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NATURALMENTE IO NON CONDIVIDO MA QUESTO NON MI IMPEDIRA' DI VOTARE E FARE VOTARE LeU DI GRASSO O ANCHE DI D'ALEMA SE E'' PER DARE UN DISPIACERE A RENZI


Politica
Pubblicato il 2 febbraio 2018 | di Liberi e Uguali
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Banche: Liberi e Uguali presenta documento alternativo alla relazione Commissione
2 febbraio 2018
Si è svolta il 30 gennaio, presso la sala stampa di Montecitorio, la conferenza stampa di presentazione del documento alternativo di Liberi e Uguali alla relazione finale della commissione d’inchiesta sul sistema bancario. Nel corso della conferenza stampa sono state presentate le proposte di Liberi e Uguali sulle banche e sul sistema finanziario del nostro Paese. Erano presenti Nicola Fratoianni, Vincenzo Visco e i componenti della commissione di inchiesta sulle banche Davide Zoggia, Giovanni Paglia e Maurizio Migliavacca.
Qui di seguito trovate il testo integrale del documento presentato a cui ha collaborato il Nens.
1. LA CRISI BANCARIA IN ITALIA
Le crisi bancarie scoppiate in Italia negli ultimi anni sono state causate dalla duplice recessione del 2008 e del 2011. Il peggioramento della congiuntura ha fatto emergere anche pratiche di cattiva gestione che avevano minato anno dopo anno la solidità di alcune importanti banche. Il cambiamento delle regole europee, che hanno messo al centro la tutela del contribuente, ha impedito una gestione veloce ed efficace delle crisi.
All’inizio della crisi finanziaria globale le banche italiane avevano poco capitale e le loro politiche di gestione del credito erano inadeguate. Tuttavia hanno retto bene all’impatto. Da allora l’Italia ha vissuto la più grave recessione della sua storia in tempi di pace. La nostra economia, che doveva già affrontare debolezze strutturali croniche, ha sofferto in particolare gli effetti della crisi del debito sovrano cominciata nel 2010 quando fu portata alla luce la situazione reale delle finanze pubbliche in Grecia. Per finanziarsi i Paesi del Sud Europa hanno dovuto sopportare costi crescenti mentre sui mercati finanziari si diffondevano i timori di disgregazione dell’euro.
Le tensioni registrate sul mercato dei titoli di Stato si estesero alle banche. La loro capacità di accedere ai finanziamenti internazionali fu compromessa, con l’effetto di innescare un credit crunch ovvero una riduzione nell’offerta di credito. L’economia italiana si trovò pertanto in una terribile morsa: da un lato la stretta fiscale necessaria per tranquillizzare i mercati del debito pubblico, dall’altra la stretta creditizia provocata dalle difficoltà di finanziamento delle banche. La minore disponibilità di prestiti alle imprese e le debolezze strutturali dell’economia italiana hanno innescato una seconda recessione.
Nel 2012-2013 i fallimenti delle imprese e la disoccupazione aumentarono significativamente, con la conseguenza di far impennare il rapporto tra crediti in sofferenza e crediti totali. Tra il 2007 e il 2013 il rapporto tra sofferenze e crediti è triplicato. Non ha aiutato il fatto che in Italia le procedure giudiziarie di recupero dei crediti siano estremamente lunghe; lo stock dei crediti non-performing tende così ad aumentare. Se i tempi di recupero fossero allineati alla media europea lo stock di Npl sarebbe circa la metà di quello attuale.
Si può quindi considerare in qualche misura “fisiologica” l’esplosione dei crediti non-performing date le caratteristiche strutturali dell’economia e della finanza italiana, data la lentezza del sistema giudiziario e dato anche lo scarso sviluppo del mercato secondario degli Npl dove pochi operatori fanno il bello e il cattivo tempo grazie al potere oligopolistico di cui dispongono.
Mentre tutto questo accadeva in Italia l’Europa si stava dotando di una nuova governance: regole fiscali più rigide e nuove istituzioni per gestire l’Unione bancaria. La politica monetaria diventava molto espansiva sia per gestire le difficoltà del momento sia per consentire che le riforme andassero a regime.
L’Unione Bancaria va considerata un passo avanti nella giusta direzione ma è stata realizzata troppo velocemente e finora ha prodotto un’architettura istituzionale molto complicata. E ancora oggi incompleta. Le principali novità regolatorie (Banking Communication dell’1 agosto 2013 e la direttiva Brrd, Bank Recovery and Resolution Directive, del 2014 sulla gestione delle crisi) restringono lo spazio dei governi per far fronte alle crisi bancarie con fondi pubblici, introducendo il principio del burden sharing prima e del bail-in poi.
Che cosa è successo in Europa? Tra il 2007 e il 2011 il sostegno finanziario dei governi alle banche è stato significativo in molti Paesi: 48 per cento del Pil in Irlanda, 11 per cento in Germania, 7 per cento in Olanda e in Belgio. In Italia solo lo 0,2 per cento proprio perché le banche italiane erano poco esposte ai prodotti finanziari strutturati che avevano innescato la grande crisi del 2007.
Poi però il quadro è cambiato. La seconda recessione, con i fallimenti delle imprese e la disoccupazione, ha fatto esplodere gli Npl in Italia. Sarebbe stata necessaria una bad bank di sistema, un veicolo dove far confluire a prezzi ragionevoli tutti i crediti deteriorati per smaltirli gradualmente in modo efficiente. Ma il progetto è stato bloccato dalla Commissione europea, con la sua posizione contraria agli aiuti di Stato.
Prima dell’entrata in vigore della direttiva Brrd la Banca d’Italia ha risolto, tra il 2011 e il 2015, 36 casi di amministrazione straordinaria: 17 volte sono state messe a punto soluzioni di mercato, negli altri casi si è fatto ricorso alla liquidazione coatta amministrativa. Erano tutte banche piccole, con asset pari allo 0,2 per cento del sistema. Altre crisi sono state risolte in silenzio mentre il numero complessivo delle banche scendeva di 100 unità (soprattutto per la fusione o la liquidazione di banche di credito cooperativo).
Poi è arrivata la Brrd. Nel 2015 quatto banche regionali commissariate (che rappresentavano l’1 per cento dei depositi del sistema bancario) sono state risolte, con il burden sharing. La Commissione europea in quella circostanza ha negato all’Italia la possibilità di usare il Fondo di tutela dei depositi sostenendo che sarebbe stato un aiuto di Stato. Le perdite sono state quindi coperte (3,6 miliardi cash e 400 milioni di garanzie) con il Fondo di risoluzione nazionale che, pur essendo finanziato dal sistema bancario, è stato considerato un aiuto di Stato a sua volta. Una decisione, quella della Commissione Ue, cui il governo italiano si sarebbe dovuto opporre in modo molto più deteminato, anche a livello giurisidizionale. Alla fine la parte sana delle banche risolte è stata ceduta (a un prezzo negativo e senza crediti deteriorati) a due grandi gruppi (Ubi e Bper).
Prolungate trattative con l’Europa e cessione “con dote” sono destinate a diventare una costante nella gestione delle crisi bancarie. La stessa cosa è infatti successa con Veneto Banca, Popolare di Vicenza e Mps. Nel giugno 2017 le due popolari venete di medie dimensioni sono state messe in liquidazione perché sul mercato non sono stati trovati capitali privati sufficienti a coprire le perdite. Sono state sottoposte non alla risoluzione ma alla liquidazione secondo la normativa italiana. L’utilizzo di fondi pubblici (4,8 miliardi cash e 12 miliardi di garanzie) è stato consentito per favorire la ristrutturazione delle due banche dopo l’acquisizione da parte di Intesa Sanpaolo che manterrà così intatti i suoi livelli di capitalizzazione. Senza il sostegno pubblico (che dovrebbe essere recuperato con la graduale cessione degli asset rimasti alla liquidazione) 100 mila piccole e medie imprese e 200 mila famiglie sarebbero state costrette a rimborsare immediatamente i loro debiti. Con il burden sharing gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati hanno partecipato alle perdite.
Il 4 luglio 2017 la Commissione europea ha approvato una ricapitalizzazione precauzionale, cioè con soldi pubblici, del Mps per evitare le pericolose conseguenze della risoluzione di una banca così grande. La ricapitalizzazione per 8,1 miliardi è stata effettuata in parte dallo Stato (3,9 miliardi) e in parte (4,2 miliardi) attraverso la conversione in azioni di obbligazioni subordinate soggette al burden sharing. Ai risparmiatori che detenevano obbligazioni subordinate è stata proposta la conversione in obbligazioni senior di importo equivalente: lo Stato se ne è fatto carico fino a un massimo di 1,5 miliardi. In totale, quindi, il Tesoro, spendendo 5,4 miliardi nel complesso, si troverà a detenere una partecipazione pari a quasi il 70 per cento di un Mps con livelli patrimoniali simili a quelli dei concorrenti e con un piano di ristrutturazione che prevede la cessione delle sofferenze e il ritorno a condizioni di redditività soddisfacenti. Si prevede che tra cinque anni la partecipazione del Tesoro potrà essere ceduta sul mercato.
Nel complesso le soluzioni individuate hanno dovuto confrontarsi con evidenti vincoli. L’uso di fondi pubblici, indispensabile per affrontare i fallimenti del mercato quando raggiungono dimensioni importanti, è stato possibile, per esempio, solo con grande ritardo. La molteplicità e lo scarso coordinamento delle authority coinvolte non hanno inoltre giovato alla tempestività degli interventi che avrebbe sicuramente consentito di alleviare ulteriormente i danni. Non si è ancora definito come sia possibile utilizzare fondi pubblici comunitari per le banche in difficoltà. E non c’è ancora uno schema europeo di assicurazione dei depositi. In generale va superata la sfiducia reciproca che serpeggia tra i vari Paesi europei per quanto concerne i rispettivi sistemi bancari.
Malgrado tutto ciò l’utilizzo di risorse dello Stato alla fine è risultato abbastanza limitato rispetto ad altri Paesi. I depositanti e gli obbligazionisti senior sono stati tutelati come pure, in ampia misura, i risparmiatori che avevano acquistato obbligazioni subordinate. Il Mps ha un futuro e le altre banche in difficoltà hanno ripreso a operare all’interno di gruppi solidi. La grande maggioranza dei dipendenti non ha perso il suo posto di lavoro e i piani di ristrutturazione avviati sarebbero stati comunque necessari per mantenere un’adeguata redditività. Le famiglie e le imprese non hanno dovuto restituire i prestiti ricevuti.
2. LE QUATTRO BANCHE
Le quattro banche poste in risoluzione il 22 novembre 2015 avevano matrici diverse: la Banca Etruria era una popolare quotata, Marche, Chieti e Ferrara erano tre ex-casse di risparmio trasformate in società per azioni, controllate da una fondazione e non quotate in Borsa.
La loro crisi ha tuttavia origini comuni: governance inadeguata, politiche di erogazione del credito imprudenti, comportamenti irregolari. La proprietà non ha selezionato opportunamente e non ha controllato il top management; il Consiglio di amministrazione e il management non hanno gestito secondo principi corretti; i meccanismi di controllo interno non hanno funzionato.
In tre casi è stata una vera e propria strategia delle Fondazioni, che volevano conservare un ruolo dominante, rifiutando il ricorso al mercato dei capitali e osteggiando qualsiasi aggregazione. Quanto alla Popolare dell’Etruria, un azionariato frazionato a causa del voto capitario in vigore prima della riforma delle Popolari ha favorito la più totale autoreferenzialità dei vertici aziendali, anche di fronte a una situazione sempre più critica.
I crediti deteriorati delle quattro banche hanno raggiunto, in tempi diversi, percentuali almeno doppie rispetto a quelle del sistema bancario, determinando tensioni di liquidità e pesanti perdite patrimoniali. Dal 2008 fino al commissariamento la Vigilanza ha condotto 18 ispezioni nelle quattro banche. Gli episodi di cattiva gestione riscontrati e descritti nei rapporti ispettivi, oltre che nelle segnalazioni alla magistratura, sono al di là dell’immaginabile: un amministratore delegato che finanziava la moglie, un ex autista che dettava legge, concentrazione dei finanziamenti, remunerazione dei vertici fuori da ogni logica, contabilizzazioni disinvolte. Risultato? Perdite a rotta di collo e indebolimento patrimoniale mentre i potentati locali, di fronte all’esigenza di immettere capitali freschi, si dileguavano.
Sono stati chiesti dalla Vigilanza: piani di rafforzamento patrimoniale, ricambio degli organi amministrativi e di controllo, l’aggregazione con altre banche. Le risposte delle quattro banche alle sollecitazioni della Vigilanza sono state insoddisfacenti: i rafforzamenti patrimoniali non si sono talvolta nemmeno realizzati; i ricambi degli esponenti vertice non ne hanno migliorato i comportamenti; la cocciuta difesa dell’autonomia ha scoraggiato la ricerca di potenziali acquirenti.
A quel punto è stato inevitabile ricorrere al commissariamento. I commissari hanno cercato soluzioni di cessione sul mercato ma senza successo in un momento non favorevole: crisi congiunturale acuta, perdita di valore degli sportelli, innovazioni normative a livello europeo e incertezze legate all’Unione bancaria. Nessun altro gruppo bancario era interessato a rilevare le quattro banche nonostante l’elevata quota di mercato che controllavano nel loro territorio.
La strada del Fondo interbancario di tutela dei depositi è stata bloccata dalla Commissione europea, che ha assimilato l’intervento del Fondo interbancario obbligatorio a un aiuto di Stato sebbene il Ministero dell’Economia abbia insistito sulla natura privatistica del Fondo. Il governo italiano ha impugnato la decisione alla Corte di giustizia europea che deve ancora pronunciarsi. In ogni caso, sarebbe stato utile proceder comunque, e poi, in presenza di una pronuncia negativa, fare ricorso.
Il rapido deterioramento della situazione patrimoniale e della liquidità delle quattro banche ha imposto di procedere alla loro risoluzione, recepita nel nostro ordinamento a metà novembre 2015. É stato un provvedimento gravoso per gli azionisti, per i portatori di obbligazioni subordinate (in parte successivamente ristorati), per il sistema bancario. Sono state tuttavia così evitate due soluzioni alternative ben più distruttive: il bail-in o la liquidazione coatta. Il bail-in sarebbe divenuto obbligatorio dal 1° gennaio 2016 e avrebbe colpito, oltre ai possessori di strumenti subordinati, anche buona parte dei depositi non protetti dal Fondo di tutela. La liquidazione coatta sarebbe stata inevitabile se la Brrd, la direttiva europea sulla gestione delle crisi bancarie, non fosse stata recepita. In assenza di un soggetto in grado di rilevare gli intermediari in crisi, la liquidazione avrebbe interrotto funzioni critiche, quali i pagamenti, con effetti dirompenti su imprese e famiglie; il sistema bancario sarebbe dovuto intervenire per rimborsare quasi 13 miliardi di depositi protetti.
Nella procedura di risoluzione risalta il ruolo dominante della Direzione generale per la Concorrenza della Commissione Ue nel determinare il valore di mercato (17,7% del nominale) delle sofferenze delle banche da cedere alla Rev (la bad bank costituita all’uopo).
L’ultimo atto di questo lungo percorso è stato, tra maggio e giugno 2017, la vendita delle quattro banche a Ubi e Bper. Il sistema bancario si è fatto carico di cospicui oneri attraverso il Fondo di Risoluzione.
Restano due misteri.
1) Il capo della Vigilanza della Banca d’Italia Carmelo Barbagallo ha raccontato alla Commissione che nella primavera del 2015 la Banca d’Italia ha elaborato delle proposte di soluzione della crisi delle quattro banche nel caso l’utilizzo del Fitd non fosse stato possibile. Il recepimento della Brrd sarebbe avvenuto solo il 16 novembre 2015, 11 mesi dopo il termine fissato. Ebbene in quella circostanza, secondo Barbagallo, è stata proposta l’introduzione in via legislativa degli elementi minimi essenziali della direttiva necessari a consentire l’intervento sulle quattro banche nel rispetto della normativa comunitaria. Quali? Vengono ipotizzati interventi normativi volti a consentire l’adozione di misure di sostegno pubblico da adottare nel caso la situazione tecnica delle banche fosse precipitata; compresa anche una ripatrimonializzazione diretta da parte dello Stato in favore di banche in dissesto o a rischio di dissesto, previa applicazione di misure di “burden sharing” (soprattutto conversione in azioni di obbligazioni subordinate), in linea con la normativa europea in materia di aiuti di Stato. Secondo Barbagallo, è stato predisposto uno schema di provvedimento legislativo che non è poi stato finalizzato. Perché?
2) Come mai il governo Renzi non è riuscito a strappare alla Commissione Ue nessuna concessione sulla risoluzione delle quattro banche? Quale capacità negoziale ha dimostrato di avere se non ha minimamente scalfito la posizione del presidente Juncker e della commissaria Vestager sull’utilizzo del Fitd?
Più nel dettaglio grande attenzione è stata dedicata all’affermazione del procuratore di Arezzo Enrico Rossi che ha parlato di “singolare pressione della Banca d’Italia sui vertici di Etruria perché si facessero acquisire dalla Popolare di Vicenza”. Come a dire che via Nazionale volesse far salvare una banca moribonda da un’altra che, come si è visto in seguito, non era messa molto meglio. A questa osservazione che appare come un giudizio di valore alquanto gratuito, ha risposto Barbagallo: Vicenza, fino all’ispezione del 2015 quando sono emerse irregolarità molto gravi, aveva un’eccedenza patrimoniale e si preparava a raccogliere altro capitale, anche per valutare tutti i dossier che si presentavano sul mercato da Spoleto a Ferrara, Puglia e Basilicata, Tercas. Nessuna di queste operazioni si è tramutata in un’istanza di acquisizione. Per la Banca d’Italia in quel momento Vicenza era una banca nella media. Anche il giudizio ispettivo è un giudizio di 4 su 6, rispetto per esempio a Veneto Banca dove è di 5 su 6. Insomma ancora le magagne non erano venute fuori e questo è, effettivamente, uno dei maggiori punti di debolezza della Banca d’Italia nelle vicende di questi anni.
Al contrario il consiglio di amministrazione di Etruria aveva dichiarato in tutte le sedi di voler difendere i valori aziendali e il radicamento territoriale, marchi, personale e autonomia della banca. Eppure la Vigilanza nel dicembre del 2013 aveva detto alla banca, secondo quanto riferito da Barbagallo: non pensare più all’autonomia, pensa a salvarti, a integrarti con chi ti pare pur di salvarti. Detto questo, si è proceduto al commissariamento nel febbraio 2015 perché il patrimonio si è azzerato, non per la mancata fusione con Vicenza o altri.
Le considerazioni del procuratore Rossi suscitano una qualche perplessità perché le presunte pressioni della Banca d’Italia non risultano da nessun atto.
3. IL CASO BOSCHI-ETRURIA E L’INSIDER TRADING
La vicenda della Banca Etruria e dell’attivismo del ministro Boschi ha avuto una grande risonanza e ha suscitato molte polemiche. E in effetti essa riveste un notevole rilievo politico, pur risultando sostanzialmente marginale rispetto alle situazioni esaminate e al dibattito tecnico svoltosi nella Commissione di inchiesta.
La dinamica dei fatti risulta la seguente:
· il 21 febbraio 2014 nasce il Governo Renzi; pochi giorni dopo, a marzo, ha luogo a Laterina l’incontro tra Pier Luigi Boschi, la figlia ministro, il Presidente di Etruria Fornasari e i vertici di Veneto Banca per discutere del problemi e delle difficoltà dei due Istituti. La presenza del ministro, al di là di ogni assunzione formale di impegni (che in quella sede non risulta), rappresenta per gli interlocutori la garanzia di un collegamento e di una attenzione diretta da parte del Governo sui problemi delle due banche e rafforza la posizione di Boschi padre all’interno del gruppo dirigente di Etruria:
· ad aprile il Presidente del Consiglio Renzi durante un incontro con il Governatore Visco, presenti il ministro Padoan e il sottosegretario Delrio, chiede informazioni sulla (sola) Banca Etruria in relazione alla proposta di acquisizione avanzata dalla Banca popolare di Vicenza, lamentando possibili conseguenze negative per gli orafi di Arezzo e mostrando così una visione provinciale (e preoccupante) delle funzioni di una banca e delle modalità di erogazione del credito quasi che fosse normale che esso possa essere orientato, forzato e distorto da valutazioni di carattere “politico”;
· lo stesso argomento viene usato dal ministro Boschi, sempre ad aprile 2014, nel primo incontro a Milano col Presidente della Consob Vegas, il quale spiega che la Consob non è competente in materia di fusioni e acquisizioni di banche. In realtà la Popolare di Vicenza proprio in quei giorni avrebbe potuto lanciare l’Opa sull’Etruria se gli aretini avessero accettato. E Vegas poteva avere voce in capitolo dal momento che spetta alla Consob autorizzare l’Opa. Seguono altri incontri, e tra i due si crea una certa confidenza tanto che la Boschi preannuncia a Vegas la nomina di suo padre a vicepresidente di Banca Etruria. E’ in questa veste che ai primi di maggio Boschi padre si reca a Roma a incontrare un personaggio inquietante e ben noto alle cronache criminali e giudiziarie del Paese, l’affarista massone Flavio Carboni, a cui chiede indicazioni e consigli per la nomina di un direttore generale per Banca Etruria; e, a ben vedere, questo è l’aspetto più sconcertante e preoccupante dell’intera vicenda che evidenzia il contesto in cui si collocava e si muoveva la Banca e il suo gruppo dirigente;
· dopo alcuni mesi di tregua e dopo che in maggio la Banca Popolare di Vicenza aveva formalizzato una proposta di acquisto di Etruria rifiutata dagli aretini, agli inizi di novembre, prima dell’inizio del l’ultima ispezione di Banca d’Italia a Etruria (iniziata il giorno 11), il ministro Boschi incontra su sua richiesta il vicedirettore della Banca d’Italia Panetta cui esprime le sue preoccupazioni per la banca e chiede informazioni in proposito, non ottenendo nessun riscontro positivo in quanto Panetta si attiene rigorosamente alla lettera della legge che prevede che su questioni relative a crisi bancarie l’unico contatto tra Bankitalia e Governo possa aver luogo tramite il ministro dell’Economia;
· venuta meno l’ipotesi Vicenza, Etruria si rivolge a Unicredit ai fini di una possibile acquisizione, e ai primi di dicembre si svolgono in proposito incontri tra i vertici delle due banche e i loro advisor; di certo non casualmente il 12 dicembre Maria Elena Boschi incontra Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, per sollecitare la sua attenzione a favore della acquisizione di Etruria,e ai primi di gennaio, mentre l’ispezione era ancora in corso, promuove un nuovo incontro con Panetta;
· il 13 gennaio Ghizzoni riceve un sms da Marco Carrai, consulente e amico del presidente del Consiglio, con cui su richiesta di qualcuno e “nel rispetto dei ruoli” si sollecita una risposta su Etruria; è del tutto evidente che la richiesta ricevuta da Carrai non può che essere di origine politica, come si ricava dal richiamo alla distinzione dei ruoli, e comunque è così che Ghizzoni la interpreta e la valuta, ed è questa l’unica cosa che conta ai fin i dell’indagine della Commissione;
· sempre a gennaio risulta una telefonata del sottosegretario Delrio al Presidente della Banca Popolare dell’Emilia Romagna per verificare la posizione della banca nei confronti di un’eventuale acquisizione di Etruria. La risposta è negativa;
· da notizie di stampa risulterebbe infine che il 5 febbraio 2015, sia stato manifestato in modo informale un interessamento da parte del fondo Algebris di Davide Serra per Banca Etruria che tuttavia non ha avuto seguito;
· la vicenda si conclude con il commissariamento l’11 febbraio 2015 della Banca popolare dell’Etruria.
In conclusione è evidente una continua, costante e prioritaria attenzione da parte del Governo, a cominciare dal Presidente del Consiglio e dei suoi amici più stretti, e in particolare del ministro Boschi a favore di una unica banca in crisi: la Popolare dell’Etruria. Se questi interventi possano essere definiti pressioni, o semplici “indicazioni”, o manifestazioni di preoccupazione, appare sostanzialmente irrilevante, in quanto qualsiasi interessamento dei vertici del Governo o di ministri autorevoli su una specifica questione assume inevitabilmente agli occhi dell’interlocutore il significato di una esplicita sollecitazione, perché di questo si tratta, a favore di un’unica banca tra le diverse entrate in crisi, scavalcando le competenze del ministro dell’Economia, e creando non poco imbarazzo presso gli interlocutori: per i vertici del Governo l’intera crisi bancaria italiana si concentra tra Arezzo e Laterina, tutto il resto non conta o conta molto di meno rispetto al salvataggio della “banca del territorio”, come se non esistessero altre banche e altri territori egualmente colpiti.
Si è discusso del conflitto di interessi della Boschi. Esso è ovvio, evidente e manifesto per numerose ragioni, a cominciare da quelle familiari: il padre e il fratello sono infatti impegnati nella banca. Inoltre il ministro non ha competenze specifiche in proposito e il particolare legame col territorio (proprio l’argomento che si porta a discarico) fa venir meno l’imparzialità che un ministro deve manifestare nei confronti degli operatori economici di tutto il Paese, lasciando ai normali parlamentari il compito di occuparsi delle questioni “di casa”. Infine è verosimile, anzi probabile, che l’intervento della Boschi sulle autorità di vigilanza sia avvenuto con la piena consapevolezza e il pieno sostegno del Presidente del Consiglio, ed è un peccato che la Commissione non abbia avanzato richieste specifiche in proposito.
Ma la cosa più grave sono ovviamente le dichiarazioni in Parlamento del ministro per le Riforme Istituzionali nelle quali si negava ogni ingerenza o invasione di campo sulla questione di Banca Etruria. Senza queste dichiarazioni l’intera vicenda avrebbe assunto contorni molto meno drammatici.
Così come lasciano interdetti le dichiarazioni del ministro Padoan secondo cui egli avrebbe appreso solo dalla stampa delle attività che si svolgevano intorno a Banca Etruria. Queste dichiarazioni non depongono a favore di una sua particolare consapevolezza e presenza nella gestione della crisi che doveva essere sotto il pieno controllo del suo ministero.
Il mancato salvataggio di Banca Etruria secondo le indicazioni e gli auspici del Governo sono chiaramente all’origine degli atteggiamenti di dura ritorsione assunti subito dopo il commissariamento di Etruria dal Governo Renzi nei confronti della Banca d’Italia e del Governatore Visco e che sfociano nella mozione del PD alla Camera contro la riconferma del Governatore, atto senza precedenti nella sua irritualità, non solo immotivato, ma politicamente imprudente dato che tutti sapevano che Gentiloni e Mattarella erano orientati in senso contrario. Analoga è la vicenda del trattamento da riservare ai deferred tax asset che interessava soprattutto Unicredit, penalizzata per 250-300 milioni dalla mancata approvazione di una norma concordata e condivisa dal Tesoro, dalle banche e anche in sede europea, ma bloccata a lungo da Palazzo Chigi, fin quando Gentiloni non è subentrato a Renzi. Si tratta di comportamenti infantili e irresponsabili che tuttavia rendono manifesta una visione del potere esercitato come comando e improntato alla più totale discrezionalità, senza controlli e limitazioni. Un’ulteriore conferma dell’inadeguatezza di questo gruppo dirigente a gestire il Paese.
Un’altra vicenda preoccupante riguarda i sospetti di insider trading in occasione del varo del decreto di trasformazione delle banche popolari in spa (decisione presa dal consiglio dei ministri il 20 gennaio 2015). In quell’occasione si verificò, subito prima del varo del provvedimento, un rilevante aumento del valore di borsa delle azioni delle popolari per un incremento complessivo valutato del Presidente della Consob Giuseppe Vegas in circa 10 milioni di euro. L’incremento maggiore si verificò per la Banca Popolare dell’Etruria: +60%.
Il fatto che ci siano stati episodi di insider trading è evidente, ed è comprovato dalla vicenda che ha visto coinvolto Carlo De Benedetti. La speculazione della Romed in pochi giorni ha fruttato 600mila euro con un investimento di 5 milioni. Sebbene sembri che non possa concretizzarsi un’ipotesi di reato, anche per il fatto che De Benedetti si era protetto con un derivato dall’eventualità che l’investimento fosse in perdita, l’operazione è indice per lo meno di grave superficialità e della tendenza del Presidente del Consiglio a discutere senza la necessaria prudenza di argomenti sensibili e riservati con persone ritenute “amiche”, ma portatrici di interessi personali, in un contesto di scambi di favori più che preoccupante.
Oltre che a carico di De Benedetti, la Consob ha svolto anche altre indagini che hanno visto coinvolto il fondo Algebris di Davide Serra, senza riscontrare comportamenti rilevanti ai fini dell’indagine stessa. Tuttavia, resta il fatto che chi avesse effettuato acquisti dei titoli di Banca Etruria sulla base di informazioni riservate poche settimane prima del commissariamento (giunto del tutto inatteso l’11 febbraio 2015) della stessa senza realizzare subito la plusvalenza derivante dall’immediato aumento dei corsi della banca dopo il decreto, avrebbe fatto un pessimo affare e perso molti soldi, e quindi avrebbe avuto motivi di risentimento nei confronti degli autori del commissariamento.
Si tratta di un insieme inquietante di indizi univoci e concordanti.
4. LE BANCHE VENETE
Le crisi della Banca Popolare di Vicenza (BPV) e della Veneto Banca (VB) presentano molti aspetti comuni. Anche nel caso di queste due popolari, come a Banca Etruria e come nelle banche controllate da fondazioni (Mps, Cassamarche, Chieti, Ferrara), al vertice si era consolidato un gruppo di potere che vantava solidi legami con l’imprenditoria, la politica e la magistratura locali.
Delle vicende delle due Popolari venete l’opinione pubblica ha cominciato a occuparsi quando si è saputo delle indagini avviate dalla magistratura che riguardavano sia le modalità di determinazione del prezzo delle azioni sia i finanziamenti concessi dalle banche alla clientela per la sottoscrizione delle azioni della banca medesima.
Il codice civile attribuisce la responsabilità di fissare il prezzo delle azioni all’assemblea dei soci, su proposta degli amministratori. La Banca d’Italia non ha alcun potere diretto e non adotta provvedimenti su questa materia. Tuttavia la Banca d’Italia ha più volte invitato entrambe le banche a dotarsi di procedure trasparenti e di criteri obiettivi per attribuire un prezzo alle azioni, senza con questo sottrarre agli organi aziendali, in particolare all’assemblea, la responsabilità di determinare quel prezzo.
Il secondo punto riguarda la raccolta di capitale (e l’emissione di azioni) a fronte di finanziamenti erogati dalle stesse banche emittenti ai sottoscrittori delle azioni (cosiddette “azioni baciate”). Civilisticamente i finanziamenti eventualmente accordati da una banca a un cliente in coincidenza con l’acquisto da parte di quest’ultimo di azioni della banca stessa sono legittimi. A fini prudenziali, tuttavia, la normativa di settore prevede che le azioni acquistate grazie a un finanziamento della banca emittente non possono essere conteggiate nel patrimonio di vigilanza. Il patrimonio è infatti considerato da quelle regole come il primo cuscinetto di sicurezza per assorbire eventuali perdite per cui deve essere costituito da risorse vere, non sottoposte al rischio di essere vanificate da un finanziamento non restituito. Il legame fra acquisto e finanziamento non è rilevabile su base cartolare (ossia con verifiche “a distanza”): solo un’ispezione in loco, e solo se mirata, può rivelarlo, come è infatti avvenuto per entrambi gli intermediari.
Con l’avvio del Meccanismo di vigilanza unico (MVU), a partire dal 4 novembre 2014 la Banca centrale europea (BCE) è il soggetto responsabile della supervisione sui gruppi bancari “rilevanti”, in coordinamento con le autorità nazionali competenti (in Italia, la Banca d’Italia). L’attività di vigilanza viene svolta dai Joint Supervisory Team (JST), squadre composte da personale della BCE e della Banca d’Italia.
Veneto Banca. Nel caso di VB i primi segnali di scadimento della situazione tecnica vennero da accertamenti ispettivi condotti nel 2013 dalla Banca d’Italia. Gli ispettori rilevarono, tra l’altro, per la prima volta, il fenomeno delle “azioni baciate”: VB non aveva infatti dedotto dal patrimonio di vigilanza il capitale raccolto a fronte di finanziamenti erogati dalla stessa VB ai sottoscrittori delle sue azioni.
La Banca d’Italia chiese con una lettera la convocazione di una riunione degli organi aziendali che recasse all’ordine del giorno l’esame e la discussione della complessiva situazione aziendale sulla base delle risultanze ispettive, con l’assunzione delle conseguenti urgenti decisioni. Fu richiesta a VB una radicale svolta nei propri assetti di governance, mediante iniziative decise e tempestive in netta discontinuità con il passato, e l’avvio di un’azione correttiva tesa, tra l’altro al rafforzamento della posizione patrimoniale. In considerazione delle problematiche emerse, la Banca d’Italia richiese di pervenire, nel più breve tempo possibile, a un’operazione d’integrazione con altro intermediario di adeguato standing, che consentisse di avviare un percorso di riposizionamento strategico e di riequilibrio tecnico patrimoniale in un quadro di corrette dinamiche di governance. Tenuto conto di quanto emerso in sede ispettiva, la Banca d’Italia chiese in ogni caso di procedere al ricambio integrale degli organi amministrativo e di controllo.
A fronte dei rilievi contestati, nell’agosto 2014 la Banca d’Italia irrogò sanzioni pecuniarie nei confronti degli esponenti di VB per un ammontare complessivo pari a oltre 2,7 milioni di euro.
In sede di controdeduzioni nell’ambito del procedimento sanzionatorio, VB ammise la sussistenza del fenomeno delle “azioni baciate” rilevato negli accertamenti ispettivi, pur fornendone una ricostruzione significativamente più circoscritta e operando quindi solo parzialmente le richieste deduzioni dal patrimonio di vigilanza; la deduzione dell’intero importo, rilevato in sede ispettiva, non avrebbe comportato la riduzione dei livelli patrimoniali al di sotto dei limiti regolamentari allora vigenti.
Tenuto conto delle risposte aziendali e delle misure correttive prospettate dall’intermediario, che non apparivano idonee ad assicurare il deciso mutamento del governo aziendale richiesto, la Banca d’Italia, a gennaio e a marzo 2014, ribadiva nuovamente alla banca di dare seguito alle richieste di procedere all’integrale ricambio degli organi societari e di rettificare il patrimonio di vigilanza secondo quanto emerso in sede ispettiva. Nella lettera inviata a marzo, si richiedeva altresì l’integrale lettura delle missive della Banca d’Italia all’assemblea dei soci di VB, chiamata a deliberare il bilancio 2013, al fine di assicurare piena consapevolezza da parte dei soci circa la situazione aziendale e le connesse misure assunte dalla Vigilanza.
Nell’aprile 2014 VB procedette al rinnovo degli organi sociali, con la nomina di un nuovo Consiglio di amministrazione e di un nuovo Collegio sindacale. Tuttavia, non ci fu un’effettiva e radicale svolta nella governance: l’allora amministratore delegato venne confermato nel management della banca con il ruolo di direttore generale, mantenendo ampi poteri e deleghe, e rappresentando di fatto, in assenza della figura dell’amministratore delegato, la cinghia di trasmissione tra la struttura operativa e gli organi amministrativi della Banca. In altri termini il capoazienda.
Sempre nell’aprile 2014 fu avviata l’attività operativa del comprehensive assessment (CA), che impegnò la Vigilanza fino alla pubblicazione dei risultati nell’ottobre dello stesso anno. VB fu sottoposta al CA 2014. Terminato il CA, fu programmata immediatamente un’ispezione mirata, da effettuare nel primo semestre 2015, sulla governance, sulle remunerazioni e sul sistema dei controlli interni, con l’obiettivo di effettuare un follow-up sui rilievi emersi nel precedente accesso ispettivo; uno specifico approfondimento è stato condotto sul fenomeno delle “azioni finanziate”.
L’ispezione in loco ha messo in luce la reiterazione della prassi delle “azioni baciate” senza deduzione dal patrimonio di vigilanza. Questo ha comportato un impatto negativo sotto il profilo patrimoniale per circa 300 milioni, registrato dalla banca nella relazione trimestrale al 30 settembre e nel bilancio d’esercizio 2015; ulteriori 56 milioni sono emersi dal completamento delle analisi svolte dalla funzione di revisione interna della banca su richiesta della Vigilanza, al fine di coprire la residuale parte di posizioni non esaminate nell’ambito del campionamento effettuato dagli ispettori. La situazione patrimoniale ha inoltre risentito anche del deterioramento del portafoglio creditizio che ha comportato la contabilizzazione di oltre 700 milioni di euro di rettifiche di valore su crediti nel bilancio 2015. La necessità di “squalificare” le “azioni finanziate” e di recepire le ulteriori perdite emerse hanno imposto alla banca di ricostituire i margini patrimoniali regolamentari. La Vigilanza ha richiesto a VB di ripristinare il rispetto dei requisiti patrimoniali prudenziali, di dare attuazione al proprio piano strategico, di individuare prontamente misure volte a fronteggiare eventuali esigenze impreviste di liquidità e rafforzare le strutture organizzative, i processi, le procedure e le strategie relative alle sue funzioni di controllo interno.
A partire da agosto 2015 sono stati sostituiti il vertice dell’esecutivo e gran parte dell’alta dirigenza. Nell’ottobre 2015 la banca ha nominato un nuovo presidente e, a dicembre, un nuovo vicepresidente al posto dei precedenti, dimissionari. E’ stato definito un piano di rafforzamento patrimoniale, per un miliardo di euro, il cui buon esito è assicurato dalla presenza di un consorzio di garanzia; è previsto un radicale progetto di riforma del governo societario, avviato con la recente trasformazione in società per azioni, che si completerà con la quotazione in Borsa. Nel complesso, l’insieme di queste iniziative è potenzialmente idoneo a ristabilire il rispetto dei requisiti patrimoniali imposti dalla Vigilanza e a sanare la maggior parte delle carenze riguardanti la gestione delle azioni della banca.
La trasformazione di VB in società per azioni si deve all’entrata in vigore della riforma delle Popolari: fino ad allora le debolezze nell’assetto di governance delle banche popolari avevano rappresentato un fattore di vulnerabilità specifico del sistema bancario italiano, che ha limitato a lungo la capacità delle stesse di ricorrere al mercato dei capitali e di raggiungere adeguati livelli di patrimonializzazione.
Per VB, inoltre, la trasformazione in società per azioni si inserisce nell’ambito di un processo di modifica degli assetti di governance che prevede anche la quotazione in Borsa. Si tratta di interventi che accresceranno notevolmente la capacità di accesso al mercato dei capitali; contribuiranno alla risoluzione delle criticità che caratterizzano l’attuale processo di determinazione del prezzo delle azioni, che la legge riserva alle competenze dell’Assemblea degli azionisti. La quotazione fornirà, inoltre, garanzie sulla liquidabilità dell’investimento per i soci che vorranno dismettere le azioni in loro possesso.
Banca Popolare di Vicenza. Nel 2013 la banca è stata più volte richiamata a uno scrupoloso rispetto dei limiti normativi di carattere prudenziale previsti all’epoca (prima del 2014) per il riacquisto delle azioni proprie. E’ stata inoltre invitata a non ingenerare nei soci aspettative di sicura e pronta liquidabilità del titolo azionario o di garanzia di un rendimento minimo dell’azione.
Dal 2014, a seguito dell’entrata in vigore di un regolamento europeo, le verifiche della Vigilanza sull’operatività in azioni proprie hanno assunto ancora maggiore rilievo. Mentre fino a tutto il 2013 la Vigilanza era chiamata ad autorizzare tali riacquisti solo se essi eccedevano il 5 per cento del capitale, dal gennaio del 2014 l’autorizzazione è invece richiesta in ogni caso. Il criterio per decidere se autorizzare o no è puramente di natura prudenziale: nel momento in cui la banca riacquista le proprie azioni dai suoi soci riduce il patrimonio e ciò deve essere attentamente valutato dalla Vigilanza.
Nel corso del 2014 emerse che la BPV acquistava azioni proprie senza aver prima richiesto l’autorizzazione alla Vigilanza. In quella fase la Banca d’Italia era impegnata nell’esercizio di CA in vista del passaggio all’MVU. D’intesa con le nuove strutture europee di vigilanza, la Banca d’Italia inserì, tra gli obiettivi di un’ispezione programmata per l’inizio del 2015, l’operatività in azioni proprie.
L’ispezione condotta da personale della Banca d’Italia sotto l’egida dell’MVU, oltre a far emergere i riacquisti di azioni proprie effettuati dalla BPV senza la necessaria autorizzazione, mise in luce un diverso problema, vale a dire quello delle “azioni baciate”. L’ispezione infatti rivelò come la BPV non avesse dedotto per un ammontare cospicuo dal patrimonio di vigilanza il capitale raccolto a fronte di finanziamenti erogati dalla stessa BPV ai sottoscrittori delle sue azioni senza comunicarli alla Vigilanza.
L’impatto negativo sotto il profilo patrimoniale era pari a circa 1 miliardo di euro, ed è stato registrato dalla banca nella relazione semestrale al 30 giugno e nel bilancio d’esercizio 2015. La situazione patrimoniale ha inoltre risentito del deterioramento del portafoglio creditizio, che ha comportato la contabilizzazione di 1,3 miliardi di euro di rettifiche di valore nel bilancio 2015 (+54% rispetto all’anno precedente).
La Vigilanza, già a seguito delle prime evidenze che stavano emergendo dagli accertamenti ispettivi avviati a febbraio 2015, ha sollecitato la BPV ad adottare immediati interventi correttivi.
Una volta conclusi gli accertamenti ispettivi, la Vigilanza ha imposto alla banca di ricostituire i margini patrimoniali regolamentari, di prevedere un nuovo piano industriale e un piano per fronteggiare le eventuali emergenze connesse con il reperimento della liquidità, di rafforzare le strutture organizzative, i processi, le procedure e le strategie relative alle sue funzioni di controllo interno.
L’alta dirigenza di BPV è stata rinnovata; nel consiglio di amministrazione si sono dimessi gli esponenti maggiormente coinvolti nelle criticità rilevate dall’ispezione, sono stati sostituiti tutti i responsabili delle funzioni di controllo interno. La banca, in coerenza con il nuovo piano industriale, ha poi deliberato un piano complessivo di rafforzamento patrimoniale o di modifica radicale della corporate governance che comprende la trasformazione in spa, un aumento di capitale da 1,5 miliardi e la quotazione in Borsa delle azioni (tramite un’operazione di Initial Public Offering, IPO).
Il cerchio non si chiude. Sembrava che tutto potesse andare per il meglio ma gli aumenti di capitale per BPV e VB, garantiti da Unicredit e da Banca Imi (gruppo Intesa Sanpaolo) rispettivamente, non vanno in porto, nella prima metà del 2016, anche per la situazione generale dei mercati.
Comincia così l’”era Atlante”. Il Fondo Atlante ha rilevato la proprietà delle due banche sottoscrivendo aumenti di capitale per complessivi 2,5 miliardi, cui si sono aggiunti ulteriori versamenti per 938 milioni alla fine del 2016. Atlante ha rinnovato la governance delle due banche sostituendo gli organi dirigenti.
L’intervento di Atlante ha evitato una liquidazione “atomistica” che avrebbe comportato costi molto elevati. Grazie al secondo intervento è stato possibile finalizzare una importante transazione con oltre il 70% degli azionisti, senza la quale i rischi legali sarebbero stati insostenibili per qualsiasi acquirente.
Per entrambe le banche la necessità di dedurre dal patrimonio di vigilanza la componente legata ai finanziamenti ai soci ha comportato un consistente impatto patrimoniale negativo; ne è conseguita una grave crisi reputazionale e di fiducia, accentuata anche dall’impossibilità per i soci di recuperare l’investimento nelle azioni delle due banche, entrambe non quotate, che ha influito in modo determinante sul deterioramento della situazione aziendale.
Per far fronte al deflusso di liquidità, a febbraio 2017 veniva emessa una prima tranche di obbligazioni garantite dallo Stato per complessivi 6,5 miliardi. A marzo le banche richiedevano e ottenevano l’autorizzazione a emettere una seconda tranche di obbligazioni garantite per 3,6 miliardi.
Il 10 febbraio 2017 BPV e VB hanno presentato un piano quinquennale di ristrutturazione (progetto Tiepolo) basato sulla fusione tra i due intermediari. Il piano – oggetto di confronto con la BCE già nei mesi precedenti – ipotizzava un fabbisogno patrimoniale di 4,7 miliardi necessari, tra l’altro, per assorbire le perdite derivanti dalla pulizia del portafoglio crediti e far fronte ai costi di ristrutturazione (riduzione della rete territoriale e degli organici).
Poiché non riuscivano a reperire risorse private per il finanziamento del piano, il 17 marzo 2017 le due banche hanno presentato istanza di ricapitalizzazione precauzionale al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Dopo mesi di confronto tra le banche, il MEF, la Banca d’Italia, la BCE e la Commissione Europea, quest’ultima ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per autorizzare la ricapitalizzazione precauzionale. Il 25 giugno le due banche sono state poste in liquidazione.
Il 23 giugno 2017 la Banca Centrale Europea ha dichiarato lo stato di “dissesto o rischio di dissesto” per Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. Lo stesso giorno il Comitato di Risoluzione Unico (CRU), Autorità europea per la gestione della crisi delle banche, oltre a confermare la valutazione della BCE, ha deciso che l’avvio di una procedura di risoluzione (prevista dalla BRRD) non fosse nell’interesse pubblico, ai sensi della normativa europea; con ciò ha dichiarato che la gestione dei passi successivi della crisi delle due banche sarebbe passata a livello nazionale.
Il Governo e la Banca d’Italia hanno deciso l’avvio della procedura di liquidazione coatta amministrativa. Questa soluzione è stata preparata nell’arco di pochi giorni, dopo l’abbandono dell’ipotesi della ricapitalizzazione precauzionale, perseguita nei mesi precedenti. L’abbandono è stato determinato dall’evoluzione delle valutazioni delle Autorità europee in materia di perdite “probabili nel futuro prossimo”, un concetto introdotto dalla nuova normativa sulla gestione delle crisi, che ne impone la copertura con capitali privati. Sulla stima di queste perdite si sono registrate prolungate discussioni tecniche e divergenze di opinione tra le autorità coinvolte nella procedura; la stima iniziale (1,2 miliardi) è aumentata considerevolmente a seguito dell’analisi del piano di ristrutturazione, effettuata dalle autorità europee ai fini della quantificazione del fabbisogno di capitale e della valutazione di “viability” delle due banche.
La soluzione della crisi è consistita nella liquidazione coatta amministrativa delle due banche e nella contestuale cessione a Intesa Sanpaolo di attività e passività delle stesse, a eccezione di alcune poste, meglio individuate di seguito.
Con questa soluzione, il costo della crisi aziendale è stato fatto ricadere in primo luogo sugli azionisti e sui detentori di obbligazioni subordinate delle due banche. I diritti di questi oggetti, infatti, sono stati mantenuti nella liquidazione e potranno essere soddisfatti solo nell’eventualità in cui lo Stato recuperi integralmente quanto versato a supporto dell’intervento e siano stati soddisfatti gli altri creditori. Viene pertanto rispettato uno dei principi ispiratori della normativa europea, che per combattere fenomeni di azzardo morale prevede che gli oneri ricadano in primo luogo sulla proprietà e sui sottoscrittori di strumenti patrimoniali delle istituzioni in crisi.
La procedura prevede peraltro delle tutele per gli investitori al dettaglio che hanno sottoscritto passività subordinate delle due banche, per i quali a certe condizioni sono previste forme di ristoro.
Non essendo stata attivata la procedura di risoluzione, non è stato necessario applicare lo strumento del bail-in. È stata dunque assicurata la totale salvaguardia delle passività non coperte dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (depositi di importo superiore ai 100mila euro, obbligazioni ordinarie), detenute prevalentemente da famiglie e imprese di piccola e media dimensione.
Il governo italiano ha aggiunto un aiuto di Stato alla procedura di liquidazione coatta. Tale scelta è risultata indispensabile per individuare un acquirente e preservare per questa via la continuità operativa delle due aziende, che sarebbe venuta meno in caso di liquidazione “atomistica”. Caduta l’ipotesi della ricapitalizzazione precauzionale, quest’ultima sarebbe stata l’unica alternativa alla scelta effettuata; avrebbe comportato costi molto elevati per tutti gli attori coinvolti.
La Banca d’Italia ha stimato che circa 100mila piccole e medie imprese e circa 200mila famiglie sarebbero state costrette a restituire per intero i crediti (circa 26 miliardi); ne sarebbero con tutta probabilità derivate diffuse insolvenze. La conseguente distruzione di valore si sarebbe scaricata sui detentori di passività. I depositanti non protetti dalla garanzia, insieme con gli obbligazionisti senior, avrebbero dovuto attendere i tempi della liquidazione (vari anni) per ottenere il rimborso (circa 20 miliardi). Il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) avrebbe dovuto far fronte a un esborso immediato per circa 10 miliardi, e a rivalersi sulla liquidazione negli anni successivi. Data l’incapienza delle risorse prontamente disponibili presso il FITD, il sistema bancario avrebbe dovuto farsi carico di gran parte delle somme necessarie al rimborso dei depositanti in tempi estremamente ristretti.
Lo Stato sarebbe stato chiamato all’immediata escussione della garanzia sulle passività emesse dalle due banche per un importo di circa 8,6 miliardi.
Nel complesso, con la procedura adottata è stata preservata la continuità dei rapporti di clientela esistenti, sono state evitate gravi ricadute della crisi sul tessuto economico di insediamento delle due banche, attenuati gli effetti sulla compagine dei dipendenti, minimizzato il costo complessivo di soluzione della crisi.
5. L’ASSEGNAZIONE A INTESA DELLE BANCHE VENETE
Il costoso esito della crisi che ha causato la liquidazione della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca deriva in primo luogo dall’assoluta incapacità del governo di negoziare una soluzione idonea con la Commissione europea e con la Banca centrale europea.
Una volta fallito il tentativo di fondere le due banche e di quotare la nuova entità in Borsa con un piano industriale che desse nuove prospettive di stabilità e di crescita, il governo avrebbe dovuto ottenere dalle autorità europee il consenso a nazionalizzare la nuova banca con il meccanismo della ricapitalizzazione precauzionale.
Non si può dire che non ci abbia provato ma, in un ambiente ostile, soprattutto a causa della preconcetta avversione dei tedeschi a favorire soluzioni “pubbliche” alle crisi, il presidente del consiglio e il ministro dell’economia hanno subito una serie di veti e un costante innalzamento delle “soglie” di partecipazione di capitali privati da coinvolgere nella ricapitalizzazione. Siamo stati vittime di una pretestuosa azione dimostrativa orchestrata dai paesi forti della Ue cui non siamo stati capaci di opporci, rivelando un profondo deficit di capacità di negoziazione. Senza, tra l’altro, opporre ricorsi. Con il risultato che le banche sono arrivate alla liquidazione coatta amministrativa.
Per evitare che il dissesto producesse ricadute devastanti sull’economia delle aree interessate si è riusciti alla fine a cedere a Intesa Sanpaolo buona parte degli attivi e dei passivi delle due banche. Una “ordinata fuoriuscita dal mercato” è stata assicurata da alcune misure di sostegno pubblico che hanno permesso a Intesa Sanpaolo di non peggiorare la propria situazione patrimoniale e l’esposizione al rischio di credito.
Si è parlato di una “procedura di vendita aperta e trasparente” gestita dal Mef. Prima è stato individuato un consulente indipendente, scelto dopo una gara. Poi è stata predisposta una “data room” con i dati analitici delle due banche; cinque gruppi bancari e un gruppo assicurativo hanno fatto richiesta di accedervi. Al termine del periodo concesso sono state avanzate due offerte vincolanti: una di Unicredit, per una parte molto piccola del complesso da vendere, l’altra da parte di Intesa Sanpaolo, risultata vincente. Non è stato tuttavia chiarito se e in che misura fossero a conoscenza dei potenziali acquirenti le dimensioni degli oneri che lo Stato era pronto ad assumersi per favorire il buon esito della liquidazione.
Alla fine infatti l’intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi di euro. Di questi, 3,5 miliardi sono a copertura del fabbisogno di capitale di Intesa in seguito all’acquisizione della “parte buona” delle attività delle due banche; altri 1,3 miliardi contribuiscono alla ristrutturazione aziendale che Intesa dovrà sostenere per rispettare gli obblighi assunti nell’ambito della disciplina europea sugli aiuti di Stato. Intesa si impegna, tra l’altro, a gestire gli esuberi di personale conseguenti all’operazione.
Lo Stato concede inoltre a Intesa una garanzia sul credito che questa vanta nei confronti delle banche in liquidazione per lo sbilancio di cessione (5,4 miliardi elevabile fino a 6,4 miliardi). Infine lo Stato concede a Intesa garanzie a fronte di rischi di varia natura per un valore atteso (fair value) complessivo di 400 milioni (a fronte di un massimale garantito pari a circa 6 miliardi). Tali garanzie rispondono anche all’esigenza di sopperire a una serie di carenze informative che, data la rapidità con cui è stato necessario condurre l’asta competitiva, non è stato possibile colmare prima della presentazione delle offerte.
In totale quindi c’è un esborso di cassa pari a 4,8 miliardi e garanzie per circa 12 miliardi. In cambio lo Stato non riceve azioni o titoli di debito, come sarebbe stato ovvio. Il governo e la Banca d’Italia hanno ripetutamente assicurato che gran parte dei fondi sarà recuperata con un’attenta gestione degli attivi e dei passivi. Resta il fatto che Intesa Sanpaolo ha beneficiato di un enorme contributo pubblico, sancito da un decreto approvato in fretta e furia senza possibilità di modifiche, per mantenere inalterati i propri ratio patrimoniali.
Il 22 dicembre scorso Carlo Messina, ad di Intesa Sanpaolo, ha dichiarato che la sua banca supera di oltre quattro punti percentuali il requisito patrimoniale Srep per il 2018, circa 12 miliardi di euro più del minimo richiesto dalla normativa. Sembra di poter concludere che Intesa non avesse affatto bisogno dell’aiuto dello Stato per mantenere i propri ratio patrimoniali. Di qui la domanda: era davvero necessario mettere sul piatto tutti quei soldi da parte dello Stato? Gli altri soggetti, sia quelli che hanno avuto accesso alla data room sia quelli soltanto interpellati, erano informati che rilevando le due banche venete avrebbero potuto beneficiare di quelle condizioni così favorevoli?
Il sospetto è che Intesa Sanpaolo fosse l’unico gruppo bancario disponibile ad affrontare l’operazione e che nella fase negoziale abbia saputo brillantemente monetizzare la propria disponibilità. In altre parole c’è stato un bail-out che Bruxelles e Francoforte hanno accettato purché lo si nascondesse dietro lo schermo del burden sharing (azzeramento di azioni e bond subordinati) e della gara per l’acquisizione delle due banche venete, vinta da Intesa Sanpaolo ma alla quale tutte le banche europee avrebbero potuto partecipare.
6. IL CASO MPS
La ricapitalizzazione precauzionale (ovvero il conferimento di capitali pubblici al fine di scongiurare una crisi) di Mps e il conseguente ingresso del Tesoro nel capitale della banca come azionista di riferimento arrivano nel 2017 con numerosi anni di ritardo rispetto a quando sarebbe stato necessario. La misura concordata con la Commissione europea e con la Bce ha messo, auspicabilmente, fine a un lungo periodo di pessima gestione tra le cui cause spicca la volontà della Fondazione Mps di mantenere il controllo della Banca e di assicurarsi un rendimento del capitale tale da poter continuare in un’antica politica di elargizioni discrezionali al territorio.
Gli ultimi dieci anni di storia della Banca Mps sono caratterizzati da alcune importanti discontinuità. La prima, probabilmente decisiva, risale all’8 novembre 2007 quando il Consiglio di amministrazione delibera l’acquisizione del gruppo Antonveneta, al prezzo di circa 9 miliardi, di cui 6 a titolo di avviamento. La Banca d’Italia, reduce dagli anni “dirigisti” del governatore Antonio Fazio, sotto la regia di Mario Draghi lascia fare al mercato, forse un po’ troppo. Non sottilizza sul fatto che non fosse prevista una due diligence e si accontenta del piano di rafforzamento patrimoniale presentato dalla banca. Dopo Unicredit-Capitalia e Intesa-SanpaoloImi sperava che si formasse un terzo polo nazionale del credito.
Quando arriva la crisi, nel 2008, la Vigilanza intensifica le ispezioni. Le condizioni di liquidità si fanno critiche soprattutto a causa di massicce operazioni in titoli di Stato. In particolare due repo strutturati effettuati con Deutsche Bank e Nomura per un valore nominale complessivo di circa 5 miliardi, con profili di rischio non adeguatamente controllati e valutati da MPS. Si tratta di componenti delle operazioni Santorini e Alexandria, che risulteranno in seguito connotate da significative irregolarità e da comportamenti forse fraudolenti, secondo quanto sta verificando anche la magistratura.
Il primo allarme era arrivato alla Consob il 29 luglio 2011 con un esposto anonimo che segnalava pratiche scorrette poste in essere da taluni dirigenti di MPS, cui erano demandate le funzioni di finanza proprietaria (acquisto e vendita di strumenti finanziari in conto proprio), operazioni volte al conseguimento di benefici personali a danno della Banca. L’esposto definiva altresì come anomala l’operatività della banca in titoli di Stato, svolta con controparte Nomura a valere sul portafoglio di proprietà della banca, nonché talune operazioni finanziarie poste in essere investendo disponibilità della banca.
La Consob si è premurata di chiedere i contratti relativi all’operazione Nomura il 25 giugno 2012, quasi un anno dopo. Perché c’è voluto tanto tempo? E perché, sebbene la parola derivati comparisse nei contratti ben 447 volte, la Consob ci ha messo tanto a stabilire che proprio di derivati si trattava? E’ abbastanza stravagante anche il modo in cui la Consob imposto al Mps di trattare la questione nei prospetti relativi agli aumenti di capitale e nei bilanci. Nel caso degli aumenti di capitale del 2014 e del 2015 la Consob ha approvato i prospetti e Mps ha messo un’avvertenza in prima pagina. “Nel bilancio della banca sono riportate operazioni di term structured repo, contabilizzate secondo la cosiddetta metodologia a saldi aperti. La modalità di rappresentazione contabile di questo tipo di operazioni è all’attenzione degli organismi competenti in sede nazionale e internazionale. Non si può escludere che in futuro tali organismi forniscano indicazioni diverse sul trattamento contabile, con possibili riflessi sulla situazione economica, patrimoniale e/o finanziaria della Banca e/o del Gruppo” (prospetto 2014). “Si precisa che la contabilizzazione delle operazioni di long term structured repo è, alla data del prospetto, oggetto di approfondimento da parte della Consob” (prospetto 2015). La Consob ha completato i suoi accertamenti nel novembre 2015, quando tutti e due gli aumenti di capitale erano stati realizzati e il loro valore azzerato, salvo poi accertare che i bilanci (e dunque i prospetti che richiamavano i bilanci) non erano conformi. La stessa Consob non ha rilevato criticità in riferimento alle scelte contabili di Mps in varie sedi, tra il 2014 e il 2015, malgrado che la Nomura avesse pacificamente ammesso che si trattava di derivati sin dal 2013 e che la BaFin nel 2014 le avesse comunicato che anche l’operazione con Deutsche Bank era un derivato. Suscita perplessità , infine, che il provvedimento del dicembre 2015 con cui la Consob ha ordinato a Mps di correggere i bilanci riguardasse solo il 2014 e la semestrale 2015 mentre il 2012 e il 2013 non sembrerebbero essere stati presi in considerazione in considerazione.
Per definire in modo incontrovertibile la natura delle operazioni Santorini e Alexandria c’era comunque una modalità molto semplice: chiedere se i titoli di Stato sottostanti esistevano veramente. L’esistenza dei titoli è stata molte volte richiesta e confermata dalla banca. Ma se chi vigila ha dei dubbi e vuole avere la certezza assoluta bisogna avere la possibilità di accedere alla Monte Titoli: la Consob avrebbe potuto chiedere alla Guardia di Finanza di verificarlo, come ha fatto in seguito la procura di Milano.
La Consob, che ha la responsabilità sulla correttezza dei bilanci, ma anche la Banca d’Italia hanno faticato a venire a capo delle due operazioni, tra documenti occultati, contabili falsificate, costituzione di comitati per valutare le modalità di contabilizzazione e richieste di pareri agli organismi contabili internazionali. Passa tempo prezioso prima che, con la scoperta del mandate agreement da parte del nuovo management nell’ottobre 2012, le operazioni Santorini e Alexandria si rivelino per quello che realmente sono (contratti derivati), le posizioni vengano chiuse e i bilanci corretti per tener conto delle perdite.
Gli errori individuati hanno portato MPS a rilevare maggiori passività (al lordo degli effetti fiscali), alla data iniziale di iscrizione: 308 milioni di euro per Alexandria e 429 milioni di euro per Santorini. Tale correzione (737 milioni di euro in tutto) è stata poi materialmente effettuata nel bilancio al 31 dicembre 2012, approvato nel febbraio 2013.
Come ha ricordato il capo della Vigilanza della Banca d’Italia Carmelo Barbagallo “i rischi finanziari hanno messo in grave difficoltà MPS; alla lunga, è stato però il rischio di credito che ne ha minato più in profondità l’equilibrio economico-patrimoniale. La banca raggiunge il picco di circa 160 miliardi di crediti nel biennio 2009-2010. Da allora, anche per effetto dei piani di ristrutturazione imposti dalla Commissione europea nell’ambito degli aiuti di Stato, gli impieghi si riducono progressivamente di circa 30 miliardi. Per converso, i crediti deteriorati erogati per oltre l’80 per cento prima del 2012, crescono progressivamente fino al 2014, anno nel quale raggiungono i 45 miliardi, ammontare che rimane costante fino alla fine del 2016, anno nel quale fa registrare una incidenza doppia sugli impieghi totali rispetto alla media delle banche italiane”.
La Banca d’Italia ha reagito con determinazione quando ha scoperto, purtroppo tardivamente, che il management del Mps, oltre a essersi avventurato in operazioni finanziarie spericolate, non era in grado di raddrizzare la nave che stava affondando. L’uscita di scena del presidente Mussari e del direttore generale Vigni nel 2012 si devono sostanzialmente all’esercizio, da parte della Banca d’Italia, del power of removal degli amministratori con tre anni di anticipo rispetto all’entrata in vigore della norma che lo consente.
In realtà l’errore strategico più clamoroso nella gestione della crisi Mps è stato fatto però nel gennaio del 2013 quando, dopo l’emersione dello scandalo Alexandria-Santorini, lo Stato ha sottoscritto 4 miliardi di Monti-bond dotati di cedole molto alte, superiori al 9 per cento. Quei 4 miliardi avrebbero potuto essere usati per ricapitalizzare Mps: lo Stato sarebbe così diventato azionista di maggioranza e a quell’epoca la Ue non avrebbe potuto obiettare nulla (la Banking Communication è dell’agosto 2013). A quel punto, se ben gestita, Banca Mps sarebbe potuta diventare polo aggregante per tutte quelle banche che negli anni successivi hanno incontrato difficoltà a ricapitalizzarsi. E probabilmente i 10 miliardi di aumenti di capitale realizzati tra il 2011 e il 2015 da Mps non sarebbero andati sprecati come invece è successo.
Ma non è andata così. Allora prevalse l’ideologismo privatistico, nel nome di una presunta ma mai dimostrata superiorità della proprietà privata nella gestione delle banche e delle imprese in generale. Sarebbe invece auspicabile un approccio molto più pragmatico anche da parte dell’Unione europea: quando è necessario lo Stato entra nel capitale, come poi è successo nel 2017.
Anche nel 2016, quando Banca Mps non supera gli stress test della Bce in presenza di uno scenario particolarmente avverso, il governo Renzi perde tempo prezioso. Si affida infatti a JpMorgan che si candida a gestire la ricapitalizzazione-ristrutturazione della banca, convogliando capitali privati esteri. Si vocifera a lungo dell’intervento del Fondo sovrano del Qatar. Renzi non vuole chiedere soldi al Parlamento per le banche prima del referendum di dicembre in cui si gioca tutta la sua credibilità politica. Una volta perso il referendum sfuma il piano JpMorgan e bisogna ricominciare daccapo con il decreto salvabanche e la richiesta alla Ue di ricapitalizzazione precauzionale da 8,8 miliardi.
Nel frattempo, in settembre, Renzi e Padoan, d’accordo con JpMorgan, impongono un cambio alla guida di Banca Mps: al posto del collaudato Fabrizio Viola viene nominato Marco Morelli che aveva già lavorato in Mps ai tempi dell’acquisizione di Antonveneta e dell’operazione Fresh, costruita da JpMorgan per completare il rafforzamento patrimoniale necessario per l’acquisizione. Morelli era stato multato nel 2013 in via amministrativa dalla Banca d’Italia (208mila euro) per non aver esplicitato tutte le condizioni sottostanti all’operazione Fresh (si trattava in realtà di un’emissione obbligazionaria mascherata, non di un aumento di capitale). In sede penale era peraltro stato assolto dalle stesse accuse.
Tutto ciò non ha impedito che il cda di Mps lo abbia giudicato “fit and proper”, adatto, a guidare la banca. La Bce non ha avuto alcunché da obiettare alla valutazione del cda di Mps.
A questo proposito vale la pena ricordare il singolare ritardo con cui il Tesoro sta procedendo nel recepimento della direttiva europea Crd IV del 26 giugno 2013 che definisce i criteri di competenza, onorabilità, correttezza, indipendenza e disponibilità di tempo per i consiglieri di amministrazione delle banche. Il Parlamento ha approvato il recepimento della direttiva il 12 maggio del 2015 ma da allora non è mai stato promulgato il decreto attuativo necessario perché le norme entrino in vigore. Il Tesoro ha avviato una consultazione pubblica su una bozza di decreto nel settembre scorso. La consultazione si è chiusa e del decreto ancora non c’è traccia.

7. LE RESPONSABILITA’ DELLA CONSOB
Il direttore generale della Consob Angelo Apponi ha detto in audizione che la Consob orienta e calibra i suoi approfondimenti di vigilanza sulla base delle informazioni disponibili: l’autorità concentra la propria attività di vigilanza su quei soggetti (o quelle operazioni) che, da un’analisi effettuata sui dati disponibili in sede di pianificazione della vigilanza, presentino maggiori profili di rischio di violazione delle regole che presiedono allo svolgimento dell’attività di intermediazione mobiliare. A tal fine si tiene conto, tra l’altro, delle segnalazioni statistiche di vigilanza che pervengono dagli intermediari, degli eventuali esposti dei risparmiatori o delle associazioni di categoria, nonché di ulteriori fonti informative, quali, ad esempio, le segnalazioni della Banca d’Italia ovvero degli organi di controllo interno, delle società di revisione o della stessa autorità giudiziaria.
Nel caso di Veneto Banca, la Banca d’Italia aveva comunicato all’Autorità di controllo dei mercati che il prezzo era alto già dal 2013 ma non aveva precisato che l’incongruenza nasceva dall’utilizzo di una metodologia di valutazione irrazionale e non corretta e quindi la Consob non si è mossa (né ha condotto autonome valutazioni per cercare di comprendere quali fossero i motivi della sopravvalutazione dei titoli lamentata dalla Banca d’Italia). La Consob ha invece ritenuto sufficiente indicare nel prospetto dell’aumento di capitale del 2014 quale fosse il rapporto price/book value insieme a quello di altre banche, in alcuni casi superiore in altri inferiore. L’investitore doveva fare le sue valutazioni e capire.
Secondo Apponi, quindi, il piccolo risparmiatore avrebbe dovuto desumere l’esistenza di differenze tra Veneto Banca e altre banche, non quotate ma ritenute comparabili, osservando il diverso valore che il price/book value della prima aveva rispetto a quello medio delle seconde. Peccato che nel prospetto approvato dalla Consob si legga, poco sopra la tabella con i price/book value, che Veneto Banca è come le altre banche.
Ma, forse, l’affermazione più sconcertante di Apponi è quella sui finanziamenti baciati di Veneto Banca, almeno 150 milioni di euro che servivano a “stimolare” la domanda di azioni della banca veneta. Ebbene Apponi ha detto che la Consob sapeva. Difficile comprendere a questo punto la sua inazione: tocca infatti alla Consob vigilare sulla correttezza degli intermediari nell’erogazione dei servizi di investimento ai propri clienti. E si deve ritenere che essa sapesse anche dell’avviamento da 1,3 miliardi che continuava a beneficiare di una valutazione alquanto generosa o dell’elevatissima incidenza dei crediti decotti.
Su Veneto Banca c’è poi un altro “dettaglio” che non torna: come faceva Consob a non sapere niente sino al 2015 se i suoi ispettori già dal 2011 (ben quattro anni prima) erano a conoscenza dei prezzi gonfiati anche grazie a carte ricevute proprio da via Nazionale in cui si condivideva l’informazione (acquisita da ispezione Banca d’Italia del 2009) che il processo di valorizzazione delle azioni non si atteneva a rigorosi criteri metodologici?
Riassumendo nei suoi interventi in Commissione la Consob, e in particolare il suo direttore generale Angelo Apponi, sembrerebbe aver cercato di attribuire alla Banca d’Italia la volontà di tenere nascoste alla Consob importanti informazioni sullo stato di salute di alcune banche vigilate, con l’ obiettivo di “favorire” il buon esito di operazioni sul capitale e di collocamenti obbligazionari destinati a rafforzare la patrimonializzazione delle banche stesse e con la conseguenza di avere danneggiato i risparmiatori, sollecitati a investire in obbligazioni subordinate il cui rischio effettivo non era noto ai sottoscrittori.
Il presidente Vegas, del resto, ha teorizzato una sorta di primato, nella costituzione materiale, dell’obiettivo della stabilità degli intermediari su quello della tutela degli investitori. E’ inutile dire che né nella legge, né in letteratura né nella prassi internazionale delle omologhe istituzioni esiste il primato teorizzato da Vegas.
Si pone quindi un problema di fondo: prima e durante le crisi bancarie sono stati collocati ai risparmiatori strumenti che presentavano profili di rischio inadatti a quel tipo di pubblico. La Consob, al di là di un controllo formale dei prospetti di collocamento che risultano in genere molto prolissi e poco chiari, non sembrerebbe essersi preoccupata di accertare che quei titoli non venissero offerti a clienti sbagliati. Nelle quattro banche che sono state risolte alla fine del 2015 risulta che la Consob non abbia mai condotto ispezioni dal 2007. L’authority, che è stata opportunamente dotata di poteri ispettivi molto intrusivi, avrebbe potuto evitare gran parte dei casi di mis-selling che sono all’origine delle perdite subite da migliaia di risparmiatori. Avrebbe dovuto vigilare sulla corretta applicazione della profilatura della clientela e dare risalto al fatto che le banche stavano collocando ai propri clienti titoli di cui erano le società emittenti.
Il presidente Vegas ha fatto un confronto tra le 700 persone impiegate nella Vigilanza della Banca d’Italia e i 35 ispettori della Consob. Questo non è un buon motivo per venir meno ai propri compiti. Le risorse vanno concentrate là dove servono; si può chiedere il supporto delle altre autorità di vigilanza; si può reclamare un rafforzamento della struttura.
La Consob ha chiesto a gran voce e ottenuto, dal 2007, l’accesso alla Centrale dei rischi, la banca dati della Banca d’Italia in cui sono archiviate tutte le posizioni dei soggetti affidati dal sistema bancario italiano. Ogni mese riceve dalla Banca d’Italia dati dettagliati (“granulari”) su tutte le oltre 500 banche italiane. Dal 2014 ha accesso all’archivio degli esponenti delle banche. Sulla base del protocollo del 2012 può chiedere informazioni quando deve approvare un prospetto per l’emissione di titoli di debito. Infine la Banca d’Italia seleziona e trasmette alla Consob le parti più importanti dei 200-250 rapporti ispettivi che vengono redatti ogni anno e che mediamente contengono 50 pagine più gli allegati. Probabilmente qualche gelosia istituzionale e qualche incomprensione o idiosincrasia tra i funzionari hanno reso meno fluida la comunicazione tra le due istituzioni. E’ tuttavia difficile sostenere che la Consob non disponesse delle informazioni necessarie per muoversi a tutela dei risparmiatori. Nel corso delle audizioni è emerso anche che la Bce, in un memorandum of understanding con le Consob nazionali, si è riservata il diritto di non fornire, a sua discrezione, documentazione che non ritiene opportuno diffondere.
La Consob puo’ essere ritenuta responsabile del fatto di non aver imposto che tra gli strumenti di valutazione a disposizione degli investitori ci fossero i cosiddetti scenari probabilistici. Nell’approccio risk based alla finanza, alternativo a quello deterministico (what if scenarios), gli scenari probabilistici mostrano le probabilità che un investimento possa produrre perdite o guadagni, con la contestuale indicazione di quante perdite o guadagni si potrebbero avere. Gli scenari informano sul profilo rischio/rendimento di un investimento. Se fossero stati comunicati agli acquirenti delle obbligazioni delle banche “salvate” avrebbero indicato, per esempio, che il bond subordinato di Banca Etruria (emesso nel 2013 e con scadenza 2023) aveva, al momento dell’emissione, il 62,73% di probabilità di far perdere oltre 52 euro su 100 investiti e solo l’1,24% di far guadagnare in modo soddisfacente (170 euro sui 100 investiti), a fronte di una possibilità del 36,03% di produrre un risultato neutro rispetto a un investimento senza rischi.
La Consob richiede gli scenari probabilistici per la distribuzione di prodotti finanziari illiquidi (tra cui rientrano le obbligazioni bancarie), per i prospetti degli investimenti finanziari in OICR (Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio) e per i prodotti finanziario-assicurativi (polizze unit-linked e indexlinked). La Consob definisce gli scenari probabilistici come “fondamentali per supportare il potenziale investitore nell’assunzione di una decisione d’investimento consapevole”, costituendo un “elemento d’analisi imprescindibile”. L’Autorità europea di vigilanza sui mercati finanziari (ESMA) in una Opinion del 7 febbraio 2014, con riferimento ai prodotti complessi (tra cui rientrano le obbligazioni subordinate), ha stabilito che le Autorità nazionali di controllo, nella loro attività di supervisione, dovrebbero controllare che le banche, prima di consigliare ai propri clienti d’investire in prodotti complessi, valutino l’intelligibilità del profilo di rischio-rendimento.
Secondo la Cassazione l’intermediario deve comunicare al cliente il rapporto rendimento/rischio. Lo stesso rating altro non esprime che la probabilità di default di un emittente (ovvero il suo rischio di credito). Anche la giurisprudenza di merito, con riferimento ai derivati, ha più volte ribadito che i contratti sono nulli se non indicano gli scenari di probabilità.
L’intera finanza moderna si fonda sul concetto di rischio e la più recente giurisprudenza lo ha ricordato a chiare lettere. La Cassazione, per esempio, ha scritto che il rischio è «elemento connaturato a qualsiasi investimento finanziario … La conformazione del rischio costituisce, pertanto, un profilo di primario rilievo del contenuto del regolamento d’interessi nei contratti aventi a oggetto la richiesta di acquisto … di prodotti finanziari. La normazione primaria e regolamentare sono rivolte alla massima trasparenza informativa in ordine agli investimenti che l’intermediario si appresta a realizzare per l’investitore in modo che egli sia al corrente del margine effettivo di rischio relativo ai rendimenti possibili e alle perdite pronosticabili».
E’ strano che il presidente Vegas, nella sua audizione, non abbia ritenuto doveroso chiarire il documento della Divisione Emittenti della Consob (Prot. N. 11038690 del 3 maggio 2011) nel quale si da conto del fatto che egli stesso aveva precedentemente fornito indicazioni – per le vie brevi – in base alle quali “a prescindere da valutazioni in merito all’opportunità [gli Uffici della Consob] inviteranno gli emittenti a non inserire le predette informazioni sugli scenari di probabilità nel prospetto e ne richiederanno l’eliminazione nel caso in cui il prospetto le dovesse comunque riportare per autonoma iniziativa del proponente”. Interessante sarebbe stato sapere se tale indicazione che il presidente Vegas aveva fornito agli uffici della Consob aveva o meno l’avallo di una decisione collegiale, l’unica che poteva legittimamente rimettere in discussione la decisione assunta dal Collegio il 27 ottobre 2009, in ragione della quale “nell’attesa degli esiti della consultazione sulla raccomandazione … per quanto concerne le istruttorie [allora] in corso, [gli Uffici] si limitano a raccomandare agli emittenti l’inserimento degli scenari senza formulare richieste in tal senso integrative dell’informativa riportata nel documento d’offerta”. Fatto sta che, il nuovo orientamento fornito dal presidente Vegas (impedire la rappresentazione degli scenari) trovò la sua prima applicazione proprio nel documento relativo all’offerta pubblica di scambio proposta dalla Banca Popolare di Vicenza su polizze “Berica Indicazione 3”, “Berica Indicazione 4” e “Berica Indicazione 6”, emesse da Berica Vita e sulla polizza “New Life Borsa 36”, emessa da Vicenza Life. Ciò è veramente singolare perché, in Commissione, per mostrare quella che, a suo dire, sarebbe l’inutilità degli scenari, ha mostrato un prospetto asserendo che fosse del 2011: gli scenari indicavano che l’investimento proposto dall’emittente (guarda caso, proprio Banca Popolare di Vicenza) avrebbe avuto un rendimento negativo “solo” nel 12% dei casi.
In realtà le cose stanno diversamente. Il prospetto mostrato da Vegas è relativo del 2009, prima della crisi bancaria mondiale, prima della direttiva sul bail-in, quando si riteneva che le banche non potessero fallire e quando scenari con il 12% di rendimenti negativi rappresentavano un elemento di forte anomalia, indice di una situazione potenzialmente preoccupante e comunque tale da scoraggiare i risparmiatori più avveduti dato che nello stesso periodo molte altre emissioni si presentavano con un rischio di rendimento negativo prossimo allo zero. E nel 2011? Effettivamente Popolare di Vicenza fece un prospetto che però, grazie alle indicazioni date dal presidente Vegas agli Uffici non conteneva scenari. Scenari che, secondo le stime fatte da analisti indipendenti avrebbero indicato il 50% di probabilità di perdere oltre 70 euro ogni 100 investiti.
Riassumendo, non solo il prospetto mostrato da Vegas era utile nel 2009 (contrariamente a quanto da lui asserito, riferendolo al 2011) ma se il prospetto del 2011 avesse contenuto anch’esso gli scenari (cosa che invece Vegas impedì) sicuramente molti meno risparmiatori sarebbero stati danneggiati giacché l’indicazione sull’intrinseca pericolosità degli strumenti proposti sarebbe stata chiara e inequivocabile.
Sempre in relazione agli scenari probabilistici suscita perplessità anche quanto sostenuto in Commissione dai vertici della Consob. Alcuni parlamentari volevano capire perché la Consob non avesse fatto mettere questa preziosa informazione per i subordinati collocati a ignari risparmiatori da Etruria, Popolare Vicenza, Veneto Banca ma anche Carichieti, Cariferrara e Banca Marche nel tentativo di restare a galla. Specie considerato che con probabilità di perdita comprese tra il 45 e il 68% avrebbero fatto capire a chiunque che era meglio stare alla larga da quelle obbligazioni. Apponi ha detto che a fine 2010 una grande banca (Mediobanca) aveva puntato i piedi e allora la Consob ha fatto dietrofront, considerato che Mediobanca a dati di mercato era più solida dello Stato italiano. Il 14 dicembre Giuseppe D’agostino, vice-direttore generale della Consob spiega che gli scenari di probabilità non sono inclusi nei prospetti del subordinato collocato da Etruria a giugno 2013 perché non sono previsti dagli schemi europei. La Consob avrebbe pure provato a farli inserire ma l’Europa non li ha voluti. D’Agostino fa capire che personalmente lui non ha nulla contro questi scenari probabilistici, ma il punto è che la Mifid 2 ha privilegiato il “governo del prodotto” in base a cui lo stress test dell’obbligazione la banca lo fa in casa ex ante sulla base di un processo documentato. E sostiene che questo è “molto più rappresentativo e cogente” degli scenari. Ammesso e non concesso che sia vero, c’è solo un (piccolo) particolare: all’epoca dei fatti su cui indaga la Commissione Banche la Mifid 2 non era ancora in vigore. A chi chiedeva se vi fossero norme comunitarie che vietavano espressamente a Consob di chiedere l’inserimento degli scenari nel prospetto del subordinato Etruria, Salvatore Providenti, capo della consulenza legale, ha dichiarato che la Consob non può chiedere “in modo generalizzato” l’inclusione di un’informazione nei prospetti. In conseguenza il Presidente Casini ha ritenuto di dover fare il punto: «L’Unione Europea non avrebbe impedito a Consob di fare delle richieste specifiche che evidentemente non sono state fatte. Un conto è l’obbligo, un conto la possibilità». Ancora, l’onorevole Sibilia chiede conto del Regolamento illiquidi della Divisione Intermediari della Consob, emanato nel marzo 2009 che al paragrafo 1.5 prevede proprio gli scenari probabilistici e che è ancora in vigore. E qui Providenti risponde che si tratta di un tentativo di raccomandazione della Consob che poi non è stato emanato. Ma non è così: la domanda si riferisce chiaramente a un provvedimento assunto da Consob a marzo 2009, mentre Providenti ribatte parlando di una diversa iniziativa di luglio 2009.
D’Agostino incalzato dice che lui non può rispondere sul tema Etruria per gli scenari in quanto non inclusi nel procedimento amministrativo. Questo però è falso. Nella lettera prot. n. 13032868 del 18 aprile 2013 la Consob, nel dare il nulla osta al prospetto, dice che nel fare la scheda-prodotto la Banca dovrà rispettare “gli orientamenti interpretativi forniti della Comunicazione Consob n. 9019104 del 2 marzo 2009”. Bene, questa comunicazione, come già detto, è quella che al paragrafo 1.5. prevede gli scenari probabilistici. La domanda sorge spontanea: ma perché se la Consob chiede di mettere gli scenari nella scheda prodotto poi la Banca non lo ha fatto? E soprattutto perché, se la Banca non lo ha fatto, nessuno in Consob ha detto nulla (quegli scenari avrebbero detto al risparmiatore che in quasi il 70% dei casi avrebbe perso il suo investimento)?
Insomma, da tutto questo emerge un quadro in cui la Consob di Vegas sembrerebbe avere a cuore il bene del soggetto vigilato molto più di quello del risparmiatore. Lo si è visto nel caso Mps, con le due operazioni in derivati tenute nascoste al mercato nell’interesse della società emittente, e senza che si ritenesse necessario verificare presso Montetitoli l’esistenza dei titoli di Stato sottostante alle operazioni Alexandra e Santorini, e anche nel precedente caso Unipol-Fonsai quando l’autorizzazione dell’acquisizione fu concessa, malgrado le perplessità di una parte della struttura Consob sulla contabilizzazione di alcuni derivati, solo per evitare che venisse meno un finanziamento di Unipol Banca all’operazione di ampliamento del porto di Ostia, cara a persone vicine all’ex-ministro Giulio Tremonti, di cui Vegas era stato viceministro.
In sostanza le responsabilità della Consob emergerebbero chiaramente e sembrano essere gravi.
8. LA VIGILANZA DELLA BANCA D’ITALIA
Questa commissione d’inchiesta è stata istituita con l’obiettivo di dimostrare un teorema: la Banca d’Italia non ha fatto il suo dovere e la scarsa qualità della vigilanza sul sistema bancario ha favorito una degenerazione della situazione di crisi di alcune banche con l’effetto di penalizzare soci, obbligazionisti, contribuenti, le altre banche italiane.
Quanto emerso in commissione non sembra giustificare l’assunto iniziale. Negli anni che vanno dal 2012 al 2017 sono state commissariate Banca delle Marche, Cassa di risparmio di Chieti, Cassa di risparmio di Ferrara. Poi è stata commissariata la Banca popolare dell’Etruria. Il vertice del Monte dei Paschi è stato sostituito. Anche la crisi delle due banche venete è venuta fuori con le ispezioni della Banca d’Italia. Il sistema di potere di Giovanni Berneschi alla Carige è stato sgominato come quello di Massimo Ponzellini alla Banca popolare di Milano. Un centinaio di Bcc sono state chiuse o assorbite da realtà più solide. Tre banche (Rimini, Cesena e San Miniato) sono finite al Gruppo Agricole-Cariparma. Qualche altro focolaio è stato spento, come a Spoleto e a Teramo. Altre crisi sono state risolte nel doveroso silenzio.
Insomma non sembra che la Vigilanza sia rimasta proprio con le mani in mano.
Va tenuto presente che dal 2015, con l’entrata in vigore della Brrd, le crisi non si possono più gestire con l’amministrazione straordinaria. Né la Banca d’Italia ha più il potere di “imporre” soluzioni di sistema, come faceva prima, con la moral suasion: si convocava una banca abbastanza solida, le si diceva “ti devi prendere quest’altra banca scassata”, le si dava qualche contentino e la crisi era risolta. Adesso le banche possono dire di no oppure, per dire di sì, pongono condizioni pesanti. Le banche sono infatti imprese, con la loro autonomia di gestione, e come tali vengono trattate. Si può discutere se questo sia giusto o sbagliato ma nell’attuale fase storica funziona così.
Dal 2018, con la costituzione dei due gruppi nazionali di banche di credito cooperativo, la gran parte del sistema bancario italiano sarà soggetta alla vigilanza della Bce. La Banca d’Italia fa parte dell’Eurosistema, partecipa alle decisioni di Francoforte ma non ha più una responsabilità diretta sui maggiori gruppi bancari nazionali che sono una quindicina. L’attenzione si sposta quindi sempre di più da via Nazionale all’Eurotower.
La Vigilanza europea esercita una supervisione più centrata su meccanismi automatici di verifica della stabilità degli intermediari: dotazione patrimoniale, corretta valutazione degli attivi, stress test, rapida imputazione a perdita dei crediti in sofferenza.
Il passaggio al nuovo regime non è stato indolore perché si è sovrapposto a un fenomeno significativo: negli ultimi tre anni sono esplosi i bubboni che si erano formati con la recessione seguita alla crisi del debito sovrano nel 2011. Banche locali gestite da gruppi di potere autoreferenziali (popolari ed ex casse di risparmio) sono state travolte dalla massa di Npl che avevano accumulato.
Il passaggio alle nuove regole europee (burden sharing e bail-in) ha allungato i tempi di risoluzione delle crisi. Anche perché il governo si è rivelato incapace di negoziare le condizioni migliori per l’Italia a Francoforte e a Bruxelles: non è riuscito a ottenere la ricapitalizzazione precauzionale delle venete, ha pagato a caro prezzo (in termini di severità del piano industriale sottostante) quella di Mps, non è stato autorizzato a impiegare il Fondo di tutela dei depositi per i salvataggi delle quattro banche.
Le domande cui rispondere sono: la Banca d’Italia si sarebbe dovuta accorgere prima di quanto stava accadendo in Veneto e in particolare a Vicenza? Esisteva una sorta di “predilezione” nei confronti della Popolare di Vicenza destinata, nella visione di via Nazionale, a diventare “polo aggregante” mediante l’assorbimento di Veneto Banca prima e di Bpel poi?
Il governatore Visco ha chiarito di aver raccomandato ai vertici della Bpvi di cercare un accordo con Veneto Banca su base paritaria (anche se non necessariamente con le stesse persone che guidavano il gruppo all’epoca); che sono stati gli advisor di Bpel a individuare Bpvi (e un altro intermediario) quando la Vigilanza chiese loro di trovare un partner di adeguato standing; che il vincolo posto alle aggregazioni di Bpvi era stato rimosso nel 2011; che da allora Zonin ha esplorato numerose possibilità (Marostica, Veneto Banca, Bpel, Spoleto, Ferrara, Puglia e Basilicata) senza mai riuscire a venire a capo di niente.
Si è dovuto attendere il Comprehensive assessment del 2015 (asset quality review e stress test) per costringere le due banche ad affrontare quella ricapitalizzazione che si è rivelata sostanzialmente impossibile da realizzare sul mercato, prima con il sostegno delle maggiori banche (Banca Imi-Intesa Sanpaolo per Veneto Banca e Unicredit per Bpvi), poi con l’ingresso nel capitale di Atlante. “Potevamo noi nel 2013 essere un pochino più svegli? Forse”, si è chiesto il governatore Visco dandosi anche una risposta. “Nelle discussioni del Direttorio, nelle valutazioni sulla base delle carte l’abbiamo sempre considerata, fino ad allora, una banca non straordinaria, non la migliore delle popolari, sicuramente c’erano varie altre popolari migliori di Vicenza, ma in quell’ambito lì sicuramente una banca in grado di fare acquisizioni di banche più piccole con attenzione”. Quindi il problema è stato sottovalutato.
La Banca d’Italia può rendere più efficace la sua azione. Va tuttavia ricordato che la Vigilanza minimizza, ma non elimina, né potrebbe farlo, la probabilità che una banca vada in crisi. Le banche, come abbiamo detto, sono infatti delle imprese (per quanto soggette a una disciplina speciale, che trova fondamento nelle loro peculiarità) e la Vigilanza non può sostituirsi agli amministratori nella loro gestione. Quando la crisi non origina da ragioni tecniche o fenomeni aziendali, ma è connessa con comportamenti opachi o veri e propri illeciti penali posti in essere dagli amministratori o dai dirigenti di vertice, l’azione della Vigilanza incontra un limite fisiologico.
I casi di crisi innescati da comportamenti illeciti da parte degli esponenti aziendali non sono rari. In queste situazioni l’azione generale di prevenzione svolta dalla Vigilanza (dotazione patrimoniale, assetti di controllo interno, capacità di gestione dei rischi) non è sufficiente a prevenire il deterioramento della situazione aziendale. Il profilo di rischio di una banca può peggiorare rapidamente, anche per effetto di poche operazioni. Quando informazioni o documenti rilevanti per poter misurare correttamente il patrimonio e i rischi di una banca sono omessi dalle comunicazioni all’Autorità di vigilanza, la rappresentazione del quadro aziendale è falsata e le situazioni possono rapidamente degenerare. Per quanto tempestiva sia l’azione volta ad analizzare i dati disponibili, svolgere approfondimenti, avviare attività ispettive, i danni sulla solidità della banca si sono spesso già materializzati. Le ispezioni, che restano lo strumento principale per accertare la reale situazione della banca, non possono essere condotte di continuo e simultaneamente su tutti gli intermediari. Spesso sono mirate a uno o più aspetti specifici, come l’attuale complessità dell’attività bancaria rende necessario, e quindi possono non riscontrare i primi sintomi di un problema che
afferisce ad ambiti diversi da quelli oggetto dell’ispezione. Inoltre, comportamenti eccessivamente rischiosi, illeciti o addirittura fraudolenti vengono di norma messi in atto da individui pienamente consapevoli della necessità di occultarli. Per quanto sia massimo l’impegno profuso nell’azione di controllo, la Vigilanza, che non dispone di risorse illimitate, può non accorgersi di tali comportamenti. A quel punto si perseguono certamente i responsabili, ma si deve comunque gestire la crisi della banca.
Certo, un’osservazione va fatta. Dalle ricostruzioni che abbiamo sentito è emerso come fosse noto da tempo che sia la Bpvi sia Veneto Banca erano gestite da persone senza scrupoli: finanziamenti ai soci-amici per comprare azioni delle banche, operazioni in conflitto d’interessi, carenze gestionali, determinazione del prezzo delle azioni lontana da criteri oggettivi e verificabili. E’ vero che la Banca d’Italia ancora non disponeva di quel power of removal che dal 2015 consente di sostituire gli amministratori incapaci o disonesti. E’ anche vero però che al Mps nel 2012 quel potere fu esercitato “informalmente” ma efficacemente mentre nel caso delle venete le sollecitazioni a cambiare il management erano di fatto rivolte ai manager stessi che si sarebbero dovuti rimuovere e che governavano le banche in virtù dell’autoreferenzialità tipica delle popolari.
Dalle vicende di queste anni si possono trarre alcune lezioni. La Vigilanza della Banca d’Italia, della cui intrusività e arroganza peraltro spesso le banche si lamentano, è dotata, a differenza della Consob, di scarsi poteri investigativi che non le permettono di condurre con la dovuta efficacia le sue ispezioni. Tutti gli strumenti disponibili per l’Autorità di vigilanza, per quanto idonei a incidere talvolta a fondo nella gestione di un intermediario, hanno natura amministrativa e, pertanto, la loro portata non corrisponde a quella propria dei poteri dell’Autorità giudiziaria. Non ci si può, quindi, attendere da una ispezione di vigilanza gli stessi risultati di una perquisizione (o di un interrogatorio o di una testimonianza), perché quest’ultima presuppone l’attivazione di strumenti coercitivi che vanno ben al di là della misura del potere attribuito dalla legge alla Banca d’’Italia quale autorità amministrativa. Lo stesso discorso vale per quanto riguarda altri mezzi propri delle indagini penali, come le intercettazioni telefoniche o ambientali.
L’obbligo di segreto d’ufficio cui sono sottoposti i funzionari della Banca d’Italia nella loro attività costituisce sì un presidio contro la divulgazione di informazioni sensibili ma rappresenta troppo spesso un vincolo. Per esempio, ci si è chiesti se la Banca d’Italia non avesse il dovere di informare i soci delle popolari, con una sorta di early warning, che il prezzo delle azioni stabilito dal consiglio di amministrazione era gonfiato. L’articolo 7 del Testo unico bancario impone il segreto d’ufficio: tutte le notizie e le informazioni di cui Banca d’Italia venga a conoscenza nel corso della sua attività di vigilanza sono coperte da segreto d’ufficio e quindi anche da presidio penale. Il funzionario che le rivelasse sarebbe soggetto ad azione penale.

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