sabato 29 luglio 2023
ARCIPRETI, SACERDOTI, RELIGIOSI E LAICI IN OLTRE DUE SECOLI DI STORIA RACALMUTESE - 1500-1731
Dopo la venuta della Madonna del Monte
Ad Ercole succede nella baronia il figlio Giovanni (il secondo di una serie che arriva a quota cinque). Reperibile a Palermo negli atti del Protonotaro del Regno di Sicilia, un diploma che lo riguarda e che risale al 28 gennaio, VII^ Ind., 1519. In quel torno di tempo capitò ai Del Carretto un intreccio di fatti criminosi che un loro pronipote, Vincenzo Di Giovanni, ebbe poi voglia di raccontare in un suo volume dal titolo Palermo Restaurato, buttato giù subito dopo la celebre peste del 1624.
L’intreccio di omicidi e vendette fra nobili passò alla storia come il caso di Racalmuto, quasi celebre come quello di Sciacca. Un Del Carretto, Paolo, aveva avuto un contrasto con la famiglia Barresi di Castronovo ed al colmo della sua ira ebbe a schiaffeggiare un membro di quella nobile casa. Apriti cielo! Quando codesto Paolo Del Carretto con 25 cavalli andò a visitare don Ercole Del Carretto, signore di Racalmuto, spie avvertirono i Barresi che si mossero verso la piana di San Pietro per tendere un agguato. Ne scaturì una rissa con morti dell’una e dell’altra parte. Paolo del Carretto, il più animoso di tutti, brandiva a destra e a manca il suo pugnale per uccidere senza pietà. Ma una saetta nemica gli si conficcò in fronte e cadde a terra morto stecchito.
I Barresi poterono lavare l’onta subita ma dovettero riparare all’estero, a combattere con il maresciallo di Francia Lautrec, temendo la ritorsione della più potente famiglia dei Del Carretto. Passato un certo tempo, si reputarono al sicuro e tornarono in Sicilia. Morto, frattanto, Ercole Del Carretto, toccava al figlio primogenito Giovanni l’incombenza della vendetta di famiglia. Giovanni I, neo barone di Racalmuto, non se la sente di affrontare di persona i Barresi. E’ in rapporti di grande amicizia con Enrico Giacchetto di Naro, manigoldo sopraffino, e gli dà l’incarico di punire per suo conto l’oltraggio subìto. Enrico promette e nella città di Termine stermina la famiglia Barresi, che aveva frattanto abbandonato Castronovo. Le teste mozzate furono portate a D. Giovanni II a certificazione della consumata vendetta. Il Del Carretto ebbe quindi fastidi dalla giustizia di allora ma col tempo, per dirla con il cronista, “riuscì con vittoria, grandissimo onore e reputazione.” [4]
Codesto Paolo del Carretto affiora negli archivi della Curia Vescovile Agrigentina. E’ chierico, ossia un ordine minore del tempo che consente il matrimonio ed una normale attività laica. Non certo quella criminale. E’ vessatorio verso Racalmuto, tanto che pacifici cittadini - e persino un prete - gli fanno causa, nonostante i vincoli feudali che si erano già affermati. [5]
Il Sacerdote che contrasta con il chierico del Carretto è don Francesco La Licata, su cui abbiamo i dati forniti dal documento datato 17 maggio 1512 - XV^ Ind., riguardante la consegna di cedole della Curia Vescovile ai sindaci di Racalmuto Vito de Grachio, Francesco de Bona, Jacobo de Mulé, Philippo Fanara, Salvatore Casuchia, Grabiele La Licata, Orlando de Messana, presbitero Franesco La Licata et Stephano de Santa Lucia, a seguito di istanze avanzate alla Gran Regia Curia. L'incarico promanava dal Vicario Generale Luca Amantea ed è rivolto al Vicario di Racalmuto.
Il barone Giovanni II Del Carretto, avrà avuto la meglio sulla giustizia terrena, ma nel suo Castello sopra la Fontana la sua coscienza gli rimorse sino alla morte. Cercò di tacitarla facendo sorgere chiese e conventi (San Giuliano, San Francesco, Santa Maria di Juso, il Carmelo). Ebbe ad essere munifico con i preti. Dispose per un avello dovizioso a San Francesco. Fece sorgere confraternite al Monte, a San Giuliano, nella chiesa arcipretile di S. Antonio, a Santa Maria di Jesu. I carmelitani di padre Fanara gli furono devotissimi. I minori conventuali della custodia agrigentina ebbero beni ed onori e poterono officiare nella sontuosa chiesa di S. Francesco. Proprio qui il barone avrebbe voluto la sua tomba riparatrice. [6]
Ma la quiete dell’anima, in vita, Giovanni Del Carretto III non pare l’abbia mai raggiunta.
Abbiamo motivo di ritenere che il figlio Girolamo I - primo conte di Racalmuto - ebbe poi voglia di titoli nobiliari altisonanti, che molto denaro gli costò, troppo anche per le sue cospicue disponibilità. Quella cappella, a nostro avviso, non la costruì mai: non emerge dalla documentazione d’archivio, che pure è cospicua in ordine alla chiesa di San Francesco. Per sottrarsi agli obblighi testamentari, che investendo cose di chiesa potevano far scattare temibilissime scomuniche, fu tanto abile da fare incarcerare dal compiacente Santo Ufficio il notaio redigente il testamento. Quel notaio si chiamava - guarda caso - Jacobo Damiano, sì, proprio quello a cui sia Sciascia sia E.N. Messana dedicano la loro anticlericale attenzione.
Il testamento che gronda spirito cristiano, bontà, benevolenza verso i poveri, rispetto per il clero, devozione, e simili nobiltà d’animo, noi l’abbiamo già pubblicato: la sua consultazione illumina sulla storia (veridica e non fantasiosa) della prima metà del Cinquecento racalmutese. Vi traspare il livello religioso della locale comunità ecclesiale, il culto della Madonna e dei Santi, l’empito morale, la voglia di nuove chiese in cui pregare (ed ove venire sepolti).
Nella prima metà del cinquecento sorgono le prime grandi confraternite racalmutesi. Queste non sono da confondere con le aggregazioni delle maestranze, come si è soliti pensare in forza delle reminiscenze scolastiche. Le confraternite racalmutesi trascendono il dato sociale: vi si associano, tutti insieme ed alla pari, nobili e plebei, mastri e contadini, preti e laici. Hanno essenzialmente la funzione di assicurare la “buona morte” - che equivale ad una sepoltura dignitosa e cristiana nelle chiese che i sodalizi riescono a fabbricare con i mezzi propri e con l’apporto economico determinante del barone locale.
Le confraternite amministrano anche i lasciti - cospicui - che taluni arricchiti, morti senza prole o che intendono punire la poco affidabile vedova, stabiliscono per testamento al fine di dotare un’orfana - purché appartenente al loro ceppo familiare e sempreché sia povera (relativamente).
Le organizzazioni - decisamente laicali, anche se assistite da un cappellano - disponevano di fondi pecuniari da far fruttare. Finivano con lo svolgere attività intermediatrice, si configuravano in modo assimilabile alle moderne banche. Investivano soprattutto in case che affittavano e per contrassegno vi stampavano una figura richiamava, di norma, la denominazione della confraternita, derivata dalla chiesa in cui avevano sede sociale.
Stando alla visita del 1540-4 del vescovo Tagliavia, si possono ricordare queste istituzioni:
• Luminaria del Santissimo Corpo di Cristo, istituita nella chiesa maggiore di S. Antonio (che però essendo pressoché distrutta - almeno nel 1540 - non era praticabile ed al suo posto operava provvisoriamente l’ “Ecclesiola” dell’Annunciazione della Gloriosa Vergine Maria): ne era Governatore mastro Antonino La Licata, che introitava la detta luminaria sopra alcune case di Racalmuto, e cioè su 17 corpi di fabbricati, che si solevano locare per circa otto once, con affitti peraltro crescenti. In più il Governatore raccoglieva le elemosine giornaliere e curava i legati.
• Confraternita della Nunziata: ne erano i rettori:
1. Montana mastro Paolo;
2. Cacciatore mastro Paolo;
3. Santa Lucia Cesare;
4. Vaccari Giovanni.
Aveva dodici once di reddito sopra diverse case di proprietà, locate per dodici once.
* Confraternita di Santa Maria del Monte: ne erano rettori:
1. Cacciatore mastro Pietro;
2. Vaccari Pietro;
3. de Agrò Mirardo;
4. Fanara Adario.
Aveva quattro once e venti tarì di reddito sopra diversi possedimenti terrieri.
• Confraternita di Santa Maria di Gesù: ne erano rettori:
1. de Agrò Natale;
2. Vurchillino (Borsellino) Antonino;
3. Murriali Giuliano;
4. de Alaimo Michele.
Aveva dodici carpi di case in Racalmuto, locate per dieci once all’anno.
• Confraternita di S. Giuliano: ne erano rettori:
1. Curto Angelo;
2. Lauricella Andrea;
3. Curto Stefano;
4. Picuni Antonino.
Aveva una certa rendita in denaro. Ai rettori fu imposto di esibire il legittimo inventario, sotto pena d’interdetto.
Le confraternite racalmutesi appaiono come peculiari organizzazioni economiche, con un patrimonio immobiliare abitativo estesissimo, quasi monopolistico; fungono da banche con prestiti a tassi contenuti, quelli ammessi dalla chiesa; amministrano i fondi di dotazione per il matrimonio di orfane povere; e principalmente lucrano con le incombenze della sepoltura dei morti nelle chiese di loro proprietà. Emergono, comunque, due singolari e sorprendenti caratteristiche: la prima è una spiccata laicità, quasi si temesse una indesiderata sopraffazione ecclesiastica. Si badi bene, il sacerdote è bene accetto, ma esso deve limitarsi alla parte spirituale; è il cappellano che dice messa - a pagamento - ed accudisce agli atti di pietà quotidiana. La gestione economica e societaria è però di esclusivo appannaggio dei laici: il governatore, i rettori e figure simili. L’altra caratteristica è un interclassismo del tutto inusitato per i tempi. I cosiddetti “magnifici”, o i “mastri” o i semplici ‘villani’ convivono in un solo sodalizio senza preminenze e senza subordinazioni d’indole classista. C’è chi fa derivare da tali aspetti una forma di vita religiosa racalmutese, senza dubbio sincera e sentita, ma con venature anticlericali. E’ tipicamente racalmutese il motto: “monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini”. Atavica dunque a Racalmuto la separazione tra il mondo di Dio, della religione, della chiesa e quello del consorzio civile specie sotto il profilo economico e sociale. Al contempo, il classismo - o come vorrebbe Gramsci la coscienza di classe - non ha molto senso nella ‘dimora vitale’ racalmutese e da sempre. Solo nell’Ottocento gli arricchiti dello zolfo pretesero una loro egemonia accompagnata a prestigio sociale; si ritennero “galantuomini” e si associarono in loro esclusivi circoli. Nel Novecento tale discriminatoria suddivisione sopravvisse, con i tratti - spesso buffi, e talora beffardi - che Sciascia seppe mirabilmente rappresentare nelle Parrocchie di Regalpetra. Ma tra i vari Circoli Unione o della Concordia e le antiche confraternite cinquecentesche non v’è analogia alcuna.
Le confraternite - che sappiamo essere diffuse in tutta la Sicilia - non vantano ancora una sufficiente pubblicistica, diversamente da quello che avviene, ad esempio, in Francia. Ci pare che solo il padre Sindoni di Caltanissetta se ne sia occupato. Alla Matrice sono conservati Rolli ed altri documenti di minuziosa ricognizione della lunga vita di siffatte confraternite. Nessuno, sinora, li ha studiati. Qualche spurio accenno si trova nel libro di padre Morreale sulla Madonna del Monte. [7] Pur nel massimo rispetto per quel grande gesuita, ci pare però che l’approccio è fuorviante ed il peculiare fenomeno racalmutese delle confraternite sfuggì all’intelligenza del colto studioso.
* * *
Nel 1576 Racalmuto assurge a conte a e vi si insedia il barone Girolamo Del Carretto, nel frattempo trasferitosi a Palermo [8]. Con riferimento a codesto Del Carretto, assurto dopo tredici anni di baronato racalmutese, al prestigioso titolo di conte - ma lui brigò per il marchesato - Sciascia vibra nelle sue Parrocchie di Regalpetra (pag. 17), le seguenti scudisciate:
«Ammazzato, da due sicari del barone di Sommatino, morì anche il padre di Girolamo, uomo anch’esso vendicativo ed avido. Il primo Girolamo [appunto quello di cui parliamo] fu invece, ad opinione del Di Giovanni, uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo, il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Ragalpetra a contea. Ma sui meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore di Palermo, e non credo dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come afferma il Paruta, la sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare sia da ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito racalmutese [cioè il Tinebra Martorana, n.d.r.]»
Per amore di verità, Girolamo, primo conte di Racalmuto non poté avere dato l’ordine delle frustate ai trenta facchini per il semplice fatto che era morto da sedici anni, essendo deceduto nel 1583[9]. Viveva a Palermo nel 1600 Giovani IV del Carretto, figlio di Girolamo I. Il pasticcio di ritenere pretore di Palermo, nel 1600, Girolamo I del Carretto che era morto da sedici anni, lo confezionò il Villabianca, che a dire il vero, appena se ne accorse cercò di rimangiarselo. Ma lo fece in modo così maldestro che ancora nel 1924 il San Martino de Spucches continua nell’errore villabianchiano. Poco male se il Tinebra Martorana non se ne accorse. Forse Sciascia, poteva essere più avveduto: per lui - ed è ovvio - la vicenda dei Del Carretto aveva senso solo se suggeriva metafore letterarie.
Un passo della Morte dell’Inquisitore ci pare invece perspicace ai fini dell’inquadramento storico di questa congiuntura racalmutese (pag. 183): «.. dai documenti del Garufi sappiamo che a Racalmuto c’erano, nel 1575, otto familiari e un commissario del Sant’Uffizio; e due anni dopo dieci familiari, un commissario e un mastro notaro: su una popolazione di circa cinquemila (il Maggiore-Perni dà 5.279 abitanti nel 1570, 3.825 nel 1583: per quanto queste cifre siano da accettare con cautela, si può senz’altro ritenere attendibile la flessione [10] ). Vale a dire che il solo Sant’Uffizio aveva una forza quale oggi, con una popolazione doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di questo nostro povero paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende. Ma di racalmutesi caduti nelle grinfie del Sant’Uffizio, prima di fra Diego, ne troviamo uno solo: il notaro Jacobo Damiano, imputato di opinioni luterane ma riconciliato nell’Atto di Fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563. Riconciliato : cioè, per manifesto e pubblico pentimento, assolto; ma non senza pena ...».
Per quello che si è visto nel corso di questo lavoro, di sacerdoti racalmutesi addetti al Sant’Uffizio, ne abbiamo trovati parecchi, ma solo a partire dai primi anni del ’Seicento sino ad arrivare all’ultimo che è stato don Francesco Busuito, morto il 29 gennaio 1802 all’età di 74 anni.
Durante il baronato e la contea di Girolamo I Del Carretto, fu intensa la vita civica a Racalmuto. Era da tempo che i vassalli si erano ribellati alle imposizioni feudali, specie quelle del cosiddetto terraggio e terraggiolo. Da ambo le parti erano state sostenute ingenti spese. Un accordo fu trovato il 15 gennaio 1580 (9^ ind.).
E prima, nell’ anno 1577, al suono della campane i racalmutesi si erano congregati nella chiesa dell’Annunziata per cercare un alleggerimento di imposta da parte viceregia, dati i calamitosi tempi seguiti alla peste di alcuni anni prima. Si era avuto il necessario avallo di Girolamo Del Carretto.
Girolamo I Del Carretto non solo, dunque, non fece frustare nel 1600 i facchini di Palermo (diciamo, per precedente morte), ma appare piuttosto benigno verso i suoi vassalli di Racalmuto.
Gli subentrava, alla morte, il figlio primogenito Giovanni IV Del Carretto. Questi fu irrequieto e non si astenne persino dall’omicidio. E’ lui il mandante dell’attentato al Cannita, su cui si dilungano gli storici locali. E’ lui che finisce nel carcere di Castellammare di Palermo, ove era detenuto anche il poeta Antonio Veneziano (perirà questi; si salverà Giovanni del Carretto e Sciascia causticamente punzecchia). E’ lui che ha una caterva di sorelle cui garantire il “paragio” (fra le altre la celebre donna Aldonsa del Carretto, la fondatrice del convento di Santa Chiara a Racalmuto); un figlio spurio di nome Vincenzo diventerà arciprete di Racalmuto nel 1608; l’altra figlia illegittima si sposerà con Girolamo Russo, divenuto governatore del Castello racalmutese. E contro di questi si catapulterà, con la sua pingue mole, il vescovo agrigentino, approdato dalla Spagna, Horozco Covarruvias.
Giovanni IV Del Carretto male visse e peggio morì: trucidato in un attentato a Palermo, lasciò come erede l’infelice Girolamo II Del Carretto, occisus a servo diceva una pergamena custodita entro il sarcofago del Carmine, e suo nipote Giovanni V Del Carretto fu giustiziato a Palermo nel 1650. (Tra quest’ultimo Giovanni e Girolamo II, storici poco accorti hanno intrufolato un altro Giovanni o un altro Girolamo che è solo frutto di confusione e di scarsa avvedutezza nella ricerca storica; anche Sciascia vi casca, ma - ripetesi - lo scrittore non si ritenne mai un erudito di storia locale). L’aneddotica è ricca e non è questa la sede per ripercorrerla. [11]
Nel Cinquecento la storia religiosa racalmutese ha punte di rilievo: inizia nel 1554 un’attività archivistica che risulta oggi un patrimonio unico e mirabile per chi voglia investigare sullo sviluppo demografico del paese. Sono cappellani e preti, eruditi e diligenti che in registri annotano i fatti della vita locale. Una cultura che ravviva la terra misera e tragica del grano e del vino. Sono governatori e rettori delle confraternite che trascrivono nei loro rolli atti e testamenti, disposizioni varie e consegnano alla memoria futura i momenti operosi dei nostri antenati di quel tempo.
Racalmuto conta all’inizio del secolo appena 1670 abitanti ed a chiusura siamo attorno a 4448. Dal 1554, l’evolversi cittadino è segnato passo passo dai tanti deprecati preti: un merito tanto grande quanto misconosciuto. Noi abbiamo spigolato per ricordare di costoro tutto quanto ci è stato possibile sapere.
L’efferata esecuzione antisemita che abbiamo sopra rievocata avvenne nel 1474, quando vescovo di Agrigento era Iohannes de Cardellis seu Cortellis, un benedettino che era stato abbate del Monastero di S. Felice in Bruxelles e che nel 1479 si trasferirà a Patti. Quale peso abbia avuto nel reggere la diocesi, non è dato di sapere. In precedenza, aveva governato la chiesa agrigentina il Beato Matteo de Gimmara, noto per il suo furore nel volere convertire gioco forza gli ebrei agrigentini. Su quell’onda lunga, poté maturare il misfatto contro il povero Sadia di Palermo. Gli ebrei saranno cacciati dall’agrigentino in coincidenza con la scoperta dell’America, nel 1492. La Racalmuto del 1500 era stata dunque ‘epurata’ dei pochi ebrei ivi stanziatisi, forse con una conversione imposta.
Ercole Del Carretto vuol apparire devoto alla Madonna; non avrà voluto grane con gli ecclesiastici ed i suoi vassalli di colpo saranno divenuti ferventi credenti, del tutto ignari di che cosa significasse la circoncisione. Neppure si dovevano rinvenire i celebri marrani: tutti credenti, tutti ariani, tutti cristiani di antica data. Nelle grinfie del Sant’Uffizio, il primo racalmutese - che poi era agrigentino - è stato alla fine del secolo il notaio Jacobo Damiano, come afferma Sciascia, per di più sospetto di essere un luterano. Sangue puro, anche lui, dunque.
Nel 1537 diviene vescovo di Agrigento il nobile Pietro de Tagliavia de Aragona. Apparteneva alla potentissima famiglia dei Tagliavia signori di Castelvetrano. Passerà a reggere la prestigiosissima chiesa metropolitana di Palermo. Giulio III lo eleverà alla porpora cardinalizia.
Il Prelato, nel 1540, manda i suoi visitatori episcopali a Racalmuto e costoro diligentemente ma in modo angusto e burocratico redigono alcune paginette di relazione. E’ la prima descrizione dello stato delle chiese, o meglio è un elenco delle dotazioni, dei “jocalia” posseduti.
Tre anni dopo, il 9 giugno del 1543, il vescovo Tagliavia si reca in pompa magna in questa nostra terra. Sarà stato senza dubbio ospite nel Castello del nobile Giovanni II Del Carretto. Della Visita si fa un processo verbale, ma molto stringato; comunque ne scaturisce un quadro generale del clero e delle confraternite di Racalmuto, basilare per una ricostruzione storica di quel tempo.
Quante chiese fossero aperte a Racalmuto a metà del Cinquecento, come erano dotate, quali sacerdoti avessero ruoli egemoni ed uffici di risalto, quali le rendite, chi aveva le primizie e chi le decime, ecco un contesto che scaturisce dal latino incerto di quel pur notevole documento.
In precedenza nel 1520, quando vescovo di Agrigento era Iulianus Cibo, era scoppiata la grana della successione dell’arciprete Giacomo de Salvo. Questi, morto anni prima, aveva lasciato dei beni. Chi subentrava ne reclamava il possesso. Le postulazioni di prelati e di legati palesano il modo scopertamente simoniaco con il quale l’arcipretura di Racalmuto transitava da un beneficiario all’altro. E la corte papale trovava tempo ed interesse ad assegnare quel lontanissimo e sparuto beneficio a protetti, o raccomandati o forse semplicemente acquirenti del giro dell’ entourage papalino.
Il mercimonio si ripete nel 1561 con la nomina ad arciprete di Racalmuto del sacerdote don Gerlando d’Averna, che, se bene interpretiamo i dati d’archivio della Matrice, era un agrigentino. Prima non abbiamo mancato di riportare ed illustrare i documenti, sinora inediti, che ci rendono edotti di questi spunti di vita ecclesiastica racalmutese. Una caterva di preti con quel cognome piombano da noi, trovando mansioni remunerative. Anche parenti laici seguono il classico ‘zio prete’ e mettono su famiglia; nel tempo il cognome diviene più prosaicamente Taverna. Tra il D’Averna ed il Taverna, i registri della Matrice oscillano per un paio di secoli almeno.
Al D’Averna subentra, nell’arcipretura, il sac. Michele Romano, che muore il 28 luglio 1597. In vita appare un arciprete diligente ed assiduo. Propendiamo per la sua origine racalmutese. Lascia comunque un cospicuo “spoglio”. Il solito vescovo Horozco ne esige la consegna. Ma, più potente ed ammanigliato, sarà il conte Giovanni IV Del Carretto ad avere la meglio nella vertenza giudiziaria, potendo questi vantare i suoi diritti feudali.
Si rifece il vescovo nominando arciprete di Racalmuto don Alessandro Capoccio - un napoletano girovago che aveva favorevolmente testimoniato in Spagna nel processo concistoriale per la concessione della mitra vescovile. Divenuto il Capoccio segretario del neo vescovo agrigentino, deve trattare con la curia romana per uscire dalle pastoie delle “relationes ad limina” che il Concilio di Trento imponeva agli ordinari con cadenza triennale. Nelle carte dell’archivio segreto del Vaticano, lo rinveniamo varie volte, presente a Roma. Non ha quindi tempo di recarsi a Racalmuto, neppure per prendere possesso del beneficio. Vi manda suoi delegati, dei canonici che appaiono in uno scandaloso processo per sodomia in cui sono coinvolti ecclesiastici di Cammarata.
Mons. De Gregorio, e dopo di lui lo storico Manduca, tendono ad esaltare quest’ordinario spagnolo. Chissà perché i colti sacerdoti, quando fanno storia, credono che debbano fare apologetica. Chiosare le mende di un vescovo indegno che fece arrabbiare il papa (una annotazione pontificia autografa degli archivi vaticani lo attesta inequivocabilmente) non è poi atto riprovevole, se a compierlo è magari un ecclesiastico.
Tra le carte segrete romane, un cappuccino, uomo del celebre vescovo Didacus de Avedo (Haëdo) - il vescovo del Sant’Uffizio, ordinario prima di Agrigento e poi di Palermo, scarnifica il pingue presule spagnolo con staffilate feroci. Un libello mandato al papa lo vorrebbe:
Scandaloso et scommunicato; Disobediente et lascivo; Scandaloso; (coinvolto in un ) Homicidio; Disobediente della Sede Apostolica; Concurso à laici; Contra il Motu proprio di Sisto; Usurpatore; Subornatore; Scommunicato; Cupido; (affetto da) Pazzia; Sordido; Cupido - Archimista.
E per ognuno di questi epiteti, giù una sfilza di fatti, apprezzamenti, insinuazioni, miserie umane. Non fu certo un caso che lo spagnolo Horozco Covarruvias, imposto dal re Filippo II di Spagna, riuscì a lasciare il vescovado agrigentino per pressioni e raccomandazioni regali e dovette accontentarsi della più angusta diocesi di Cadice, a metà rendita.
Ebbe la beffa di vedersi bruciato un libro, intitolato De Rebus suis, per ordine del Papa, che lo aveva messo all’indice in quanto era un libercolo calunnioso verso la potente famiglia dei Del Porto, ed altri notabili agrigentini. Il Pirri tramanda che il vescovo Didacus de Haedo suum trasmisit vicarium Franciscum Byssum Agrigentum; qui convocato in aede Cathedrali populo die festo coram ipso Episcopo libros flammis vorandis tradidit.
Il Pirri si era prima lasciato andare ad apprezzamenti lusinghieri sul Covarruvias, dichiarandolo uomo di grande erudizione. Invero, il presule spagnolo si faceva tradurre in latino da Sebastiano Bagolino i suoi claudicanti versi. In compenso beneficiò il fratello del poeta siciliano, che era sacerdote, con i beni di S. Agata di Racalmuto. E così i pii legati dei fedeli del nostro paese servirono per pagare gli uzzoli letterari di uno scervellato, che indegnamente occupava la cattedra di S. Gerlando.
* * *
Il Capoccio fu arciprete di Racalmuto per lo spazio di un mattino: inviati i suoi messi don Vito Bellosguardo e don Antonino d’Amato il 16 luglio del 1598, ben prima del marzo del 1600 deve far fagotto. Gli subentra don Andria Argumento, che prende possesso “di la maiori ecclesia di Racalmuto” appunto il 7 marzo XIII ind. 1600.
Il Capoccio era oriundo napoletano. Come mai, dunque, riesce ad accaparrarsi le pingui “primizie” gravanti sui martoriati contadini racalmutesi? Ci viene in soccorso l’archivio segreto vaticano. Abbiamo curiosato nel processo concistoriale per l’elevazione a vescovo di Agrigento del mezzo ebreo Horozco. Il Capoccio vi appare come un perdigiorno, un avventuriero finito chissà perché in quel di Spagna. Si dà da fare e fornisce la sua testimonianza nel canonico processo che si instaura per la elevazione alla dignità episcopale del toletano. Aveva, questi, una macchia - per l’epoca - da tenere nascosta: pena l’indegnità e la non eleggibilità. Non aveva proprio la cosiddetta limpeza de sangre: la madre Maria Valero de Covarruvias era di origine giudea. Il prescelto aveva conseguito appena gli ordini minori il 30 aprile 1573 ed eccolo subito canonico priore della cattedrale di Segovia, senza essere ancora sacerdote (l’ordine maggiore lo conseguirà il 12 maggio 1573). Regge il vescovado di Segovia durante la sede vacante e diviene quindi arcidiacono di Cuéllar. I suoi meriti sono solo quelli della sua famiglia che annovera importanti canonisti e umanisti come Diego e Antonino Covarruvias o come Sebastiano che fu cappellano del Sant’Uffizio.
Un siffatto giovanotto è destinato ad una folgorante carriera: il re di Spagna Filippo II lo impone a Clemente VIII che non può fare a meno di elevarlo a vescovo titolare della prestigiosa cattedra di S. Gerlando. Da un borgognone ad un toletano!
Ma la forma è forma: s’imbastisce il rituale processo in Spagna. Tra i testi, riesce a intrufolarsi il napoletano Capoccio il cui unico titolo è quello della pretesa conoscenza delle cose della Cattedrale di Agrigento presso la quale aveva anni prima brigato. La deposizione del Capoccio è vaga, imprecisa, reticente, incompetente; eppure è sufficiente per fugare gli ostacoli del vigente diritto canonico.
Giunto in pompa magna ad Agrigento, il giovanotto toletano, pingue oltre ogni dire, basito, che sa parlare solo in spagnolo e non comprende né latino, né la lingua italiana, né, tampoco, il vernacolo siciliano, viene raggiunto dal compiacente spergiuro d’origine napoletana.
I Napolitani, i cui meriti tutti riconoscono ma i cui difetti non possono ignorarsi, sono come sono: non sarà parso vero al partenopeo Capoccio di ricattare il neo-vescovo per quella testimonianza spagnola, secretata nei suoi particolari, ma ben presente nella memoria dell’Horozco: una resipiscenza, un pentimento del teste spergiuro ed ecco la revoca!
Capoccio viene subito tacitato con la nomina a segretario; gli vengono affidate locupletanti missioni nell’ostile corte papale. Non basta: i benefici arcipretali racalmutesi sono suoi. E’ lo stesso Horozco che nelle sue relationes ad limina a ragguagliarci della molteplicità e cospicuità di tali gravami ecclesiastici sulla disastrata Racalmuto.
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