. Ad un certo punto si ebbe, però, una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi. Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela, si insediarono nella valle agrigentina, per i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo sconquasso. I moderni storici si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte. Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. Racalmuto era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Per qualche secolo ancora Racalmuto poté restare libero territorio anellenico. Ma giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride, nel sesto secolo a.C., per le popolazioni di Racalmuto fu l'inizio di una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi reperti numismatici con la riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione del tempio a Zeus che si attribuisce a Falaride. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi ma irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e liberi. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con rimarchevole continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare. IL PERIODO GRECO Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto diviene pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo. Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polisdi Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti a Racalmuto sono i soli indici della loro presenza. E' certo che sino a quando non vi saranno sul nostro territorio scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a condurre sul circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, a noi non resta che avventurarci in malcerte congetture. Solo 'MALGRADO TUTTO' nell'ottobre del 1990 riporta il pensiero di Rosalba Panvini che reputa la scoperta archeologica degli operai dell'ENEL in contrada Grotticelle 'molto interessante' e pensa che «siamo in presenza di due strati archeologici che coprono un arco di tempo che va dal III secolo avanti Cristo al II dopo Cristo». Nell'accennata campagna di scavi del 1960, le importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, portavano a attribuire a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - sfiorisce in un patetico dilettantismo. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni: la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo. Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò il territorio dell'attuale Racalmuto: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo scorso. Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare una aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri. 03/04/18, 12:46 Rosa Grazie Lillo,dopo pranzo leggero' con grande attenzione 🙂 Rosa Rosa Casano Del Puglia e ti rispondo 🙂 03/04/18, 13:49 Hai inviato buon pranzo, Per il momento non occorrono risposte. Forse dopo confabuleremo per qualche progetto archeologico.
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