LA
MIA PITTURA TRA IL POPOLO DI DIO
DELL’ARCIPRETE
Alfonso Puma
Cinquant’anni, una semisecolare
vicenda – e mesi da aggiungere, e già molti mesi – una lunga parabola
missionaria, un ministero della mia modesta persona sorretto dalla divina
grazia di cui mi sento e sono indegno – ma Dio lo vuole, Dio l’ha voluto, ecco
il mio sacerdozio tra il popolo di Dio, il colto, irrequieto, di sovente
ironicamente blasfemo: mi riferisco, è ovvio al mio paese a Racalmuto. Sì, una
arcipretura ultra semisecolare!
E poi da oltre settant’anni, il
pennello, il carboncino, i colori, la tavolozza, la pittura, la figura,
l’immagine, la composizione, il cromatismo ora ieratico, ora accorato, ora
illagrime, ora triste – e da tempo ormai stanco e canuto nei momenti dei cupi
rintocchi del mio umano esecrare l’inquietante senescenza – e dapprima, nella
giovinezza, anche sognante (forse
l’allucinazione dei mistici, forse l’alumbramento iberico di sciasciana
memoria). Ma in tutto, una misura un metro, un pentagramma disnodantesi sopra i
meandri delle umane pulsioni ed il lambire, senza superbie babeliche, le
gioiose altitudini della spirituale redenzione. Là dove l’uomo, il pittore e
l’unto del Signore attingono il mistero dell’agnazione divina, dell’essere cioè
figli di Dio..
Antitesi o simbiosi tra il ministrare
Dio agli uomini nel cerchio stellare della mistica Ecclesia, che tutti unisce e
sublima, umanamente e le sfibranti paratie di una scisti parrocchiale da
dirigere e reprimere, da esortare e correggere, da ammonire ed assolvere, da
sospingere verso le salvifiche vie dei sette sacramenti, da quelle della vita,
a quella della corroborazione, a quella nuziale, a quella dell’ultimo viatico,
e, in contrapposto o in armonica digressione, il diletto dell’umano dipingere?
Scrisse a proposito di me, il mio
presule mons. Carmelo Ferrara: “l’arte …. rivela Dio … ne diventa non solo
epifania, ma scala elevante” sino a Lui. Vi ho provato, padre; vi ho provato
come uomo, come prete, come primo presbitero della comunità racalmutese ove talora
vi ha scorazzato il demone della superbia, della scristianizzante affabulazione
letteraria, del blasfemo irridere a Dio e Santi. Se eretico fu il secentesco
agostiniano dell’ordine centuripino Fra Diego La Matina, se eretico volle
apparire il suo celebre agiografo, se ora spunta qualche impubere loquace,
propenso all’imitazione blasfema addirittura verso la Madonna (la “regina” – né
patrona né compatrona - di Racalmuto) qualche colpa eppure mi macula, ma la mia
pittura è per tale verso illibata.
Ebbi a scrivere (meglio a dire): Io credo che se il Signore ci assiste - ho
molta fiducia nella Provvidenza, nei collaboratori - Racalmuto avrà un futuro
migliore. Le chiese stanno per essere tutte restaurate e sono un patrimonio
artistico e culturale, con grande vocazione turistica, anche. Dal punto di
vista morale c’è da sperare in bene. Guardiamo ai tanti ragazzi, ai tanti
giovani che si dedicano ad un meritevole volontariato. Gli oratori - ben
quattro - sono segni tangibili di questa buona volontà, della saldezza
dell’istituto familiare. Abbiamo, anche, alcune organizzazioni culturali,
artistiche. Vedo che diverse mostre sono state organizzate in questi ultimi
tempi, segni di una crescita culturale, di una maturità diffusa. Per quanto
riguarda il fattore politico, credo che se non cambia qualcosa a livello
nazionale, regionale, non riuscirà a cambiare nemmeno un piccolo paese. A
Racalmuto, al popolo di Dio di Racalmuto, vada tutto il mio affetto, il sincero
augurio del loro parroco, di questo sacerdote prossimo alle nozze d’oro con la
Chiesa, alle nozze d’oro di un sacerdozio tutto speso qui, in questa terra del
sale e dello zolfo, dei campi e delle vigne, del pavido commercio, della
minuscola borghesia; in questo paese talora inverecondamente bagnato di sangue,
in questo paese che ad ogni buon conto ha una insopprimibile voglia di
redimersi, di migliorare, di essere civile, di avere fede in Dio, nella sua
materna Madonna del Monte. Racalmuto, ove la gente nei tempi si è abbarbicata
“come erba alla roccia”. Pervicacemente. Ove la gente vuole costruire una città
del sole, la città di Dio.
Ribadisco, anche con una punta di
fierezza che il Signore vorrà punire, ma son sicuro, con affettuosa blandizia.
Non sono un professionista della
pittura, ma solo un prete che si diletta di pittura: dilettante, dunque,
soprattutto perché il mio impasto cromatico è un momento di preghiera, un atto
di ringraziamento verso Iddio, un pensiero riverente e filiale verso la
Madonna, sì, la Madonna dei Racalmutesi, la Madonna che svetta all’interno
della chiesa del Monte (e diffido dalle marmoree imitazioni, specie se
sguaiatamente esposte sui muretti dei vetusti campi sportivi locali). Mi si
vede in una foto (assicuro, non narcisisticamente) in camicia t
alare, sotto l’ancora integro
Castelluccio, tra l’esplodere dei colori canicolari, con la tela da fecondare
pittoricamente appoggiata sulla pietra gessosa del pleistocene , immerso tra le
ingiallite erbe della macchia mediterranea. A dipingere “il sogno di Giacobbe”
o “il parassita” (meno probabile, “liberta di colombe”) o “incendio nel bosco”
o “natura madre” (non certo “tramonto, né l’ ecumenico e ‘politico’ “incontro
di popoli” e neppure “la città dell’industria” o “terra e luna”), molto
probabilmente “il paese”, ma non escludo “l’infinito” o “preghiera incontro”.
Lo so, l’ho capito: i professionisti
della pittura storcono il naso, hanno i canoni delle loro evirate accademie che
a parole rinnegano, ma nella loro esangue circolazione subiscono
ossessivamente, peggio di un eretico prete alle prese con il rinnegamento di
tanti pur scomodi dogmi. Mi si vuole immergere nel “de rerum natura”, ma
Lucrezio ed il suo mondo mi è estraneo, preferisco qualche salmo latino, magari
criptico, magari ammiccante. “nigra sum sed formosa”. E distinguo la parabola
dal simbolo, il racconto dall’immagine. Oh! Questi critici. E per quanto il mio
linguaggio è contadino (atavicamente agreste) non ha candore, ne rifugge. E’
robusto, stridulo, forse frinisce come cicala d’estate sulla spiga. E se la mia
scrittura pittorica non è reboante ma monodica, anche paratattica, non si
dispiega su pentagrammi asfittici, monotoni, privi di insolenze espressive,
candidi, appunto. Scusami, buon Pippo Bonanno, ma dissento da te.
Mi lusinga invece l’aforisma
bonanniano che mi accredita di “una essenziale orditura semantica” felicemente
armonizzata dal colore. Non sapevo comunque di fare pittura su un “piano senza
dimensione”. Francamente il critico d’arte – escludendo i sommi alla Zevi o
alla Argan – è spesso un ilare comico. Già, avrei “percepito il segreto anelito
di infinito che è una delle più grandi aspirazioni dell’uomo contemporaneo”.
Perché in antico non era così? La reietta anima contadina non aveva aneliti
ancora più intensi e più esclusivi? Ed io – di vetusta anima campagnola (“de
rerum natura” appunto) – vanto agnazioni georgiche mai rinnegate, per di più
non rinnegabili. Il “contemporaneo” sarà esotico ma mi è artisticamente alieno.
Lo annotava 50 anni fa il piccolo – allora anche di anni – Calogero Taverna. “
ne ultra …” caro Bonanno!
Che cosa è poi il “contemporaneo” in
arte? Mirate il mio obnubilato peregrinare da villico prete di Sicilia tra le
innaturali fronde del Boulevard de Paris. La peccaminosità moderna non tange il
prete, perché contadino e contadino anche andando a ritroso nella propria
genealogia. E l^ i colori non sono né chiari né gialli; non sono né scarni né
corposi e non necessitano di controllo o di essenziale (come dire angusta)
orditura semantica. Eccentrico il buco bianco della salvezza o del ripudio, del
ritrovarsi ovunque figlio di Dio, sublime anima destinata al regno dei cieli.
Mi rivedo in fotografia a la Funtana
(quando si tornerà a chiamarla come veniva nomata da secoli, in quarterio
Fontis, alla latina, secondo il gergo notarile? Gramsci è rispettabile ma le
nostre memorie storiche sono il flusso del nostro sangue genuinamente
racalmutese, non certo regalpetrese? Abisit
iniuria verbis!) Sotto la fonte cinquecentesca ( al Settecento risale solo
l’orrido rifacimento) e dietro il castello biturrito che impudentemente si
vuole fridericiano mentre è solo chiaramontana, ma della fine del secolo di
quella contorta famiglia. Ci riferiamo al “domicellus” Manfredi Chiaramente (il
bastardo aggiungono i malevoli). Le grandi falsità della piccola storia locale
mi stanno alle spalle, la mia pittura ne è immune. Ha voglia di cielo, di sole
all’occaso, di fremiti umani di dubbi ammessi, di certezze che solo il
magistero della Chiesa sa darti. L’uomo in bianco, piccolo, ed il pargolo
piccolo che gli è avvinto e sullo sfondo marino quattro barchette per un
trapasso alla gioia perenne tra le nubi di incerto, impalabile colore chissà se
non rievocano tenerezze paterne perdute da tempo, forse del tutto obliate a
livello cosciente. Un motivo per psicanalisi del prete contemporaneo, solo con
se stesso, nel solipsismo di un subconscio senza complessi di edipo e di altre
elucubrazioni freudiane. Già, l’ebreo d’Austria ha mai scandagliato il superio
di un prete contadino del sud?
Vette superne lontano lassù, picchi
glabri quaggiù e un paio di stambecchi, avranno valenze simboliche
imponderabili. Io li ho solo dipinti e non ricordo di avere inteso ordire “un
discorso pittorico [che] si affida ad un esplicito simbolismo: troppo evidente
(e necessario) residuo strumento della parabola e piccola concessione ad un
supporto letterario. Ho dipinto certo per mio diletto, per un moto incantato
del mio spirito, soprattutto per una mia sommessa e discreta preghiera. Ne sono
fiero, ne sono appagato. Che Dio mi perdoni.
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