Il contesto storico di RACALMUTO
Note
orientative del quadro storico racalmutese
Sull’altipiano di Racalmuto - che,
a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi quattro millenni,
tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di
solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente
per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec.
a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come
attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi
micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la
civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze
che superassero l’onta del tempo).
In Sicilia indi subentrò il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto
appare completamente estraneo al processo iniziale della colonizzazione: solo,
quando si consolida l’egemonia greca di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire
di addentrarsi nelle parti più interne dell’altipiano racalmutese. Di
documentato, però, non abbia nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche
descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra
Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro
sarebbero state frequentate da Sicilioti.
Nel terzo secolo a.C., con la
conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di
coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse
congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono
comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le
loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto
nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese,
anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località
siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena
epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci
forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae”
‘sulfuris’ risalenti con certezza al tempo di Commodo e che per secoli dal II
al IV comprovano una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone
del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria.
Dopo, con la caduta dell’impero
romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale
- è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di barbari
dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse
Generico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche
il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte
dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel
456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del pari non sono da escludere presenze
vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino
alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che
dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si
favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a questo
periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di Grotticelli e
di Casalvecchio e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare
specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il
toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche:
purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono a tuttora di
studiarne in loco la portata, le
valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà
bizantina, che durò sino all’incasione araba, allorchè appassì e si disperse.
Alcune monete - rinvenute, però, nella disabitata contrada della Montagna portano in effigie gli
imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio
II. Il primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito
dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso nel 705 ([1]). Le tante
e ricorrenti testimonianze archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di
fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative
affioranti, etc.) che si rinvengono
nella zona che va dallo Judì al Caliato; dalle Grotticelle a Casalvecchio e
dintorni attengono alla cultura bizantina, prosperata dal sesto secolo sino
all’avvento degli Arabi.
Con gli
Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi
che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi
a Racalmuto è totalmente buio: né vestigia archeologiche, né testimonianze
scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo
illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è,
appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare
che di arabo Racalmuto non ha nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi -
a partire dal nome del paese - o l’etimologie arabe dei vari lemmi della
parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione
saracena o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria
normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni
arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi
locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben
condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici,
religiosi. Vai a dir loro che trattasi di meri vaneggiamenti, di fole senza
fondamento, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente
intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’
(frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà
terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici degli sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non
possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento
di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo
ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più
sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento
così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità
dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca
è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva
1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il
governatore di Rahal-Almut, AABD-ALUHAR, per bontà di Dio servo dell’Emir
Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([2]) Ma
l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate
Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca
di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella
che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la
«tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso
pur sapendo che è falso». E del resto lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non
mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la
falsità, e precisamente nelle Parrocchie
di Regalpetra.» ([3]) E di
piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il
compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre,
Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben
vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel
presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza
storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva
già, un pò più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato
da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla
morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende
oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o
più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v.
pagg. 33 e segg.). E di fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la
favoletta che a metà dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino
Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps ([4]),
distintisi nella lotta contro i Normanni.
Ruggero il
Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o
l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue
cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e
munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i
castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella,
Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il
testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della correttezza di tutti i
toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su
quell’impreciso ed incompleto Rahal... Un tempo abbiamo aderito a tale tesi,
dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il nostro
casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun centro
dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte è
significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima metà
del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a Racalmuto.
Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono
essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della
Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il
periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il
primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di
Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli (come
diffusamente si vedrà in seguito). Mi si
obietterà che l’argomento ex silentio
non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che
si afferma nel silenzio delle fonti è mera congetturazione, che nel caso di
Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della
verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una
testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo
degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni
saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista
araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente
avventatezza storica.
Il Garufi
annotò - commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che «..
l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne
l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale
della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel
Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di
compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in
Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout,
nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i
testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero
dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
([5]) Ma la tesi del Garufi
appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca
tale località un quel di Polizzi ([6]). Il Rachal Chammoùt ( ammu) del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con
il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto. E ciò destituisce di ogni fondamento la
notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal
Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria
di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i
canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite
racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei
canonici dell’epoca, il PIRRI ebbe infatti a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S.
Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc.
Agrig. à Roberto Malconvenant domino
illius agri extructum...” ( [7]) «A tre
lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era
quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento, da Roberto Malconvenant, signore di quel
territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su
documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, in stando a studi del
1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di
S. Margherita Belice, come più dettagliamente vedremo in seguito.
Svanisce
così la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni
possesso baronale del Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe
attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla,
si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; senonché il
settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia
del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con
espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma
angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni
baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della
signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo signore di Racalmuto ( o per
lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse
appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Senonché
Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271,
del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo
a Pietro Nigrello di Belmonte ([8]). I Vespri
Siciliani ci mostrano un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia
e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei Sindaci fra le persone più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a
prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a
sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i
suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse
gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ([9]). Il Bresc
ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([10]). Il 26
gennaio 1283 ind. XI «scriptum est Bajulo Judicibus et universis hominibus
Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor» ([11]) cioè
Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con
un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si
trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti
probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con
perizia di antica tradizione. Non erano più villani
dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni
dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federici II. Nel 1235 essi furono in
grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello
di Guastanella fino a quando non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([12]) Federico
II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu
una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera
contadina. ([13]) Nel 1248
v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa
agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia
per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di
polizia e per altri gravami imposti da Federic0 e dai suoi ufficiali furono
così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere
più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i
proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
Fu a
seguito dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) potè
fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni
sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già
detto- avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro
d’Aragona. ([14]) Nel 1282
il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di
Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso
di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello
con due torri cilindriche che ancor oggi si erge maestoso ed imponente entro la cinta del
paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello
pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove
si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco
recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca:
«Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano
e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per
dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria
sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo
decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data potè avere qualche pretesa su
Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi
i figli del fratellastro Antonio,
Gerardo e Matteo del Carretto. ([15]).
L’excursus sinora soltanto abbozzato
tende ad additare un punto per noi
basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento
angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome
arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non
sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e
si accinge a divenire quella che Amerigo Castro chiamerebbe un’umana, fervida,
sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora vitale».
Francamente
non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli
... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni
altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace
‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle
rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma
la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla
fame come erba alle rocce.» ([16]) Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame
produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure
care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il
medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” -
martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack
Smith ([17]) - Diego La Matina, il
monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente
dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo
scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o spuderatamente aureolati
nelle sue icastiche pagine.
Da oltre
sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei
diari, nelle opere storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso,
dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi
rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non
privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione
all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio
di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento
sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie
congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
Le vicende di Racalmuto possono
venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente,
spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione
locale o della mistificante letteratura degli autori paesani.
E’ una Racalmuto che va vista con
occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della
Madonna del Monte del 1503, così come,
in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse per uzzolo dei Del Carretto con buona pace
del “terraggio e terraggiolo” secondo la deformazione del pur sommo Leonardo
Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a
Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione
parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di
chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro di lettura: è
solo sostanzialmente materiale di
consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far
storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e
deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la
microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni racalmutesi sì -
sapere chi erano a quel tempo i “mastri” ed
i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce
n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e
chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei
tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere
che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso
(l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e
via di seguito.
Lo studio cui ci accingiamo ha l’ambizione di costituire una base per
successivi studi e ricerche sulla storia locale. Esso è problematico come lo è
ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni
percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato di custodisce
ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana
di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il
tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è
praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a
cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la
cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione
di una “jnizza”, la suggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”,
vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti
monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della
vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo,
il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere
di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non
rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici
potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche
comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia -
giacché leggere quei documenti non è da tutti
- , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce
compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a
proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore
elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria,
fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di
una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento
degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura
romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo,
e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo
libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui
sono nati, nel riverbero del passato
sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è
così disavvertito da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed
amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua
memoria più vera e più pulsante?
Francamente credo di
no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua
cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto
a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio
Napoleone Messana, al poeta Padalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdos secundum ordinem
Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed
al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano
dissolversi racalmutese.
Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa
silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi,
il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo
dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto -
invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie
agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali;
con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo
genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la
figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli
arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano le cui spoglie
appetisce l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias
e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella,
un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare
nelle proprie carceri il fio della sua colpa.
I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1986 tornarono a
gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con
i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un
anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente
tanti e perniciosi da rendere irritante la lettura di quel volumetto. Altro che
spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati.
Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra,
invero, lo voleva pudico “con un uomo
non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico
guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo. In ogni caso l’uomo invita al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti.
Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della
borghesia postunitaria racalmutese. Il prof. Nalbone ha fotografato
interessanti documenti dei primi anni del ’Settecento ove figura il timbro a
secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo.
Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile.
Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di
religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese
da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto
è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al
silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.
* * *
L’intreccio del volume che presentiamo poggia fra l’altro su
una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è
svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi,
vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico
racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è
avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro,
alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali
dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene
inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà
agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere
un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola
nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale
con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio
di Capra:
«Isola nell’isola,
...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso
su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia
dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia
dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un
discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di
incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere
nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sin ad oggi - è
solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo il
magistrale libro di Fernando Braudel su
“Civiltà e Imperi del Mediterraneo
nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti
notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza
sorprendente: le linee e le scansioni
della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un
completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate
note delle sue vicende.
E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte
di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli
agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di quanto trovasi
su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid.
Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un
laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per
approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi
riflessi sull’occupazione giovanile locale.
Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche
dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto
storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi
connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con
le sue “tande” da ripartire, con le traversìe della famiglia del Carretto che
si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che
sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e
l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente ruolo conventuale di francescani e carmelitani,
con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini,
Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri
domenicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il
terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e
Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano
l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i
loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano.
I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi
“miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria,
ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il
barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per
l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante- di
natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni
periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime
arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta” della Curia vescovile; dai gravami basati su
un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato
agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici
beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa,
avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla
culla alla tomba.
* *
*
Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale
indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri,
ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto
pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di
propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si
preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò
spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio
vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche
finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla Matrice di Racalmuto, no. Solo una mano sacrilega strappò qualche
foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio
Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il
16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi
comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul
medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui -
l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A.
Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di
scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca
Lucchesiana il 24 aprile 1879. ([18])
[1]) Georg Ostrogorsky :
Storia dell’impero bizantino, Torino 1993. Per ERACLEONA v. pp. 95, 99, 100 e
543; per TIBERIO II v. pp. 120-122, 157
e 543. Le notizie sulle monete ed i dati
di riferimento cronologico sono desunti dagli studi di André Guillou (v. Arch.
Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149 ove si accenna ad un tesoro di
«205 pezzi, riferentisi a Tiberio II -
Héracleonas».)
[3]) AA.VV.: Pietro D’Asaro,
il Monocolo di Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.
[4]) Da un manoscritto
sunteggiato da Eugenio Napoleone Messana: Racalmuto nella storia della Sicilia,
Canicattì 1969, pag. 39.
[5]) Carlo Alberto Garufi, PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA,
parte II dell'articolo, in ARCHIVIO
STORICO SICILIANO, anno 1947, pag. 34.
[6]) Vincenzo Di Giovanni: Il
Monastero di S. Maria di Gàdera, poi Santa Maria de Latina esistene nel secolo
XII presso Polizzi, in Archivio Storico
Siciliano 1880 pag. 15 e ss.
[7]) Rocco Pirri: Sicilia
Sacra - Notizie della Chiesa Agrigentina - pag. 758.
[8]) Registri della
Cancelleria Angioina - vol VIII - n.° 209 - Napoli 1957.
[9]) Documenti da servire alla
storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica , Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9 settembre
1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona di
Aragona - pag.295.
[10]) Henri Bresc, Un monde méditerraneéen. Économie
et société en Sicile - 1300 - 1450 - Regione Siciliana Assessorato ai Beni
Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione - Accademia di Scienze,
Lettere e Arti di Palermo - 1986, Tomo
I, pag. 64.
[11]) Documenti da servire
alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica , Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9 settembre
1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona di
Aragona - pag. 9 e 364.
[12]) Scrive il Pirri «cum Agrigentina ecclesia propter bellum
Saracenorum et propter amissionem villanorum, quibus quondam Fridericus
Imperator eadem ecclesiam spoliavit, eos in Apuliam tranferendo, tum propter
alia gravamina, quibus tam dictus Fridericus quam officiales sui supradictam
ecclesiam vexaverunt, ad eam tenuitatem et inopiam devenerit ut dictus
episcopus [Rainaldo d’Acquaviva] non haberet unde se et ecclesiam suam
sustentaret, ei concessit omnes redditus et proventus judaeorum et tintoriae
civitatis Agrigenti.. » Cfr: Rocco Pirri: Sicilia Sacra - Notizie della Chiesa
Agrigentina - pag. 704.
[14]) Scrive il Surita: « a
onze del mismo mese de Noviembre [1282] Federico Musca conde de Modica , que
estava en la Escaleta, con gente de guerra, y tenia cargo de la costa de
Catania, y del val de Noto, embio cinco mil almogavares a Calabria contra los
lugares vezinos de Rijoles.» Cfr.: ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON
-ÇARAGOÇA 1610 - Libro IIII de los Anales - MCCLXXXII - De la passada de los
Almogavares a la Corona, y del destroçio que hizieron en la gente de armas que
alli estana. XXVII (pag. 253).
[15]) «Praedictus dominus
Gerardus - recita un diploma dell’archivio palermitano - tamquam primusgenitus
habet et habere potest et debet iure successionis et hereditatis quondam
magnifice domine Constantie de Claramonte eius avie, quam etiam hereditatis magnoficorum quondam domini Antonij de Carretto et quondam
domine Salvagie, parentuum suorum, nec non quondam magnifici domini Jacobinj de Carretto eius fratris,
quam iure successionis et hereditatis
quondam magnifici Mathei de Auria et etiam quocumque alio iure competente domino domino Gerardo aliqua
ratione occasione vel causa et specialiter in baronia Racalmuti ut primogenito
magnificorum quondam parentum suorum et Iacobinj eius fratris, et eius
territorio castro et casali nec non in bonis burgensaticis ....».
[16]) AA.VV.: Pietro D’Asaro,
il Monocolo di Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.
[17]) Denis Mack Smith: Storia
della Sicilia medievale e moderna - Bari 1973 - vol. I pag. 207.
[18]) Domenico De Gregorio:
Biblioteca Lucchesiana Agrigento, Palermo 1993, pag. 209
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