sabato 12 settembre 2015

RACALMUTO IL FOLLE PAESE DI ENRICHETTO










 

 


 




 

L’umano pellegrinaggio, spesso scorata stasi, ispira ad Enrico di Puma ineffabili moti dell’anima che vanno a camuffarsi in superficie cromatiche, pudiche quanto accattivanti.




Non è menzogna quella di un olio o di un acquarello di Enrico ma non è neppure decifrabile confessione: Enrico nel suo vivere ha interne, desolate censure; può solo permettersi un riposo, una stasi appunto, per un gioco di colori, per un guardare ilare un fiore, un cespuglio, un arbusto, un segno, insomma un vago simbolo di quello che tutti dicono gioia creativa di un dio abitatore di nuvole, lontanissimo, non umano, in sintesi fattore della bella ed impalpabile natura, secondo il pretenzioso topos dei saccenti di ogni tempo.



Nacque furente la pittura di Enrico: le frustrate rabbie del vivere, quelle umiliate nella giovanile competizione, nelle inani intraprese del primo eros, esplosero davvero irruenti nel brandire spatole pittoriche; si frantumarono misterici equini, gallinacei pennuti e sbuffanti, immagini mostruose, ittiche allusioni, ferinità improbabili. Fu pittura somma. Peccato che si sia esaurita.



Fu esordio di falsi preannunci; Van Gogh avresti detto; Ligabue, avresti contraddetto. Ma di Puma non era né l’uno né l’altro: solo arcane coincidenze come capita agli artisti indotti; e se v’è un pennello, un cavalletto, una tela, una tavolozza ed il genio pittorico erompe, eccoti il miracolo dei colori ora in arditi accostamenti, ora in contrasti loquaci, oppure in armonie suadenti, o in improperi esistenziali, ed eccoti l’arte, il bello, senza regole, ingenuo; naif diresti e sbagli.



Enrico patì sconquassi dell’animo, del cuore, dell’eros ma subito li seppellì e la sua pittura cambiò: divenne lirica, soave, serafica; non è però leziosa, gli sarebbe impraticabile, gli è negata da un dolore sommerso, da un deludersi senza speme.



Pateticamente, con ingenuità sconcertanti, oggi il Nostro ama il melodramma, ma il melodramma più italico, il più lirico, il meno tedesco: suoi idoli, adorati con giulivo candore, sono un Caruso pregno della raucedine della primordiale arte discografica, un Gigli rutilante di note a commento di un incomprensibile gergo librettistico, il compaesano tenore Infantino, giammai sommo, pingue quanto sdolcinato. Non ama l’altro paesano, quel Puma tenore di robusta ascendenza contadina, maschio, aggressivo che pure eccelle in talune opere di Mascagni o di Giordano.

Orripilanti «tu il mertasti» o simili ripugnanti invettive del più decadente melodramma italico, quelle profanazioni linguistiche causticamente infilzate da un Savinio passano inosservate all’incantato Enrico e forse per questo il Pavarotti dalla limpida dizione non rientra nell’empireo dei suoi dei canori.



Il contraltare, un dipingere ormai dissennatamente floreale, con cromatismi tenui, occidui, non più confliggenti, davvero iridati. Se vuoi, puoi anche dilettare l’occhio, acquietare l’anima, sognare o almeno contemplare, seraficamente, senza gli eccitamenti dei sensi, senza eros. Ma stai attento: ciò è soltanto superficie, forse anche maniera: devi però addentrarti e scorgerai il sottosulo dello spirito, esulcerato, avvilito, persino stanco, ora irrimediabilmente disperato. C’è tutto l’inganno dell’arte.



L’uomo piccolo, schiacciato, annichilito che pur si veste elegante, ricercato e, se fotografato con vescovi o con i sommi del momento letterario, si rimpicciolisce ancor più, timidamente, in estasi contemplativa, in sottomissione allusiva, si è ormai rassegnato e dipinge per il tuo diletto e per il suo dissolvente rinnegare la vita, bozzetti del topos del bello degli umani, nature né vive né morte, floreali perché così piacciono ai "grandi" o in veste talare rossa o con l’immancabile sigaretta della letteraria blasfema ironia.



Non lasciarti ingannare: Enrico di Puma non è manieristico, non è floreale, non è idilliaco, non è neppure melodrammatico. Guardalo in faccia, guarda soprattutto dentro la sua pittura: è un grande dell’arte; è un poeta d’intensa intima sofferenza dannato al sorriso giulivo, serafico, francescano. «L’uomo son io che ride; ei quel che spegne», ci va di citare a memoria, irriguardosamente per ogni melodrammatico rigoletto verdiano.



Una pausa eppure Enrico se l’è permessa: ha riguardato il suo paese; Racalmuto viene visto da una prospettiva innaturale ed ecco il casale, agglomerato informe di casupole pur ravvivate dalla mediterranea tavolozza a rombi, a triangoli, a geometriche inframmettenze, rovinare dal Castelluccio in giù, allusivamente in equivoca diversità, contro natura appunto. Ora la roccia della salvezza sciasciana non è più quella del Monte della Vergine Maria; è là ad oriente, collima con il cocuzzolo coronato da un castello diruto, negletto, corroborato dai nostri atavici negrieri chiaramontani, posto in terra detta dagli arabi-normanni Al Minsciar, dai berberi Gibillini e lasciata senza nome dai bizantini che se ne servirono come «frourion».



La vicenda storica è insensa per di Puma: l’emblema topografico invece è pregnante ed ispira accenti di lirica contemplazione del "dolore" di un Racalmuto senza tempo "abbarbicato alla vita … come erba alla roccia", direbbe Sciascia. E questa fortuita coincidenza tra il dire ed il pensare dell’unico scrittore che il paese vanta e questo indotto eppure soave pittore dei fiori sorprende e sgomenta.



Finito con il tramontato millennio il maestro racalmutese della penna, approdato ancor operoso e creativo a questo nuovo millennio il nostro ingenuo pittore, le due identiche testimonianze del vero conformarsi della più schietta dimora racalmutese dispiegano intera la immutabilità che pur muta di pelle, ma giammai d’animo, un animo da odiare perché spesso infido, supponente, ingeneroso, mediocre.


Noi che quell’animo tutto ce l’abbiamo dentro, restiamo legittimati ad esecrarlo, a bestemmiarlo, a rimuoverlo almeno: un poeta ed un pittore di questa terra a luci spente tutto redimono, tutti ci redimono.


Calogero Taverna





 

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