Mi impongo uno
stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica
o di quella che di solito reputo tale , vorrei tratteggiare la figuro del
discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non
sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il
vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo
vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627
per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651– non si è mancato di
scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre
tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina,
sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo
in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il
Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al
1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte
e valutate sono proprio le dissavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith
ha modo di citarlo due volte nella Storia
della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da
Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso)
per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000
scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a
pag. 270 (ibidem) allorché ne
sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di
dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo
episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla
irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò
persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto
mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui
manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV,
Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina
vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme,
promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a
poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con
guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde
correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio,
trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il
nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di
riparar nella terra di Naro. [Pirri,
Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è
esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il Pirri, in
effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada
archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab
anno 1646, in bel latino. Ma noi ci avvaliamo della traduzione – vetusta ma
singolare – del Di Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del
mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si
festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture
dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni.
Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue
carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto
cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne
venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella
di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e
sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia,
e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre
l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’
di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la
vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la
casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado
Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese
in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed
espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se
non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro
vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli
che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti
benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo.
Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando
venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il
frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e
tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle
difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere
agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati
dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran
tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i
famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che
quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi,
penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con
suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni
de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di
archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario
ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri
chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto
de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto
il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era
nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo,
e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una
somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito
appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor
pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello
il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa
il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al
duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento
(che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando
dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del
paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di
Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel
danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo
al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in
tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione
del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto
malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro
suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il
vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni
capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed
implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri.
Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’
cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale,
e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime,
significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del
Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel
cimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non
altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’
tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla
proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso,
come più innanzi diremo.
«Frattanto egli,
prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato il capitano di
campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso,
ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con
dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare
vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla
tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste,
furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di
duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a
cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se
non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti particolare, a parte
s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare
poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo
Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata.
(Episcopus vero … summae avaritiae
nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo
non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi,
almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul
Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva
deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le
vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono
tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile
difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De
Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo
ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è
stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che
nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore
ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di
riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo
per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo
epitaffio della Cattedrale ed a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici,
un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma
avarizia”.
Per quel che
concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico
della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò
anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo
Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; + lo stesso
Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo …
[furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti,
Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti».
«Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»
.
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