GLI ESORDI STORICI
Su
interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il PIRRI non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più
antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo
postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da
Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si
basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a
dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra
località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S.
Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà
del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I
primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e
1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due
chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla
Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone
(divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra
pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità
contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si
originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel
1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con
non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il
resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato
in Sicilia per raccogliere il sussidio che
doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il
sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle
condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’,
3 per le agiate e cioè ‘qualsiasi fuoco
di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. PERI I.: LA SICILIA DOPO IL VESPRO -
LATERZA, 1982, pag. 235). Ill 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a
RACALMUTO e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il
‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto
(cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile
un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa
610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti
resisi irreperibili. In un secolo e tre
quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre
congetture e i dati del TINEBRA-MARTORANA hanno una qualche attendibilità - si sarebbe
accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece
limitata solo al 48,32%, che in ogni
caso è tasso di sviluppo normale.
Che
cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi
Chiaramonte, e la metà del XVI secolo
non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un
massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo
motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti
per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha
esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai
patronimici.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni
pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o
funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di
xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se
ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283
sotto Pietro d’Aragona.
Non
è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico
- lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle
ed era denominazione che risaliva al 1296.
Per
avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti
andrebbe più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero
saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i
personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con
nome di derivazione araba.
Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo calcolare in
meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai
registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti
saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si
sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso
dovette verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata
della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. PICONE - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di
archivio, a partire da 50 anni dopo,
troviamo un solo nominativo sospetto (SALAMUNI, cfr. atto di matrimonio
dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da
Grotte.
Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il
PIRRI, sarebbe
stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la
dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del COLLURA, prima citato, dissolvono
quella tradizione, così gradita al TINEBRA MARTORANA o a EUGENIO NAPOLEONE MESSANA. Il documento che ha dato
adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è
quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo momento aveva indotto in errore lo stesso P.
Collura.
L’analisi attenta fa luce sul fatto che
trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali
RAHALBIATH’ la quale è gravata verso la
curia vescovile di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di
‘Racalmuto, ma di un casale non lungi
da Castronovo’ (cfr. Paolo COLLURA, Le più antiche carte
dell’archivio capitolare di Agrigento (1092 -
1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi nei secoli, si spiega forse con l’interesse
della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può
riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si premette che Roberto di Malconvenant aveva
ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita.
Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne
aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli
viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare
tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.
Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel
testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S.
Margherita, che probabilmente va
identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite
virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella seconda metà del sec. XII pagava come censo
tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf.
GARUFI: I documenti inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf.
l.c. pp. 190-192) si sarebbe indotti a pensare che essa possa essere
localizzata in quella zona; tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza
che si tratta di quella chiesa attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il
paese di S. Margherita Belice (cf. SCATURRO, I, p. 246)”.
Svanita la prova di un luogo sacro
risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo
potesse sorgere un centro agricolo, per
esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto.
Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con
degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in
disarmo, vi costruisce una chiesa (una
chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel
1310 è operante ed il suo presule, MARTUZIO DE SILOFONO, versa un’oncia al papa per
le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto
chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle
penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina
rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: ALIBITHUMEN, HBEN
EL CHASSAR, SELLEM EBLIS, MIRRIARAPIP ABDELCAI, MAIMON BIN CUIDUEN, hii
quinque’. Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la
ricchezza: ‘ Si quis - aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte
Margarite Agrigentine Ecclesie omnino
subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui
vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne
vite cum sanctis peremniter percipiat’.
Con siffatta benedizione, anche Racalmuto ebbe a prosperare.
Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a
Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle RATIONES
CALLECTORIE REGNI NEAPOLITANI - 1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter
Angilus de Monte Caveoso pro officio suo
sacerdotali quod impendit in Casali RACHALAMUTI solvit pro utraque
(decima)......tt. (tarì) IX».
Si rammenti che 30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S.
Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’
secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per due decime dei primi anni dieci del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese
pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.
Dei
saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba,
si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che troviamo negli archivi del cinquecento,
seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di
essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la scena e sono l’alta borghesia del paese.
Tra
la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie
che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i
Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di
allora quali i D’AMELLA, i LA LOMIA, gli UGO, i PIAMONTISI ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di
Racalmuto. Alcuni loro eredi prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso
la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro
discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione.
SAVATTERI, BUSCEMI, SCHILLACI, RIZZO, BONGIORNO, CHIAZZA, sono fra questi, per fare
solo alcuni esempi. Lo comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero
titolo esemplificativo:
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di
Vito et Angila Carlino cum
Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di
Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum
solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando
inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro
beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo
Montiliuni et notaro
Jo:Vito D’Amella et di multa
quantità di personj».
IL
QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo,
la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia
genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un
personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi
fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo
a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e
mezzo vero del 13 aprile 1400 ([1]) - abbiamo
le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo
qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che
inquinata com’è nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione
che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia
che specificatamente ci interessa in questa sede.([2])
Quel
che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina
di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del
beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele
alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era
conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di
sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di
Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla
riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano
istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai
saraceni da parte dei
Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una
inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in
Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare
canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto
beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante
gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino ([3]):
Il
documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità
delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo
del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. ([4]) Nel
diploma si accenna solo al ‘canonicatus
Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca
Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di
sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la
chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata
l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti
collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò
origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può
benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile
ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
GLI
EBREI A RACALMUTO
La
presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca
(lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di
Agrigento), nella loro monumentale
opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel
1492. ([5])
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato.
Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel
periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un
ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento interessante e che va riportato integralmente
sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi
termini dialettali della nostra terra. [6]
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen
Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra
il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore)
Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione
dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era
avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice
e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro
Raneri. Ma tanti
altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad
alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne
assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato.
Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato
ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non
sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette,
dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità
nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che
sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi
d’oro - una enormità per i tempi e le
condizioni della Racalmuto di allora -
e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro
Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà
appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e
fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario
viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi
di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di
moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non
va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta
collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale
relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno
carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle
carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.
La
città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono
in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non
tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che gli ebrei sono servi della regia Camera e
quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli
ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa
privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento con le autorità locali agrigentine e quelle
racalmutesi.
E’
uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine
e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia
traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali,
ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare
nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi
in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel
quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo.
Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e,
pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad
appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è
accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere
locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La
corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
Quanto
alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti
organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben
strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò
provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a
Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e
sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro
fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di
marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale
ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla
fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome
abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul
povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non
collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.
[1]) Ci
riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo
è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr.
ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE
GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
[2])
Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa
lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN
MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia
dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In particolare,
ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e
Marchisia PREFOLIO, ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi
tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato.
Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la
data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di
Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione.
[XI IND.]
2. - Costanza CHIARAMONTE, come figlia unica di Federico suddetto,
successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza
ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze,
Antonino del CARRETTO, M.se di Savona
e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale
ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti
... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di
Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania,
agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine
Siciliana, f. 228-229).
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre,
per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da
FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA
di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il
primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli;
i beni di Sicilia li cesse al fratello.
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in
Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R.
Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata.
Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto
abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è
segnalato in modo impreciso]. .»
[3])
Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398
[Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone] «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della
terra di Paternò, cappellano della
nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci
inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. E così apprezziamo quelli che sappiamo essere i morigerati vostri costumi di vita di cui v’è generale stima e nei quali noi
siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi
sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con
prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è
reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione
contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi
conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda,
l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e
proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più
consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la
nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità
apostolica.
Ai nunzi ed agli incaricati presso il
venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché
al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel
materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi
debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure
che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo
intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto
attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti
termini giuridici.
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato
al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti
ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto
presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano
rendere integralmente e pienamente la
prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso
canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato
in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
[4]) Il
Pirri a pag.
730 "AGRIGENTINAE ECCLESIAE" della sua SICILIA SACRA scrive:
«18. can. S. Margaritae [10° Canonicato di
Santa Margherita in Racalmuto], di ejus fundatione in oppido Rhalmuti
vide supra ad ann. 1108. an. 1398. ob rebellionem Thomae de Miglorno Rex
Martinus dedit Gerardo de Fimio in lib. Canc. ind. 6. ann. 1398. f. 137. Capib.
f. 316. habet mediam decimam oppidi unc. 56.»
Espliciti
in questo passo i richiami ai documenti della Cancelleria e dei
Capibrevi di Palermo: per i Capibrevi si può consultare
l'opera pubblicata 1963 da Illuminato Peri [ Gian Luca Barberi - BENEFICIA ECCLESIASTICA - a cura di
Illuminato Peri - G. Manfredi Editore Palermo - Vol. II , pag. 139]. Vi si
legge: «CANONICATUS AGRIGENTINE SEDIS
PREBENDA SANCTE MARGARITE RAYALMUTI - [316] - Cum ob rebellionem et nephariam
proditionem per presbiterum Thomam de Maglono canonicum agrigentinum contra
serenissimum regem Martinum Sicilie regem perpetratam canonicatus agrigentine
sedis cum prebenda ecclesie sancte Marie de Rayhalmuto agrigentine dioecesis
vacaret, rex ipse auctoritate apostolica sibi in hac parte sufficienter impensa
canonicatum ipsum cum eadem prebenda tanquam de regio patronatu presbitero
Gerardo de Fino contulit et concessit, quemadmodum in ipsius
domini regis Martini provisione in regie cancellarie libro anni 1398. VI.
inditionis in cartis 137 registrata diffusius est videre.
Unde per verba illa, scilicet: 'Auctoritate apostolica in hac parte
nobis sufficienter concessa' notandum est quod Sicilie reges a summis
pontificibus perpetuam habuerunt prerogativam et potestatem conferendi omnia
regni beneficia. invenitur enim reges ipsos non tantum beneficia regii
patronatus, verum etiam alia ad prelatorum et aliarum personarum collationem
spectantia contulisse, prout superius pluribus in locis expositum est.
Nunc autem anno 1511 currente.»
[5])
CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli
sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA
- edito dalla SOCIETA' SICILIANA
PER LA STORIA DI SICILIA - Documenti
Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.°
12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX -
Palermo 7 luglio 1474, Ind. VII.)
[6] ) «Il
Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro che uccisero
il giudeo Sadia di
Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio
raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti
iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di
raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto
da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu
casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti
colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo diabolico
spiritu dicti tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro
li denti usando in la persuna di
lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru in una fossa et copersilu di pagla et gictaru
foco petri et terra.
la qual cosa essendo di malo exemplo
merita grande punicioni et nui
tali commoturi di popolo et delinquenti
volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et
a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia
havimo provisto per sapiri la veritati e quilli foru a tali
malici participi et culpabili. et per la
presenti vi dichimo commictimo et
comandamo che vi digiati
personaliter conferiri in lu dictu casali et
cum quilla discrepcioni lu casu riquedi digiati inquisiri et
investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu
tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu
iudeu et cui si trovau presenti et
partechipi a la dicta morti et delicto. et de
tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in
reddito vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum diligencia
et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati prindiri de
personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo dicto acto et quilli digiati minari in la
chitati di girgenti et carcerarili
in lu castellu di la dicta
chitati in modo chi non si
pocza di loro fuga dubitari. E perche
siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno
gippuni in lu quali si dichi erano
cosuti chentochinquanta pezi d’oro farriti di
lo dicto gippuni e di tucta
l’altra roba libri et scripturi diligenti investigacioni et perquisicioni cui li prisi
et in putiri di chi persuna sono. et trovandoli cum ydonia et
sufficiente pligiria de restituirili ad omni simplichi requisicioni di
la regia
curia li restituiriti a li heredi di lu
dictu iudeu. preterea perche multi audachi et temerari persuni li
quali poco timino la iusticia presummino in la chitati di
girgenti parlari et usari
alcuni prosuncioni et adminanzi ac iniurij contra
li iudei di dicta chitati di che
porria suchediri inconvenienti et
scandalu non senza disservicio di la regia curti. a
li quali inconvenienti volendo
debitamente providiri actento chi li
iudei sono servi di la regia cammara
et non si divino lassari
indebitamente vexare ne
molestari. vi comandamo chi eciam vi
digiate conferiri in la dicta
chitati di girgenti per li lohi soliti
et consueti farriti voce preconis
emictiri banno puplico sub pena vite et publicacionis bonorum et altri a
vui meglo visti chi non sia persuna
alcuna digia ne persuna cuiusvis
condicionis et gradus chi digia palam vel oculte de die nec de
nocte intus nec extra civitatem
offendiri vexari ne molestari li dicti iudey.
ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli ne
loru beni re facto verbo et opere. et
chi lo capitaneo iurati gubernaturi di li iudei et altri
officiali digiano ipsi iodey
favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite li volissi offendiri et molestari. lu quali
banno post eius pubblicacionem farriti reduchiri in scriptis ut appareat in futurum. et si alcuno volissi dimandari
iusticia oy incusari alcunu iudeu
digia compariri davanti di nui et
farrimo debito complimento di iusticia. in modo chi cui havira commissu malificio et
delicto sarra debitamente castigato. Nam in
premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo
et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per presentes.
per li quali comandamo a tutti et singoli
officiali et persuni di la
chitati nec non a lu nobili baruni
officiali et persuni di lo dicto
casali chi in la execucioni di li
sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano
obediri et assistiri ac
prestari omni aiuto consiglio et
faguri et loro brazo
si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti nec contraveniant aut aliquem contravenire
permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco
applicandarum. vui vero in la execucioni
di li dicti cosi vi haviriti et
portariti in tali modo et omni quilla diligencia chi pozati
meritatamente essiri inanzi nui comandatu. Dat. panormi die VII Iulij
VIIe Indicionis M° CCCCLXXIIII°.
post datam. constituimo a vui dicto
nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis octo pro
quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat. ut supra.
Lop Ximen Durrea»
Cancelleria, vol. 130, pag. 332 - R. Protonotaro, vol.
73, pag. 160
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