Programma del seminario su
Dioniso e il dionisiaco in Nietzsche
(Dott. Gianfranco Bertagni )
1)
Maurizio Ferraris (cur.), Guida a
Nietzsche, Laterza, 1999, pp. 90-107;
2)
Renato Saviane, Il bello, il dionisiaco
(Schiller-Nietzsche), Olschki, 1995, pp. 49-90;
3)
Maria Ausilia Simonelli, Alle radici del
dionisiaco nietzscheano, in «Il Canocchiale», n.1-2, gennaio-agosto 1982,
pp. 33-51;
4)
Sandro Barbera, Apollineo e dionisiaco.
Alcune fonti non antiche di Nietzsche, in: Campioni – Venturelli (curr.), La ‘Biblioteca ideale’ di Nietzsche,
Guida, 1992, pp. 45-70;
5)
Appunti delle lezioni
oppure (in caso di non frequentanti)
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, capp. I-XIII (si può scegliere tra
l’edizione Adelphi, l’edizione Mondadori e l’edizione Laterza);
Dioniso
e il dionisiaco in Nietzsche (Appunti per le lezioni)
La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e
pessimismo (1872).
Prima opera di Nietzsche.
Unica opera di carattere filologico. Unica opera dedicata ai Greci che
Nietzsche abbia mai pubblicato (se escludiamo i suoi scritti filologici). Opera
inoltre sulla quale probabilmente più che per qualsiasi altra Nietzsche ha
lavorato di più, con alle sue spalle un lungo periodo di preparazione e
gestazione.
Nel ’72 Nietzsche aveva 28
anni e già ricopriva da 3 anni la cattedra di filologia classica all’università
di Basilea. In questo periodo Nietzsche aveva soprattutto due numi tutelari,
due autori per cui aveva un’autentica venerazione: Schopenhauer e Wagner. E del
loro pensiero risulta per molti aspetti dominata la sua prima opera.
Un’opera certamente su diversi
punti contraddittoria, poco sistematica, ma che ha come sue centro di gravità
quell’idea (la coppia apollineo-dionisiaco) che sarà un po’ il filo conduttore
di tutto il pensiero nietzschiano, fino alla morte del filosofo tedesco. Una
coppia che viene formulata per la prima volta in quest’opera e cioè in
relazione al problema della nascita e della morte della tragedia greca.
Torniamo indietro di qualche
anno rispetto alla pubblicazione de La nascita della tragedia. Già fin dalla
sua prolusione nel presentarsi all’università di Basilea nel 1869 – prolusione
dedicata a Omero e la filologia classica
– e anche nelle conferenze dell’anno dopo sul Dramma musicale greco e su Socrate
e la tragedia, Nietzsche si presenta agli occhi dei suoi lettori e uditori
come un filologo che intende il suo ‘mestiere’ in modo del tutto particolare,
certamente non affine a quella che era la filologia accademica prevalente. Già
il Nietzsche filologo fa l’occhiolino – se possiamo dire così – alla filosofia,
o quella che lui ritiene essere la filosofia, sotto l’influenza di
Schopenhauer.
D’altra parte sappiamo anche
che fin dal 1868 egli nutriva dei dubbi sulla sua vocazione di filologo, dubbi
che fanno vivere Nietzsche nell’ambiente filologico dei primi suoi anni di
insegnamento come un estraneo, come ammette lui stesso in alcune sue lettere.
Soprattutto è l’idea di
filologia come studio dell’antichità in sé e per sé, la filologia come mero
lavoro antiquario, la necessità di un distacco tra il filologo e il suo oggetto
di studio (distacco necessario ad una supposta oggettività dello studio
medesimo) a risultare insopportabile per Nietzsche. La filologia classica è un
tradimento dello spirito stesso del classicismo: cioè non guarda più all’antico
come modello da imitare, ma semplicemente come un repertorio di oggetti di
studio. Quindi Nietzsche rigetta l’idea di filologia come ricerca obiettiva
intorno all’antico: rigetta cioè l’intero impianto della filologia
professionale.
Per Nietzsche in questo
periodo l’apporoccio filosofico è qualcosa che parte da un certo modo di fare
filologia, di pensare la filologia, in direzione di una critica della cultura
attuale. E infatti La nascita della tragedia è contemporaneamente una
reinterpretazione globale della Grecità, un’originale proposta filosofica ed
estetica, una critica della cultura del tempo e un progetto di rinnovamento
della stessa. Tutto questo universo ruota attorno alla scoperta fondamentale
presentata in quest’opera, e cioè la coppia apollineo-dionisiaco.
Il primo capitolo dell’opera inizia con queste parole: “Avremo fatto un grande acquisto alla scienza estetica, quando saremo giunti ... all’immediata certezza dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla dicotomia dell’apollineo e del dionisiaco, nel modo medesimo come la generazione viene dalla dualità dei sessi in continua contesa tra loro e in riconciliazione meramente periodica”.
Ecco, qui subito Nietzsche
introduce le due categorie apollineo e dionisiaco, e ancor prima di spiegare di
cosa si tratta, dà una definizione della storia dell’arte (greca, ma non solo,
nella misura nella quale l’arte greca dovrebbe essere modello di qualsiasi
altro tipo di arte che voglia dirsi tale: e poi qui parla di “storia dell’arte”
in generale) come una storia dell’eterno contrasto tra queste due categorie, un
contrasto che solo temporaneamente si trasforma in un’armonia, per poi
ritornare ad essere ancora contrasto.
Poco dopo, per entrare nel
merito di che cosa siano effettivamente il dionisiaco e l’apollineo, Nietzsche
usa la parola “istinti” (Triebe): già
qui capiamo la lontananza dell’impostazione nietzschiana dalla filologia
accademica. “Istinti” fa parte di un vocabolario proprio della psicologia,
magari della filosofia, ma non certo dell’armamentario della filologia greca.
Questi due istinti, se sono
tali, hanno una valenza che supera il mondo greco antico. Vediamo allora che
già fin dalla prima pagina il discorso di Nietzsche parte dalla Grecia, parte
da un problema anche storico-estetico (capire il senso dello sviluppo
dell’arte), ma per andare subito a toccare qualcosa di molto più vicino
all’uomo rispetto a quella che potrebbe apparire l’indagine filologica
classica, e cioè facendo un discorso relativo agli istinti che lo costituiscono
e che si manifestano nella storia.
Questi due istinti – dice
Nietzsche – costituiscono un grande contrasto nel mondo greco. E cioè da una
parte abbiamo l’arte figurativa, quella di Apollo, e dall’altra l’arte non
figurativa per eccellenza – che è la musica, legata alla figura di Dioniso. La
storia dell’arte greca è costituita da questo contrasto, sempre rinnovato e
risultante in situazioni e momenti artistici sempre nuovi, fino a un momento
nel quale apollineo e dionisiaco compaiono armoniosamente accoppiati tra loro,
che è il momento della tragedia attica, quell’opera d’arte nella quale
dionisiaco e apollineo sono equilibrati perfettamente.
Un altro accoppiamento che
Nietzsche istituisce con l’apollineo e il dionisiaco, legato strettamente alla
dicotomia tra arte figurativa e arte non figurativa, è con i mondi del sogno e
dell’ebbrezza. Dice Nietzsche: il mondo del sogno è legato all’arte figurativa
(anche di buona parte della poesia). Mentre quello dell’ebbrezza è legato
all’arte non figurativa, la musica. Cioè nel sogno l’uomo è l’artista del sogno
medesimo: è il perfetto artista della sua creazione. E quindi il sogno è il
presupposto di ogni arte figurativa. Anche nella massima intensità della vita in
sogno, l’uomo comunque mantiene la sensazione che questa realtà che lui sta
vivendo è pura apparenza. E allo stesso modo, l’uomo dallo spirito filosofico
ha il presentimento che dietro alla realtà nella quale viviamo, ve ne sia
un’altra davanti alla quale la nostra realtà è pura apparenza. In
quest’affermazione nietzschiana ovviamente agisce il fascino per la filosofia
di Schopenhauer.
L’uomo artista impara e gode
nel contemplare la realtà del sogno e attraverso questa realtà egli si spiega
la sua vita reale: anche qui agisce in Nietzsche un’impostazione evidentemente
romantica. Ma egli non si chiude in questo tipo di riproposizione di un
approccio di certo ottocento tedesco. La contemplazione della realtà del sogno
non si riduce a puro atteggiamento estetizzante volto alle belle forme e
tipicamente neoclassico. No, l’artista contempla insieme alle immagini amene
anche ciò che è luttuoso, cupo, sinistro, angosciante. Perché la realtà del
sogno è fatto di tutto questo, ha al suo interno tutta una serie di situazioni
e stati d’animo opposti. Inoltre questa contemplazione dell’animo artista non
si riduce ad un’osservazione distaccata, ma in una piena identificazione: egli
vive, gode e soffre quelle scene di sogno che gli scorrono davanti. Mantiene
sempre la vaga impressione di vivere un mondo di apparenza, ma non di meno ne è
letteralmente partecipe.
Apollo non sarebbe altro che
l’impersonificazione che i greci hanno dato a questa necessità di imparare dal
sogno, secondo Nietzsche. E infatti Apollo è il dio delle arti figurative, è la
bellezza divina più eccelsa, ma è anche il dio della profezia, cioè il dio che
ha da insegnare all’uomo, che gli comunica parole che sono di utilità alla sua
vita. Questa dimensione si contrappone a quella della vita reale, che certamente
non è fatta di pura bellezza, e si contrappone ad essa bilanciandola. In altre
parole, sono le arti che rendono la vita meritevole di essere vissuta – o al
limite, tollerabile. Apollo è anche il dio della forma, della misura,
dell’equilibrio. In che senso? Nel senso che non arriva mai a vivere stati
interiori sfrenati, sregolati. Anche quando Apollo si adira – dice Nietzsche –
lo fa mantenendo attorno a lui un’aura di bellezza e di armonia delle forme.
Così come nel sogno: la realtà sognata non può oltrepassare un certo livello
senza che questo non abbia un effetto patologico. Per questo anche il discorso
che fa Nietzsche sul fatto che anche chi sogna sa, con una parte di sé, che sta
vivendo in un mondo di pura apparenza, e questo gli permette di vivere quello
che sogna, ma senza essere troppo catturato “dentro” al sogno stesso.
La scorsa volta abbiamo
parlato, alla fine della lezione, di Apollo, delle sue caratteristiche e di
come Nietzsche se le e ce le spieghi; del suo legame con il mondo del sogno e
di come, così come nel sogno l’uomo è impercettibilmente consapevole che la
realtà che sta vivendo è apparenza, così anche la realtà apollinea sia tale e
Apollo reagisca, durante le sue vicende, in un modo attutito rispetto alla
completa estrinsecazione dei sentimenti e delle emozioni, come se attorno a lui
risplendesse continuamente l’aura dell’apparenza.
Per quanto riguarda invece la
realtà dionisiaca, essa realizza la riconciliazione tra l’uomo e la natura, e
anche tra uomo e uomo. Quella natura vista come estranea, spesso ostile,
separata dall’uomo, nell’evento dionisiaco, viene vissuta immergendocisi. Si va
al di là dell’apparenza, dell’apollineo cioè, del fenomeno; e nel momento nel
quale ci si trova così svincolati dal mondo delle forme, si è anche in preda al
panico, al terrore. Per questo il modo in cui Nietzsche tratteggia il
dionisiaco ha ben poco di consolatorio o di romantico. L’essenza del
dionisiaco, dice Nietzsche, è accostabile tramite il confronto con lo stato di
ebbrezza. Nell’ebbrezza dell’ubriacatura il soggetto scompare, perde la sua
consapevolezza di soggetto: e così anche nel dionisiaco; anche nell’ebbrezza
vissuta dalla potenza della primavera, l’intera natura risulta compenetrata di
questa “atmosfera”.
La realtà dionisiaca non è poi
tipica solo del mondo greco. Nietzsche segnala e fa paragoni con il medioevo
tedesco, nel quale i danzatori estatici di San Vito o di San Giovanni cantano e
ballano, come se fossero i cori dionisiaci greci; fenomeni analoghi – continua
il filosofo tedesco – avvennero nell’Asia Minore e anche a Babilonia e nelle
feste orgiastiche sacee (le sacee erano feste orgiastiche che si celebravano a
Babilonia per festeggiare l’inizio dell’anno nuovo). Quegli uomini che ridono
di questi fenomeni, che li catalogano tra i fenomeni propri del popolino, della
volgare anima di quegli spiriti non eletti, non elevati intellettualmente,
coloro i quali ritengono che questi fenomeni siano da relegare alla stregua di
malattie popolari, di psicopatologie, sono persone in realtà che non centrano
il bersaglio, che per eccesso di freddezza non colgono la potenza del
dionisiaco. Quella che pretendono essere la loro sanità in realtà appare come
situazione cadaverica, morta, spettrale, nel momento nel quale passa vicino a
loro la processione vitale e ardente dei dionisiaci. Tutto viene dissolto nel
dionisiaco: le barriere vengono spezzate, i limiti infranti, i bisogni
dissolti, il libero arbitrio svuotato. È, come lo chiama Nietzsche, il “Vangelo
dell’armonia universale”: in esso “ognuno si sente non solo riunito,
riconciliato, fuso col suo prossimo, ma si sente fatto uno con lui, quasi che
il velo di Maia fosse squarciato e svolazzasse non più che in brandelli davanti
al mistero dell’Uno primigenio”. Nel dionisiaco, nel raptus musicale, nella
danza, nel canto l’uomo partecipa di una dimensione divina, magica: è rapito e
sublime, così come vede essere gli dèi in sogno. Non c’è più distanza nemmeno
tra lui e l’opera d’arte: non c’è più artista da una parte e opera dall’altra,
ma lui stesso diviene l’opera: nell’ebbrezza tutta la natura diviene opera
d’arte, beatificazione dell’Uno originario, e l’uomo si sente completamente
immerso in essa.
A questo punto vediamo che
apollineo e dionisiaco non sono solo istinti presenti nell’uomo, ma qualcosa
che agisce anche nella dimensione più vasta della natura. Davanti alla natura,
ai suoi impulsi, l’uomo diviene un artista essendone imitatore: artista
apollineo del sogno da una parte, artista dionisiaco dell’ebbrezza dall’altra,
oppure ancora: artista dell’ebbrezza e del sogno insieme, cioè nel caso della
tragedia greca. In quest’ultimo caso è come se l’uomo vivesse la dionisiaca
ebbrezza e la mistica alienazione di sé, rimanendo però solitario, appartato
rispetto ai cori deliranti operanti nella tragedia stessa. La dimensione
perfettamente apollinea dei sogni sognati dai greci è poi ampiamente dimostrata
– secondo Nietzsche – dalla loro virtù plastica riscontrabile soprattutto nella
scultura: un’arte sopraffina, che trasmette una così alta serenità e precisione,
che non può che farci presumere che anche i loro sogni (appunto il modello
dell’arte plastica stessa) fossero alimentati da un ordine e un’armonia tra
forme, linee, colori, ecc.
Per quanto riguarda invece
l’aspetto dionisiaco presente nell’anima greca è importante ricordare che esso
non si confonde con i seppur simili fenomeni presenti nelle altre culture
arcaiche. È vero cioè, come abbiamo già ricordato, che esistono fenomeni
analoghi in altri contesti, fenomeni dionisiaci a Roma come a Babilonia.
Fenomeni che sono accomunabili dal fatto che quasi sempre vigeva in queste
situazioni, in queste feste, la sregolatezza in campo sessuale, per cui ogni
legge etica, ogni ordine famigliare veniva eliminato, messo a tacere seppur
temporaneamente. Ora però questo aspetto, questa scostumatezza propria dei
popoli barbari soprattutto, non è presente nei Greci. (Ricordiamo che Nietzsche
quando in questi casi usa la parola “barbaro”, la intende alla greca – e anche
alla romana: cioè chi non è greco – romano –, chi non parla il greco – il
latino: lo straniero. Inutile ricordare il legame tra l’essere straniero e
Dioniso). Perché questa scostumatezza non è presente nei Greci? Come si spiega?
Molto semplice: appunto grazie alla dimensione propria di Apollo, che agisce
all’interno della cultura greca, e che bilancia le veementi scosse di Dioniso.
Soprattutto questo aspetto regolativo, calmante, cristallino è rappresentato
dall’arte dorica, momento nella storia dell’arte greca nel quale l’apollineo
domina sul dionisiaco (ricordiamo che la storia dell’arte è descritta da
Nietzsche proprio come un continuo dominio del dionisiaco o dell’apollineo, con
la sola eccezione della tragedia).
Le feste dionisiache dei
greci, rispetto a quelle analoghe tra i barbari, hanno una dimensione di
redenzione universale, di trasfigurazione, là dove invece nelle feste come per
esempio le sacee di Babilonia, l’uomo è degradato ad animale. Tra i greci,
durante queste feste, l’uomo si reintegra con la natura e la natura si presenta
nella sua dimensione artistica, libera e gioiosa. In questi contesti il
principio di individuazione, quel principio per cui io sono io e non sono altro
da me, viene a cadere, a frantumarsi e la sua stessa eliminazione diventa un
fenomeno artistico. In questi momenti le persone che partecipavano a queste
feste cantano, ballavano, si dimenavano... e il loro stato era compenetrato di
gioia da una parte e spasimo dall’altra. Qualcosa ovviamente di mai visto: la
gioia solitamente si distingue dall’orrore, dal terrore, eppure nei dionisiaci
queste realtà coabitano, in quanto la musica dionisiaca soprattutto produce
stupore, rapimento e terrore contemporaneamente. Se la musica sotto l’insegna
di Apollo segue le regole dell’arte figurativa dorica, se essa è la perfetta
trasposizione in note dei chiari e cristallini stati emotivi apollinei, la
musica dionisiaca invece conduce violentemente l’ascoltatore in un flusso senza
inizio e senza fine, senza regole, lo stordisce, squarta il suo senso
d’identità, è un vero e proprio torrente che travolge tutto ciò che viene a
contatto con esso. Vediamo qui che Nietzsche pone una distinzione tra musica
apollinea e musica dionisiaca. Precedentemente la distinzione era tra arte
plastica (apollinea) e arte non figurativa, cioè la musica (dionisiaca): però
qui la coppia apollineo/dionisiaco sembra tracciare delle distinzioni anche
all’interno della musica stessa.
Ovviamente il riferimento di
Nietzsche è al ditirambo, cioè al canto corale della lirica greca
originariamente legato al culto di Dioniso. Nelle feste in suo onore il coro,
accompagnato dal flauto, intonava melodie tumultuose e appassionate, di un
carattere orgiastico che era tra l’altro ulteriormente ribadito dalle
altrettanto sfrenate danze e mimiche. (Qui naturalmente agisce la classica tesi
di Aristotele, secondo la quale la tragedia deriverebbe dal ditirambo). È qui
che l’uomo, dice Nietzsche, dà sfogo alla sua completa possibilità di
esprimersi; qualcosa in lui di mai provato prima cerca uno sfogo e ciò che gli
pulsa dentro è così ingestibile, disordinato, innominabile, informe, che
straborda in tutti i sensi: attraverso la mimica, il canto, il ballo, lo
scatenarsi completo, ecc. Uno scatenarsi che, come abbiamo detto, necessita un
preventivo oblio di sé, per far sì che il velo di maia possa venire squarciato,
cioè che la dimensione apollinea venga “aperta”, per inabissarsi in quella
dionisiaca. Dietro alla dimensione apollinea, c’è quella dionisiaca: cioè non
sono estranee l’una all’altra: la coscienza apollinea è un velo dietro il quale
c’è la realtà dionisiaca.
Ora, a questo punto Nietzsche
si trova di fronte a un problema che potrebbe sorgere nel suo tipo di
interpretazione. Cioè: se Apollo è a capo di tutta la civiltà
estetico-apollinea – appunto – nella quale ovviamente ritroviamo anche, tra le
varie immagini, quelle degli déi olimpici, come mai allora Apollo è in mezzo a
loro, non apparendo invece al di là della loro dimensione, o almeno al vertice
supremo di essa? Allora Nietzsche dice che questo tipo di uguaglianza tra
Apollo e gli altri déi greci in realtà non fa problema: in realtà Apollo è la
rappresentazione di quell’istinto che ha prodotto l’intero mondo olimpico e
quindi Apollo è in un certo senso padre di tutti gli altri déi. Vedete che,
volendo seguire strattamente il processo di un argomentare logico, Nietzsche in
realtà non risolve il problema, semplicemente ribadendo un dato della sua
interpretazione. Insomma, rimarrebbe la questione del tutto aperta del perché
sia Zeus e non Apollo il capo degli déi.
Sempre riguardo agli Déi
greci, poi Nietzsche rileva la netta
distinzione tra il loro mondo “morale” rispetto all’interpretazione che
potrebbe nascere in un cuore educato per esempio cristianamente e che si ponga
a valutare un certo mondo religioso diverso dal suo. Cioè qualcuno si potrebbe
aspettare da degli déi sentimenti immutati di serenità, amorevolezza,
compassione, ecc.: insomma, l’apice di ciò che si ritiene comunemente l’agire
morale. Qui Nietzsche non fa un esplicito riferimento al Cristianesimo, ma è
evidente che ciò che ha in mente è soprattutto esso e più in generale la
condizione dello spirito che si è realizzata durante tutta la storia filosofica
occidentale, a partire – come vedremo – da Socrate: quella condizione secondo
la quale c’è distinzione tra morale e immoralità, e per la quale quindi va
abbraccia la prima e tenuta a distanza la seconda.
In realtà questo tipo di
approccio sarebbe del tutto fuori luogo nel caso greco. Il mondo divino greco è
invece fatto di dinamicità, realtà lussureggianti, un mondo nel quale ogni
cosa, ogni istinto, ogni sentimento è portato alla sua ennesima potenza, è cioè
in questo senso divinizzato, al di là del fatto che sia buono o cattivo. Come
si spiega questo fatto? Come si spiega la parificazione a pari dignità del bene
e del male sul piano divino? Il motivo è dato nel meccanismo che ha fatto sì
che il greco si inventasse il mondo degli déi. I greci vivevano, sentivano gli
orrori e i terrori che venivano loro procurati dall’esistenza, dalla loro vita.
Allora, per trovare la forza di vivere, di andare avanti, si posero, davanti a
loro, il mondo olimpico nella sua bellezza eccelsa: questo mondo serviva per
superare la paura immobilizzante del greco di fronte alla forze titaniche,
impersonali e cieche della natura. Questa realtà terrorizzante fu cioè
nascosta, coperta con l’espediente del mondo olimpico. Infatti, così argomenta
Nietzsche, anche nella teogonia greca – Esiodo – si passa dall’era dei Titani
(con la loro dimensione impersonale, oscura, terrorizzante) all’era olimpica della
gioia. Ed è proprio grazie a questo escamotage, potremmo dire, che il popolo
greco, quel popolo così aperto – secondo Nietzsche – alla capacità di soffrire
e di provare sentimenti intensi, ha potuto tollerare l’esistenza, appunto
potendola paragonare a quella più alta, più luminosa, più bella degli déi. Se
bene e male, gioia e terrore, gradevole e sgradevole fanno parte dell’esistenza
umana, allora queste coppie di contrari vengono trasferite anche nelle vicende
mitologiche, nelle vite degli déi, per dare loro senso di esistenza, bellezza,
verità in un certo senso.
L’ultima volta ci eravamo
soffermati, alla conclusione della lezione, sul rapporto tra mondo olimpico e
amoralità: gli déi, nella loro tumultuosa realtà dinamica, vivono tutto ciò che
è vivibile, lo elevano all’ennesima potenza, al di là del bene e del male,
trasfigurando ciò nella loro sublime altezza e perfetta luce. Questa realtà
apollinea, appunto il mondo degli déi olimpici, permette all’uomo greco di
vivere e di affrontare i grandi problemi.
Ecco: questa realtà, appunto
perfettamente apollinea, in quale autore, secondo Nietzsche, è stata svolta nel
modo più eccelso? In Omero. Cioè Omero è – dice Nietzsche – l’unico artista del
sogno, ovvero l’unico artista nel quale l’apollineo, l’apparenza, la realtà del
sogno dominano incontrastate, senza praticamente lasciare spazio al dionisiaco:
detto in altre parole, Omero è tutto apollineo. Omero è per antonomasia il
poeta del mondo olimpico degli déi.
Poi Nietzsche torna sul
rapporto apparenza/sogno e realtà. Quando una persona sogna – dice Nietzsche –
ce la immaginiamo immersa nel suo stato, nel godimento che ne viene e
intenzionata a continuare a permanere nel suo sogno: egli si dimentica la
realtà quotidiana con i suoi problemi ed è completamente avvolto dalla bella
apparenza del suo sogno. Però è anche vero che la realtà, la vera realtà sembra
a tutti preferibile a quella del sogno: più importante e l’unica da essere
veramente vissuta. A questo punto Nietzsche dice che tuttavia queste due sfere
(realtà e sogno) non sono l’una maggiore dell’altra: nella natura stessa
agiscono quegli istinti artistici legati al mondo dei fenomeni (cioè
all’apparenza); eppure io sento, dice Nietzsche, che agisce in modo sotterraneo
quell’Uno primigenio nel quale agiscono le infinite contraddizioni e
sofferenze, il quale Uno per essere liberato, cioè per manifestarsi, necessita
dei fenomeni, delle visioni, dell’apparenza: quindi della realtà apollinea. Noi
siamo completamente immersi nella realtà dell’apparenza, nel suo eterno fluire,
però siamo altrettanto consapevoli che essa è in realtà il vero non-essere in
rapporto a quell’Uno che costituisce il vero essere. (Ricordiamoci del
parallelo discorso che Nietzsche fa riguardo alla consapevolezza dell’uomo che
sogna che ciò che sta vivendo è apparenza). Quindi ci è possibile, tramite
un’astrazione dalla nostra realtà quotidiana, concepire il mondo da un punto di
vista più esterno, più oggettivo e intenderlo dunque “come una rappresentazione
prodotta ogni momento dall’Uno primigenio”. La ragione unica del mondo è
l’eterno dolore primordiale, l’eterno contrasto; l’apparenza ne è il riflesso,
trasfigurato. Nietzsche fa l’esempio della Trasfigurazione di Raffaello: nella
parte inferiore c’è il bambino ossesso, con gli uomini angosciati che lo
guidano, con i discepoli che non sanno cosa fare: questo è l’eterno dolore
primordiale. Nella parte superiore del quadro c’è invece un mondo in cui gli
uomini che stanno sotto non sanno nulla. Questo mondo è un mondo di godimento,
di contemplazione, di luce, completamente libero da dolore: è il mondo
apollineo. In Apollo avviene la deificazione del principio di individuazione,
si realizza il fine ultimo dell’Uno primigenio, la sua liberazione attraverso
l’apparenza. In questa realtà, dell’Uno, si comprende che tutto il mondo dei
conflitti, delle tragedie, dei travagli, è necessario, perché l’uomo venga
spinto a produrre la visione liberatrice di tutto ciò, immergendosi quindi
nella sua contemplazione.
I greci apollinei vedevano in
ciò che non faceva parte della loro visione delle cose – nel titanico (cioè il
mondo pre-apollineo) e nel barbarico (il mondo extra-apollineo) – l’effetto
prodotto dal dionisiaco, ma comprendevano anche allo stesso tempo che essi
erano estremamente affini e vicini a questa realtà. Comprendevano che la loro
esistenza fatta di bellezza, di misura, di proporzione delle forme era uno
schermo posto sopra a un fondo oscuro fatto di dolore e di contraddizioni. Per
usare le parole di Nietzsche: “Apollo non poteva vivere senza Dioniso!”. Tutto
era necessario: l’apollineo così come il titanico e il barbarico. E in questo
mondo apollineo si manifestò il suono estatico dei festeggiatori di Dioniso e
ciò dovette provocare una reazione particolarmente estrema: cioè tanto più la civiltà
di allora era apollinea quanto più fu grande il fascino e lo sbigottimento
davanti alle esternazioni dionisiache, dove smisuratezza, gioia e dolore si
compenetravano vicendevolmente. Le muse apollinee dell’apparenza vennero
inabissate dall’ebbrezza e dal frastuono dei dionisiaci; l’individuo, fatto di
misure e di limiti, si dissolve nell’oblio di sé – quell’oblio dato dal
dionisiaco; si realizzò l’equivalenza tra verità e dismisura.
Dove apparve il dionisiaco,
l’apollineo cadde. Ma è anche vero che quanto più forte fu l’azione dionisiaca,
tanto più potente fu la reazione da parte apollinea. In questo senso Nietzsche
si spiega lo Stato dorico e l’arte dorica: il periodo dorico (VII sec. A.C.) è
cioè la reazione apollinea al dionisiaco. Scrive Nietzsche: “Un’arte così
fieramente cruda, circondata di bastioni, un’educazione così guerriera e aspra,
una costituzione statale così feroce e disumana non è ammissibile che durasse a
lungo, se non come una resistenza pertinace all’essenza titano-barbarica dell’impulso
dionisiaco”.
Quindi dionisiaco e apollineo
hanno dominato la storia dell’ellenismo, attraverso alterni successi dell’uno e
dell’altro, e così rafforzandosi l’un l’altro. Dall’epoca del bronzo con le sue
titanomachie e la sua saggezza popolare, si è passati all’età omerica e cioè
guidata da un senso di bellezza tipicamente apollineo; poi questa situazione fu
di nuovo messa in crisi dai festanti dionisiaci, davanti ai quali lo spirito
apollineo si contrappose attraverso la concezione dorica. Questo eterno
confronto tra apollineo e dionisiaco ha poi la sua conclusione con la tragedia
attica e nel ditirambo drammatico, nei quali i due impulsi si equilibrano
perfettamente.
Ma la prima volta nella quale,
nella storia greca, troviamo una indicazione relativa al bilanciamento tra
apollineo e dionisiaco, è – dice Nietzsche – ravvisabile là dove troviamo
rappresentati nella scultura Omero e Archiloco insieme, intesi come i
progenitori della poesia greca. Abbiamo già detto che Omero rappresenta ed è
l’artista apollineo per eccellenza, è il sognatore. Ed eccolo che guarda
stupito la testa fremente di Archiloco, preso nel turbine dell’esistenza. Omero
è sognante e invece Archiloco ci appare in modo spaventevole, “con il suo grido
di odio e di scherno, con lo scoppio insensato delle sue brame”; Archiloco è
lirico, mentre Omero è epico. Archiloco rappresenta l’artista dionisiaco per
eccellenza: nella sua lirica, egli si immedesima completamente con l’Uno
primigenio e con tutti i contrasti al suo interno, e così traduce in termini
musicali l’immagine di questo Uno; poi, sotto l’impulso apollineo, questa
dimensione musicale diventa a lui visibile come una visione di sogno e così la
trasforma in versi. In questo processo l’artista perde la sua individualità e
si immerge nel processo dionisiaco fatto di contrasto e dolore. Anche in questo
caso Nietzsche si pone agli antitesi rispetto alla critica ufficiale: mentre
solitamente si vede in Archiloco quell’autore che non si rifà, per la propria
ispirazione poetica, alla tradizione – come avveniva nell’epica -, bensì alla
propria esperienza personale, Nietzsche dice che i suoi versi non hanno nulla a
che fare con il loro autore nella sua specificità, ma con il suo inabissarsi
nell’impersonale vortice del dionisiaco. (Tra l’altro Archiloco dice in un
frammento di saper comporre in ditirambo dionisiaco quando è preso
dall’ebbrezza provocata dal vino: questo, tra parentesi, è la prima
testimonianza di cui disponiamo in cui si fa riferimento al ditirambo).
Da una parte abbiamo cioè l’artista
plastico e il poeta a lui affine (l’epico), che sono immersi nell’intuizione
delle immagini; dall’altra il musico dionisiaco, che non vede nessuna immagine,
che è immedesimato con il dolore che sta vivendo: in questo caso il lirico
sente sorgere da questo obnubilamento del sé un mondo di immagini, di simboli
che è completamente altro dal mondo dell’artista plastico e dal poeta epico.
Quest’ultimo vive piacevolmente le immagini che contempla nel suo stato
sognante, per cui anche le immagini rappresentanti stati negativi vengono
trasfigurate nella dimensione dell’apparenza e ricevendo questo aspetto
apparente proteggono l’artista da una completa identificazione con esse; invece
le immagini del lirico si identificano con il lirico stesso, sono oggettivazioni
di se stesso, per cui il suo proprio io non è più quello della vita reale,
quello soggettivo, ma è quello unico, eterno e universale, vivente in fondo a
tutte le cose. Archiloco, nel momento nel quale è infiammato dalle passioni, è
intriso di amore e odio, non è più lui stesso, ma è – come dire –
universalizzato, cioè esprime il dolore primordiale.
Quindi il vero artista non è
qualcosa di soggettivo, ma una sorta di medium, grazie al quale “l’unico
soggetto realmente esistente celebra la propria liberazione nella visione
artistica”. E solo nel momento della produzione artistica, il genio si fonde
con l’artista primigenio del mondo e sa qualcosa dell’essenza eterna dell’arte.
Quindi noi – propriamente parlando – non siamo i creatori di alcuna opera d’arte;
al limite siamo noi stessi proiezioni artistiche di quell’artista primigenio, e
la nostra esistenza, insieme a quella del mondo, è giustificata solo in quanto
fenomeno estetico ai suoi occhi.
Tornando poi al rapporto tra
musica e lirica, il lirico traduce la musica in parole e concetti. La lirica
quindi dipende dallo spirito della musica, mentre la musica non ha bisogno di
immagine e di concetti. La poesia lirica non potrà mai dire ciò che già nella
sua potente universalità e massima efficienza non è contenuto nella musica. Per
questo la musica non sarà mai esauribile nella parola: perché appunto essa si
riferisce a quel contrasto e dolore primordiali nell’Uno primigenio, e quindi
si riferisce a una sfera al di là di qualsiasi apparenza, per cui ogni apparenza
è solo simbolo.
Nel settimo capitolo Nietzsche
parla finalmente dell’origine della tragedia.
La sua tesi è questa: la
tragedia è nata dal coro; in origine c’era solo il coro. Era il coro che
costituiva il dramma, e non era affatto quello che si dice oggi, cioè lo
spettatore ideale (tesi romantica portata avanti da Schlegel), oppure il
simbolo del popolo (tesi questa sostenuta da Hegel). Qui ripetiamo che
Nietzsche riprende Aristotele. Infatti Aristotele nella Poetica scrive che la
tragedia è nata all’inizio dalla improvvisazione, da quelli che guidavano il
coro: cioè dal ditirambo. Poi si sviluppò con il tempo fino a diventare ad
avere la sua natura propria. Eschilo fu il primo a portare il numero di attori
da uno a due, diminuì l’importanza del coro e fece del discorso parlato il vero
e proprio protagonista della tragedia. All’origine le storie erano bravi e lo
stile era giocoso, perché si stava mutando il genere dall’originario genere
satiresco: solo più tardi la tragedia acquisì quel carattere serio che tutti
noi oggi conosciamo.
Il coro si muove su un terreno
ideale: cioè il coro è situato in una zona che è molto al di sopra della vita
reale dei comuni mortali; ma con questo non si deve credere che il suo sia un
mondo meramente fantastico e casuale: anzi, il mondo nel quale è posto è un
mondo dotato di piena realtà e degna di fede totale agli occhi di quei greci
che allo stesso modo credevano nell’Olimpo e nei suoi abitatori. La tragedia ha
inizio con il satiro come coreuta dionisiaco (il danzatore e cantore del teatro
greco). I satiri, come sappiamo, sono legati al culto dionisiaco, e secondo
Nietzsche il coro ditirambico che starebbe alla base della nascita della
tragedia, era formato da satiri. Ecc, per bocca del satiro parla la sapienza
dionisiaca della tragedia ed egli agisce in modo del tutto bizzarro rispetto
all’uomo incivilito, così come è la musica dionisiaca rispetto alla civiltà.
L’uomo incivilito, davanti a questa realtà, si sentì nel panico: si sentì come
annullato dal coro dei satiri e infatti è proprio questo l’effetto principale e
immediato della tragedia dionisiaca: davanti cioè a un sentimento così forte e
potente, scompaiono tutte le barriere tra società e stato, tra uomo e uomo, e
ogni cosa viene riportata alla natura, in un sentimento appunto di unità.
Questa è quindi la consolazione che ci lascia ogni tragedia autentica: cioè
sentiamo che nonostante i diversi fenomeni che ci appaiono nella vita siano
contrastanti, dolorosi, di passaggio, ecc., tuttavia la vita, nella sua essenza
e nella sua profondità, persiste e continua indistruttibile, potente, gioiosa,
assai fisica e presente, così come lo è il coro dei satiri, che permane
immutato al di là degli eventi che si danno nella tragedia.
Il greco dall’animo profondo
comprendeva la dimensione della storia universale, che volgeva continuamente al
suo annientamento, così come sentiva la crudeltà della natura. E così rischiava
anche lui di immergersi in un annientamento nichilistico di sé. Ciò che lo
salvò fu proprio l’arte, l’arte nella quale agisce la vita stessa, che quindi
nella sua eterna dinamicità viene anche ad aiutare l’uomo, mantenendolo
gioiosamente in vita.
L’estasi che viene vissuta nel
momento dionisiaco porta all’annullamento dei propri limiti abituali, degli
stretti confini dell’esistenza personale: tutto viene a cadere. Questa
dimensione è ovviamente completamente diversa da quella propria della vita
quotidiana. Allora succede che appena questa ritorna alla coscienza di chi ha
vissuto l’esperienza dionisiaca, quest’ultimo la sente con estremo disgusto.
L’uomo dionisiaco viene confrontato da Nietzsche non a caso con Amleto:
entrambi hanno gettato uno sguardo fugace sull’essenza delle cose e riprendono
la loro vita con ribrezzo, perché hanno la consapevolezza ora che la loro
azione non potrà mai mutare l’essenza eterna delle cose. La vera conoscenza
conduce all’inibizione dell’azione: ogni azione per essere tale deve essere
almeno in parte avvolta dall’illusione. Vedere la verità in faccia, la
terribile verità, elimina qualsiasi volontà di agire. In questo caso non c’è
consolazione che tenga: c’è solo un desiderio disperato di morte.
A questo punto però interviene
con effetto salvifico l’arte: solo grazie a lei il terrore e il disgusto,
l’assurdo dell’esistenza vengono piegati a rappresentazioni che rendono
tollerabile la vita. E questo è proprio quello che fa il coro dei satiri del
ditirambo, agendo in esso la funzione salvatrice dell’arte greca.
Il satiro – ricordiamo
l’impostazione appunto tragica di Nietzsche – non ha alcun aspetto romantico:
non c’entra nulla – dice Nietzsche – con il pastore vagheggiato da alcuni
moderni nostalgici della cita campestre. Non ha nulla di effemminato, ma
rappresenta la natura non elaborata ancora da nessuna conoscenza. Natura non
elaborata da nessuna conoscenza significa la natura per quello che è: nulla di
più e nulla di meno. Cioè: l’espressione delle passioni più veementi e
contraddittorie, l’essere inebriati della presenza immanente di dio, quel dio
che parla attraverso il fondo della natura stessa. Il satiro era quindi da
considerarsi come qualcosa di altissimo e divino.
Il coro dei satiri vive la
realtà in un modo più autentico rispetto all’uomo incivilito, anzi nell’unico
modo autentico: nella tragedia cioè viene indicato quel nocciolo esistenziale
che sta sotto a tutti i fenomeni e che è l’origine delle eterne e alterne
vicende della vita. E nella tragedia attica il pubblico veniva completamente
immerso nella scena artistica: il pubblico si veniva a identificare con il coro
stesso, si sentiva rappresentato dai satiri. Un pubblico così come quello che
conosciamo oggi noi, i greci non l’hanno mai avuto: i loro teatri erano
costruiti in modo tale (la forma concentrica e a terrazza) che ognuno poteva
abbracciare con lo sguardo tutto il mondo attorno a lui, e così sentirsi
immedesimato nella scena, sentirsi anche lui stesso cantore e danzatore nella
scena. In questo senso è possibile chiamare il coro, nel primo grado della
tragedia originaria, “lo specchio dell’uomo dionisiaco”, dice Nietzsche.
Abbiamo detto che secondo
Nietzsche, sulla scorta di Aristotele, la tragedia è originariamente il coro
dei satiri. Il mondo della scena è successivo ed è una visione di questo coro;
questa visione è così potente e travolgente da rendere inaccessibile e insensibile
allo sguardo la realtà circostante fatta dai semicerchi di uomini inciviliti
seduti che stanno assistendo all’opera d’arte. La forma del teatro greco
ricorda una valle solitaria ed è come se le baccanti possedute contemplino
dalle cime dei monti la rivelazione di Dioniso.
Nella tragedia greca si
realizza quello che è il fenomeno estetico stesso, cioè quella capacità di
vedere svolgersi un’azione vivente, sentendosi circondati senza sosta da una
folle di spiriti. Consiste in questo l’essere poeti, dice Nietzsche. E
l’emozione dionisiaca ha questa capacità di comunicare a tutta una moltitudine
di persone questa facoltà artistica: essa si vede circondata cioè da una folla
di spiriti, e si identifica con essa. È questo il fenomeno drammatico primitivo:
vedere se stessi trasformati (nel coro ditirambico) e agire come se si fosse
entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Qui l’uomo si snatura di sé,
si svuota della sua identità: anzi, questo accade a tutta la folla. È in questo
effetto tumultuoso che il ditirambo si distingue da qualsiasi altro canto
corale. Nel coro ditirambico agiscono dei trasformati, che hanno azzerato
completamente il loro stato civile, sociale, si sono trasferiti in una
dimensione senza tempo, divenuti servi del loro dio Dioniso.
Nel momento nel quale il
tripudiatore dionisiaco si vede satiro a causa dell’incantesimo attivato
nell’arte drammatica, e in quanto satiro vede il dio, cioè nella propria
trasformazione contempla fuori di sé una nuova visione, come perfezionamento apollineo
del proprio stato. Con questa visione il dramma è completo. In questo senso la
tragedia greca cosa è? È lo stesso coro dionisiaco che di continuo si va sempre
scaricando in un nuovo mondo figurativo apollineo. Le parti corali sono quindi
l’origine dell’intero dialogo che si dipana nella tragedia. La parte del coro
produce la visione del dramma; una visione che è un’apparizione di sogno, cioè
è l’oggettivazione di uno stato dionisiaco: per questo apollineo e dionisiaco
agiscono parallelamente. Il dramma, dice Nietzsche, è l’incarnazione apollinea
di conoscenze e impressioni dionisiache. Il coro è insomma l’unica realtà, ed
esso genera da sé la visione, cioè la scena e l’azione che si svolgono nella
tragedia. In questa visione il coro contempla il suo dio, Dioniso sofferente e
glorificato.
Dioniso è allora il vero
protagonista della scena tragica, è il centro della visione. In principio, nel
periodo più antico della tragedia, egli non esiste veramente, ma viene ideato
come se realmente ci fosse; cioè, come già detto, all’origine la tragedia è
solo coro e non ancora dramma. Più tardi si cercherà di presentare il dio come
un personaggio reale, e solo da quel momento avremo a che fare con il dramma
vero e proprio. A questo punto il coro ha come funzione quella di condurre
l’animo dello spettatore al grado dionisiaco, in modo tale che quando compare
l’eroe tragico sulla scena, lo spettatore non veda un uomo grottescamente
mascherato, ma l’immagine propria di quella visione sorta in lui a causa del
rapimento dionisiaco provocato dal coro. Già lo spettatore, quando vede
comparire sulla scena il dio, lo vede con quelle stesse passioni di cui lui
stesso è partecipe. Trasferiva cioè su quella figura l’immagine del dio che gli
teneva l’anima tutta tremante: ed è proprio questo lo stato apollineo di sogno.
In esso infatti il mondo quotidiano viene a nascondersi e nasce un mondo più
evidente, più comprensibile, eppure più apparente. Per questo nella tragedia
incontriamo un contrasto tra gli stili: da una parte abbiamo la lingua, il
colore, il movimento, la dinamica della parola, la lirica dionisiaca del coro:
dall’altra il mondo apollineo della scena. Le manifestazioni apollinee nelle
quali Dioniso si oggettiva non sono più la musica e i canti del coro: egli
parla ora attraverso la scena e attraverso la figura epica rappresentata sulla
scena stessa; Dioniso non si comunica più attraverso un sentimento indefinito,
ma come un eroe epico, come accade negli eroi narrati da Omero.
Nella tragedia avviene quel
contrasto che rappresenta quell’avversità di contrari che fa parte dell’essenza
delle cose. Per es. il mondo divino e il mondo umano: si vengono a trovare
all’interno della tragedia come due mondi diversi, ma entrambi con il loro
pieno diritto ad esserci. Ogni individuo nella tragedia ha il suo diritto di
esistenza ma soffre anche a causa della sua individuazione, cioè per il fatto
stesso che è un individuo. Il singolo ha questa tensione a superare se stesso,
a universalizzarsi, ad andare oltre la propria individualità; soffre in sé
questo contrasto che fa parte del fondo stesso delle cose.
È in questo che consiste il
nocciolo del mito di Prometeo. Il mito di Prometeo è proprio dei popoli ariani:
qui Nietzsche usa proprio questa categoria, molto probabilmente ripresa dall’amico
Wagner. Prometeo è di spirito ariano, maschio, è colui il quale ha sottratto il
fuoco agli dèi senza il loro consenso, è chi si prende ciò che ritiene suo
senza attenderlo come dono degli déi; in questo senso il mito di Prometeo è il
corrispettivo greco di ciò che è il peccato originale nella prospettiva
semitico-cristiana, là dove in quest’ultimo agisce l’aspetto femminile, la
curiosità, la bugia, la facilità a lasciarsi sedurre. Il mito di Prometeo
indica la necessità del sacrilegio per l’individuo che anela a una potenza
titanica; esso ha una carica potentemente anti-apollinea. La tendenza apollinea
è quella di fare rientrare tutto in regole, entro certi limiti, fare sì che gli
uomini siano e rimangano all’interno dei loro spazi, dei loro confini, con
l’importanza data quindi al concetto di misura. Per far sì che questa tendenza
non congeli tutto, non irrigidisca oltremodo la realtà, allora agisce la
tendenza opposta, quella dionisiaca, che rimescola ciò che l’apollineo aveva
incantato e irrigidito.
È proprio questo che lega il
prometeico con il dionisiaco: questo impeto di voler portare i singoli al di là di loro stessi, di scardinare i
limiti imposti. Il Prometeo di cui ci parla Eschilo è una maschera di Dioniso,
è la maschera del tragico: in lui agisce la discendenza apollinea come quella
dionisiaca. Nell’essenza del tragico c’è proprio questa commistione, questo
contrasto: tra individuale e universale, tra il limite e il trascendimento di
esso, tra la serenità tipicamente greca e la sofferenza, tra il piano degli
uomini e quello degli déi, tra la giustizia e l’ingiustizia. Queste
contrapposizioni agiscono fortemente nella trama della tragedia greca. Nel
Prometeo eschileo agisce sia la natura apollinea che quella dionisiaca, per cui
la formula nella quale si potrebbe riassumere la sua essenza è: “Tutto ciò che
esiste è giusto e ingiusto, e come giusto e come ingiusto è ugualmente
giustificato”. Questa è la verità che passa attraverso la tragedia, ma è anche
e soprattutto l’essenza delle cose stesse: è il mondo.
Allora: il vero e solo
protagonista della tragedia greca è Dioniso con le sue sofferenze. Egli fu per
molto tempo il solo personaggio presente nella scena della tragedia. Fino a
Euripide Dioniso è stato sempre l’eroe tragico, e tutti i grandi personaggi
successivamente presenti nella scena, come Edipo, Prometeo, ecc., non furono
altro che maschere di Dioniso. Dioniso cioè compare in una molteplicità di
figure, in un certo senso. Egli compare come un individuo che erra, come un
individuo che si affatica, come un individuo che patisce. Ma l’eroe è sempre
lui: il Dioniso sofferente di cui ci parlano i misteri greci, il dio che porta
su di sé ed è simbolo dei dolori causati dall’individuazione. Dioniso, secondo
la famosa versione mitica, fu fatto a pezzi – fanciullo – dai titani, e in
questo stato adorato come Zagreus. Zagreus è la principale divinità del culto
orfico, considerata la prima incarnazione di Dioniso. Nato da Zeus e Persefone,
fu catturato dai Titani, smembrato; il suo cuore fu portato a Zeus, il quale lo
ingerì e dalla ricomposizione delle sue membra nacque il secondo Dioniso, il
dio che comunemente viene chiamato proprio usando questo nome. Ecco, lo
smembramento – dice Nietzsche – simboleggia la sofferenza dionisiaca, cioè lo
stato di individuazione come causa e origine di tutti i dolori e i mali. La
speranza degli iniziati ai misteri di Eleusi relativa a una rinascita di
Dioniso va interpretata come una speranza per la fine dell’individuazione, cioè
per la venuta di questo terzo Dioniso per il quale risuonava il canto festante
degli iniziati stessi. Possiamo qui notare un parallelo implicito con la
speranza cristiano del ritorno di Gesù alla fine dei tempi.
Solo in questo senso, solo con
questa speranza si giustifica l’esistenza in un mondo dilaniato e frammentato
in individui; solo così si spande un velo di allegrezza sulla sofferenza e sul
dolore cosmico al fondo di tutte le cose. In questa prospettiva Nietzsche
interpreta il mito di Demetra sofferente che ritorna lieta quando le viene concesso
di partorire nuovamente Dioniso, quella Demetra la cui figlia Persefone –
secondo la tradizione – ha generato il primo Dioniso, Zagreus e il cui culto è
– come sappiamo – parte integrante dei misteri eleusini.
Nella lettura di questi miti
Nietzsche intravede la teoria dell’unità fondamentale di tutto ciò che esiste e
della teoria secondo la quale l’individuazione è l’origine del male. Male
davanti al quale, come abbiamo già avuto modo di ripetere, solo l’arte si pone
come speranza del suo superamento, cioè dell’eliminazione dell’inividuazione,
restaurazione dell’unità originaria.
La tragedia è uno scossone
forte contro la concezione omerica del mondo. Tutto è partito dall’era dei
titani e delle titanomachie; poi si è passati all’epos omerico e alla civiltà
omerica; successivamente, sotto l’impulso della poesia tragica, i miti omerici
e la loro civiltà sono tramontati, davanti a una nuova concezione del mondo
vissuta come più vera. Davanti all’occhio finalmente sbendato, che può vedere
la verità direttamente, nel suo fondo, nel suo terribile fondo, il mondo
omerico e i suoi miti impallidiscono, si indeboliscono, fino a trasfigurarsi in
qualcosa di sottomesso alla nuova divinità, Dioniso. La verità dionisiaca
prende il dominio di tutta la conoscenza mitica e si esprime nella tragedia a
livello pubblico e nelle feste dei misteri a livello segreto. Prometeo così si
liberava dalla sua punizione, dall’avvoltoio e il mito si trasformava in
strumento di sapienza dionisiaca. Come? In che modo? Grazie a che cosa questo è
potuto avvenire? Lo sappiamo: attraverso la forza invincibile della musica, la
quale ha questa capacità potente di interpretare il mito in modo nuovo e
profondo.
C’è una grandissima differenza
tra mito e storia. Il destino di ogni mito è quello di congelarsi, di
rattrappirsi a evento storico, a venire considerato traduzione di una realtà
storica nelle epoche successive. Ma è questa la causa della morte delle
religioni: nel momento nel quale i fondamenti mitici di una religione vengono
indagati attraverso la fredda lente della ricerca storica, filologica, in una
prospettiva di un rigido dogmatismo ortodosso, quando questi presupposti mitici
vengono ad essere sistematizzati in una catalogazione di avvenimenti storici,
allora la religione e la sua forza muoiono. Insomma: l’ambito proprio del
religioso è il mito; la fine del mito (leggi: l’inizio del cristianesimo) segna
la fine dell’autentico sentimento religioso. Il cristianesimo, avendo
trasformato il mito in fatto storico, rappresenta la degenerazione del
religioso. Ed ecco invece cosa fa la musica: prende il mito, che giace
moribondo a causa di questo approccio – potremmo dire: a causa di una certa
impostazione di sapore omerico – e lo fa rifiorire. Nella tragedia dunque il
mito mostra il suo contenuto più vero e profondo; esso per l’ultima volta si
risolleva come un eroe ferito, dice Nietzsche. E chi gli diede l’ultima
stilettata, chi l’uccise definitivamente fu Euripide.
Dopo la morte della tragedia
si aprì un grande vuoto. Il genere che poi ne seguì fu la commedia attica
nuova, un goffo e degenerato prodotto rispetto alla tragedia stessa, e l’anello
di congiunzione tra i due generi fu Euripide.
Cosa ha fatto Euripide? Ha
dato importanza allo spettatore e ha voluto portarlo sulla scena, rappresentandolo
nel modo più realistico possibile. Tendenza questa esattamente contraria a
quella presente nella tragedia, nella quale non vi era certo la volontà di
portare sulla scena la realtà “quotidiana”. Euripide nelle Rane di Aristofane dice che è stato grazie a lui che l’arte tragica
si è liberata di tutti quegli elementi pesanti e pomposi di cui era
caratterizzata, è grazie a lui che finalmente si è resa comprensibile, mentre
in Eschilo era del tutto oscura. Ma Nietzsche ribatte che con questo non è
certamente vero che l’opera d’arte di un Eschilo o di un Sofocle fosse
sproporzionata all’intelligenza del pubblico di allora: anzi, sappiamo che
Eschilo e Sofocle, finché vissero, godettero pienamente del favore del
pubblico.
Invece Euripide si sentì
superiore alla folla e volle piegarsi all’intelligenza minuta (presunta o
reale) del suo pubblico, trasferendo il mondo dei sentimenti, delle passioni,
delle esperienze che fino ad allora erano presenti solo tra gli spettatori
nell’anima dei suoi eroi della scena. Sulla scena delle opere di Euripide c’era
la gente comune con le sue situazioni di ogni giorno; egli rese più razionale
la tragedia e fece opera anche educativa rispetto al suo pubblico, che è ora
più sveglio a sbrigar le faccende, a fare ogni cosa rispetto a prima, come
ricorda Eurpide nelle Rane. Insomma:
Nietzsche vuole dire che con la fine della tragedia ha inizio il processo di
razionalizzazione del mondo; l’arte diventa qualcosa di cui discutere ed entra
a far parte della quotidianità dell’esistere.
Lo spettatore vedeva nella
scena euripidea il proprio doppione e si compiaceva nel sentirlo parlare così
bene. Nell’opera di Euripide si esprimeva la mediocrità borghese, trasfigurata
in espressione artistica: quella mediocrità del popolo sul quale Euripide ha costruito
il suo successo di artista.
Con la fine della tragedia
scompare la fede del greco nella propria immortalità, la fede in un passato
ideale e in un altrettanto ideale futuro. Questo viene sostituito dal
motteggio, dal capriccio, dall’arguzia, dalla frivolezza, così massicciamente
presenti nella nuova commedia. Domina ora la mentalità degli schivi, del quinto
stato; anche quando si parla ancora di serenità greca, la si intende come una
serenità da schiavo, cioè tipica di colui che non è degno di grandi
responsabilità, che non sa aspirare a nulla di grande. In questo caso Nietzsche
fa un paragone con i primi quattro secoli del cristianesimo, con i suoi
martiri, il vivere eroico di tante nature forti: ecco, ai loro occhi questa
fuga da ogni cosa seria e profonda, questa codardia che si accontenta dello
stare comodi e tranquilli, fu vista come un atteggiamento non solo immorale, ma
totalmente anticristiano. Qui c’è un giudizio positivo da parte di Nietzsche
riguardo al cristianesimo, o meglio: riguardo il cristianesimo delle origini.
La tendenza di Euripide fu
quella di eliminare l’elemento dionisiaco da essa; così facendo egli costruiva
un nuovo tipo di arte, di morale, una nuova concezione del mondo, del tutto non
dionisiache. Per Euripide il dionisiaco va estirpato dal suolo greco; ma – come
vedremo - questo non è del tutto possibile. Dioniso è troppo potente per morire
così facilmente.
Lo stesso Euripide era a sua
volta una sorta di maschera: in lui certo non parlava Dioniso e nemmeno Apollo,
dato che anche Apollo necessita dell’aspetto dionisiaco di cui si fa – in certo
senso – traduttore e schermo protettivo. Euripide è invece la maschera di un
nuovo demone, nato da poco: Socrate. Socrate infatti è vissuto esattamente
nello stesso periodo di Euripide. Socrate, con la sua filosofia, aveva creato
una nuova contrapposizione, del tutto inedita: l’istinto dionisiaco contro il
razionalismo socratico. Con questa contrapposizione la tragedia greca morì.
A questo punto il dramma non
poteva nascere più dalla musica, dal misterioso istinto dionisiaco, avendo
vinto il razionalismo socratico. Allora quale poteva essere la nuova forma di
dramma ammissibile dopo questo cambiamento? Solo l’epos drammatizzato, cioè
qualcosa di tipicamente apollineo (ricordiamoci Omero), nel quale non è certo
possibile raggiungere i risultati e i picchi propri dell’effetto tragico.
Qual’è il rapporto tra Euripide e questo tipo nuovo di forma drammatica?
Nietzsche cita al riguardo un passo dello Ione
di Platone, in cui Ione stesso descrive il suo stato nel momento nel quale
recita: “Quando dico qualcosa di triste si riempiono i miei occhi di lacrime;
se però quel che dico è spaventoso e orribile allora mi si rizzano i capelli
sulla testa per il raccapriccio e il cuore mi batte forte”. In queste righe
viene descritto uno stato che non ha nulla a che fare con il perdersi
nell’apparenza dell’epica, con la freddezza imperturbata e priva di passioni
del vero attore, secondo Nietzsche. Il vero attore è invece tutto apparenza e
piacere dell’apparenza.
Invece Euripide è l’attore del
cuore che picchia, dei capelli dritti in testa; in lui non c’è l’effetto
apollineo dell’epos, come non sussistono più elementi dionisiaci. Egli, per
raggiungere l’effetto, ha bisogno di nuovi strumenti, che non hanno nulla a che
vedere con gli unici due istinti artistici dell’apollineo e del dionisiaco. I
suoi nuovi eccitanti sono pensieri freddi e calcolatori al posto delle
intuizioni apollinee e affetti ardenti e femminei al posto dei rapimenti
dionisiaci. Sono pensieri e affetti che Euripide copia tali e quali sono nella
realtà quotidiana, senza minimamente trasfigurarli in arte vera.
Euripide non riesce a fondare
la sua arte, il dramma solo sull’apollineo: la razionalità che sta alla base
delle sue opere in realtà è una degenerazione dell’apollineo stesso. Il dramma
euripideo è in questo senso una vera e propria nuova concezione dell’arte: è il
prodotto di quel socratismo estetico per cui bellezza e razionalità diventano
sinonimi (“Per essere bello, tutto deve essere intelligibile”); socratismo
estetico che ha il principio parallelo nell’aforisma di Socrate “Solo chi sa è
virtuoso”.
Ciò che è massimamente
ripugnante in un’ottica tragica è il prologo nel dramma di Euripide. All’inizio
arriva un personaggio, si presenta, racconta ciò che è avvenuto prima del tempo
narrato nell’azione scenica e ciò che accadrà nello svolgimento dell’opera.
Tutto questo è qualcosa di imperdonabile: si rinuncia così all’effetto della
tensione prodotto dalla non completa padronanza, all’inizio della tragedia, di
ciò che è la sua premessa e dalla totale ignoranza rispetto a quello che
accadrà. Se sappiamo cosa accadrà, perché mai vorremmo stare lì ad attendere il
fatto che quella situazione si compia realmente? Ma il procedimento di Euripide
è un altro: l’effetto della tragedia per lui non poggio sulla tensione epica,
sul fatto che il pubblico non sappia quello che accadrà; per lui l’effetto sta
tutto nelle grandi scene retoriche, liriche, in cui a farla da padrone ci sono
le passioni, la dialettica del protagonista, ...
Eschilo e Sofocle si erano
invece impegnati a porre subito lo spettatore in medias res dell’azione,
facendocelo entrare all’inizio con la sua ignoranza riguardo a quello che stava
accadendo, ignoranza che moltiplicava l’effetto tragico stesso. Per Euripide
invece questa scelta non faceva che creare nello spettatore una sorta di
impazienza, di insofferenza a causa del suo non sapere le cose come stavano
precisamente; uno stato d’anima che non gli permetteva di godere appieno delle bellezze
poetiche e del pathos presenti nell’opera d’arte. Perciò Euripide inserì il
prologo prima dell’esposizione e lo mise in bocca a un personaggio degno della
massima fiducia, cioè in bocca a una divinità.
Euripide si immaginò essere
una specie di sistematizzatore e ordinatore, rispetto agli altri poeti della
tragedia. Di Anassagora si riporta questa sentenza: “In principio tutto era
confuso; poi venne l’intelletto e creò l’ordine”. Ecco: Euripide si vide come
quell’intelletto che pone finalmente ordine nella struttura e nello svolgimento
della tragedia (tipico atteggiamento socratico). Euripide è il poeta del
socratismo estetico: Platone parla sempre con ironia della facoltà creatrice
del poeta, il quale nel momento nel quale crea, non è cosciente di sé, non ha
in lui alcun intelletto che opera rettamente e consapevolmente. Il poeta è
irragionevole per antonomasia. E così Euripide, da parte sua, è stato chi per
primo ha incarnato il principio per il quale “tutto deve essere cosciente, per
essere bello”. Ed è stato dunque la causa della rovina della tragedia greca:
lui e il suo socratismo estetico.
In Socrate dunque dobbiamo
riconoscere l’avversario di Dioniso, che lo costrinse alla fuga. Dioniso, in
questa fuga, prese scampo nelle correnti mistiche del culto segreto che di lì a
poco avrebbe invaso tutto il mondo.
Nell’antichità questo stretto
legame che avvicinava Socrate ed Euripide non sfuggì di certo. Il segnale più
evidente di questa consapevolezza che già allora esisteva è la diceria diffusa
ad Atene secondo la quale Socrate aiutava spesso Euripide nel suo poetare.
Nietzsche riprende questa idea da un passo delle vite di filosofi di Diogene
Laerzio. I loro due nomi venivano citati insieme da chi, contrapponendosi ai
nuovi tempi, voleva elencare i seduttori del popolo. Con questo approccio
Aristofane parla di quel tipo di uomini, con scandalo anche dei giovani che si
sentivano presentare Socrate (ne Le
nuvole) come il primo dei sofisti: proprio Socrate!
Socrate era avversario
dell’arte tragica e interveniva solo quando era portato sulla scena un lavoro
di Euripide. Anche questa notizia Nietzsche la riprende da Laerzio. Ma ancora
più famoso – continua Nietzsche – è il detto dell’oracolo di Delfi, secondo il
quale Socrate è il più sapiente di tutti gli uomini, e in secondo posto era
Euripide.
Socrate basa tutto la sua
filosofia sulla questione del sapere di non sapere nulla; e con questa chiave
lui si presenta alle persone con le quali ha modo di dialogare e confessa di
sapere di non sapere e le conduce – anche loro – alla stessa confessione.
Neppure loro avevano un’idea chiara, sicura di quello che era il loro compito:
essi lo eseguivano per mero istinto. Ecco: è proprio questo il punto, dice
Nietzsche. Per mero istinto: in questo approccio Socrate vede la mancanza
d’intelligenza, la potenza della suggestione, e quindi lo valuta negativamente.
Ma le cose erano viste all’opposto, prima di lui e della sua vittoria nella
storia occidentale.
La chiave per comprendere la
natura di Socrate ci è data dal cosiddetto “demone socratico”. Nelle situazioni
nelle quali il suo intelletto vacillava, egli riprendeva l’equilibrio grazie ad
una voce divina interna che gli si manifestava in quei momenti e che lo
dissuadeva dal permanere in quello stato. In una natura distorta come quella di
Socrate, la saggezza istintiva si manifesta – nelle vesti del demone socratico
– solo avendo la funzione di inibizione contro uno stato vissuto come negativo,
cioè quello stato che offusca la conoscenza consapevole. In tutti gli altri
uomini, potremmo dire normali, produttivi, l’istinto è quella forza che crea,
mentre la coscienza ha ruolo critico e di freno; invece in Socrate l’istinto è
critico e la coscienza è creatrice. È un paradosso: in Socrate c’è qualcosa di
mostruoso; egli è l’anti-mistico per eccellenza. In lui infatti la natura
logica è così mostruosamente sviluppata, quanto è nel mistico la sapienza
istintiva.
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