Leonardo Sciascia, in vena di anticlericalismo viscerale, insinua nel suo testo su Mons- Ficarra, questo inciso.
"Nel seminario era inevitabile si proponesse quel modello di preopotenza clericale, subdola e qualche volta rissosa, che era peculiare al capoluogo di quell'antica diocesi. Ne era in quegli anni vescovo colui il cui vero nome nulla ci direbbe, vivo com'è quello che Pirandello gli ha dato nel romanzo 'i vecchi e i giovani' : Monsignor Montero".
E chi è mai codesto mi son detto. Ho quindi stralciato dal citato romanzo pirandelliano questa raffigurazione episcopale. Sufficiente, non sufficiemte? Boh!
Monsignor Montoro arrivò alle quattro del pomeriggio con la sua vettura silenziosa, tirata da un pajo di vispi muletti accappucciati.
Lo accompagnava Vincente De Vincentis, l’arabista, che aveva lasciato quel giorno la biblioteca di Itria per il vicino palazzo vescovile e s’era sfogato a parlare per tutti i giorni e i mesi, in cui, quasi avesse lasciato la lingua per segnalibro tra un foglio e l’altro di quei benedetti codici arabi, restava muto come un pesce.
Aveva parlato anche in vettura, durante il tragitto, con certi scatti e schizzi e sbruffi che gli scotevano tutto il corpicciuolo ossuto, sparuto, convulso. Gli occhi duri, dietro le lenti fortissime da miope, nel volto scavato, sanguigno, avevano la fissità della pazzia.
Parecchie volte il vescovo con le mani molli feminee e la voce melata, dalle inflessioni misurate e quasi soffuse di pura autorità protettrice, gli aveva consigliato calma, calma; gli consigliò adesso, piano, prudenza, prudenza, oltrepassando il cancello della villa tra il riverente ossequio degli uomini di guardia; e, di nuovo, col gesto, prudenza, prima di smontare dalla vettura.
I due ospiti furono subito introdotti da Liborio nel salone; ma confidenzialmente il vescovo si permise d’uscire sul terrazzo marmoreo aggettato su le colonne del vestibolo esterno, per godere del grandioso spettacolo della campagna e del mare.
Si delineava tutta di lassù la lontana riviera su l’aspro azzurro del mare sconfinato, da Punta Bianca, a levante, che pareva uno sprone d’argento, via via, con insenature e lunate più o meno lievi fino a Monte Rossello a ponente, di cui soltanto nella notte si vedeva il faro sanguigno. Solo per breve tratto, quasi nel mezzo della dolce amplissima curva, la riviera era interrotta dalla foce dell’Hypsas.
Don Ippolito sopravvenne poco dopo, premuroso, non ancor ben rimesso dal grave turbamento che la visita della sorella gli aveva cagionato.
– Ho condotto con me il nostro De Vincentis, – disse subito monsignor Montoro, – perché vorrebbe vedere non so che cosa nel vostro Museo, caro principe. Lo farete accompagnare, e noi resteremo qua, su questo pergamo di delizia: non saprei staccarmene. Ma prima il De Vincentis vorrebbe rivolgervi una preghiera.
– Sì, – scattò questi, come se avesse ricevuto una scossa elettrica. – Volevo venire da solo, questa mattina stessa. Monsignore, invece, no, dice, meglio che vieni con me. È una cosa molto seria, molto seria...
– Sentiamo, – disse il principe, invitandolo col gesto a rimettersi a sedere sulla seggiola di giunco del terrazzo.
Il De Vincentis si curvò goffamente per vedere dove fosse la seggiola; poi, sedendo e afferrando i bracciuoli con le piccole mani secche e adunche, proruppe:
– Don Ippolito, rovinati! rovinati!
– Ma no... ma no... – si provò a correggere Monsignore, protendendo la mano gravata dall’anello vescovile.
– Rovinati, Monsignore, mi lasci dire! – ribatté il De Vincentis; e le cave gote sanguigne gli diventarono livide.– E causa della rovina è mio fratello Niní! È andato lui dal... dal...
Ancora una volta le mani del vescovo si protesero; il De Vincentis le intravide a tempo e si poté tenere. Ma già il principe aveva compreso.
– Dal Salvo, – disse pacatamente. – So che gli avete ceduto...
– Ninì! Ninì! – squittì il De Vincentis. – Primosole... Ninì! Lui gliel’ha ceduto... Non so nulla io; nulla di nulla; al bujo, cieco... E lui più cieco di me, stupido, pazzo, innamorato... Come dice? Transeat per Primosole... Sì! Ci ho fatto la croce... benché... benché il podere solo, sa, è stato pagato, e in un modo che fa ridere...
– Ma no, perché? – interruppe di nuovo, serio, Monsignore.
– Piangere, allora! – rimbeccò il De Vincentis, che aveva già perduto le staffe. – Va bene? Ottantacinquemila lire, e la villa in groppa! La villa di mia madre, là...
E con la mano accennò verso levante, oltre il greppo dello Sperone, al colle più alto, detto di Torre che parla, dall’aspetto d’un leone posato, a cui faceva da giubba un folto bosco di ulivi.
– Quarantaduemila, – riprese,– erano di cambiali scadute: il resto, sfumato, volato via in meno di due anni? Dove? ora sento che si tratta di cedere al Salvo anche le terre di Milione. E che ci resta? I debiti col Salvo... gli altri debiti... Lo so, ho saputo... Lei sposerà, dice, la sorella... donna Adelaide...
– E che c’entra? – domandò, stordito, dolente, il principe, guardando monsignor Montoro.
– Mi congratulo, badi, mi congratulo... – soggiunse subito il De Vincentis, rosso come un gambero. – Noi però siamo rovinati!
E si alzò per non far vedere le lagrime sotto le lenti cerchiate d’oro.
Don Ippolito guardò di nuovo il vescovo. senza comprendere.
– Vi dirò, – disse questi con tono grave, di risentimento per la disubbidienza del giovine e calò su gli occhi chiari, pallidi, globulenti, le palpebre esilissime come veli di cipolla.
– Vi dirò. So che Flaminio Salvo ha già fatto donazione alla sorella delle terre di Primosole e che è disposto a farle donazione, quando sarà, anche di quelle del feudo di Milione. Ma sono addolorato del modo con cui il nostro Vincente si è espresso, perché... perché non è il modo, codesto, di parlare di persone onorandissime, da cui forse, senza saperlo, abbiamo ricevuto qualche beneficio.
Il De Vincentis, che stava con le spalle voltate ad asciugarsi gli occhi, si voltò a queste ultime parole del vescovo.
– Beneficio?
– Sì, figliuolo. Tu non puoi comprenderlo perché disgraziatamente non ti sei dato mai cura de’ tuoi affari. Vedi ora il dissesto e senti il bisogno d’incolparne qualcuno, a torto; invece di portarvi rimedio. Non eri venuto qua per questo?
Il De Vincentis, che non poteva ancora parlare dalla commozione, chinò più volte il capo.
– È meglio – riprese Monsignore, – che tu vada giù; col vostro permesso, principe. Esporrò io il tuo desiderio.
Don Ippolito si alzò e invitò il De Vincentis a seguirlo; poi, su la scala, lo affidò a Liborio, cui diede la chiave del Museo, e ritornò dal vescovo, che lo accolse con un sospiro, scotendo le mani intrecciate.
– Due sciagurati, lui e il fratello! Flaminio Salvo, vi assicuro, principe, ha usato loro un trattamento da vero amico. Senz’alcuna... non diciamo usura per carità, non se ne parla nemmeno; senz’alcun interesse ha prestato loro dapprima somme rilevantissime; ha avuto poi offerta da loro stessi una terra, di cui egli, banchiere, dedito ai commercii, capirete, non sa che farsi: un altro creditore avrebbe mandato al pubblico incanto la terra, per riavere il suo danaro. Egli invece ha fatto all’amichevole e ha continuato a tenere aperta la cassa ai due fratelli che spendono, spendono... non so come, in che cosa... senza vizii, poverini, bisogna dirlo, ottimi, ottimi giovani, ma di poco cervello. Il fatto è che navigano proprio in cattive acque.
– Vorrebbero ajuto da me? – domandò don Ippolito, con un tono che lasciava intendere che sarebbe stato dispostissimo a darlo.
– No, no, – rispose afflitto Monsignore. – Una preghiera che, stimo, non potrà avere alcun effetto. Il De Vincentis crede che Ninì, suo fratello minore, sia innamorato della figlia di Flaminio Salvo, e...
– E...? – fece il principe.
Ma aveva già compreso; e il dialogo terminò sicilianamente in uno scambio di gesti espressivi. Don Ippolito si pose le mani sul petto e domandò con gli occhi: «Dovrei farne io la richiesta al Salvo?». Monsignore assentì malinconicamente col capo; col capo dapprima negò l’altro, poi alzò le spalle e una mano a un gesto vago, per significare: «Non lo faccio; ma quand’anche lo facessi?...». Monsignore sospirò, e basta.
Stettero un pezzo in silenzio entrambi.
Don Ippolito, già da parecchi anni, avvertiva confusamente che quel monsignor Montoro gli era non tanto davanti agli occhi, quanto nello spirito, un grave ingombro, quasi che col peso inerte di quelle sue carni rosee troppo curate si adagiasse a impedire che tante cose attorno a lui e per mezzo di lui si movessero. Quali, in verità, non avrebbe saputo dire; ma certo, con quella figura lì, con quella mollezza rosea inerte ingombrante, molte e molte colui doveva trascurarne, che forse un altro, al posto suo, più àlacre e men femineo, avrebbe mosse, anzi scosse e avviate.
Dal canto suo, Monsignore avvertiva, che tra lui e il principe c’era un sentimento non ben definibile, che spesso da una parte e dall’altra s’arricciava, si ritraeva, lasciando tra loro un vuoto impiccioso, dal quale venisse dentro a ciascuno de’ due una certa lieve acredine rodente.
Forse questo vuoto era fatto da un argomento, che Monsignore sapeva di non poter toccare, e che pure era tanta parte della vita del principe: cioè, i suoi studii archeologici, il suo culto per le antiche memorie. Non poteva toccarlo, quest’argomento, per timore che fosse pretesto a don Ippolito di riparlargli d’una cosa, di cui egli, uomo di mondo e senza ubbìe d’alcuna sorta, non voleva sapere. Più volte il principe aveva cercato d’indurlo a consacrare almeno una piccola parte della sua cospicua mensa vescovile al restauro dell’antico Duomo, insigne monumento d’arte normanna, deturpato nel Settecento da orribili sostruzioni di stucco e volgarissime dorature. Egli s’era rifiutato, dicendogli che, se mai fosse riuscito a metter da parte qualche risparmio, lo avrebbe piuttosto destinato a costituire una rendita, per cui al convento di Sant’Alfonso, lì presso la cattedrale, potessero ritornare i Padri Liguorini cacciati dopo il 1860.
A don Ippolito non importava nulla dei miglioramenti arrecati alla sua città natale dalle nuove amministrazioni succedute alle decurie e agli intendenti del suo tempo. Per quanto non si desse requie nella lotta e mostrasse animo risoluto a raggiungerne il fine, non aveva più fiducia, in fondo, di potere un giorno rivedere la città, da cui s’era esiliato. La vedeva col pensiero, com’era prima di quell’anno fatale, ancora coi burgi e gli stazzoni, cioè coi pagliaj e le fornaci nella piazza paludosa fuori Porta di Ponte; ancora coi tre crocioni del Calvario sul declivio del colle, da cui ogni anno, il venerdì santo, si faceva la predica a tutto il popolo lì adunato, e ancora con l’antico giardinetto che un suo amico devoto, il colonnello Flores, comandante la guarnigione borbonica, per ingraziarsi gli animi dei cittadini, vi aveva fatto costruire dieci anni prima della rivoluzione. Sapeva che quel giardinetto era stato abbattuto per ingrandire il piano dalla parte che guarda il mare; e sapeva che su la vasta piazza sorge adesso un gran palazzo, destinato agli ufficii della Provincia e sede della Prefettura. Ma anche questa era per lui un’usurpazione indegna, perché la prima pietra di quel palazzo era stata posta nel 1858 da un munifico vescovo, che voleva farne un grande ospizio per i poveri, onde ancora i vecchi lo chiamavano il Palazzo della Beneficenza. Gli sarebbe piaciuto che il Duomo fosse restaurato da monsignor Montoro, perché le chiese... eh, quelle non erano edifizii che la nuova gente potesse aver piacere d’abbellire; ed eran la sola cosa, di cui egli sentisse profondo il rimpianto. Gli arrivavano lì, nel suo esilio, le voci delle campane delle chiese più vicine. Egli le riconosceva tutte, e diceva: – Ecco, ora suona la Badìa Grande... ora suona San Pietro... ora suona San Francesco...
Arrivò, anche quella sera, a rompere il lungo silenzio, in cui egli e il vescovo lì sul terrazzo eran caduti, il suono dell’avemaria dalla chiesetta di San Pietro. Il cielo, poc’anzi d’un turchino intenso, s’era tutto soffuso di viola; e sotto, nella campagna già raccolta nella prima ombra, spiccava tra i mandorli spogli una fila di alti cipressi notturni, come un vigile drappello a guardia del vicino tempio della Concordia, maestoso, sul ciglione. Monsignor Montoro si tolse lo zucchetto, si curvò un poco, chiudendo gli occhi; il principe si segnò, e tutti e due recitarono mentalmente la preghiera.
– Avete sentito di questi scandali, – disse poi il vescovo gravemente, – che turberanno certo la nostra tranquilla diocesi?
Don Ippolito chinò più volte il capo, con gli occhi socchiusi.
– È stata qui mia sorella.
– Qui? – domandò con vivo stupore il vescovo.
Don Ippolito allora gli parlò brevemente della visita e della violenta scossa ch’egli ne aveva avuto.
– Oh comprendo! comprendo! – esclamò Monsignore, scotendo le bianche mani intrecciate e socchiudendo gli occhi anche lui.
– Come ridotta... – sospirò don Ippolito profondamente.
Per cangiar tono al discorso, monsignor Montoro, dopo aver tirato dentro aria e aria, sbuffò:
– E intanto il nostro paladino vuol montare a ogni costo in arcione; e sarà un nuovo scandalo, che avrei voluto almeno evitare...
– Capolino? – domandò, accigliandosi, don Ippolito. – Battersi?
– Ma sì! Aggredito...
– Lui? Il Prèola!
– Lui, anche lui! Non sapete tutto, dunque? Il nostro Capolino fu aggredito la mattina da un tal Verònica, che si trovava insieme con l’Agrò, che tanto m’addolora...
– Non me lo disse, – mormorò quasi tra sé don Ippolito.
– Perché pare, – spiegò Monsignore, – almeno a quel che si dice in paese, pare che l’Auriti non sapesse della rissa della mattina. Basta. Bisognerà chiudere un occhio, perché lo sfregio, eh, lo sfregio è stato molto grave: gli hanno strappato il giornale in faccia, su la pubblica via... Sapete che il nostro Capolino è focoso, cavaliere compito... Non è stato possibile ridurlo a ragione, all’osservanza del precetto cristiano... Ha già mandato il cartello di sfida...
– So che tira bene di spada, – disse don Ippolito, cupo e fiero. – In fin dei conti, non sarà male dare una lezione a uno di costoro per abbassare a tutti la cresta. Per me, Monsignore, l’ho dichiarato alla stessa mia sorella, lotta senza quartiere!
– Ma sì! la vittoria, la vittoria sarà nostra senza dubbio, – concluse il vescovo.
Seguì un altro silenzio; poi Monsignore domandò, riscotendosi:
– Landino? – come se per caso gli fosse venuto di far quella domanda, ch’era in fondo la vera ragione della sua visita.
Aveva combinato lui quelle prossime nozze di Adelaide Salvo con don Ippolito; aveva lasciato intendere a questo che solo per un riguardo a lui Flaminio Salvo consentiva che la sorella contraesse quel matrimonio illegittimo, almeno a giudizio della società civile; ma voleva - ed era giusto - che il figlio del primo letto riconoscesse la seconda madre, e fosse presente alla celebrazione religiosa: trattando con gentiluomini di quella sorte, questo solo atto di presenza gli sarebbe bastato.
Don Ippolito s’infoscò.
Dopo una lunga lotta con se stesso, aveva scritto al figlio che gli era cresciuto sempre lontano; prima a Palermo nella casa dei Montalto, poi a Roma, e col quale perciò non aveva alcuna confidenza. Lo sapeva d’idee e di sentimenti al tutto opposti ai suoi, quantunque non fosse mai venuto con lui ad alcuna discussione. Era molto malcontento del modo con cui gli aveva comunicato la decisione di contrarre queste seconde nozze e del modo con cui gli aveva espresso il desiderio di averlo a Colimbètra per l’avvenimento. Troppe ragioni in iscusa: la solitudine, l’età, il bisogno di cure affettuose... Gli pareva d’essersi avvilito agli occhi del figlio. Il disgusto però e l’avvilimento non erano soltanto per effetto d’una lettera mal riuscita: provenivano da una causa più intima e profonda nel cuore di lui.
Senza troppo volerlo da principio, s’era lasciato persuadere a ridurre a effetto un disegno stimato su le prime inattuabile; superato l’ostacolo della sua grave pretesa, trovata la sposa, stabilite le nozze, d’un tratto s’era veduto stretto da un impegno non ben ponderato avanti, e non aveva potuto più tirarsi indietro per nessuna ragione. La famiglia Salvo, se non aveva titoli nobiliari, era pur d’antico sangue, conveniente l’età della sposa; nulla in fondo da ridire su l’immagine che gli avevano mostrata di donna Adelaide in una fotografia; e poi la soddisfazione per la deferenza ai suoi principii politici e religiosi... Sì, sì; ma la memoria venerata di donna Teresa Montalto? e l’avvilimento per la coscienza della propria debolezza? Non aveva saputo resistere allo sgomento che gl’incuteva segretamente, da qualche tempo in qua, la solitudine, la sera, quando si chiudeva in camera e, guardandosi le mani, si dava a pensare che... sì, la morte è sempre accanto a tutti, bimbi, giovani, vecchi, invisibile, pronta a ghermire da un momento all’altro; ma allorché man mano si fa sempre più prossimo il limite segnato alla vita umana e già per tanti anni e tanto cammino si è sfuggiti comunque all’assalto di questa compagna invisibile, scema da un canto, grado grado, l’illusione d’un probabile scampo, e cresce dall’altro e s’impone il sentimento gelido e oscuro della tremenda necessità di incontrarla, di trovarsi a un tratto a tu per tu con essa in quella strettura del tempo che avanza. E sentiva mancarsi il respiro; si sentiva stringer la gola da un’angoscia inesprimibile. Le sue mani gli facevano orrore. Soltanto le mani in lui, per ora, erano da vecchio: ingrossate le nocche, la pelle aggrinzita. Sì, le sue mani avevano cominciato a morire. Gli si intorpidivano spesso. E non poteva più, la notte, stando a giacer supino sul letto, vedersele congiunte sul ventre. Ma quella era pure la sua positura naturale: doveva distendersi così per conciliare il sonno. Ebbene, no: si vedeva morto, con quelle mani fredde come di pietra sul ventre; e subito si scomponeva, prendeva un’altra positura, e smaniava a lungo.
Per questo aveva manifestato il desiderio d’un’intima compagnia; e il desiderio, ecco, si attuava; ma egli ne provava in segreto stizza e avvilimento. Gli pareva che questo suo desiderio avesse acquistato su lui una volontà che non era più la sua. Altri infatti lo aveva assunto e lo guidava e trascinava lui, che non poteva più opporsi: come il cavallo, che aveva dato la prima spinta a una vettura in discesa, ora dalla vettura stessa si sentiva premere e spingere suo malgrado.
– Nessuna risposta? – soggiunse Monsignore, per rompere subito il fosco silenzio in cui il principe s’era chiuso. – Bene, bene; tanto per sapere. Risponderà. Intanto... ecco: abbiamo parlato con Flaminio circa alla presentazione. Si può fare a Valsanìa, è vero? Donna Adelaide scenderà a visitar la nipote e la povera cognata; voi, di qua stesso, per lo stradone, senza toccar la città, vi recherete a visitare il fratello e i vostri ospiti. Va bene così? In settimana. Sceglierete voi il giorno.
– Subito, – disse il principe, riavendosi con una mossa energica. – Domani.
– Troppo presto... – osservò sorridendo Monsignore. – Bisognerà avvertire... dar tempo... Doman l’altro poi, no: è martedì. Le donne, sapete bene, badano a codeste cose. Sarà per mercoledì.
E si alzò, con stento e con riguardo per la sua molle rosea grassezza donnescamente curata, sospirando:
– Bene eveniat! Quel povero figliuolo... – soggiunse poi, alludendo al De Vincentis. – Si trovasse modo di tranquillarlo... Ne sarei proprio lieto... Mah!
A piè della scala monsignor Montoro trattenne il principe e, indicando la porta del Museo ove era il De Vincentis, disse piano:
– Non vi fate vedere. Lo saluterete dal terrazzo. Buona sera.
Il principe gli baciò la mano e risalì la scala. Poco dopo dal terrazzo s’inchinò al vescovo e salutò con la mano il De Vincentis che si scappellava, evidentemente senza scorgerlo. Rimase lì, seduto presso la balaustrata a guardar nella campagna l’ombra che man mano s’incupiva, la striscia rossastra del crepuscolo che diveniva livida e quasi fumosa sul cerulo mare lontano, su cui, laggiù in fondo, nereggiavano gli uliveti di Montelusa, a destra della lucida foce dell’Hypsas. In mezzo al cielo cominciava ad accendersi la falce della luna.
Don Ippolito guardò i Tempii che si raccoglievano austeri e solenni nell’ombra, e sentì una pena indefinita per quei superstiti d’un altro mondo e d’un’altra vita. Tra tanti insigni monumenti della città scomparsa solo ad essi era toccato in sorte di veder quegli anni lontani: vivi essi soli già, tra la rovina spaventevole della città; morti ora essi soli in mezzo a tanta vita d’alberi palpitanti, nel silenzio, di foglie e d’ali. Dal prossimo poggio di Tamburello pareva che movesse al tempio di Hera Lacinia, sospeso lassù, quasi a precipizio sul burrone dell’Akragas, una lunga e folta teoria d’antichi chiomati olivi; e uno era là, innanzi a tutti, curvo sul tronco ginocchiuto, come sopraffatto dalla maestà imminente delle sacre colonne; e forse pregava pace per quei clivi abbandonati, pace da quei Tempii, spettri d’un altro mondo e di ben altra vita.
Sonò a un tratto, nel bujo sopravvenuto, il chiurlo lontano d’un assiolo, come un singulto.
Don Ippolito si sentì stringere improvvisamente la gola da un nodo di pianto. Guardò le stelle che già sfavillavano nel cielo, e gli parve che al loro lucido tremolìo rispondesse dalle campagne deserte il tremulo canto sonoro dei grilli. Poi vide oltre il burrone del fiume, a levante, vacillare il lume di quattro lanterne cieche su per l’aspro greppo dello Sperone.
Era Sciaralla, che si arrampicava coi tre compagni per montar la vana guardia alla casermuccia lassù.
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