Alla
cortese attenzione della dott.ssa MUSUMECI,
sono un pensionato della Banca
d’Italia, nato a Racalmuto ma residente a Roma. Data la mia età non ho certo
sotterranei interessi nel mio amore per l’archeologia e la storia del mio paese
natio. Patria di Sciascia, Racalmuto invero meriterebbe maggiore attenzione ed
è sintomatico che, mentre si proclama in Gazzette Ufficiali della Regione
Siciliana del 1980 zona archeologica la contrada di Pietralonga che appartiene
a Castrofilippo, si lasciano i vandali operare in pace presso il Rovetto (non
incluso nei tanti vincoli archeologici) o nella stessa zona della Noce-Menta
(altrettanto esclusa) ove i reperti numismatici, edili e fittili bene attestano
– per contiguità con Vito Soldano – presenze urbane romane, e prima greche, per
non parlare la selvaggia deturparzione per scavi abusivi nelle basse tombe
sicane di fra Diego a Gargilata.
Mi si dice che la nuova addetta al settore archeologico,
dott.ssa Musumeci è bene intenzionata. I miei rallegramenti e l’augurio mio
fervido di buon lavoro. Frattanto, però, i reperti consegnati dal sig.
Calderone restano negletti, alla stregua di quelli consegnati sette anni fa ai
Carabinieri di Racalmuto. Perché non affidarli alle locali scuole o alla
sezione di Archeoclub per le prime inventariazioni e le prime ricerche?
Chi scrive, operando qui a Roma, spera di fare
avere anche dalla FSRS fondi per scavi nella patria di Sciascia. Codeste
Autorità sono propense a dare il loro assenso?
In caso affermativo, forse qualche cenno d’intesa
potrebbe venirmi dato a questa E-Mail:
Se si ha
pazienza e mi si degna di un minimo di attenzione, si potrebbe già dare uno
sguardo a questi miei appunti. Una chiave per valutare se quello che vado
ponderando ha un senso. Forse vi è qualche spunto che potrebbe venire incluso
nei programmi di codesta benemerita Soprintendenza. La civiltà sicana
racalmutese non ha nulla da invidiare a quella magnificamente descritta in Dalle Capanne alle “Robbe” di Milena.
Non si vede perché debba restare tanto negletta.
Racalmuto, miliardi e milioni di anni addietro
Se l’età della terra vanta un’età di cinque miliardi di
anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in piena epoca
miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un fenomeno
rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e nembi di
moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e quando vi
morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso, trubi
e quindi di humus. A noi va di rappresentare così l’ipotesi scientifica che
Pratesi e Tassi [1] volgarizzano in questi
termini: «la terra delle miniere di zolfo, le celebri zolfare inscindibili
dalla storia della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste
fenomeno della schiavitù dei carusi …
riveste ancora un notevole interesse naturalistico, per chi voglia comprendere
la storia della formazione di queste singolari montagne erose, incise,
deforestate, che hanno l’aspetto caratteristico di certe regioni interne
mediterranee, dalla Castiglia all’Anatolia. La cosiddetta serie
gessoso-solfifera, intercalata da depositi di salgemma che sono tra i rarissimi
d’Italia, non è che una formazione miocenica comprendente antichissimi tripoli
in basso e poi calcari di base e calcari solfiferi, per giungere infine ai
gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi si è inclini a ritenere che
questa formazione abbia avuto origine dalle grandi lagune terziarie
progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione che avrebbe avuto
per protagonisti non solo i principii della fisica e della chimica, ma
addirittura uno straordinario microscopico batterio, il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio
e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che,
attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»
Quanto al sale racalmutese, ci pare illuminante
quest’altro passo dei due citati autori[2]: «le
rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose
e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e
là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie.
L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenici del
Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un
sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune
salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale,
gesso, ed altre sostanze.»
Il processo geologico si evolve con la formazione di
strati silicei. Sempre secondo il Pratesi e il Tassi: «tra i due strati di
rocce (sopra quelle gessoso-solfifere, sotto le argille gessose e sabbiose) sta
un sottile strato di materia silicea nota con il nome di tripoli o farina
fossile, composta specialmente da scheletri di microrganismi acquatici quali
radiolari e diatomee.»
Anche per l’Altipiano di Racalmuto può affermarsi con i
due autori che «la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da
depositi marini più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di rocce calcaree, in genere tufi
composti da un impasto di gusci e di conchiglie che proteggono i più molli
terreni sottostanti. Si formano così come delle zattere di roccia calcarea gallegggianti sulle formazioni
gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa
tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la
formazione di cavità carsiche dette zubbi
o addirittura grandi avvallamenti …»
Cerchiamo
di raccapezzarci un po’ meglio: nel succedersi degli sconvolgimenti geologici,
il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi
finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni
caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque
milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la
quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]).
Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento,
“formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa.
In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il
progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in
epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una
cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan [4]
Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del
periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario,
in pieno Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A.
Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di
recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei
dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi,
distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A [5]
- i terreni che compaiono nella zona
studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di
base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso
rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età
Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri abbiamo dunque
una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle varie ipotesi
degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.
RACALMUTO PREISTORICO -
ZOLFO, GRANO E SALE
Racalmuto
sorge, si popola e si accresce per due grandi vocazioni economiche:
l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella preistoria sembra che siano
presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante
sud del Serrone e l'altro, in cerca del sale, contiguo agli insediamenti
che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
L'immigrazione
agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII secolo a.C. venne
documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. [6]
I pochi reperti fittili finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano ed attualmente risultano
irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione
ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite,
smantellate dalle successive cave di pietra.
L'altro
insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline illustrate locali
definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta
di Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le
competenti autorità continuano a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di
gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i
cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una
vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]
Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e
fors'anche lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana
lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso
fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una
tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul
fuoco, si dissolve bruciando; con esso
si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li
avrebbe, dunque, ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea
che le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano
a quel geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate
di zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche l’antomoniu
e cioè il grisou il venefico
idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei
malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile
racconto: L’Antomonio, appunto. Così
lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo
lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che
l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri
tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni,
queste, ad intitolare L’antimonio il
racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne
abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito
finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro
prontamente eretto per impedire che il grisou
si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti
investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così,
a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.
Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo
della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore,
sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni ..
furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire,
immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di
noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo
sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno
squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile come i bianchi germogli di grano il venerdì
santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]
Per un secolo e mezzo
il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà vile” [9] per
tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.
Preistoria
racalmutese
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben
vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce
del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito
stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per
oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C.,
mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come
attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi
micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la
civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze
che superassero l’onta del tempo).
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel
territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie
umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e
culture?
Sono tutte
domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo
si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per
ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
La grotta
di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è, a mio avviso, un
inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di quei fenomeni
detti zubbi che abbiamo sopra in
qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo con tanti
altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo ebbe di
certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle antistanti
colline che ascendono sino al Castelluccio.
Oggi,
dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad essere una
zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig. Palumbo di
Milena – un personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato con gli
archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca sicana – rinveniva
in quell’avvallamento un continuum
ceramico sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si
era dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti
tombe a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita
non si era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso
luogo, con i greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi.
Accomunati si rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti
disordinatamente dai moderni trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la
necropoli sicana di fra Diego. Va a
finire che aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]:
«da noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome
con molta probabilità sarà stato Gardûtah,
più tardi corrotto il Gardulâh, donde
si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al
tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato
villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove
miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del
Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo.
Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di
scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la
salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia
profanazione di tombaroli.
L’affacciarsi
dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata. Forse 500.000 anni fa
le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo
erectus. Più probabile che ebbero a passare centinaia di anni prima che
fosse l’Homo sapiens a passare
dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in
proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia»,
si domanda [11]. Ed
ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata
e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la
prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore,
quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a
partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche
continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un
periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»
I
dilettanti non danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa dell’autunno
del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente
a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924 presso
Taungs nel Bechaunaland (Tanganica
nell’Africa Meridionale). Quello di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni
e mezzo di anni. Cacciava in piccoli gruppi: Sapeva accendere il fuoco e usava
grossi ciottoli come utensili.
Più
possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12]
«dal territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di
Capo Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su
ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria
litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una
estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie
calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza
notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente
italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua
comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble
Culture nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del
Quaternario l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa
tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un
terreno antistante a grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il
Castelluccio). Il signor Candeloro, un solerte
ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella
stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni scientifiche per
avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, il solerte ingegnere delle
ferrovie, Mauceri ([13]).
Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare,
... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si
protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di
roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi
che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte
parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori
avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno
una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14])
Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse
«erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([15])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([16]) -
conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare
qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora
incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel
rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti
nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana
resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo
sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture
socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma
esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti
testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento
sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla
necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno
presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di
Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un
avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma
non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei
sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e
Sant’Anna.
Si sa che
nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani
un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi
contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a
tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una
miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17])
Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche paiono
dimostrare.
LA CIVILTA’
SICANA RACALMUTESE A CONFRONTO CON MILENA
a) – le ricchezze archeologiche di Milacca
ed il ritardo racalmutese
Vincenzo La
Rosa dell’università di Catania ha potuto scandagliare dal 4 dicembre 1977 il
territorio di Milena alla ricerca delle antiche civiltà ivi succedutesi. Il
volume Dalle capanne alle “Robbe” ne
attestano i felici risultati. Là, i diversi sovraintendenti (specie
agrigentini) sono stati prodighi di autorizzazioni ed aiuti. Nella contermine
area racalmutese, ciò è impensabile. L’attenzione è tutta protesa alla Valle
dei Templi. Quanto è greco o post greco ha senso; il resto solo se ha attinenza
al mito minoico del re Cocalo. Al
momento, Racalmuto può solo usufruire del riverbero delle risultanze pre e
proto storiche che gli scavi e gli studi della contermine Milena sfornano a
ritmo davvero sostenuto.
E se lì
sono ormai assodate «le presenze di tipo egeo e, più in generale, .. le culture
sicane della media e tarda età del Bronzo» [18]
restiamo autorizzati a pensare altrettanto per Racalmuto, specie in territorio
di Fra Diego.
b) Le affinità geomorfologiche.
Gli studi
sul sistema geomorfologico di Salvatore Maria Saia [19]
si attagliano ovviamente, anche, al limitrofo territorio di Racalmuto. Certo
non in modo pedissequo: ad esempio, l’affluente del Platani, Gallo d’Oro, nasce
dalle falde del Castelluccio e zigzagando per il versante Est di Vallanuova
s’immette in pieno territorio di Montedoro, ma non può affermarsi per il tratto
racalmutese quello che il Saia afferma per Milena e cioè che il corso d’acqua
in questione abbia «assunto un ruolo principale nell’azione morfologica di
“modifica” territoriale e nel quale si congiungono quasi tutte le aste del
reticolo idrografico di questo ambito territoriale.» Comunque fenomeni analoghi
vi sono nelle lande racalmutesi, sia pure collegati ad altri corsi d’acqua.
In pieno
invece attengono a Racalmuto queste altre considerazioni del Saia: «I termini
stratigrafici risultanti dall’esame
superficiale e raffrontati alla letteratura geologica vengono descritti come
appartenenti alla cosiddetta “Serie Solfifera”, cioè ad una “successione di
sedimenti prevalentemente evaporitici, compresi tra le argille del Tortoniano
superiore e la formazione dei «trubi» del Pliocene basale, depositatisi in
corrispondenza ad una crisi di salinità interessante l’area mediterranea” (Decima & Werzel, 1971» [20]
Aggirate le difficoltà della terminologia scientifica, il succo del discorso
conferma, specie per i riferimenti cronologici, quello che ci siamo sforzati di
rappresentare sopra sull’evoluzione geologica dell’altipiano racalmutese. Ci
troviamo quindi di fronte «ad una successione continua costituita
schematicamente dalle seguenti unità dal basso verso l’alto, in successione più
o meno continua sulle argille basali: 1 - Tripoli; 2 – Calcare; 3 Gessi e
gessareniti con lenti di sale; 4 – Trubi con l’elemento basale dell’Arenazzolo.»
In definitiva – esulando da questo lavoro approfondimenti scientifici
dell’assetto geomorfologico racalmutese – possiamo agganciarci alle
recentissime conclusioni di quanti ritengono «il territorio [che ci occupa]
tipico della zona centrale della Sicilia [con] elementi di uniformità geologica
a quella fascia centro meridionale dell’Isola.» In altri termini, «è un
territorio che ha avuto una “storia” geologica relativamente recente se
raffrontata al susseguirsi delle ere geologiche, ma la caratterizzazione in
termini litologici plastici o comunque riconducibili a forme non proprio
consistenti o resistenti all’erosione ne ha determinato un paesaggio
geomorfologico piuttosto “appiattito” che ha consentito facili ed agevoli
insediamenti umani.»
c) Lo zolfo
Dalle
ricerche su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre del Saia,
sulle “mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia vallata a nord
del Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le mineralizzazioni
classiche che la caratterizzano e che sono costituite principalmente dallo
zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione potassica o sodica..»
«Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso, anidride e talora
salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma sembra che si
verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaCO4), con formazione
intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi ultimi da parte di acque ricche di CO2,
che depositano contemporaneamente CaCO4 secondario. L’azione riducente
dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo anaerobico.
D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono precipitare
direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a sua volta
derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [21]
La riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con
produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe
spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [22],
considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine
vulcanica.»
Qui, si
esplica, in termini altamente scientifici, quello che noi alquanto
fantasiosamente abbiamo cercato di rappresentare a proposito del vibrione
“desulfuricante”, reo di ottocenteschi sfruttamenti di poveri zolfatari e di
obbrobri sociali avverso gli imberbi “carusi”.
d) Il
salgemma.
Ma passiamo
al sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit. p. 25 – è stata
dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a falde acquifere
sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in superficie ove,
sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate condizioni di
temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere le chiazze
bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno dimostrato
l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano discontinui perché
sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con pieghe diapiriche
anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte, raggiungere e
superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a rapide
dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne riscontrano anche
potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo
Don Filippo]e magnesiaci.»
e) Il gesso.
Ed ora
prendiamo a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul gesso. «La
presenza dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 – soprattutto di
quelli nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di lancia” o “coda
di rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente favorito gli
insediamenti [sicani], anche al fine di pratiche o di culti come ad esempio quello
dei morti con relative opere tombali inserite nelle pareti di gesso.»
Racalmuto
conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma
diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che contrassegnano
l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in
soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena
disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a scavarvi
i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della loro
irriducibile fede nell’oltretomba.
A
Racalmuto, come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor più
modificato il paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso agricolo
senza tenere conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è
avvenuto, portato all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi
suoli in parte inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la
loro impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali
che vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a
piene notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»
f) Le grotte ed il fenomeno carsico.
Il fenomeno
carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è naturalmente
presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la sola grotta di
fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo quindi dalle
risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni carsici di Milena.
Marcello Panzica La Manna [23]
ci fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto,
almeno sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.
«Rilevanti risultano gli affioramenti di
rocce evaporitiche di età messiniana
(Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato dalla presenza di
estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee. Il fenomeno
carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo l’accezione di Cigna,
1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale roccia ad opera delle acque
meteoriche, si sviluppa con formeestremamente più marcate e ad evoluzione più
rapida rispetto a quelle dell’analogo e più conosciuto fenomeno che si sviluppa
nelle rocce calcaree (carsismo classico). […] Sono riscontrabili due differenti
tipologie di grotte definibili, secondo la classificazione di Cigna (1983, op.
cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2) cavità paracarsiche.»
«Le cavità pseudocarsiche sono quel tipo di
grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle discontinuità meccaniche delle
masse rocciose che costituiscono i vani sotterranei. La genesi di tali grotte è
da imputare in parte alla fratturazione della roccia, prodottasi a causa dei movimenti
tettonici che hanno interessato l’area, in parte a fenomeni di tipo gravitativo
che hanno disarticolato gli affioramenti gessosi in blocchi di varia
dimensione.»
«Le cavità paracarsiche sono quelle che si
originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa ad opera delle
acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una solvibilità in acqua
molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in relazione con la
quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia agli agenti atmosferici,
giustifica la formazione degli imponenti reticoli di ambienti e gallerie
presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale tipologia sono
strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di superficie;
esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del reticolo
idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di pioggia vengono
incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più o meno lunghi
le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati “zubbi” o
“inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le grotte mostrano
chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed è possibile
riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui erano completamente
invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha iniziato a decrescere,
abbandonando completamente, in certi casi, le cavità medesime. Quasi sempre
agli inghiottitoi sono associate delle cavità (“risorgenze”) che costituiscono
il punto di ritorno a giorno delle acque sotterranee.» (op. cit. p. 28)
E qui
abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [24],
che non sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare
l’assoluta indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio
ipogeo, di cui manca persino uno straccio di inventario. Grotte pseudocarsiche
abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria
di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei
saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine, sotto via Roma, nei pressi della Madonna
della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora,
se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha
inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel
1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo
Bonincontro [25]:
Et parimente la Parocchia della Nunciata incomincia
del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta di Pannella[sottolineatura
ns.]restando d.a grutta nella d.a
parocchia della Nunziata
In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa
Maria di Gesù conservato in Matrice [26],
abbiamo la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno
centro, cioè a dire nei pressi del Monte:
Die nono
mensis Januarii x^ ind. 1596.
Item in et super sex corporibus domorum sursum et
deorsum cum eius antro [corsivo, ns,]
simul contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus heredum quondam
Vincentij la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis seu della
Santicella …..
Le campagne
erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i palmenti. I vari Rolli della Matrice ne riportano
diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne citiamo un
esempio [27]:
Die nono mensis Januarii x^
ind. 1596.
Item ditta donatrix pro Deo et eius anima titulo
donationis predictae inrevocabilis inter vivos ut supra per eos et
successoreres donavit et donat Antonino et Cataldo Morriale fratribus eius
nepotibus terrae Racalmuti absentibus ..
pro eis et eorum heredibus et successoribus
in perpetuum stipulante et sollemniter recipiente vineam nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro [corsivo, ns.] torculare clausura et aliis in
aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas per quas
itur versus civitatem Agrigenti ……
Quanto alle
grotte paracarsiche, il fenomeno più
appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare all’apice del
Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e quindi nulla siamo
in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là, in un classico zubbio, si è conformato un profondo
bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni acquitrinose e per
protezione termica - c’è una lussureggiante flora, inaccessibile anche per i
cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e studiata.
g) La flora e questioni botaniche.
Racalmuto
ha per il momento la fortuna di venire, sotto il profilo floro-faunistico –
indagato e fotografato dall’appassionato e competentissimo dott. Giovanni
Salvo, che sta davvero colmando, almeno qui, lacune secolari. Gli si dovrà
tanta gratitudine per le sue pubblicazioni, corredate da splendide fotografie,
sui lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Racalmuto.
Il nostro
territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato e ricco
in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si
rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto
di culture.» [28] Si
può affermare che vi attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo
stato spontaneo. La maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono
erbe perenni o perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi
(camefite e fanerofite). Da segnalare: la biscutella
lyrata (Cruciferae), il lathyrus
odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis
oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella
anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon
porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; la Crepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed
inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek
(Cruciferae), l’ Astragalus huetii
Bunge (Leguminosae), la Lavatera
agrigentina Tineo (Malvacee).
Gli studi
sulla confinante Milena hanno portato al seguente censimento della vegetazione
(estensibile ovviamente anche a Racalmuto):
1)
Vegetazione degli ambienti rupestri con queste
presenze: Diplotaxis crassifolia
(Rafin.) DC., Erysimum metlesicsii
Po., Silene fruticosa L., Athamanta sicula L., Sedum dasyphyllum L. Cheilanthes fragrans (L.) Swartz;
2)
Garipa a Thymus
capitatus (L.) Hoffm. et Link con queste presenze: Thymus capitatus, Cistus
Creticus L., Teucrium flavum L., Teucrium fruticans;
3)
Prateria steppica ad Ampelodesmus mauratinicus (Poiret) Dur. et Sch.., con queste
presenze: Ampelodesmos mauritanicus, Anthyllis maura G. Beck, Psoralea
bituminosa L., Kundumannia sicula
(L.) DC, Festuca coerulescens Desf., Hyoseris radiata L., Dactylis hispanica Roth, Brachypodium distachyum (L.) Beauv., Hypochoeris achyrophorus L., Reichardia picroides (L.) Roth, Coronilla
scorpioides Koch, Scorpiurus
muricatus L., Asperula scabra
Presl., Hedysarum spinosissimum L., Urginea maritima (L.) Baker, Convolvulus atltheoides L., Anemone hortensis L., Asparagus acutifolius L., Rubia peregrina L., Dafne gnidium L., Cistus
creticus L.;
4)
Prateria steppica a Lygeum spartum L., con queste presenze: Lygeum spartum L., Catananche
lutea L., Scabiosa dichotoma
Ucria, Daucus aureus Desf., Eringyum dichotomum Desf., Lavatera agrigentina Tin., Ononis oligophylla Te., Aster sorrentinii (Tod.) Lojac.;
5)
Vegetazione ad Arundo
pliniana Turra, con queste presenze: Arundo
pliniana, Cirsium scabrum (Poiret)
Dur. et Barr;
6)
Vegetazione nitrofila e subnitrofila, con queste
presenze: . (durante il periodo estivo-autunnale) Kickxia spuria (L.) Dum. Ssp. Intergrifolia
(Brot.) Fern., Chrozophora tinctoria
(L.) A. Juss., Euphorbia chamaesyce
L., Picris echioides L., Diplotaxis erucoides (L.) DC., Heliotropium europaeum L.,
Sonchus oleraceus L., Chenopodium
opulifolium Schrader, Chenopodium
vulvaria L., Ecballium elaterium
(L.) A. Richard, Solanum nigrum L., Aster squanatus Hieron, Cynodon dactylon (L.) Pers., Polygonum aviculare L., Colvolvulus arvenis L., Delphinium alteratum Sibch. Et Sm., Conyza bonariensis (L.) Con., Ammi visnaga (L.) Lam; (durante quello
invernale primaverile) Calendula arvenis
L. Galactites tomentosa Moene, Centaurea Schouwii, Carlina lanata L., Reichardia
picroides (L.) Roth, Hypochoeris
achryrophorus, Fedia cornucopiae (L.)
Gaerner, Linaria reflexa (L.) Desf., Echium plantaginum L., Borago officinalis L., Cerinthe major L., Lavatera trimestris L., Euphorbia
helioscopia L., Geranium dissectum
L., Hedysarum coronarium L., Hippocrepis unisiliquosa L., Scorpiurus subvillosus L., Lotus ornithopodioides L., Trifolium nigriscens Viv., Trifolium resupinatum L., Trifolium lappaceum, Trifolium squarrosum L., Melilotus infesta Guss., Lathyrus odoratus L. Lathyrus ochrus (L.) DC; (vegetazione infestante il grano) Neslia paniculata (L.) Desv., Torilis nodosa (L.) Gaertner, Carduus pycnocephalus L., Bupleorum lancifolium Hornem, Papaver hybridum L., Ranunculus arvenis L. Bromus rubens; (terofite a ciclo
invernale-primaverile) Legousia falcata
(Ten.) Fritsch, Anacyclus tomentosum
(All.) DC, Rhagadiolus stellatus (L.)
Gaertner, Galium tricornutum Dandy, Ridolfia segetum Moris, Allium nigrum L., Gladiolus italicus Miller, Phalaris
brachystachys Link, Phalaris paradoxa
L., Ornithogalum pyramidale L., Asperula arvenis L., Filago pyramidata L., Euphorbia exigua L., Rapistrum rugosum (L.) ALL., Sinapis arvensis L., Brassica nigra (L.) Koch, Leopoldia comosa (L.) Parl, Scandix pecten.veneris L., Medicago
polymorpha L., Sherardia arvenis L., Lolium
rigidum Gaudin, Sonchus asper
(L.) Hill, Cichorium intibus;
(vegetazione antropogena ai margine delle strade) Chrysanthemum coronarium L. (Crisantemo giallo), Malva nicaeensis All., Anacyclus tomentosum (All.) DC., Hordeum leporinum Link, Notobasis syriaca (L.) Cass., Bromus madritensisi L., Echium plantagineum L., Galactites tomentosa Moench, Erodium malacoides (L.) L’Her., Convolvulus althaeoides L., Beta vulgaris L., Foeniculum vulgare Miller;
7)
Praticelli effimeri a sedum caeruleum L. su gessi, con queste presenze: sedum caeruleum L. (Borracina azzurra), Sedum micranthum Bast., Hypocoeris achyrophorus L., Campanula
erinus L., Poa bullosa L., Valantia muralis L., Trifolium scabrum L., Medicago minima (L.) Bartal., Linum strictum L., Bromus fasciculatus Presl., Trifolium
stellatum L., Stipa capensis
Thunb., Crupina crupinastrum (Moris)
Vis., Vulpia ciliata Dumort, Scilla autumnalis L., Ononis reclinata L., Ononis sieberi Beser? Rumex bucephalophorus L., Arenaria leptoclados Guss., Polygala monspeliaca L. Sideritis romana L.;
8)
Vegetazione degli ambienti acquatici, con queste
presenze: Populus nigra (pioppo nero,
ma molto raro), Tamarix africana
Poiret, Phragmites communis Trin.
(Cannuccia di palude), Equisetum
telmateja Ehrh., Nasturtium
officinale R. Br., Apium nodiflorum
(L.) Lag., Juncus bofonius.
Spigolando
dal più divulgativo testo di Pratesi e Tassi, a Racalmuto si attagliano le
formazioni vegetali dell’intera Sicilia, fatta eccezione della diffusione del
castagno (Castanea sativa) sull’Etna, «ad opera dell’uomo» [29]
Per il resto, possiamo anche essere pedissequi: «Gli “orizzonti-climax”
presenti nell’isola, e cioè le formazioni più stabili e caratteristiche, sono
essenzialmente quatro» e cioè:
a)
l’Oleo-ceratonion,
«che prospera nelle parti più basse e litoranee, e che consiste in una macchia
sempre verde mediterranea i cui elementi più importanti sono l’oleastro (Olea oleaster), il carrubo (Ceratonia siliqua) e, a tratti, la
inconfondibile palma nana (Chamaerops
humilis), unica palma spontanea del bacino mediterraneo. Per lo più, però,
questa vegetazione è scomparsa [e al suo posto prospera] una tipica graminacea
dei luoghi arifìdi, la Stipa tortilis.»
Altre piante del territorio: il lentisco (Pistacia
lentiscus), la fillirea (Phillyrea
angustifolia) e altri arbusti della macchia mediterranea;
b)
«a livello leggermente più elevato vive la seconda associazione, quella del Quercion ilicis, costituita da una
foresta sempreverde mediterranea a quercia, e soprattutto a leccio (Quercus ilex) e sughera (Quercus suber)». Su una radura nella
parte nord del Castelluccio, rimangono ancora alcuni esemplari di “aggliannari”
(in Traina, vocabolario siciliano: “agghiannara” o “agghiandra” = “frutto della quercia, del cerro, del leccio,
e cibo dei porci: ghianda”). Nei recenti tentativi di forestazione poteva
benissimo darsi impulso a siffatta piantagione, creando altresì le premesse per
un ritorno alle porcilaie tradizionali ove i maiali possano venire depurati,
dai mangimi transgenici, con
“aggliannari” per il ripristino delle ineguagliabili salsicce dei miei tempi,
di cui trovo testimonianze addirittura in carte del ‘600 conservate in Matrice;
c)
«più in alto ancora sta l’orizzonte del Quercion pubescentis, o delle latifoglie
eliofile, nel quale normalmente domina la roverella (Quercus pubescens), ma assai più spesso la degradazione ambientale
ha lasciato solo una formazione a prateria steppica che ha per protagonista
un’altra graminacea (Ampelodesmos tenax).
Qualche volta, in luoghi più freschi e umidi, prende il sopravvento un’altra
specie di quercia spogliante, il cerro (Quercus
cerris).» V’è qualcosa del genere nello sprofondo di Sant’Anna, dopo la grotta dell’innamorata? In ogni caso,
chissà se nel divisato recupero a fini turistici del Castelluccio troverà posto
un rimboschimento con vegetezione autoctona, consona all’orizzonte del Quercion pubescentis!
d)
Non dovrebbe altresì riguardare Racalmuto «il piano
superiore, montano … del Fagion
silvaticae, che ospita le residue formazioni di faggio (Fagus silvatica): qui un
interessantissimo endemismo, l’abete siculo (Abies nebrodensis), oggi quasi distrutto, doveva in passato avere
notevole diffusione.» Speriamo che, sempre al Castelluccio, possano tentarsi
resurrezioni arboree di autoctone faggete.
[1] ) Fulco Pratesi e Franco
Tassi, Guida alla natura della Sicilia,
pp. 21-22, Mondadori, Milano 1974.
[2] ) ibidem, p. 204
[3]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[4]) L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile -
Hipothèses et problèmes.
[5]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto
-GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[6] ) L. Mauceri: Notizie su alcune tombe .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880
[7] ) S. Tine': L'origine delle tombe a
forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[8] ) Leonardo Sciascia, L’antimonio, in Opere 1956-1971 – pag. 384, Bompiani Milano, 1987.
[9] ) ibidem, p. 384
[10] ) Sac. Calogero Salvo – Ecco tua madre – pp. 13-14 - Racalmuto
1994.
[11] ) Vincenzo Tusa e Ernesto
de Miro – Sicilia Occidentale - p. 13 – Roma 1983.
[12] ) ibidem, p. 111
[13])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata
e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale di
Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di
Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.°
21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ...
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag.
17.
[15]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[16])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.
[17]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia
Occidentale. - Roma 1983 - pag.
114.
[18] ) Dalle capanne alle “robbe” – La storia lunga
di Milocca-Milena – a cura di Vincenzo
La Rosa – Pro Loco Milena 1977 – p. 7
[19] ) ibidem, p. 15 e ss.
[20] )
Per maggiori dettagli cfr. Decima A.,
Werzel F.C., 1971 – Osservazioni
sulle evaporiti messiniane della Sicilia centro-meridionale. Riv. Min.
Sicil., 22, pp. 172-187.
[21] )
Per approfondimenti, cfr. Carobbi G.,
1971 – Trattato di mineralogia. Vol.
II – Firenze.
[22] ) Vedansi a Racalmuto, ad
esempio, le polle solfuree sopra Gibillini, in contrada Perciata.
[23]) Marcello Panzica La Manna, Aspetti del fenomeno carsico sotterraneo nel
territorio di Milena (CL) , in Dalle
Capanne alle “Robbe”, cit. p. 27 e ss.
[24] )
Fruibili sono le seguenti letture: Calvaruso
E., Cusimano G., Favara R., Mascari A., Panzica La Manna M., 1978, Primo contributo alla conoscenza del
fenomeno carsico nei gessi di Sicilia. Inghiottitoi di M. Conca (Campofranco –
CL), Atti XIII Congr. Naz. Di Speleologia, Perugia, (preprints); Cigna A..A., 1983, Sulla classificazione dei fenomeni carsici, Atti Congr. Naz. Di
Speleologia. Le Grotte d’Italia, (4), XI, 1983, pp. 497-505; Madonia P., Panzica La Manna M., 1987, Fenomeni carsici ipogei nelle evaporiti in
Sicilia, Atti Simp. Int. Il Cars. Nelle Evapor. In Sicilia, Le Grotte
d’Italia (4), XIII, 1986, pp. 163-189.
[25] ) ARCHIVIO VESCOVILE DI
AGRIGENTO - REGISTRO VISITE 1608-1609 - MONSIGNOR Dn VINCENZO BONINCONTRO -
VESCOVO DI GIRGENTI - (INDICE A PAG. 13: RACALMUTO PAG. 244 aggiunto: 203)
[27] ) ibidem,
f. 331
[28] )
Cosimo Marcenò – lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Milena
(CL), in Dalle Capanne alle “robbe”, op. cit., pp.37-41.
[29] ) Pratesi e Tassi, Guida
alla natura della Sicilia, op. cit. p. 10.
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