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di Mephisto |
Martedì 05 Febbraio 2013 17:39 |
Cosa posso valere io, se mia moglie ride quando faccio critica d’arte, sapendomi daltonico all’eccesso? Cosa posso contrappore ai validissimi critici et prophessores di arte, di figurativismo, di cromatismo, di pittura alla Guttuso? Nulla. Eppure non mi nego l’uzzolo di un piccolo dissenso.
Guttuso nasce e cresce sotto il fascismo; Croce, pur in sospetto di antitetico liberalismo, regge e governa l’estetica del momento. Già, l’arte per l’arte. Trasborda Guttuso nel postfascismo. Schizzi, grafici, secchezze stilistiche. Sembra del tutto affine ad un ipotattico ma desolato Sciascia. Ma quello di Guttuso è solo un istante di disorientamento. Mattioli, da banchiere che sfotte la liquidità bancaria in greco, salva, pubblica e lancia Gramsci. L’estetica italiana traballa. Viene György Lukács e chissà quale realismo vuole imporci. Non quello sovietico. Questo è il paese del sole, della luce, della poesia, del colore: quello più vivido, quello più accecante; quello mediterraneo; quello dei fichidindia, quello della Vucceria o quello più complesso del dopo, dei funerali, delle cornici pieni di mostri bagarioti a proteggere figure, composizioni, complessità rappresentative. E poi quel di dietro di una neo contessa che ossessiona; ed una lascivia di caprone che vuole aggredire la sua preda femminile e aggredirla dal retrostante. C’è una via italiana al socialismo; può esserci uno stradone per una divampante pittura italiana che può conciliarsi con un seggio in Via delle Botteghe Oscure. E Sciascia? Quello di Galleria che chiosa il pauperismo pittorico di un Marino? Che di Guttuso ricorda certi abbozzi per un Vittorini in vena di conversare con depressi piccoli siciliani o con falsi grandi Lombardi. Scrive Sciascia al nostro ineffabile Cacciato – in cerca di alata critica – che lui non si intende di arte, non capisce la grande pittura, i neroidi gli sembrano minchionerie da analfabeti (ed un po’ razziste). Lui è fermo alle xilografie, alle acqueforti, alle acquetinte a quelle cose piuttosto opache che può lasciare – tutte – alla divisata fondazione che per scaramanzia non vorrebbe a suo nome, al limite a quello di un suo simile, un altro eretico di quel di Racalmuto: un diacono mandato all’inferno dall’Inquisizione con pregustazione delle lacerazioni della umana combustione. E la storia politica? E’ cosa seria se dopo qualcosa rimordeva fino a qualche scritto che credo di aver letto sul fatto che non amava il Nostro il ripararsi dietro l’aver famiglia: ed era atroce rimbrotto per chi amico non era più. Ma in quel caso era Guttuso ad avere ragione! L’amore per la verità – quale verità poi? Quella di svelare segreti che potevano mettere a repentaglio il dovere di avere discreti rapporti con stati stranieri per uno Stato Civile quale l’Italia. Tutti possiamo sbagliare: quella volta sbagliò Sciascia. Un solo errore in una vita integerrima. Poco male!
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Ultimo aggiornamento Martedì 05 Febbraio 2013 18:11 |
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domenica 4 novembre 2012
REMEO QUATTRO
Mando questa nota sapendo pur bene che finisce inesorabilmente nel cestino. Come tante altre mie. Non me ne adonto. La coincidentia oppositorum può scattare una sola volta. La seconda è stucchevole; la terza è irriguardosa. Cosa posso valere io – e mia moglie ride quando faccio critica d’arte, sapendomi daltonico all’eccesso? Cosa posso contrappore al validissimo prof. Cipolla in materia di arte, di figuratismo, di cromatismo, di pittura alla Guttuso? Nulla. Eppure non mi nego l’uzzolo di un piccolo dissenso. Guttuso nasce e cresce sotto il fascismo; Croce, pur in sospetto di antitetico liberalismo, regge e governa l’estetica del momento. Già, l’arte per l’arte. Trasborda Guttuso nel postfascismo. Schizzi, grafici, secchezze stilistiche. Sembra del tutto affine ad un ipotattico ma desolato Sciascia. Ma quella di Guttuso è solo un istante di disorientamento. Mattioli, da banchiere che sfotte la liquidità bancaria in greco, salva, pubblica e lancia Gramsci. L’estetica italiana traballa. Viene György Lukács e chissà quale realismo vuole imporci. Non quello sovietico. Questo è il paese del sole, della luce, della poesia, del colore: quello più vivido, quello più accecante; quello mediterraneo; quello dei fichidindia, quello della Vucceria o quello più complesso del dopo, dei funerali, delle cornici pieni di mostri bagarioti a proteggere figure, composizioni, complessità rappresentative. E poi quel di dietro di una neo contessa che ossessiona; ed una lascivia di caprone che vuole aggredire la sua preda femminile e aggredirla dal retrostante. C’è una via italiana al socialismo; può esserci uno stradone per una divampante pittura italiana che può conciliarsi con un seggio in Via delle Botteghe Oscure.
E Sciascia? Quello di Galleria che chiosa il pauperismo pittorico di un Marino? Che di Guttuso ricorda certi abbozzi per un Vittorini in vena di conversare con depressi piccoli siciliani o con falsi grandi Lombardi. Scrive Sciascia al nostro ineffabile Cacciato – in cerca di alata critica – che lui non si intende di arte, non capisce la grande pittura, i neroidi gli sembrano minchionerie da analfabeti (ed un po’ razziste). Lui è fermo alle xilografie, alle acqueforti, alle acquetinte a quelle cose piuttosto opache che può lasciare – tutte – alla divisata fondazione che per scaramanzia non vorrebbe a suo nome, al limite a quello di un suo simile, un altro eretico di quel di Racalmuto: un diacono mandato all’inferno dall’Inquisizione con pregustazione delle lacerazioni della umana combustione. E la storia politica? E’ cosa seria se dopo qualcosa rimordeva fino a qualche scritto che credo di aver letto sul fatto che non amava il Nostro il ripararsi dietro l’aver famiglia: ed era atroce rimbrotto per chi amico non era più. Ma in quel caso era Guttuso ad avere ragione! L’amore per la verità – quale verità poi? Quella di svelare segreti che potevano mettere a repentaglio il dovere di avere discreti rapporti con stati stranieri per uno Stato Civile quale l’Italia. Tutti possiamo sbagliare: quella volta sbagliò Sciascia. Un solo errore in una vita integerrima. Poco male!
E Sciascia? Quello di Galleria che chiosa il pauperismo pittorico di un Marino? Che di Guttuso ricorda certi abbozzi per un Vittorini in vena di conversare con depressi piccoli siciliani o con falsi grandi Lombardi. Scrive Sciascia al nostro ineffabile Cacciato – in cerca di alata critica – che lui non si intende di arte, non capisce la grande pittura, i neroidi gli sembrano minchionerie da analfabeti (ed un po’ razziste). Lui è fermo alle xilografie, alle acqueforti, alle acquetinte a quelle cose piuttosto opache che può lasciare – tutte – alla divisata fondazione che per scaramanzia non vorrebbe a suo nome, al limite a quello di un suo simile, un altro eretico di quel di Racalmuto: un diacono mandato all’inferno dall’Inquisizione con pregustazione delle lacerazioni della umana combustione. E la storia politica? E’ cosa seria se dopo qualcosa rimordeva fino a qualche scritto che credo di aver letto sul fatto che non amava il Nostro il ripararsi dietro l’aver famiglia: ed era atroce rimbrotto per chi amico non era più. Ma in quel caso era Guttuso ad avere ragione! L’amore per la verità – quale verità poi? Quella di svelare segreti che potevano mettere a repentaglio il dovere di avere discreti rapporti con stati stranieri per uno Stato Civile quale l’Italia. Tutti possiamo sbagliare: quella volta sbagliò Sciascia. Un solo errore in una vita integerrima. Poco male!
Calogero Taverna
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