sabato 12 settembre 2015

MIE RISSE CON LA SOPRINTENDENZA AGRIGENTINA


Alla cortese attenzione della dott.ssa MUSUMECI,

 

sono un pensionato della Banca d’Italia, nato a Racalmuto ma residente a Roma. Data la mia età non ho certo sotterranei interessi nel mio amore per l’archeologia e la storia del mio paese natio. Patria di Sciascia, Racalmuto invero meriterebbe maggiore attenzione ed è sintomatico che, mentre si proclama in Gazzette Ufficiali della Regione Siciliana del 1980 zona archeologica la contrada di Pietralonga che appartiene a Castrofilippo, si lasciano i vandali operare in pace presso il Rovetto (non incluso nei tanti vincoli archeologici) o nella stessa zona della Noce-Menta (altrettanto esclusa) ove i reperti numismatici, edili e fittili bene attestano – per contiguità con Vito Soldano – presenze urbane romane, e prima greche, per non parlare la selvaggia deturparzione per scavi abusivi nelle basse tombe sicane di fra Diego a Gargilata.

Mi si dice che la nuova addetta al settore archeologico, dott.ssa Musumeci è bene intenzionata. I miei rallegramenti e l’augurio mio fervido di buon lavoro. Frattanto, però, i reperti consegnati dal sig. Calderone restano negletti, alla stregua di quelli consegnati sette anni fa ai Carabinieri di Racalmuto. Perché non affidarli alle locali scuole o alla sezione di Archeoclub per le prime inventariazioni e le prime ricerche?

 Chi scrive, operando qui a Roma, spera di fare avere anche dalla FSRS fondi per scavi nella patria di Sciascia. Codeste Autorità sono propense a dare il loro assenso?

 In caso affermativo, forse qualche cenno d’intesa potrebbe venirmi dato a questa E-Mail:


Se si ha pazienza e mi si degna di un minimo di attenzione, si potrebbe già dare uno sguardo a questi miei appunti. Una chiave per valutare se quello che vado ponderando ha un senso. Forse vi è qualche spunto che potrebbe venire incluso nei programmi di codesta benemerita Soprintendenza. La civiltà sicana racalmutese non ha nulla da invidiare a quella magnificamente descritta in Dalle Capanne alle “Robbe” di Milena. Non si vede perché debba restare tanto negletta.

Racalmuto, miliardi e milioni di anni addietro


 

Se l’età della terra vanta un’età di cinque miliardi di anni, ne dovette trascorrere di tempo prima di arrivare in piena epoca miocenica (circa venti milioni di anni or sono) allorché un fenomeno rimarchevole ebbe a verificarsi in territorio racalmutese: nembi e nembi di moscerini annebbiarono le plaghe allora affioranti a Racalmuto e quando vi morirono lasciarono scie solfifere, poi coperte man mano di sale, gesso, trubi e quindi di humus. A noi va di rappresentare così l’ipotesi scientifica che Pratesi e Tassi [1] volgarizzano in questi termini: «la terra delle miniere di zolfo, le celebri zolfare inscindibili dalla storia della Sicilia perché teatro di tragedie umane legate al triste fenomeno della schiavitù dei carusi … riveste ancora un notevole interesse naturalistico, per chi voglia comprendere la storia della formazione di queste singolari montagne erose, incise, deforestate, che hanno l’aspetto caratteristico di certe regioni interne mediterranee, dalla Castiglia all’Anatolia. La cosiddetta serie gessoso-solfifera, intercalata da depositi di salgemma che sono tra i rarissimi d’Italia, non è che una formazione miocenica comprendente antichissimi tripoli in basso e poi calcari di base e calcari solfiferi, per giungere infine ai gessi superficiali e quindi più recenti. Oggi si è inclini a ritenere che questa formazione abbia avuto origine dalle grandi lagune terziarie progressivamente evaporate, con un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principii della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il Desulfovibrio desulfuricans, capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo a idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo.»

Quanto al sale racalmutese, ci pare illuminante quest’altro passo dei due citati autori[2]: «le rocce che costituiscono queste zone sono essenzialmente due: le argille gessose e sabbiose, spesso salate con grandi ammassi di salgemma, che includono qua e là banchi di rocce più tenaci, e le rocce gessoso-solfifere vere e proprie. L’origine di questi minerali è da ricercarsi nei parossismi orogenici del Miocene, in cui, con il formarsi finale delle Alpi e degli Appennini, seguì un sollevamento generale del suolo che portò alla formazione di estesissime lagune salate la cui lenta evaporazione originò un complesso di depositi di sale, gesso, ed altre sostanze.»

Il processo geologico si evolve con la formazione di strati silicei. Sempre secondo il Pratesi e il Tassi: «tra i due strati di rocce (sopra quelle gessoso-solfifere, sotto le argille gessose e sabbiose) sta un sottile strato di materia silicea nota con il nome di tripoli o farina fossile, composta specialmente da scheletri di microrganismi acquatici quali radiolari e diatomee.»

Anche per l’Altipiano di Racalmuto può affermarsi con i due autori che «la formazione gessoso solfifera è abbondantemente ricoperta da depositi marini più recenti, del Pliocene. Una crosta, alta parecchi metri, di rocce calcaree, in genere tufi composti da un impasto di gusci e di conchiglie che proteggono i più molli terreni sottostanti. Si formano così come delle zattere di roccia calcarea gallegggianti sulle formazioni gessoso-solfifere. […] Quando la crosta calcarea viene però ad essere corrosa tanto da permettere alle acque di sciogliere il gesso sottostante, si ha la formazione di cavità carsiche dette zubbi o addirittura grandi avvallamenti …»

 

Cerchiamo di raccapezzarci un po’ meglio: nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in tempi piuttosto recenti. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno cinque milioni di anni. Non va dimenticata la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([3]). Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento,  “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.

 

Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan [4] Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene. Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A [5] - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:

1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;

2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;

         3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e      Messinese. 

        4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).

Completano la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»


 


Trivellando la zona del Serrone per una quarantina di metri abbiamo dunque una stratigrafica sovrapposizione geologica, a conferma delle varie ipotesi degli studiosi prima sommariamente chiamati in causa.


 

 

 

RACALMUTO PREISTORICO - ZOLFO, GRANO E SALE


 

Racalmuto sorge, si popola e si accresce per due grandi vocazioni economiche: l'agricoltura e le risorse minerarie. Già nella preistoria sembra che siano presenti due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,  in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che dalla Rocca di Cocalo si espandono verso Milena, Montedoro, Bompensiere.

L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. [6] I pochi reperti fittili finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano ed attualmente risultano irreperibili. Le tombe a forno dei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite, smantellate dalle successive cave di pietra.

L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le competenti autorità continuano a denegare, anche se la patria di Sciascia le imporrebbe - dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. [7]

Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo per la continuità del fuoco. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce - a nostro avviso fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso  si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.

Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe, dunque, ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene. Inquieta alquanto l'idea che le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel geologico vibrione. Ma le viscere della terra non furono solo fecondate di zolfo dal singolare microrganismo miocenico: inghiottirono anche  l’antomoniu e cioè il grisou il venefico idrocarburo che incendiandosi produce morte per incenerimento dei polmoni dei malcapitati minatori che avessero a respirarlo. Sciascia vi scrisse un mirabile racconto: L’Antomonio, appunto. Così lo chiosa in premessa: «gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: ché anticamente lo lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che l'antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni, queste, ad intitolare L’antimonio il racconto.» Noi, quelle ragioni sciasciane, stentiamo ad individuarle. Ne abbiamo, però, delle nostre. Una mia nonna raccontava del suo primo marito finito, dopo poche settimane dalle nozze, morto per antimonio dietro un muro prontamente eretto per impedire che il grisou si espandesse da una “galleria” all’altra: tanto si sapeva che per i poveretti investiti nelle viscere della miniera non c’era più scampo. Si procedeva, così, a salvaguardare gli altri cunicoli solfiferi.  Apparentemente ancora integri, quei minatori scapparono dal profondo della miniera, ma giunti all’uscita la trovarono murata. Ira, terrore, sgomento, disperazione, preghiere supplichevoli, bestemmie imprecazioni .. furono scene davvero apocalittiche che si possono soltanto sospettare, intuire, immaginare. Poi, la morte inesorabile, senza più respiro per i  polmoni inceneriti. Ancor oggi, per tanti di noi racalmutesi, la zolfara – per dirla con Sciascia – equivale all’«uomo sfruttato come bestia e [al] fuoco della morte in agguato a dilagare da uno squarcio, l’uomo con la sua bestemmia e il suo odio, la speranza gracile  come i bianchi germogli di grano il venerdì santo dentro la bestemmia e l’odio.» [8]

Per un secolo e mezzo il vibrione solforoso produrrà a Racalmuto “povertà vile” [9] per tanti zolfatai e flebile benessere per taluni “coltivatori” di “pirrere”.

 

Preistoria racalmutese


 

 

 Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da oltre quattro millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana scompare del tutto (o non fu in grado di lasciare testimonianze che superassero l’onta del tempo).

 

Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?

Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.

La grotta di fra Diego, circondata da una necropoli di tombe a forno, è, a mio avviso, un inghiottitoio, ma sospeso in alto dovrebbe testimoniare uno di quei fenomeni detti zubbi che abbiamo sopra in qualche modo descritti. Ne nacque un avvallamento quale oggi notiamo con tanti altri inghiottitoi lungo il costone roccioso. Sull’antico sprofondo ebbe di certo ad accumularsi uno strato di detriti per slavamento delle antistanti colline che ascendono sino al Castelluccio.

Oggi, dall’alto della grotta, vi si può ammirare una plaga destinata ad essere una zona archeologica di grosso risalto. Nell’estate del 1999 il sig. Palumbo di Milena – un personaggio assurto alla notorietà per avere coadiuvato con gli archeologi che hanno reso famosa la contermine Milocca  sicana – rinveniva in quell’avvallamento un continuum ceramico sicano, greco, romano, arabo e normanno. A suo avviso, era là che si era dispiegato l’insediamento umano dell’epoca sicana di cui le affascinanti tombe a forno ne sono l’ancora visibile testimonianza archeologica. Ma la vita non si era fermata al XIII secolo a. C.: era proseguita, in quello stesso luogo, con i greci, con i romani, con i bizantini e soprattutto con gli arabi. Accomunati si rinvengono cocci delle varie epoche, disseppelliti disordinatamente dai moderni trattori. Forse la Gardûtah della geografia dell’Edrisi trovavasi proprio sotto la necropoli  sicana di fra Diego. Va a finire che aveva proprio ragione padre Salvo quando scriveva [10]: «da noi, a Gargilata, certamente [i sicani] vi ebbero un villaggio, il cui nome con molta probabilità sarà stato Gardûtah, più tardi corrotto il Gardulâh, donde si pensi derivi il nome Gargilata della contrada. A fare il nome di Gardûtah è il geografo arabo Edrisi al tempo di Ruggero I nel secolo XI. Egli chiama in tal modo un imprecisato villaggio del suo tempo sito in quei paraggi della contrada Gargilata “a nove miglia da Sutera”.» La ceramica araba che abbiamo notato sotto la guida del Palumbo sembra dare il supporto archeologico alla congettura di padre Salvo. Speriamo che le pubbliche autorità si inducano finalmente a fare le campagne di scavi che la terra di Sciascia ben merita e speriamo che si provveda per la salvaguardia di quei beni che sono le tombe, al momento in pasto alla selvaggia profanazione di tombaroli.

 

L’affacciarsi dell’uomo in Sicilia data ad epoca non ancora precisata. Forse 500.000 anni fa le zolle sicule furono calpestate dal primo Homo erectus. Più probabile che ebbero a passare centinaia di anni prima che fosse l’Homo sapiens a passare dall’Africa in Sicilia. Ci pare convincente il Tusa che è molto circospetto in proposito. «A quale epoca rimontano le prime tracce dell’uomo .. in Sicilia», si domanda [11]. Ed ecco il suo punto di vista: «Alcuni ritengono che i ciottoli di pietra levigata e appena scheggiata rinvenuti in località “Giancaniglia” … costituiscano la prova della presenza dell’uomo in quella zona durante il Paleolitico Inferiore, quell’epoca antichissima della presenza umana che generalmente si data a partire da 500.000 anni fa; non si è sicuri di questo però, studi e ricerche continuano. La presenza umana è però accertata, ed anzi considerevole, in un periodo molto più avanzato rispetto al precedente, il Paleolitico Superiore.»

I dilettanti non danno comunque per vinti. Secondo notizie di stampa dell’autunno del 1983 in Sicilia sarebbe stato rinvenuto un reperto di ossa e denti di un Austrolopithecus e cioè l’uomo risalente a 4 milioni di anni fa e i cui primi reperti sono stati rinvenuti nel 1924 presso Taungs nel Bechaunaland  (Tanganica nell’Africa Meridionale). Quello di Sicilia lo si vuol far risalire a 3 milioni e mezzo di anni. Cacciava in piccoli gruppi: Sapeva accendere il fuoco e usava grossi ciottoli come utensili.

Più possibilista ci appare De Miro secondo il quale [12] «dal territorio agrigentino, più particolarmente da un giacimento omogeneo di Capo Rossello presso Realmonte, provengono i documenti di quell’industria su ciottolo riferibili alla “Pebble Culture”, cioè alla più antica industria litica del paleolitico inferiore: questi oggetti (ciottoli scheggiati a una estremità su una faccia o su due facce), trovati sui terrazzi a sabbie calabriane a quota compresa tra 60 e 70 m. s.l.m-, hanno una importanza notevole per la più antica presenza umana nell’Isola e nell’intero continente italiano, in quanto forniscono la prova che in Sicilia l’uomo fece la sua comparsa alle soglie dell’Era Quaternaria e – per le relazioni con la Pebble Culture nord-africana – sembrano suggerire per i tempi più antichi del Quaternario l’unione della Sicilia con l’Africa e l’assenza della fossa tunisina.» A noi è capitato d’imbatterci in schegge litiche sparse in un terreno antistante a grotte naturali in contrada Fontana del Vozzaro (sotto il Castelluccio). Il signor Candeloro, un solerte  ricercatore, ci segnalava reperti di antichissima presenza umana nella stessa grotta di fra Diego. Occorrono comunque attenzioni scientifiche per avere certezze sulla più vetusta cultura umana nei dintorni racalmutesi.

Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.

 

Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, il solerte ingegnere delle ferrovie, Mauceri ([13]). Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([14]) Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.  [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([15]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”.  Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([16]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»

Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.

Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.

Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([17]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come la rarefazione delle testimonianze archeologiche paiono dimostrare.

 

LA CIVILTA’ SICANA RACALMUTESE A CONFRONTO CON MILENA

 

 

a) – le ricchezze archeologiche di Milacca ed il ritardo racalmutese

 

Vincenzo La Rosa dell’università di Catania ha potuto scandagliare dal 4 dicembre 1977 il territorio di Milena alla ricerca delle antiche civiltà ivi succedutesi. Il volume Dalle capanne alle “Robbe” ne attestano i felici risultati. Là, i diversi sovraintendenti (specie agrigentini) sono stati prodighi di autorizzazioni ed aiuti. Nella contermine area racalmutese, ciò è impensabile. L’attenzione è tutta protesa alla Valle dei Templi. Quanto è greco o post greco ha senso; il resto solo se ha attinenza al mito minoico del re Cocalo.  Al momento, Racalmuto può solo usufruire del riverbero delle risultanze pre e proto storiche che gli scavi e gli studi della contermine Milena sfornano a ritmo davvero sostenuto.

E se lì sono ormai assodate «le presenze di tipo egeo e, più in generale, .. le culture sicane della media e tarda età del Bronzo» [18] restiamo autorizzati a pensare altrettanto per Racalmuto, specie in territorio di Fra Diego.

 

b) Le affinità geomorfologiche.

 

Gli studi sul sistema geomorfologico di Salvatore Maria Saia [19] si attagliano ovviamente, anche, al limitrofo territorio di Racalmuto. Certo non in modo pedissequo: ad esempio, l’affluente del Platani, Gallo d’Oro, nasce dalle falde del Castelluccio e zigzagando per il versante Est di Vallanuova s’immette in pieno territorio di Montedoro, ma non può affermarsi per il tratto racalmutese quello che il Saia afferma per Milena e cioè che il corso d’acqua in questione abbia «assunto un ruolo principale nell’azione morfologica di “modifica” territoriale e nel quale si congiungono quasi tutte le aste del reticolo idrografico di questo ambito territoriale.» Comunque fenomeni analoghi vi sono nelle lande racalmutesi, sia pure collegati ad altri corsi d’acqua.

In pieno invece attengono a Racalmuto queste altre considerazioni del Saia: «I termini stratigrafici risultanti  dall’esame superficiale e raffrontati alla letteratura geologica vengono descritti come appartenenti alla cosiddetta “Serie Solfifera”, cioè ad una “successione di sedimenti prevalentemente evaporitici, compresi tra le argille del Tortoniano superiore e la formazione dei «trubi» del Pliocene basale, depositatisi in corrispondenza ad una crisi di salinità interessante l’area mediterranea” (Decima & Werzel, 1971» [20] Aggirate le difficoltà della terminologia scientifica, il succo del discorso conferma, specie per i riferimenti cronologici, quello che ci siamo sforzati di rappresentare sopra sull’evoluzione geologica dell’altipiano racalmutese. Ci troviamo quindi di fronte «ad una successione continua costituita schematicamente dalle seguenti unità dal basso verso l’alto, in successione più o meno continua sulle argille basali: 1 - Tripoli; 2 – Calcare; 3 Gessi e gessareniti con lenti di sale; 4 – Trubi con l’elemento basale dell’Arenazzolo.» In definitiva – esulando da questo lavoro approfondimenti scientifici dell’assetto geomorfologico racalmutese – possiamo agganciarci alle recentissime conclusioni di quanti ritengono «il territorio [che ci occupa] tipico della zona centrale della Sicilia [con] elementi di uniformità geologica a quella fascia centro meridionale dell’Isola.» In altri termini, «è un territorio che ha avuto una “storia” geologica relativamente recente se raffrontata al susseguirsi delle ere geologiche, ma la caratterizzazione in termini litologici plastici o comunque riconducibili a forme non proprio consistenti o resistenti all’erosione ne ha determinato un paesaggio geomorfologico piuttosto “appiattito” che ha consentito facili ed agevoli insediamenti umani.»

 

c) Lo zolfo

 

Dalle ricerche su Milena estrapoliamo, poi, queste annotazioni, sempre del Saia, sulle “mineralizzazioni” che investono appieno la nostra ampia vallata a nord del Castelluccio: «La serie Gessoso-Solfefera presenta le mineralizzazioni classiche che la caratterizzano e che sono costituite principalmente dallo zolfo, da salgemma e da vari tipi di sali a composizione potassica o sodica..» «Il minerale, di genesi sedimentaria, è associato a gesso, anidride e talora salgemma, la cui origine non è ancora del tutto certa, ma sembra che si verifichi per “riduzione dei solfati (ad es. CaCO4), con formazione intermedia di solfuri e successiva ossidazione di questi ultimi  da parte di acque ricche di CO2, che depositano contemporaneamente CaCO4 secondario. L’azione riducente dei solfati è svolta essenzialmente da microrganismi di tipo anaerobico. D’altra parte diversi organismi quali i solfo-batteri, possono precipitare direttamente lo zolfo da acque contenenti H2S, che può a sua volta derivare da esalazioni termali o dalla putrefazione di  sostanze organiche.” (Carobbi, 1971) [21] La riduzione di solfati (come il gesso) per opera dei solfo-batteri (Spirillum desulfuricum Bayer e Microspina aestuari v. Deden) con produzione di H2S, e la consequenziale soluzione in acqua potrebbe spiegare, altresì, la differenza diffusa di acque solfuree [22], considerato che il fenomeno non può attribuirsi a fenomeni di origine vulcanica.»

Qui, si esplica, in termini altamente scientifici, quello che noi alquanto fantasiosamente abbiamo cercato di rappresentare a proposito del vibrione “desulfuricante”, reo di ottocenteschi sfruttamenti di poveri zolfatari e di obbrobri sociali avverso gli imberbi “carusi”.

 

d) Il salgemma.

 

Ma passiamo al sale. «La presenza del sale – aggiunge il Saia, op. cit. p. 25 – è stata dimostrata, nel tempo, dagli affioramenti spontanei dovuti a falde acquifere sotterranee che, dopo aver disciolto il minerale, sgorgano in superficie ove, sottoposte a rapida evaporazione per esposizione alle mutate condizioni di temperatura e pressione, precipita il sale, lasciando intravedere le chiazze bianche anche a notevole distanza. Le ricerche minerarie hanno dimostrato l’esistenza di grossi giacimenti salini che si presentano discontinui perché sottoposti ad intensa attività “tettonica comprensiva con pieghe diapiriche anche strette per cui lo spessore apparente può, alle volte, raggiungere e superare i 1000 metri” (Decima & Wezel, 1971) ed esposti a rapide dissoluzioni. Oltre alle mineralizzazioni di sali sodici se ne riscontrano anche potassici [oscenamente deturpanti le miniere di Gargilata, a ridosso del Cozzo Don Filippo]e magnesiaci.»

e) Il gesso.

Ed ora prendiamo a prestito dal geologo alcune notazioni scientifiche sul gesso. «La presenza dei gessi – conclude sempre il Saia, op. cit. p. 25 – soprattutto di quelli nella forma selenitica (cristalli cosiddetti a “ferro di lancia” o “coda di rondine”) per la facile lavorabilità ha probabilmente favorito gli insediamenti [sicani], anche al fine di pratiche o di culti come ad esempio quello dei morti con relative opere tombali inserite nelle pareti di gesso.»

Racalmuto conferma appieno tale tesi. Necropoli sicane monumentali sono, ictu oculi, quelle di fra Diego; ma diffuse sono quelle meno appariscenti, talora persino solitarie, che contrassegnano l’intero territorio. Si pensi che persino a fondo valle, vicino Pian di Botte, si rinvengono in soggiogante solitudine tombe sicane, scavate nelle pietre gessose. Appena disponibili massi capienti, gli antenati sicani di Racalmuto andavano a scavarvi i “forni” tombali, a testimonianza del loro culto dei morti, della loro irriducibile fede nell’oltretomba.

A Racalmuto, come a Milena, però «gli insediamenti antropici hanno ancor più modificato il paesaggio attraverso la denudazione dei suoli per uso agricolo senza tenere conto che la presanza di argille avrebbe, come di fatto è avvenuto, portato all’accentuazione dell’erosione rendendo di fatto gli stessi suoli in parte inutilizzabili e pericolasamente instabili. Le argille, per la loro impermeabilità, hanno favorito la corrivazione delle acque superficiali che vengono accumulate nei fondovalle dando origine, il più delle volte, a piene notevoli e devastanti con l’intensificarsi delle precipitazioni.»

 

f) Le grotte ed il fenomeno carsico.

 

Il fenomeno carsico, adeguatamente indagato in territorio di Milena, è naturalmente presente anche a Racalmuto: qui, finora è stata ispezionata la sola grotta di fra Diego con risultati non del tutto soddisfacenti. Mutuiamo quindi dalle risultanze del club alpino che da tempo indaga sui fenomeni carsici di Milena. Marcello Panzica La Manna [23] ci fornisce questi ragguagli, utilizzabili, secondo noi anche per Racalmuto, almeno sino a quando non vi saranno spedizioni speleologiche adeguate.

«Rilevanti risultano gli affioramenti di rocce evaporitiche di età messiniana (Miocene superiore)[e quindi il territorio] è caratterizzato dalla presenza di estese fenomenologie carsiche sia superficiali che sotterranee. Il fenomeno carsico sui gessi (più propriamente “paracarsico” secondo l’accezione di Cigna, 1983), a causa dell’elevatissima solubilità di tale roccia ad opera delle acque meteoriche, si sviluppa con formeestremamente più marcate e ad evoluzione più rapida rispetto a quelle dell’analogo e più conosciuto fenomeno che si sviluppa nelle rocce calcaree (carsismo classico). […] Sono riscontrabili due differenti tipologie di grotte definibili, secondo la classificazione di Cigna (1983, op. cit.), 1) cavità pseudocarsiche; 2) cavità paracarsiche.»

«Le cavità pseudocarsiche sono quel tipo di grotte denominate “tettoniche”, legate cioè alle discontinuità meccaniche delle masse rocciose che costituiscono i vani sotterranei. La genesi di tali grotte è da imputare in parte alla fratturazione della roccia, prodottasi a causa dei movimenti tettonici che hanno interessato l’area, in parte a fenomeni di tipo gravitativo che hanno disarticolato gli affioramenti gessosi in blocchi di varia dimensione.»

«Le cavità paracarsiche sono quelle che si originano per l’azione di solubilizzazione della roccia gessosa ad opera delle acque di precitazione meteorica. Il gesso presenta una solvibilità in acqua molto elevata (dell’ordine di 2,5 g/l) che se messa in relazione con la quantità di pioggia ed i tempi di esposizione della roccia agli agenti atmosferici, giustifica la formazione degli imponenti reticoli di ambienti e gallerie presenti nel sottosuolo. Le cavità riconducibili a tale tipologia sono strettamente e funzionalmente legate alle morfologie carsiche di superficie; esse infatti rappresentano la prosecuzione, nel sottosuolo, del reticolo idrogeografico epigeo. Nella maggior parte dei casi le acque di pioggia vengono incanalate all’interno delle depressioni, che dopo percorsi più o meno lunghi le convogliano verso punti di assorbimento localmente denominati “zubbi” o “inghiottitoi” nella terminologia idrogeologica. All’interno le grotte mostrano chiaramente i segni dell’escavazione delle acque incanalate ed è possibile riconoscere le varie fasi della loro evoluzione, dal momento in cui erano completamente invase dal flusso idrico fino a quando lo stesso ha iniziato a decrescere, abbandonando completamente, in certi casi, le cavità medesime. Quasi sempre agli inghiottitoi sono associate delle cavità (“risorgenze”) che costituiscono il punto di ritorno a giorno delle acque sotterranee.» (op. cit. p. 28)

 

E qui abbandoniamo le citazioni erudite idrografiche [24], che non sono certo pane per i nostri denti. In tempo comunque per lamentare l’assoluta indifferenza delle autorità locali per un siffatto patrimonio ipogeo, di cui manca persino uno straccio di inventario.  Grotte pseudocarsiche abbondano in ogni dove a Racalmuto. Anzi, lo stesso paese all’origine fu patria di coloni cavernicoli (noi pensiamo attorno al 1240, dopo la cacciata dei saraceni da parte di Federico II): a ridosso del Calvario e del Carmine,  sotto via Roma, nei pressi della Madonna della Rocca, abbondavano gli anfratti gessosi, ove fu agevole trovare dimora, se non confortevole, almeno riparata. Una selvaggia superfetazione edilizia ha inglobato e fatto sparire la prisca realtà abitativa racalmutese. Ancora nel 1608, là era sede di rimarchevole opificio la grotta di Pannella. Citiamo da una visita pastorale del vescovo Bonincontro [25]:

Et parimente la Parocchia della Nunciata incomincia del medesimo Convento del Carmino e tira a drittura alla grutta di Pannella[sottolineatura ns.]restando d.a grutta nella d.a parocchia della Nunziata

In un atto del 1596, quale si rinviene nel Rollo di Santa Maria di Gesù conservato in Matrice [26], abbiamo la testimonianza di una più antica utilizzazione di una grotta in pieno centro, cioè a dire nei pressi del Monte:

Die nono mensis Januarii x^ ind. 1596.

Item in et super sex corporibus domorum sursum et deorsum cum eius antro [corsivo, ns,] simul contiguis et collateralibus confinantibus cum domibus heredum quondam Vincentij la Mendola alias lo Vecchio et in quarterio Montis seu della Santicella  …..

 

 

 

Le campagne erano (e sono), peraltro, cosparse di grotte pseudocarsiche, provvidenziali per i palmenti.  I vari Rolli della Matrice ne riportano diversi estremi negli atti notarili a partire dal XVI secolo. Ne citiamo un esempio [27]:

 

Die nono mensis Januarii x^ ind. 1596.

Item ditta donatrix pro Deo et eius anima titulo donationis predictae inrevocabilis inter vivos ut supra per eos et successoreres donavit et donat Antonino et Cataldo Morriale fratribus eius nepotibus terrae Racalmuti absentibus  .. pro eis et eorum heredibus  et successoribus in perpetuum stipulante et sollemniter recipiente vineam nuncupatam di lo Piro cum eius domo antro  [corsivo, ns.] torculare clausura et aliis in aea existentibus sitam et positam in pheudo Nucis secus vias publicas per quas itur versus civitatem Agrigenti  ……

 

Quanto alle grotte paracarsiche, il fenomeno più appariscente si verifica in contrada S. Anna, ed in particolare all’apice del Pizzo di Blasco: sinora latita ogni interesse scientifico e quindi nulla siamo in grado di annotare. Solo forse è da tener presente che là, in un classico zubbio, si è conformato un profondo bacino ove - per clima particolare, per sedimentazioni acquitrinose e per protezione termica - c’è una lussureggiante flora, inaccessibile anche per i cacciatori, che andrebbe adeguatamente classificata e studiata.

 

g) La flora e questioni botaniche.

 

Racalmuto ha per il momento la fortuna di venire, sotto il profilo floro-faunistico – indagato e fotografato dall’appassionato e competentissimo dott. Giovanni Salvo, che sta davvero colmando, almeno qui, lacune secolari. Gli si dovrà tanta gratitudine per le sue pubblicazioni, corredate da splendide fotografie, sui lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Racalmuto.

Il nostro territorio – amcor più di quello di Milena – è «fortemente antropizzato e ricco in specie annuali, nitrofile, mentre esempi di vegetazione naturale si rinvengono nelle zone impervie e nei calanchi in quanto non adatte all’impianto di culture.» [28] Si può affermare che vi attecchiscano oltre 400 entità floristiche che vivono allo stato spontaneo. La maggior parte di esse è annuale (terofite), le altre sono erbe perenni o perennanti (emicriptofite e geofite) o arbusti ed alberi (camefite e fanerofite). Da segnalare: la biscutella lyrata (Cruciferae), il lathyrus odoratus L. (Leguminosae), l’Ononis oligophilla (Leguminosae); la Pimpinella anisoides (Umbelliferae); il Tragopogon porrifolius L. subsp. cupani (Guss.) Pigna; la Crepis vesicaria L. subsp. hyemalis ( Biv.) Babc. (Compositae). Ed inoltre: l’ Erysimum metlesicsii Polatschek (Cruciferae), l’ Astragalus huetii Bunge (Leguminosae), la Lavatera agrigentina Tineo (Malvacee).

Gli studi sulla confinante Milena hanno portato al seguente censimento della vegetazione (estensibile ovviamente anche a Racalmuto):

1)    Vegetazione degli ambienti rupestri con queste presenze: Diplotaxis crassifolia (Rafin.) DC., Erysimum metlesicsii Po., Silene fruticosa L., Athamanta sicula L., Sedum dasyphyllum L. Cheilanthes fragrans (L.) Swartz;

2)    Garipa a Thymus capitatus (L.) Hoffm. et Link con queste presenze: Thymus capitatus, Cistus Creticus L., Teucrium flavum L., Teucrium fruticans;

3)    Prateria steppica ad Ampelodesmus mauratinicus (Poiret) Dur. et Sch.., con queste presenze: Ampelodesmos mauritanicus, Anthyllis maura  G. Beck, Psoralea bituminosa L., Kundumannia sicula (L.) DC, Festuca coerulescens Desf., Hyoseris radiata L., Dactylis hispanica Roth, Brachypodium distachyum (L.) Beauv., Hypochoeris achyrophorus L., Reichardia picroides (L.) Roth, Coronilla  scorpioides Koch, Scorpiurus muricatus L., Asperula scabra Presl., Hedysarum spinosissimum L., Urginea maritima (L.) Baker, Convolvulus atltheoides L., Anemone hortensis L., Asparagus acutifolius L., Rubia peregrina L., Dafne gnidium L., Cistus creticus L.;

4)    Prateria steppica a Lygeum spartum L., con queste presenze: Lygeum spartum L., Catananche lutea L., Scabiosa dichotoma Ucria, Daucus aureus Desf., Eringyum dichotomum Desf., Lavatera agrigentina Tin., Ononis oligophylla Te., Aster sorrentinii (Tod.) Lojac.;

5)    Vegetazione ad Arundo pliniana Turra, con queste presenze: Arundo pliniana, Cirsium scabrum (Poiret) Dur. et Barr;

6)    Vegetazione nitrofila e subnitrofila, con queste presenze: . (durante il periodo estivo-autunnale) Kickxia spuria (L.) Dum. Ssp. Intergrifolia (Brot.) Fern., Chrozophora tinctoria (L.) A. Juss., Euphorbia chamaesyce L., Picris echioides L., Diplotaxis erucoides (L.) DC., Heliotropium europaeum L.,  Sonchus oleraceus L., Chenopodium opulifolium Schrader, Chenopodium vulvaria L., Ecballium elaterium (L.) A. Richard, Solanum nigrum L., Aster squanatus Hieron, Cynodon dactylon (L.) Pers., Polygonum aviculare L., Colvolvulus arvenis L., Delphinium alteratum Sibch. Et Sm., Conyza bonariensis (L.) Con., Ammi visnaga (L.) Lam; (durante quello invernale primaverile) Calendula arvenis L. Galactites tomentosa Moene, Centaurea Schouwii, Carlina lanata L., Reichardia picroides (L.) Roth, Hypochoeris achryrophorus, Fedia cornucopiae (L.) Gaerner, Linaria reflexa (L.) Desf., Echium plantaginum L., Borago officinalis L., Cerinthe major L., Lavatera trimestris L., Euphorbia helioscopia L., Geranium dissectum L., Hedysarum coronarium L., Hippocrepis unisiliquosa L., Scorpiurus subvillosus L., Lotus ornithopodioides L., Trifolium nigriscens Viv., Trifolium resupinatum L., Trifolium lappaceum, Trifolium squarrosum L., Melilotus infesta Guss., Lathyrus odoratus L. Lathyrus ochrus (L.) DC;  (vegetazione infestante il grano) Neslia paniculata (L.) Desv., Torilis nodosa (L.) Gaertner, Carduus pycnocephalus L., Bupleorum lancifolium Hornem, Papaver hybridum L., Ranunculus arvenis L. Bromus rubens; (terofite a ciclo invernale-primaverile) Legousia falcata (Ten.) Fritsch, Anacyclus tomentosum (All.) DC, Rhagadiolus stellatus (L.) Gaertner, Galium tricornutum Dandy, Ridolfia segetum Moris, Allium nigrum L., Gladiolus italicus Miller, Phalaris brachystachys Link, Phalaris paradoxa L., Ornithogalum pyramidale L., Asperula arvenis L., Filago pyramidata L., Euphorbia exigua L., Rapistrum rugosum (L.) ALL., Sinapis arvensis L., Brassica nigra (L.) Koch, Leopoldia comosa  (L.) Parl, Scandix pecten.veneris L., Medicago polymorpha L.,  Sherardia arvenis L., Lolium rigidum Gaudin, Sonchus asper (L.) Hill, Cichorium intibus; (vegetazione antropogena ai margine delle strade) Chrysanthemum coronarium L. (Crisantemo giallo), Malva nicaeensis All., Anacyclus tomentosum (All.) DC., Hordeum leporinum Link, Notobasis syriaca (L.) Cass., Bromus madritensisi L., Echium plantagineum L., Galactites tomentosa Moench, Erodium malacoides (L.) L’Her., Convolvulus althaeoides L., Beta vulgaris L., Foeniculum vulgare Miller;

7)    Praticelli effimeri a sedum caeruleum L. su gessi, con queste presenze: sedum caeruleum L. (Borracina azzurra), Sedum micranthum Bast., Hypocoeris achyrophorus  L., Campanula erinus L., Poa bullosa L., Valantia muralis L., Trifolium scabrum L., Medicago minima (L.) Bartal., Linum strictum L., Bromus fasciculatus Presl., Trifolium stellatum L., Stipa capensis Thunb., Crupina crupinastrum (Moris) Vis., Vulpia ciliata Dumort, Scilla autumnalis L., Ononis reclinata L., Ononis sieberi Beser? Rumex bucephalophorus L., Arenaria leptoclados Guss., Polygala monspeliaca L. Sideritis romana L.;

8)    Vegetazione degli ambienti acquatici, con queste presenze: Populus nigra (pioppo nero, ma molto raro), Tamarix africana Poiret, Phragmites communis Trin. (Cannuccia di palude), Equisetum telmateja Ehrh., Nasturtium officinale R. Br., Apium nodiflorum (L.) Lag., Juncus bofonius.

 

Spigolando dal più divulgativo testo di Pratesi e Tassi, a Racalmuto si attagliano le formazioni vegetali dell’intera Sicilia, fatta eccezione della diffusione del castagno (Castanea sativa) sull’Etna, «ad opera dell’uomo» [29] Per il resto, possiamo anche essere pedissequi: «Gli “orizzonti-climax” presenti nell’isola, e cioè le formazioni più stabili e caratteristiche, sono essenzialmente quatro»  e cioè:

a)     l’Oleo-ceratonion, «che prospera nelle parti più basse e litoranee, e che consiste in una macchia sempre verde mediterranea i cui elementi più importanti sono l’oleastro (Olea oleaster), il carrubo (Ceratonia siliqua) e, a tratti, la inconfondibile palma nana (Chamaerops humilis), unica palma spontanea del bacino mediterraneo. Per lo più, però, questa vegetazione è scomparsa [e al suo posto prospera] una tipica graminacea dei luoghi arifìdi, la Stipa tortilis.» Altre piante del territorio: il lentisco (Pistacia lentiscus), la fillirea (Phillyrea angustifolia) e altri arbusti della macchia mediterranea;

b)    «a livello leggermente più elevato vive la seconda associazione, quella del Quercion ilicis, costituita da una foresta sempreverde mediterranea a quercia, e soprattutto a leccio (Quercus ilex) e sughera (Quercus suber)». Su una radura nella parte nord del Castelluccio, rimangono ancora alcuni esemplari di “aggliannari” (in Traina, vocabolario siciliano: “agghiannara” o “agghiandra” = “frutto della quercia, del cerro, del leccio, e cibo dei porci: ghianda”). Nei recenti tentativi di forestazione poteva benissimo darsi impulso a siffatta piantagione, creando altresì le premesse per un ritorno alle porcilaie tradizionali ove i maiali possano venire depurati, dai mangimi transgenici,  con “aggliannari” per il ripristino delle ineguagliabili salsicce dei miei tempi, di cui trovo testimonianze addirittura in carte del ‘600 conservate in Matrice;

c)     «più in alto ancora sta l’orizzonte del Quercion pubescentis, o delle latifoglie eliofile, nel quale normalmente domina la roverella (Quercus pubescens), ma assai più spesso la degradazione ambientale ha lasciato solo una formazione a prateria steppica che ha per protagonista un’altra graminacea (Ampelodesmos tenax). Qualche volta, in luoghi più freschi e umidi, prende il sopravvento un’altra specie di quercia spogliante, il cerro (Quercus cerris).» V’è qualcosa del genere nello sprofondo di Sant’Anna, dopo la grotta dell’innamorata? In ogni caso, chissà se nel divisato recupero a fini turistici del Castelluccio troverà posto un rimboschimento con vegetezione autoctona, consona all’orizzonte del Quercion pubescentis!

d)    Non dovrebbe altresì riguardare Racalmuto «il piano superiore, montano … del Fagion silvaticae, che ospita le residue formazioni di faggio (Fagus silvatica): qui un interessantissimo endemismo, l’abete siculo (Abies nebrodensis), oggi quasi distrutto, doveva in passato avere notevole diffusione.» Speriamo che, sempre al Castelluccio, possano tentarsi resurrezioni arboree di autoctone faggete.

 
Co


[1] ) Fulco Pratesi e Franco Tassi, Guida alla natura della Sicilia,   pp. 21-22, Mondadori, Milano 1974.
[2] ) ibidem, p. 204
[3]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[4]) L. Trevisan: Les mouvements tectiques récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[5]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -GEOLOGIA  - Università di Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[6] ) L. Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880
[7] ) S. Tine': L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.
[8] ) Leonardo Sciascia, L’antimonio, in Opere 1956-1971 –  pag. 384, Bompiani Milano,  1987.
[9] ) ibidem, p. 384
[10] ) Sac. Calogero Salvo – Ecco tua madre – pp. 13-14 - Racalmuto 1994.
[11] ) Vincenzo Tusa e Ernesto de Miro – Sicilia Occidentale  - p. 13 – Roma 1983.
[12] ) ibidem,  p. 111
[13]) Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e direttore  dell’Ufficio Centrale di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[14]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ... scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880, pag. 17.
[15]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[16]) Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
[17]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale.  - Roma 1983 - pag. 114.
[18] ) Dalle capanne alle “robbe” – La storia lunga di Milocca-Milena – a cura di Vincenzo La Rosa – Pro Loco Milena 1977 – p. 7
[19] ) ibidem, p. 15 e ss.
[20] ) Per maggiori dettagli cfr. Decima A., Werzel F.C., 1971 – Osservazioni sulle evaporiti messiniane della Sicilia centro-meridionale. Riv. Min. Sicil., 22, pp. 172-187.
[21] ) Per approfondimenti, cfr. Carobbi G., 1971 – Trattato di mineralogia. Vol. II – Firenze.
[22] ) Vedansi a Racalmuto, ad esempio, le polle solfuree sopra Gibillini, in contrada Perciata.
[23]) Marcello Panzica La Manna, Aspetti del fenomeno carsico sotterraneo nel territorio di Milena (CL) , in Dalle Capanne alle “Robbe”, cit. p. 27 e ss.
[24] ) Fruibili sono le seguenti letture: Calvaruso E., Cusimano G., Favara R., Mascari A., Panzica La Manna M., 1978, Primo contributo alla conoscenza del fenomeno carsico nei gessi di Sicilia. Inghiottitoi di M. Conca (Campofranco – CL), Atti XIII Congr. Naz. Di Speleologia, Perugia, (preprints); Cigna A..A., 1983, Sulla classificazione dei fenomeni carsici, Atti Congr. Naz. Di Speleologia. Le Grotte d’Italia, (4), XI, 1983, pp. 497-505; Madonia P., Panzica La Manna M., 1987, Fenomeni carsici ipogei nelle evaporiti in Sicilia, Atti Simp. Int. Il Cars. Nelle Evapor. In Sicilia, Le Grotte d’Italia (4), XIII, 1986, pp. 163-189.
[25] ) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - REGISTRO VISITE 1608-1609 - MONSIGNOR Dn VINCENZO BONINCONTRO - VESCOVO DI GIRGENTI - (INDICE A PAG. 13: RACALMUTO PAG. 244 aggiunto: 203)
 
[26] ) Chiesa Madre di Racalmuto -  Santa Maria - Rollo - atti del 1500,  f. 47
 
 
[27] ) ibidem,  f. 331
[28] ) Cosimo Marcenò – lineamenti floristici e vegetazionali del territorio di Milena (CL), in Dalle Capanne alle “robbe”, op. cit., pp.37-41.
[29] ) Pratesi e Tassi, Guida alla natura della Sicilia, op. cit. p. 10.

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