Dopo aver fatto
alcuni lasciti per la sua anima ed aver
dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et
perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di
Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti,
pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una
con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e
qualsivoglia leggi et altri ragioni in
suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in
contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali
leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in
juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di
essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle,
siano et s’intendano instituti heredi
universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et
lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una
volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet
competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta
testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare
la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli
li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600
essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto
soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla]
presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad
Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il
“Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra
di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24
agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera
passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi
4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro.
Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma
alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi)
rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro,
però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli
condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto.
L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel
monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24
giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna
Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino
don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri
eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di
frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di
non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare.
Dovevano
bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i
Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi,
dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e
di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per
sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed
oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno
pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle
monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte
della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche
un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai
governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la
sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di
ricorso perverso, viene riesumato a danno
sul nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci
svela l’arcano. [1] E’ il 10 ottobre del 1645:
Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse
voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il
conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una
transazione) con il dottore in utroque
Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. ([2]) Si
trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile
convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una
“provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del
5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva
condannato a pagare entro un mese al
monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d.
Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle
che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni
IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687,
diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua
cifra di quasi quattro miliardi e mezzo.
Ma che diavolo era avvenuto?
Come si disse, anche sul letto di morte presso il pauroso convento di
Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non sia acquietò contro il fratello
Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non
voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello.
Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei
diritti del conte del Carretto, andasse alle sorelle che istituiva sue eredi
universali.
In base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro conte Giovanni V del
Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una
sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del
Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita,
e donna Eumilia finiscono sotto le grinfie del convento. Si sostiene che
sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro
palermitano.
Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale
protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il
sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi,
si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda,
consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad
una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare
Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno
convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa
quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la
pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi
pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle
tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa
conventuale.
Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa
ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di
baglia di Racalmuto. Questa offerta viene gradita dagli organi giudicanti. Il
padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai
sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e
riluttanti racalmutesi.
I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano
v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui
sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì
per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a
gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i
1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad
apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta
catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo
sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e
gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi,
indigenti, confraternite etc.)
Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il
conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma
perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi
successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto.
Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori
consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di
pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta
revisionata.
Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede.
Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco.
Si consegue l’avallo delle superiori autorità.
La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per
onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in
Palermo.
La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in
bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione
e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso
capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il
rischio di sparire per sempre.
L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo
nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle
predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di
un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani.
Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far
rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per
le vicende prima ricordate.
Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli
interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati
al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno
14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani
9.=
Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a
soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni
di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani
degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava
l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: un esborso dunque a
vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri
compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle
imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle
del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile!
Ma si racchiude tutta qua la
giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe
bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che
comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San
Martino de Spucches - avendolo
comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge
l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de
Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam
Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi
Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et
Santapau.
Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
Qui la vita scorre come può. Sotto l’arciprete Filippo Sconduto (vedi sopra)
inizia la controversia per sottrarre Racalmuto all’indesiderata giurisdizione
dell’ingordo vescovo Traina e passarlo a quella del Metropolita di Palermo. Ci
informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae
Romae 13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol.
Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti
Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in
criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni
Gemini, Cammarata, Giuliana, Clusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene
delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in
Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato
montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La
notte, preso da raptus estraeva le
casse, le apriva, e ci si curcava sopra.
Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte
pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di
Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava
l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente
ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in
Vaticano questa importante documentazione, ma non ci siamo riusciti. Le carte
furono disperse dopo la presa di Porta Pia. Ma sappiamo dal Pirri che esse si
trovano presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in
registr....13 januar. [1632].” Tanto per
chi avrà voglia di cercarle. Qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma
quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio
1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il
seguito della faccenda, così ce la
racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem
litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter
Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su
tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere,
forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a
Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini,
caduti in un indegno crimine (indignitas
facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere
penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse
il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso
denaro (e già perché anche allora Roma era ...
Roma ladrona). Fatto sta che
immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che
Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto
deve tornare come prima: ad pristinum
rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini terrae
Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi
nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro
«il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto
un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del
Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere
feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto
notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta
iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti
notabili:
Universitas terrae et comitatus
Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae
terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus
Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae
terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente
congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto
Troiano, Pietro Alfano ed il medico Dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque
non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria,
un provvidenziale decreto viceregio impone sgravi fiscali ed accorda altre
agevolazioni ai borgesi racalmutesi
che si cerca di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni
feudali: ([3])
Il Viceré comunica ai Giurati delle
terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO,
Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le
istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere
viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale
1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si
legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni,
Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato
la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus etc.
Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus
Juratis terre Bibone Racalmuti
fidelibus regi dilectis salutem.
Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari et
arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè
quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et
convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo
commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al
dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per
l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar
soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di
Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per
ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi
futuri e per il governo delli seminati e terre
et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del
soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et
haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli
feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che
detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di
denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in
caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di
formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse
habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò
faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno
cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [[4]] et che
per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi
dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o
terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno
esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino loco
habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che
si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare
quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il
soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo
suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene
inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato
il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio
a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e
senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et
massari della [contea di Racalmuto] osserverete er essequirete tutto quello et
quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la
diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto
benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose
premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la
gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox
clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più
commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa
Rosalia.
Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano
davvero nelle condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O
era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un
tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era
succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi
giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino
Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor
meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente
Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono
assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae
Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del
fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare
l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per
quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina
come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24
anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà
la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643);
altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e
Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel
1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel
settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo
costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del
Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata
corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi
Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo,
diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri
contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un
pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in
favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che
appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate
dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è
questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane
arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo
d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus
Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti
quondam Dn. Sancti de Agrò. Che
cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora
dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le
tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre
- che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali,
entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano
mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del
defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete
addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto
l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal
signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il
Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag.
143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A
dire il vero l’alumbriamento più che
nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani
scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco
Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale,
con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai
limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del
Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro
quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una
secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni.
Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna
Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di.
questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu
sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è
persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo
Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa
di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in
orripilanti caratteri bronzei, peracri
ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa
il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione
sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante,
non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della
Sicilia.
L’interregno di Maria Branciforti
Eseguita la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto
furono prontamente requisiti. La Corte però non li trattiene: li concede alla
vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto
e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San
Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655,
Racalmuto torna in potere dei del Carretto.
Il privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma
anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più
munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto
andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un
errore dei curiali di Palermo.
Donna Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650
vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di
usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo documento che si
conserva alla Gancia di Palermo:
(Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina
oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3
e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di
Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione
del 5% il capitale spetta onze 6000;
inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che
tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d.
Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve
a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e
Beatrice di cui ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto
della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre
era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era
malaticcio; premorì al padre ed Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto;
Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del
defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe
mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di
una tal Macaluso - in mano dei Gaetani.
Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con
la morte del padre, la vita a Palermo dovette essere ardua. Così la vedova con
i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono
gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in
Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa
composizione:
1625 LA
CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO
C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA
ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO
C.TA
Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da
qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva.
S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica
nelle elemosine.
La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina”
di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze)
lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10
marzo 1660.
Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad
Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi
nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei
pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si
era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo
araldico:
«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV
ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S.
Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu
esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13
novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si
reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V
Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra
LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca).
Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina
(1674)[5]; Vicario Generale Viceregio a Noto,
Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di
Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale
era stato anche per lui irresistibile.
Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio
ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San
Giovanni di Dio.
E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia
fondazione. [6] Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA Della fondazione di
questo nostro Convento..." "ANNO
1693" Nell'anno 1693
l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO
E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO E LANZA sua
moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in
Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo
l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una
figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:
16.6.1670 Domina Joanna,
Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et
Branciforti comitis Racalmuti et
principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum
annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo
redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte
Carmeli in communione S. Matris Ecc,sie presente clero, congregationibus
confraternitatibusque et Senato. GRATIS
|
Sappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a
Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della
matrice:
906 10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR
HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE
IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO
ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni.
Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza.
Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi
forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli
50.
Girolamo III del Carretto acquisisce contorni di litigiosità con i dati
che emergono dal Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. [7]
Il conte ha modo di dire di sé:
Ex ditto d. Joanne natus est
illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte,
illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta
terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta
terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die
decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua
melius etc.
Il feudo di Racalmuto a fine del ’600
Ed ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:
Item ponit et probare intendit non
se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto
in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme
setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme
seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e
salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni,
trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli
dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra
[134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
1. delli Gibillini e feghi
2. delli Cometi;
3. e fegho delli Bigini;
4. del fegho di Zalora;
5. del fegho di Scintilìa;
6. del stato e ducato delli Grotti;
7. del fegho e principato di Campofranco;
8. e fegho della Ciumicìa
e altri confini ...
Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti
racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.
Item ponit et probare
intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo
seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo,
Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco,
Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di
Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra
stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et
nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt
etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - -
-
Non sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del
Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso
conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva
dotato della contea ancor prima della sua stessa propria morte.
Girolamo III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui
l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva
potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni
di fregi appariscenti.
Religione,
clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura
don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina
subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e
deve emigrare. Lo segue uno stretto
parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e
con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in
Matrice. Già nel 1649, il nuovo
arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è
felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di
nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è
impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i
figli dell’infelice Giovanni V del
Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi
del riottenimento dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto
tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è
detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è
prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo
Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito
mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della
chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili,
il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per
conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di
novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore
Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal
vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal
vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità
diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de
Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo
mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla
fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in
Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova
sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione
della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a
titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre
1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200
onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di
cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 -
avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di
architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi
sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino,
come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli
atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius
matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto
l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un
racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per
lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il
dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno
profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella
centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta
un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote
che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale
ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto -
regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657).
Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte
(17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre
1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2
maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra
durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto
1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715
(fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo
atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale
controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale
fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il
profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e
sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il
vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento
della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto
all’incauto comportamento di alcuni catapani
che avevano tentato di applicare
l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene -
del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente
per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia
Apostolica).
Se, un moribondo
- ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in
stato di semplice attrizione, dunque,
avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli,
era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia
agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i
tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono
in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a
Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez,
d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero
al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13
settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale,
delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di
Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò
il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe
Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la
diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte
della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del
vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete
del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche
con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i
non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi
davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al
di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità
alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo”
godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto
- finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non
dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare
l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che
accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro
Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col
vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele
Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la
bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto
analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr.
Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato
M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale
congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al
presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la
Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il
povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella
calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello
economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi
morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva
drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a
racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato
per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che
rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il
neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del
padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di
“paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento
degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed
in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e
delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato
convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di
Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di
Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata
finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando
fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio
ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro
le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva
nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che
a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto
matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su
quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il
figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i
cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi
dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo,
passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la
parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe
del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e
BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella
guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo
difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de'
Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu
eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone.
Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di
camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e
poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di
GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
[1])
Archivio di stato di Palermo - Fondo archivistico Palagonia - Serie Fondi
Privati - UNITA’ n.° 636 ff. da 372r a 390r
[2]) Da Giuseppe Nalbone: Santa
Rosalia (dattiloscritto 1994): pag. 8:
«Che i del Carretto fossero devoti a S. Rosalia è anche dimostrato dal fatto
che le figlie del Conte di Racalmuto Girolamo, Margherita e poi Diana,
Ippolito, Giovanna, Emilia, fondarono in Palermo, intorno al 1643, un Monastero
intitolato alla Santa, sotto le regole di S. Benedetto, eretto di fronte alla
Chiesa Parrocchiale S. Giovanni dei Tartari, e completato poi dal fratello
Aleramo, nella sede dove don Giovanni Bonfante sacerdote palermitano, nel 1625,
aveva già istituito sotto lo stesso titolo un conservatorio di donzelle
(Gioacchino di Marzo. Biblioteca Storica Letteraria vol. XIII pag. 287)..
[3]) Documenti per servire alla
storia di Sicilia - SECONDA SERIE - FONTI DEL DIRITTO SICULO VOL VII - PA 1911 - PAG.
129 XIII - Palermo 6 ottobre 1639, VIII Ind.
[4]) terratico: la somma per l'affitto di un terreno. In Sicilia, il
terratico si corrispondeva in natura, con parte del raccolto del grano.
[5] ) Giovan Battista CARUSO, Memorie Storiche di Sicilia, volume II, parte
III, pag. 132 e seguenti.
[6] ) Archivio di Stato di
Agrigento - Soppresse Corporazioni
Religiose - Inventario n. 46 - fascicolo 532.
[7] )
ARCHIVIO DI STATO PALERMO Fondo archivistico Palagonia - Serie Fondi Privati -
UNITA’ n.° 631 ANNI 1502-1706 Pagine da 126 a p. 143v
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