domenica 22 settembre 2013
Storia laica delle chiese di Racalmuto
PREMESSA
Questa è una silloge di nostre personalissime e non agevoli ricerche. Se qualcuno ha dato un contributo - anche e quasi sempre piccolo, sparuto e sostanzialmente di non grosso rilievo - noi ne facciamo esplicito riferimento: è certo che non plagiamo nessuno, mentre potremmo essere vittima - e lo siamo - di plagio. La nostra cifra culturale e ideologica è marxista anche se trattiamo cose di chiesa. Sono note pubblicate in vario tempo; nostre personali convinzioni sono spesso cambiate ma in sostanza io resto sempre fedele a me stesso. Non amo né dogmatismi né moralismo. Sappiamo che dire storia religiosa di Racalmuto è solo riesumazione dell'unico e inscindibile vivere o sopravvivere di un aggregato sociale in questa landa per tanti versi aprica per altri ostile. Preti, conventi congreghe, istituti, canoni, morale, interessi non sempre sono propizi ad un egualitario consorziarsi di uomini liberi, eppur sempre vien fuori una cifra di acculturamento e di civilizzazione che trascende il mero dato confessionale.
Questa è una silloge di nostre personalissime e non agevoli ricerche. Se qualcuno ha dato un contributo - anche e quasi sempre piccolo, sparuto e sostanzialmente di non grosso rilievo - noi ne facciamo esplicito riferimento: è certo che non plagiamo nessuno, mentre potremmo essere vittima - e lo siamo - di plagio. La nostra cifra culturale e ideologica è marxista anche se trattiamo cose di chiesa. Sono note pubblicate in vario tempo; nostre personali convinzioni sono spesso cambiate ma in sostanza io resto sempre fedele a me stesso. Non amo né dogmatismi né moralismo. Sappiamo che dire storia religiosa di Racalmuto è solo riesumazione dell'unico e inscindibile vivere o sopravvivere di un aggregato sociale in questa landa per tanti versi aprica per altri ostile. Preti, conventi congreghe, istituti, canoni, morale, interessi non sempre sono propizi ad un egualitario consorziarsi di uomini liberi, eppur sempre vien fuori una cifra di acculturamento e di civilizzazione che trascende il mero dato confessionale.
Questa piccola chiesa di Racalmuto sorgeva all''estremità Nord di Racalmuto, nel vecchio quartiere della FONTIS tradizionalmente FONTANA e per ripicche politiche tra due dioscuri egemoni codesto quartiere oggi è sparito dalla popolare toponomastica alla cui principale arterie hanno cambiato il tradizionale nome di Battesimo di via Fontana con quello improbabile di via Gramsci.
La chiesetta dedicata a S. Nicola di Bari adatta il suo nome alle esigenze foniche di questo strano paese, la nostra Racalmuto, per divenire SANTA NICOLA che resta pur sempre santo maschile ad onta dell'epiteto ambiguo.
"Santa Nicola, Santa Nicola, vi dugno la vecchia e mi dati la nova" pregavamo quando ci cadevano i denti lattei per quelli che più o meno malfermi ci dovevano accompagnare per tutta la vita. E l'invocazione accompagnava il gesto del dentino scagliato sui tetti nella convinzione che se non invocavamo questo santo barese non avremmo mai spuntato in bocca il sostituto.
Iniziamo da questa bella foto, fornitaci dalla signora Rita Grazia Mattina, la nostra scorribanda storica su Racalmuto propiziata dalle foto che Rita Grazia, eccellente fotografa, mano mano ci metterà a disposizione.
Parte da qui una microstoria racalmutese, rapsodica, vagula, ma poggiante su studi e ricerche trentennali.
Filo logico sono l'amore per la verità storica - nonostante tutto, oltre tutto - e lo spasmodico affetto per questo !spazio vitale" in cui siamo nati, che giammai abbiamo rinnegato, che vogliamo integro nella sua storica toponomastica e fedele nel suo genuino toponimo. I vezzi letterari, gli svolazzi di un cervellotico congetturare devono stare stellarmente lontani.
Amiamo con tutta la nostra mente, con tutto il critico e duttile intelletto di cui disponiamo questo nostro irrinunciabile borgo natio, spesso oggetto di interessate mistificazioni, di immeritate denigrazioni.
Ripuliamo la memoria storica di RACALMUTO!
Rita Grazia Mattina con le sue appassionate, non oleografiche e non mercificate foto, ci accompagnerà in questo tortuoso e ondivago percorso.
Due episodi ci rendono cara o interessante questa periferica chiesetta. Ai tempi della mia infanzia davvero vi erano bande di ragazzini terribili da richiamare alla mente i "ragazzi della via Paal". Molto attivi, spesso figli di famiglie dedite al crimine, un tempo all'abigeato, negli anni del dopoguerra del '40 al furto alla grassazioni, e sovente all'omicidio, quei bambinetti respiravano violenza da tutte le parti e consideravano l'atto aggressivo atto coraggioso, Una banda temibile raccoglieva i ragazzini dagli otto ai dodici anni provenienti dalle casupole attorno alla chiesa di San Nicola (vulgo Santa Nicola). In quel quartiere ora abitava gente dura, con precedenti penali e taluni dimoranti nelle patrie galere. Il quartiere di San Nicola, attestato già ai primi del '500 come coevo del tempo in cui la tradizione vuole la venuta della Madonna del Monte a Racalmuto, fu luogo prediletto da certe famiglie emergenti, famiglie di notai, di nobilato addetto alla gestione dell'economia dei Carretteshi, di preti piuttosto affermati. Era poi di molto decaduto, credo per l'insalubrità o ritenuta tale che si addebitava ai luoghi bassi: coincidenze di tisi endemiche in quel quartiere invero si erano avute. I medici consigliavano aria buona: d'estate si andava "fori" alla Culma o alla Marchisa o a Gargilata, considerate campagne atte a rigenerare polmoni malandati e quindi dall'autunno in poi nelle zone alte del Carmelo. Subentravano poveracci che occupano dammusi e se divenivano meno poveri salivano, sempre numerosi, le camere solerate. Promiscuità assoluta, igiene inesistente, moralità attutita.
La banda di Santa Nicola saliva gagliarda e minacciosa a lu Castieddru, Qui trovava l'altra banda un po' meno diseredata ma pur sempre grintosa. In un certo qual senso ne faceva parte un mio cugino vigoroso, molto abile con la fileccia, capace di colpire passeri alla Spina e colombi nelle feritoie della torre carrettesca. C'era la possibilità di organizzare non tanto uno scontro di calcio ché mancavano palloni e anche passione, ma erano le furibonde lotte allo Sceriffo, come nei filmi americani che tutti non so come conoscevano, a determinare infinite sparatorie finte con indice e pollice a simulare la pistola e con la reboante voce a sparare. Stanchi i più piccoli tornavano a casa, i più grandicelli già non più puberi al calare della sera andavano a sedersi sugli scalini della chiesa di San Giuseppe e iniziavano conversari molto spinti. Eccitati poteva nascere una masturbazione a cerchio magari per mostrare chi poteva fiottare più lontano.
Molto più tarda è l'altra simpatica memoria: Siamo negli anni '80. La nuova amministrazione social-comunista organizza addirittura un festival della lirica con concorso a premi. L'emergente on. le Milioto fa convergere nella bella piazzola antistante la chiesetta di Santa Nicola alcune manifestazioni liriche, persino dei balletti, concerti. Seduti dinanzi allo sfondo della facciata che qui si fotografa tra due filari di basse e civettuole case si poteva godere di una accattivante atmosfera. Ho partecipato qualche volta. Mi è molto piaciuto. Una sorta di redenzione artistica, una riabilitazione al suono di "la donna è mobile" o delle rivisitazioni di vecchi strazianti canti (Maria Passa) o di canzonette prossenetiche paesane, (affaccia beddra) che gli eredi di Luigi Infantino riescono a far cantare nel paese d'origine del pienotto tenore da poco deceduto.
La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.
La chiesa di San Nicola sorge, periferica, nei primissimi anni del '500. Spirava a Racalmuto in quel tempo un'aria misticheggiante cui non erano estranei i Del Carretto che tornarono ad abitare nel castello che si dice - non senza qualche fondamento - chiaramontano. Esplodeva un'espansione demografica, come dire un'appetibile servitù della gleba che si tramutava in bei proventi per codesti signori dalle origini genovesi e non finalesi come fa oggi comodo continuare a credere. Naturale che oppiare i popoli con fervori religiosi era espediente anche allora molto praticato. Una statua di "marmaru di nostra signura" viene via mare fatta venire da Palermo ove aveva buona bottega artigiana un non spregevole scultore toscano a nome MASSA.
Anche allora avere una dignitosa sepoltura era assillo dei nostri antenati racalmutesi. Si costruivano chiese per sepolture di ceti meno disagiati che si consorziavano in quelle che presero nome di confraternite. Una di queste costruì appunto la chiesetta di San Nicola di Bari. Ne abbiamo scritto nel nostro RACALMUTO NEI MILLENNI; ne stralciamo alcuni passi che messi qui forse qualche lettore in più riesco ad adescarlo.
Il quadro della vita religiosa racalmutese sotto Giovanni III del Carretto
Un vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone non viene neppure adombrato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole sepoltura - il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo, dispendioso - ma subito, venute in possesso di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta economia curtense, assurgono a potentati economici molto simili alle attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia pure relativa), fanno committenze per costruire chiese (fonte prima del loro guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte), le fanno riparare, e così via di seguito. Non sono corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire i preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo bisogna loro “stuccarici li rini” beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore laico ed agli altrettanto laici deputati che ogni anno si eleggevano. Il vescovo Tagliavia cerca di irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del 1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti all’epoca. Abbiamo innanzitutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura sino alle soglie del Settecento.
Monsignor Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è riportata, in sostanza, una secca inventariazione dei beni delle più importanti chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del Monte e San Giuliano. [1] Tre anni dopo, il paese subì, come si è accennato, una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno 11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]
Al centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti all’intera popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati (”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum singulo anno”.)
Nella visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600 abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V, Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza dell’arciprete).
Oltre alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia provenientia ex administratione cure”).
Nel 1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S. Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’ comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme 22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S. Antonio.
Le nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui. Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates, titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure della chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente. Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la trova «satis bene compositam» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese. Si spiega così perché tenesse alla vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108 come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita del 1543 - est titulus canonicatus” che al tempo spettava al cennato canonico Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai un racalmutese. Quando si trattò di giustificarne il titolo originario, si assunsero a documenti due antichissimi diplomi del 1108. In essi si descrive la donazione di un fondo da parte di Roberto Malconvenant ad un suo parente, il milite Gilberto, a condizione che vi edificasse una chiesa. Gilberto accetta, si fa chierico ed inizia, costruisce e completa un tempio nella sua terra intitolandolo a Santa Margherita Vergine. Il vescovo Guarino in una domenica del 1108 consacra chierico e chiesa inquadrandoli nella giurisdizione della Cattedrale agrigentina.
L’ubicazione del centro agricolo è di ardua individuazione. Nel diploma viene così descritta l’estensione del fondo: se ne specificano i confini; emergono quindi punti di riferimento e località che nulla hanno a che vedere con Racalmuto. Quella antica chiesa “normanna” non è posta pertanto vicino a Santa Maria, non ci compete e lasciamola al suo destino. Il fascino della storia racalmutese non si appanna certo per il venire meno di una tale tradizione.
Resta assodato che a Racalmuto il culto di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S. Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1) Chiesa Maggiore, sotto il titolo di S. Antonio;
2) “Ecclesiola” sub titulo Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una Confraternita e dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di quella Maggiore, già fatiscente;
3) Chiesa di Santa Maria del Monte;
4) Chiesa di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa di Santa Margherita;
6) Chiesa di San Giuliano;
Nella precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa della “NUNTIATA”
2) Chiesa di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa di Santa Margherita;
4) Chiesa di “Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa di S. Giuliano.
(Cfr. le pagine 196v-198v della Visita)
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Passando al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non proprio recenti erano le chiese quali:
la Nunziata, visto che vi si trovava una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
Santa Maria di Gesù col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati vecho stagnato);
Santa Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano i “avantiletto” lisi (item dui avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla di vecchio.
Il testamento di don Giovanni III del Carretto
Di Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3]) steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. L’inventario della vita del barone viene in qualche modo abbozzato.
In epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D. Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito (Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e dalla condam Aldonsa mia mugleri in tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti, orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali, et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di quanto ricco e bene arredato fosse il Castello; vi era una frotta di servitù e vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle 600 once che stanno nella cassaforte (in Arca) del medesimo testatore ed essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D. Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia, con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri diritti quali il terraggiolo, le gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro, frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti, nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni che seguono”.
Giovanni III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae Cappellae in Culto divino.»
“E così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed inspiratore il notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà storica.
Il morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente. Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa di Santa Maria di lu Carminu”.
Giovanni del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
donna Beatrice del Carretto, moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150 once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
donna Porzia del Carretto, moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi, dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
Suor Maria del Carretto, dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo;
Il notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis, et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias quinque, nec non relaxavit et relaxit mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.» Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure: Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto [in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano, anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio inventava?):
5 once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
5 once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
10 once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
5 once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
5 once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”) esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza di 500 salme per la chiesa di San Giuliano
5 once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
5 once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al successore d. Girolamo del Carretto «quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori, videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà secolo XVI a Racalmuto.
Il barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).
[1]) ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[2]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA 1542-43 - colonne 190v-193v.
[3] ) Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni 1453-1717 - ff. 44r - 56v.
giovedì 5 settembre 2013
gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto
- QUANDO Il buon Leonardo Sciascia si avventura nelle cose di Dio e della Chiesa, non sempre la sua raffinatissima e talora pungente penna lo mette a riparo da topiche anche gravi. Successe con la faccenda del vescovo Ficarra, successe con fra Diego La Matina e purtroppo appare claudicante anche quando vuol cimentarsi con gli sviluppi del convento di San Giuliano di Racalmuto. Dovremmo citare e commentare quanto scritto nelle pagg. 226 e 227 del volume che raccoglie e le Parrocchie di Regalpetra e la Morte dell'Inquisitore. Dovremmo qui comprovare queste nostre apodittiche insinuazioni. Lo faremo in altra occasione. A dire il vero attendiamo i risultati di una intrigante tesi di laurea che una discendente della grande famiglia degli Sferrazza Papa ( il cui apice è per noi un nostro estimatore, il defunto gesuita Padre Sferrazza Papa S. J) sta approntando con acuto intelletto, caparbietà sarda, e serietà indagatrice. Ed è anche una bella ragazza, il che non guasta mai. Abbiamo capito che terremoterà tanti idola baconiani. Roba insomma da mandare in brodo di giuggiole chi come me non vede l'ora di sbeffeggiare le ricorrenti cervellotiche congetture cui osano indulgere più o meno impettiti eruditi locali.
Frattanto proponiamo questo scritto in cui molto vi è sugli agostiniani centuripini nei cui confronti Carmelo Sciascia ci appare steccare abbondantemente.
[naturalmente non è materiale nostro, ma è preso da internet]
LA CONGREGAZIONE Dl CENTORBI
Tutti questi monaci, che abitavano gli eremi sulle montagne vicino a Centuripe, non appartenevano ad un ordine religioso e non seguivano nessuna regola, erano soltanto dipendenti dal Vescovo del luogo di appartenenza o terziari di qualche ordine religioso senza fare mai la professione solenne. Per cui la Sacra Congregazione dei Vescovi e Religiosi incaricò Matteo Saminiati, protonotario apostolico e vicario generale di Catania, di far sì che quei frati entrassero a far parte di qualche ordine religioso riconosciuto dalla chiesa o che lasciassero l’abito eremitico e vivessero come chierici secolari. Per cui fra Andrea del Guasto ed i suoi compagni decisero di seguire la regola di S. Agostino. Furono dodici quelli che seguirono fra Andrea che, dopo tante difficoltà, fondò la “Congregazione dei Frati Agostiniani Riformati di Centorbi”. Il due febbraio del 1579 fra Andrea si recò a Roma dal generale dell’Ordine Agostiniano, Tadeo da Perugia, che approvò l’aggregazione di questo gruppo di frati eremiti all’OSA., ottenendo il primo decreto che lo autorizzava a fondare la nuova Congregazione Riformata in Sicilia sotto la regola di Sant’Agostino. Al suo ritorno nell’isola, però, per poter attuare quel decreto, il frate incontrò molte difficoltà, per l’opposizione del vescovo di Catania Cutelli e di alcuni eremiti, che durò circa cinque anni, dal 1580 alla fine del 1584. Nel frattempo, tra il 1579 ed il 1581, furono aperti altri dieci romitori per attendere alla vita contemplativa ed al “laborizio”. Nel 1581 arrivò l’approvazione di tale Congregazione da parte di papa Gregorio XIII e del Governo della Sicilia. In questo periodo fra Andrea del Guasto si recò per ben tre volte a Roma e alla fine, il 22 maggio del 1585, su licenza del Vescovo, prese l’abito dalle mani del p. Malchiore Testaì da Regalbuto, nel convento di Sant’Agostino di Catania, con l’approvazione del vicario generale Matteo Saminiati, insieme con i suoi dodici compagni: Andrea Diaz (Dias) spagnolo, Francesco di Paternò, Mario di Paternò, Matteo di San Filippo, Matteo di Vizzini, Domenico di Troina, Filippo di Regalbuto, Michele di San Filippo, Zaccaria di Francofonte, Bonaventura spagnolo, Leone del Guasto di Castrogiovanni (Enna) e Agostino spagnolo. Indossato l’abito, fra Andrea del Guasto, con i dodici monaci, si recò a Centuripe e fondò nella Sacra Grotta, dove si trovava la chiesa dedicata alla Vergine Maria, il primo Convento Agostiniano e così i tredici eremiti iniziarono il loro primo anno di prova. Nello stesso anno (1585) fu eletto il primo Vicario Generale della Congregazione, nella persona del fra Andrea del Guasto. Le elezioni del Vicario Generale si svolgevano sempre ogni due anni fino al 1745. In seguito il Capitolo Generale dell’Ordine OSA. dispose di poter fare le elezioni dei Vicari della Congregazione e dei Provinciali ogni tre anni. Questa Congregazione, in poco tempo, si diffuse negli altri eremi di Sant’Antonio di Regalbuto, di San Michele di Militello, di San Basilio sul Monte Scalpello ed in altri luoghi solitari. Propagatasi, ormai, in varie parti della Sicilia, i frati della Congregazione si chiamarono: “Frati Eremiti dell’Ordine di Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia”. Il primo novembre, festa di tutti i Santi, del 1586 frate Andrea con i suoi compagni emise i voti di Castità, Povertà ed Obbedienza nel convento di Sant’Antonio a Regalbuto (come risulta dagli atti del notaio Ottavio di Paula). In questo periodo fra Andrea si recò ancora a Roma. La nuova Congregazione fu regolata da uno statuto a cui tutti i frati dovevano fare riferimento. Esso fu approvato dal Generale dell’Ordine Agostiniano, sotto il pontificato di Sisto V, il primo aprile del 1587, confermato il 30 luglio dello stesso anno e messo in pratica il 12 marzo del 1588. Il 3 giugno del 1587 i due conventi della Congregazione di S. Adriano si unirono a quella di Centorbi, secondo l’atto notarile di unione già effettuata dal P. Generale il 14 aprile dello stesso anno. Nell’anno 1588 i fratelli fra Santoro e fra Gregorio fondarono il convento di Militello; due anni dopo, nel 1590, fra Matteo Panzica fondò quello di Caccamo ed infine fu eretto il convento di Paternò. Costoro erano i primi discepoli di fra Andrea del Guasto. Il 10 luglio del 1591 il P. Generale OSA concede al Vicario della Congregazione la facoltà di ricevere “servatis servandis” anche i religiosi della provincia O.S.A. Apparteneva alla “Congregazione dei Frati Eremiti Riformati di Centorbi” anche il conventino dei SS. Marcellino e Pietro, aperto da p. Girolamo Grazian a Roma, in via Labicana e preso nel 1592 da fra Andrea Diaz, compagno di fra Andrea del Guasto e secondo nella lista dei tredici frati eremiti fondatori di tale Congregazione. Fra Andrea Diaz, iniziatore della riforma degli Agostiniani Scalzi d’italia, sbarcò a Messina intorno al 1584 ed entrò a far parte della Congregazione Centorbana, insieme con i suoi due compagni spagnoli, fra Bonaventura e fra Agostino. Durante il suo periodo a Centuripe p. Diaz insieme con p. Andrea del Guasto, introdusse la vita riformata e fu importantissimo il suo lavoro di “agostinizzazione” nella Congregazione, secondo la direttiva dell’Ordine. Padre Andrea Diaz rimase a Centuripe fino al 1588 poi, venuto a sapere che la provincia di Castiglia, nel Capitolo di Toledo, aveva accolto finalmente la Riforma Agostiniana, rientrò in Spagna. Il diciannove ottobre 1589 entrò a far parte della prima comunità recolletta nel convento di Talavera. Ottenuta la licenza dal Nunzio Apostolico in Spagna di portare la riforma in Italia, si trasferì nell’aprile del 1592 a Roma, presso il convento dei SS. Marcellino e Pietro. Il 19 maggio 1592, nel centesimo Capitolo Generale Agostiniano, si parlò della riforma dell’Ordine voluta da Clemente VIII. Il neo eletto priore generale, p. Andrea da Fivizzano, il 22 maggio dello stesso anno approvò i Capitoli per il buon progresso della Congregazione degli Eremiti Riformati di Sicilia. Il 28 giugno 1592 giunse a Napoli, nel convento di Sant’Agostino, fra Andrea Diaz, “vestito con un abito di panno nero e grosso, un cappuccio tondo in testa e alle spalle, cinto da una cintura larga, scalzo con le sandole di corde alla spagnola ed un lungo mantello”. Espresso il desiderio di vita riformata, il Priore gli mise a disposizione i due conventini di Santa Maria dell’Olivella, dove va a vivere, e quello di Santa Maria della Grazia, alla Renella. Nel conventino di Santa Maria dell’Olivella, p. Andrea Diaz abitò insieme con p. Andrea da Sicignano. Il 6 luglio si aggiunsero due laici: Andrea Taglietta e Lorenzo della Tolfa. Il 20 luglio arrivarono altri due giovani sacerdoti agostiniani p. Ambrogio Staibano da Taranto e p. Giovan Battista Cristallino, e infine si unirono a loro altri due religiosi più anziani: p. Giulio Calabrese e p. Giovanni da Bologna. Costoro furono i primi “riformati”. Infatti, nello stesso giorno “tutti rivestiti di rozza lana si scalzarono”. Padre Andrea Diaz diventò il Superiore di quei religiosi dei conventini di Napoli, ma tra la fine del mese di marzo e i primi di aprile del 1593 fu eletto Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. La notizia fece scalpore nel convento dell’Olivella, perché p. Andrea Diaz voleva ufficialmente unire alla Congregazione Centorbana i due conventini di Napoli. Allora la piccola comunità si divise: p. Sicignano era d’accordo con fra Andrea Diaz mentre p. Staibano e p. Cristallino erano contrari, perché ritenevano la Congregazione di Centorbi diversa da quella che stava nascendo nei conventini di Napoli. Questi ultimi fecero ricorso al P. Generale affinché non permettesse l’unione. Il Generale, allora incaricò come suo delegato, per risolvere quella controversia, p. Cristoforo di Roma. Nel frattempo p. Andrea Diaz, amareggiato da quegli eventi, decise di abbandonare tutto e far ritorno in Spagna, rifiutando anche la carica di Vicario Generale della sua Congregazione di Centorbi. I Padri Centorbani, sapendo che p. Diaz non voleva iniziare il suo governo della Congregazione, dopo alcuni mesi elessero padre Domenico da Troina, con l’approvazione del P. Generale. La questione durò per circa sette mesi e alla fine, a metà novembre del 1593, si arrivò ad un compromesso. Il 16 novembre del 1593 p. Andrea Securani da Fivizzano, priore generale, con il decreto “Cum Ordinis nostri splendorem”, nominando padre Staibano primo vicario generale, riconobbe giuridicamente la nuova Congregazione degli Agostiniani Scalzi, separandola da quella degli Eremiti di Sicilia. Il 19 novembre 1593 l’elezione a Centorbi di padre Domenico da Troina, non essendo canonica, fu considerata nulla e quindi fu dichiarato legittimo vicario generale p. Diaz, al quale fu ordinato di recarsi in Sicilia a governare la sua Congregazione Centorbana. Quindi da un lato il Priore Generale diede ragione a p. Staibano, ufficializzando gli Agostiniani Scalzi d’Italia, dall’altro ridiede fiducia a p. Andrea Diaz inviandolo nella sua Congregazione a completare i due anni di Vicariato. Completato il suo mandato a Centorbi p. Diaz decise di ritornare in Spagna, per fondare un nuovo convento. Durante il viaggio la nave su cui viaggiava, a causa di una tempesta, fu trasportata sulle coste della Catalogna, vicino a Cadaquez, qui si ammalò gravemente e nel 1596 morì. Fu sepolto nella Parrocchia di S. Maria. L’Ordine agostiniano gli riconosce il titolo di Venerabile. Il 15 agosto del 1609, p. Andrea del Guasto fu rieletto vicario generale a Centorbi dove si celebrò il Capitolo, che fu uno dei più famosi tenutisi allora per il gran numero di frati che vi parteciparono e per le tante leggi stabilite. Il 15 agosto del 1617, fra Andrea si ammalò gravemente nel suo convento di Sant’Antonio. La sua agonia durò fino al 7 settembre, quando, dopo aver abbracciato un Crocifisso, rivolgendogli lo sguardo pieno di gioia, morì. Si concluse così, secondo il racconto di p. Fulgenzio da Caccamo, la straordinaria vita di questo frate che, dopo ottantatre anni vissuti santamente in terra, raggiunse l’eternità. Passati tredici anni dalla sua morte, su istanza del Vescovo di Catania, fu esaminato il corpo del ven. frate e fu trovato intero ed incorrotto, come più volte attestò, insieme ad altre persone, fra Vincenzo da Regalbuto della nobile famiglia dei Picardi. Il suo corpo fu analizzato nuovamente il 27 settembre 1674, durante il vicariato di p. Adeodato di Geraci. Il 4 maggio del 1918, su ordine di Mons. Agostino Felice Addeo, vescovo di Nicosia, su istanza del priore del convento di Sant’Agostino p. Giuseppe M. Campione, si è accertata, nella chiesa del convento di Sant’Antonio Abbate fuori le mura della città di Regalbuto, l’esistenza delle reliquie di fra Andrea del Guasto e l’inviolata conservazione delle medesime. Le ossa furono poste in un’altra cassa e il 19 maggio dello stesso anno furono traslate nella chiesa di Sant’Agostino della suddetta città. L’ultima ricognizione fu effettuata il tredici novembre del 1927.
IL NUOVO CONVENTO
Due anni prima della morte di fra Andrea, il 20 novembre 1615, il nobile Francesco Moncada dichiarò esente da ogni tassa chiunque volesse costruire una casa a Centuripe. Inoltre, per evitare ai cittadini penosi viaggi da Centuripe ad Adrano, da cui dipendevano per l’amministrazione della giustizia, dei beni e delle rendite, nominò Antonio Spitaleri governatore e giudice della città. Il 21 novembre 1617, con un accordo tra il priore del convento agostiniano, fra Michele di San Filippo, Antonio Spitaleri governatore di Centuripe e don Giuseppe Perdicaro, cappellano della città, si stabilì che quest’ultimo, non avendo nessuna chiesa a sua disposizione dove poter esercitare il suo ministero sacerdotale, poteva usufruire della piccola chiesa dei Padri Agostiniani. Nel frattempo con l’aumento della popolazione, i Padri del convento pensarono di lasciare le loro piccole e malconce abitazioni, scavate nella roccia, per costruirsi un convento ed una nuova chiesa più grande e capace di poter accogliere tanta gente. Il nuovo convento fu edificato tra il 1627 ed il 1628, sulle rovine della vecchia fortezza ed il santuario fu intitolato a “Santa Maria La Stella” dal nome della prima chiesetta costruita nella grotta. Era priore p. Stefano da Regalbuto. Però, il Vescovo di Catania, da cui dipendeva Centuripe, non credette opportuno far continuare l’amministrazione dei Sacramenti ai Padri Agostiniani e diede l’incarico ad un parroco. Intorno al 1638 p. Agostino da Sanfilippo fu il primo vicario foraneo, cioè un parroco fuori della città, inviato dal Vescovo, che giunse a Centuripe. Con la costruzione della nuova chiesa, la “Sacra Grotta” rimase per molti anni chiusa ed abbandonata. I Centuripini, che non avevano dimenticato quel luogo sacro, nel 1649 ottennero dal Vescovo il permesso di farvi celebrare di nuovo la Santa Messa, riaprendo così al culto quel Santuario, mèta di numerosi pellegrini provenienti anche dai paesi vicini. Sotto il pontificato di papa Innocenzo X, verso il 1662, furono soppressi molti conventi e ne rimasero solo diciassette; i religiosi furono chiamati nei paesi ad aiutare i parroci. Ricordiamo inoltre, che all’inizio tutti i conventi erano costruiti fuori delle città. Soltanto nel 1632 i monaci ottennero il permesso di poterli fondare dentro, ad eccezione del romitorio di Centorbi che rimase sempre dentro l’abitato. La “Congregazione Centorbana” contava i seguenti conventi: Santa Maria della Stella in Centorbi, Santa Domenica in Bideni (Vizzini), Sant’Antonio in Regalbuto, San Leonardo in Militello, San Calogero in Caccamo, Santa Maria in Artesina (EN), Santa Maria di Liccia (Castelbuono), Santa Maria dei Gulfi in Chiaromonte, Santa Maria della Consolazione in San Filippo di Agira, San Bartolomeo in Geraci, Santa Maria della Neve in Piazza, Santa Rosalia in San Michele di Ganzaria, Santa Maria in Castiglione, Sant’Ippolìto in Mineo (già in S. Basilio a quindici miglia), Santa Maria della Rocca in Monreale, Santa Maria della Grazia in Paternò, San Nicola in Mascali, e Santa Maria del Riposo in Francavilla Sicula (già in S. Adriano sul monte), Santa Maria della Sanità in Castelvetrano, SS. Marcellino e Pietro in Roma, poi, dopo il 1650, Sant’Agata la Pedata in Palermo, S. Giovanni Battista in Cattolica Eraclea e San Giuliano in Racalmuto. Questo lungo elenco ci fa capire quanto si sia propagata la Congregazione di fra Andrea del Guasto. Continuando con la nostra indagine storica, siamo giunti al 1671, quando a Centuripe, con l’aumento della popolazione, crebbe anche il numero delle parrocchie, che alla fine del XVII secolo arrivò a sei. Il 26 dicembre 1721 i Padri Agostiniani concessero agli esponenti dell’Arciconfraternita di Nostra Signora della Consolazione, prima chiamata dell’Innacolata Concezione, un pezzo di terreno adiacente alla loro chiesa maggiore “ad effetto di erigersi dai medesimi un Oratorio [per] colà esercitarvi dalli confrati suddetti tutti gli officii dovuti”. Nel 1728 il Vicario Generale della Congregazione chiese alla Santa Sede di essere autorizzato a poter cambiare l’abito “di tessuto siciliano con la sua tinta di vitriolo”, nocivo alla salute, per vestire come i Padri Agostiniani Scalzi “con tunica di saja leggiera e ferrajuolo di panno”. Quello stesso anno, il 20 gennaio, papa Benedetto XIII scrisse al generale dell’Ordine Bellisini ordinandogli di interessarsi affinché anche quei Padri si vestissero con un abito simile a quello degli Agostiniani Scalzi d’Italia. Il 12 febbraio il Generale dell’Ordine accettò quella proposta e i Padri di Centorbi cambiarono il loro abito. Nel 1757 il convento era abitato da tredici religiosi tra sacerdoti, chierici e laici. I Padri Agostiniani continuarono ad occuparsi del convento fino alla metà del XIX secolo, quando la Sicilia e, quindi, Centuripe entrarono a far parte del nuovo Regno d’Italia. Tra il 1866 e il 1867 furono soppressi gli Ordini religiosi ed incamerati dallo Stato i loro beni. Già nel gennaio del 1865 a Centuripe alcuni locali del convento furono adibiti a caserma dei Carabinieri. Successivamente, il 20 maggio 1867, i due Padri Agostiniani che vivevano nel monastero, furono costretti a cederlo allo stato. L’ex convento passò al municipio di Centuripe, che ne occupò i locali, tranne quelli adibiti come caserma. Uno dei Frati rimasti, l’ex priore don Francesco Lo Giudice si assunse il compito del mantenimento delle due chiese. Nel 1868 vi fu trasferita la biblioteca comunale e nel 1870 furono spostate le tre scuole comunali maschili. Il convento di Sant’Agostino, poi, fu sede del Municipio, della Pretura e di altri uffici comunali. Nel periodo fascista l’ex chiostro del convento, che era aperto da una parte, fu chiuso e si costruirono nuovi locali adibiti ad uffici e ad antiquarium comunale. In seguito il fabbricato ormai con i locali umidi e fatiscenti, fu demolito e ricostruito ex novo. Di quel convento ci rimane oggi soltanto la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’Agostino, con accanto l’oratorio.
ARCIPRETI E SACERDOTI NELLA SECONDA META’ DEL CINQUECENTO
Don Aloysio (Lisi) Provenzano
Questo sacerdote traspare dai registri di battesimo e di matrimonio della Matrice. Il suo ministero sembra discontinuo. Nel biennio 1575-1576 dovette avere funzioni di cappellano ed il suo nome si alterna con quello di don Vincenzo d’Averna negli atti di battesimo. Ancora nel 1581 è uno degli officianti della Matrice ed il 19 settembre 1581 battezza Paolino d’Asaro, fratello del pittore e futuro sacerdote racalmutese.
In tale veste compare sino al 1584, dopo subentrano altri cappellani come don Paolino Paladino e don Francesco Nicastro. Don Lisi Provenzano riappare successivamente nei documenti della Matrice, ma come teste nella celebrazione di matrimoni (ad es. il 28 settembre 1586) o come semplice padrino in battesimi (come quello di Francesco Castellana del 3.10.1587 ).
La sua presenza a Racalmuto è attestata sino al 1593 come da un atto di matrimonio, da cui però risulta che il Provenzano non è più cappellano della Matrice.
La figura di d. Lisi Provinzano emerge invero da un documento dell’Archivio Vescovile di Agrigento che risale al 31 ottobre 1556. Se ne ricavano alcuni tratti biografici. Ma soprattutto è la vita paesana a metà del XVI secolo che traspare. Val quindi la pena di riportarne alcuni brani.
Siamo stati supplicati da parte del Rev. presti Aloysio Crapanzano del tenor seguente: .. da parte del rev. presti Aloisio Provenzano della terra di Racalmuto, subdito della giurisdizione di V.S. ... In tempi passati venendo a morte lo condam ... di Salvo della ditta terra, fece il suo testamento agli atti dell’egregio condam notaro Vito Jandardoni et per quello inter alia capitula legao all’esponente pro Deo et eius anima et in satisfatione de suoi peccati tarì dudici anno quolibet sopra tutti li soi beni hereditari durante la vita di esso esponente per una missa da dovirisi diri in die lunae cuiusvis hebdomadis .. in ecclesia Sancti Francisci dictae terrae per ipse esponente. Et mancando, che tali tarì dudici li havissero li frati di ditto convento durante la vita di esso esponente, si como per ditto legato appare in ditto testamento fatto ni li atti de ditto notaro Vito 21 novembre iiij ind. 1545. Et perché lo esponente si trovao absenti da ditta terra alla morte del ditto testatore, che havea stato in Palermo et ad altri parti per soi negotij et non habbi mai notitia di tale legato et li frati di ditto convento quello si exigero con diri che ipsi voleano dire tali missa.
Appena saputa la faccenda del legato, il sacerdote si dichiara disponibile alla celebrazione della messa per l’anima del di Salvo. Ma i frati sono riluttanti e non consentono al Provenzano di celebrare quella messa nella chiesa del loro convento. Quindi il sacerdote si trova nell’impossibilità di adempiere all’obbligo nelle modalità volute dal testatore. Egli non può celebrare
ditta missa per la repugnantia di ditti frati in la loro ecclesia; pertanto supplica V.S. sia servita provvedere et comandare che ipso exponente possa satisfare la volontà di ditto defunto in diri la missa ogni lune cuiusvis hebdomadis in alcuna altra ecclesia in ditta terra di Racalmuto ben vista a V.S. Rev.da et comandare alli heredi di ditto defunto che di ditti tarì dudici anno quolibet staiono de rispondere et quelli dari allo esponente con la conditione ordinata e fatta per lo defunto che quando mancasse per sua colpa e defetto recada al ditto convento di santo Francesco. Et ita petit et supplicat. ..
Il vicario generale dell’epoca don Rainaldo dei Rainallis dà quindi disposizioni al vicario del luogo perché faccia un’inchiesta e ragguagli il vescovado.
Quel che emerge con chiarezza è dunque la vita piuttosto girovaga di questo nostro prete del Cinquecento che per affari si reca a Palermo ed in altre località ed è tanto affaccendato da non sapere neppure di un legato in suo favore. Non meraviglia certo che il di Salvo s’induca a lasciare a favore di questo sacerdote, durante vita, un legato di dodici tarì per una messa la settimana, il giorno di Lunedì, da celebrarsi nella chiesa di S. Francesco. Le disposizioni testamentarie pro Deo et anima in remissione dei propri peccati investivano i vari strati della popolazione. Non sorprende che i frati siano riluttanti a concedere il permesso di celebrare nella loro chiesa a sacerdoti secolari. Se messe di suffragio sono da dire, possono benissimo essere loro ad adempiere ogni volontà testamentaria al riguardo. Ovviamente percependone le elemosine. A chi abbia dato ragione il Vicario Generale, se ai frati o a d. Lisi Provenzano non sappiamo, ma propendiamo a credere che sia stato quest’ultimo a venire favorito. Non per nulla, qualche anno dopo il sacerdote si stabilisce a Racalmuto e qui svolge funzioni da cappellano.
Il documento è comunque importante perché ci fornisce qualche dato sul convento e sulla chiesa di S. Francesco. L’uno e l’altra erano dunque operanti da prima del 1545. Stanziano a Racalmuto padri francescani che dispongono della chiesa ed erano sottratti alla giurisdizione del vescovo agrigentino. Nella visita pastorale del 1540-43, il vescovo Tagliavia omette ogni riferimento ai francescani. Eppure abbiamo motivo di ritenere che essi fossero già insediati. Nel 1548 il convento possedeva una bottega in piazza e ciò risulta dalla bolla di riconoscimento della confraternita di S. Maria di Juso datata 21 maggio 1548 ( A.C.V.A. - Registro Vescovi 1547-48, p. 142).
Con i padri dell’Ordine dei Minori Conventuali di S. Francesco, ebbe dunque a confliggere don Lisi Provenzano attorno al 1556 per un legato del 1545. Il convento francescano precede quindi di almeno 15 anni il 1560, data ritenuta di fondazione dal Tossiniano. Al 1560 risale, invero, il testamento di Giovanni del Carretto che accenna alla chiesa di S. Francesco ed al convento ma in questi termini:
Del pari lo stesso spettabile Testatore volle e diede mandato al predetto d. Girolamo del Carretto, suo figlio primogenito ed erede particolare, di far celebrare delle messe nel convento di S. Francesco di detta terra. Inoltre dispone che sia costruita una cappella in un luogo da scegliersi in detta chiesa dal suddetto erede particolare ed a tal fine saranno da spendere 100 onze entro due anni dalla morte del testatore. La Cappella è da fabbricarsi per l’anima del predetto testatore e dei suoi predecessori.
Inoltre decide di venire sepolto nella chiesa di S. Francesco con l’abito francescano:
Item elegit eius corpus sepelliri in Ecclesia Sancti Francisci dictae Terrae indutus ordinis ditti Sancti Francisci et ita voluit, et mandavit.
Anche da qui emerge che S. Francesco esisteva da tempo.
Il Sac. Lisi Provenzano visse, dunque, gli anni del suo sacerdozio tra Palermo, altri luoghi e Racalmuto. Ordinato già nel 1545, all’epoca cioè del testamento del di Salvo, nacque a Racalmuto qualche tempo prima del 1520. Morì attorno al 1597.
Nel 1584 fa una donazione alla chiesa di S. Maria Inferiore (di Gesù) di tt. 6 annui, cedendo un censo annuo su una casa una volta appartenuta a Violante Petruzzella:
Actus donationis o. - 6.
Pro ven: Eccl. Sanctae Marie inferioris - cum p.ro Aloisio Provenzano.
Die xxiiij° septembris xiij^ ind. 1584
Reverendus presbiter Aloisius Provenzano de Racalmuto coram nobis mihi notario cognitus pro anima sua titulo donationis et omni alio meliori modo sponte cessit et cedit ven: Eccl. Sanctae Mariae Inferioris dictae terrae per eum Mattheo La Paxuta rettore mihi cognito omnia jura quae et quas habuit et habet in et super tt. 6 census quolibet anno solvendi contra magistrum Joseph Cachiatore super domo olim Violantis Petrocella virtute contractus facti in actis meis die etc.
Testes m.j Joseph Lomia et Jacobus de Poma.
Arciprete Gerlando D’Averna
Con bolla pontificia del 13 novembre 1561 ( Archivio Segreto Vaticano - Registri Vaticano - Bolla n.° 1911 - f. 211 e ss.), Pio IV nomina arciprete di Racalmuto don Gerlando D’Averna (chiamato nel documento Giurlando de Averna). La bolla viene indirizzata al diletto figlio, arciprete e rettore della chiesa di S. Antonio di Racalmuto, diocesi di Agrigento.
Pius episcopus servus servorum Dei. Dilecto filio Giurlando de Averna rectori archipresbitero nuncupato parrochialis ecclesiae archipresbiteratus nuncupatae Sancti Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis, salutem et apostolicam benedictionem.
E’ del tutto rituale l’apprezzamento che giustifica la concessione papale del lontano beneficio dell’arcipretura racalmutese, ma è pur sempre un riconoscimento di meriti:
Vitae ac morum honestas aliaque laudabilia probitatis et virtutum merita, super quibus apud nos fide digno commendaris testimonio, nos inducunt ut tibi reddamur ad gratiam liberalem.
Ci appare oggi strano come una prebenda così striminzita fosse di concessione pontificia. All’epoca era invece una consuetudine ed il papa mostra di esserne un custode geloso et attento. Ne fa accenno nel corpo della stessa bolla, dichiarando illegittima ogni usurpazione da parte di qualsiasi autorità:
Dudum siquidem omnia beneficia ecclesiastica cum cura et sine cura apud Sedem apostolicam tunc vacantia et in antea vacatura collationi et dispositioni nostrae reservavimus, decernentes ex tunc irritum et inane si secus super hijs a quacumque quavis auctoritate scienter vel ingnoranter contingeret attemptari.
In un siffatto quadro giuridico si colloca, dunque, il beneficio di Racalmuto, un beneficio che, comunque, tal Sallustio - già rettore ed arciprete di Racalmuto - non ha reputato utile mantenere e l’ha restituito nelle mani del Papa.
Et de inde parrochiali ecclesia archipresbiteratus nuncupata Sancti Antonij terrae Rachalmuti Agrigentinae diocesis per liberam resignationem dilecti filij Salustij humilissimi nuper ipsius ecclesiae rectoris archipresbiteri nuncupati, de illa quam tunc obtinebat in manibus nostris sponte factam et per nos admissam apud Sedem predictam vacantem.
L’arcipretura di Racalmuto, cui rinuncia anche il chierico Cesare, viene alla fine assegnata al D’Averna per i suoi meriti:.
Noi, quindi vogliamo concederti una speciale grazia per i tuoi premessi meriti, e assolvendoti da ogni eventuale censura, disponiamo che tu ottenga tutti i singoli benefici ecclesiastici con cura e senza cura (d’anime) e tutto quanto ti compete in qualsiasi modo, comunque e per qualsiasi quantità; ed in particolare gli annessi frutti, redditi e proventi che costituiscono una pensione annua di 24 scudi d’oro italiani secondo la ricognizione fatta dalla Santa Sede quando ebbe ad accordarla al predetto Sallustio, pensione che in ogni caso non supera i sessanta ducati d’oro come tu stesso affermi.
E vogliamo ciò anche se sussiste una qualche riforma insita nel corpo delle leggi visto che la predetta chiesa è riservata alla disponibilità apostolica in forma speciale e generale.
Pertanto ti conferiamo il beneficio con l’autorità apostolica che ci compete, giudicando irrituale ed inefficace ogni altra contraria decisione di qualsiasi autorità che abbia ritenuto di poterne disporre, scientemente o per ignoranza. E ciò vale anche verso chi tenterà in futuro di arrogarsi poteri dispositivi.
Intorno a quanto precede, diamo mandato per iscritto ai venerabili fratelli nostri, i vescovi Amerin/ e Muran/ nonché al diletto Vicario del venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento, affinché loro due o uno di loro, direttamente o per il tramite di qualcuno introducano Te o un tuo procuratore nel materiale possesso della chiesa parrocchiale e degli annessi diritti e pertinenze e lo facciano per la nostra autorità. Non manchino, altresì, di difenderti, dopo avere rimosso qualsiasi altro detentore, facendoti dare integro il resoconto della chiesa parrocchiale e degli annessi frutti, redditi, proventi e doti. A ciò non osti qualsiasi contraria costituzione di papa Bonifacio Ottavo, di pia memoria, nostro predecessore, né ogni altra decisione apostolica. Del pari, nessuno può richiedere per sé o per il proprio legato un qualche diritto di omaggio o un qualunque beneficio ecclesiastico in base a lettere o in forma speciale o generale, anche nel caso in cui vi sia stato un processo e sia stato emesso decreto riformatore.
Vogliamo che tu comunque entri in possesso di detta chiesa parrocchiale, senza pregiudizio alcuno degli annessi benefici. Se qualcuno dovesse tentare presso il venerabile fratello nostro, il vescovo di Agrigento o presso chiunque altro che sia stato dalla Sede apostolica dotato in comunione o frazionatamente nei beni della chiesa, non gli si accordi costrizione o interdetto o sospensione o scomunica. Resta ribadito che quanto ad omaggi, benefici ecclesiastici, relativa collazione, provvisione, presentazione e qualsivoglia altra disposizione, sia congiuntamente che separatamente, non può provvedersi per lettera apostolica che non faccia piena ed espressa menzione, parola per parola, alla presente, la quale ha forza di annullare qualsiasi altra indulgenza, generale e speciale, di qualsiasi tenore della Sede apostolica.
La complessità della bolla invero illumina poco sulle peculiarità parrocchiali della Matrice del tempo. V’è un rigonfiamento di formule curiali, del tutto sproporzionato alla esiguità dell’affare.
L’arc. D’Averna non pare essere racalmutese. Sembra venire da Agrigento. E’ un po' nepotista. Con lui si sistema a Racalmuto il sac. d. Vincenzo d’Averna che è anche cappellano. Appare un vicario a nome don Giuseppe d’Averna. Fa capolino un chierico: Orlando d’Averna.
Come arciprete, lo riscontriamo con una certa assiduità negli atti di battesimo dal 12.11.1570 sino al 5.7.1571; poi appare sporadicamente. Non abbiamo, però, serie complete di atti di battesimo: il primo quinterno è incerto se si riferisce al 1554 o al 1564. Si salta, poi al 1570-71-72 e quindi al 1575-1576. Quindi il vuoto sino al 1584.
L’arc. Gerlando d’Averna figura ancora il 24 di maggio 1576 in questo atto di battesimo - ed è l’ultima testimonianza di cui disponiamo:
24 5 1576 Joannella figlia di Barbarino Vella (di)e diPalma;
madrina: Juannella di Rotulu;officiante: Don Gerlando di Averna.
Va, quindi, fugato il sospetto che, ricevuto il beneficio dal papa, egli abbia soltanto percepito i proventi della sua arcipretura e per il resto se ne sia stato lontano. La sua arcipretura sembra durare oltre 18 anni: è, infatti, nel 1579 che subentra l’arc. Michele Romano.
Don Vincenzo D’Averna
Ci sembra un parente dell’arciprete d. Gerlando D’Averna, ma non abbiamo prova alcuna ove si eccettui una qualche singolare coincidenza. Sicuramente non era racalmutese. E’ cappellano della matrice a partire dal luglio del 1571. I salti della documentazione parrocchiale ci impediscono di sapere sino a quando operò assiduamente. Comunque, stando agli atti di battesimo disponibili, nel successivo periodo che decorre dal 6.11.1575 sino al 21.5.1576 è il sacerdote officiante in n.° 76 funzioni battesimali. Dopo quella data non lo s’incontra più, ma vanno tenute presenti le interruzioni che si riscontrano per quel periodo nell’archivio della matrice. Don Vincenzo D’Averna non appare nel “liber” della parrocchia: ovviamente già nel 1636 si era perso il ricordo di quel cappellano.
Don Giuseppe D’Averna
Appare per la prima volta in un atto notarile della confraternita di S. Maria Inferiore del 31 agosto 1578:
Terrae Racalmuti Die xxxi° augusti vj ind. 1578. - Notum facimus et testamur quod Reverendus pater Joseph d’Averna cappellanus, Antoninus de Acquista; Jo Grillo et Vincentius Macalusio rectores venerabilis ecclesiae Sanctae Mariae Inferioris ...
Nel 1580 fa da padrino di battesimo a Vincenza Stincuni:
14 2 1580 Vincentia di Gerlando Stincuni e Angela; lo q. don Joseph di Averna la q. Betta la Carretta'.
E’ poi assiduo come cappellano sino alla data della sua morte che il ‘Liber’ segna sotto la data del 26 ottobre del 1600 (Liber in quo adnotata .. cit. col. 1. n.° 13). Una malcerta annotazione sembra indicarlo come Vicario Foraneo, ma è indizio troppo dubbio per essere certi che abbia ricoperto tale importante carica. Comunque è presente nei battesimi dei figli degli ottimati locali come quello di
3 7 1598 Margarita donna di Geronimo don Russo e di donna Elisabetta del Carretto, per don Gioseppe d'Averna; patrini Vinc. Piamontese et soro Gioanna Piamontese
Elisabetta del Carretto era figlia di Giovanni del Carretto, conte di Racalmuto e di donna Caterina de Silvestro. Ella fu legittimata il 12 novembre del 1587.
Giovanni del Carretto, fa sposare la figlia, attorno al 1590, con il nobile Girolamo Russo. Costui figura come governatore del castello di Racalmuto nell’ultimo scorcio del secolo. Un’eco affiora in certo carteggio scambiato tra il vescovo di Agrigento Horozco Covarruvias e la Santa Sede, come si è visto nello stralcio di un documento vaticano sopra richiamato.
Clerico Blasi Averna
Tra il 1579 ed il 1581fa capolino negli atti parrocchiali tal Clerico Blasi Averna. Di lui non fa menzione il “Liber”: era dunque sparito persino dal ricordo nel 1636. Nel rivelo del 1593 figura tal Blasi Averna, ma è un ragazzo di 22 anni che vive con la madre Vincenza nel quartiere di S. Giuliano: non ha dunque nulla a che vedere con il chierico in questione. Costui sposerà nel gennaio del 1601 Agata Mastrosimone, come da seguente trascrizione della Matrice:
7 1 1601 Averna Blasi di Antonino q.am e di Vicenza q.am con Mastro Simuni Gatuzza di Nicolao q.am e di Francesca; testi: Muntiliuni cl. Jac. e Gulpi Antonino: Benedice il sac.Macaluso Jo:
Don Monserrato d’Agrò.
Compare come cappellano della Matrice attorno al 1579, agli esordi dell’arcipretura Romano, e la sua missione sacerdotale, in subordine all’arciprete, dura sino al 1594. Sotto la data del 30 aprile 1595 lo incontriamo negli atti della chiesa di S. Maria di Gesù, di cui è divenuto cappellano. Nel coevo atto di assegnazione di un’onza di reddito da parte dei fratelli Vincenzo e Giacomo d’Agrò per avere in cambio la concessione di sepoltura nella medesima chiesa, don Monserrato d’Agrò fornisce il suo benestare nella cennata veste di cappellano:
Praesente ad haec omnia et singula praesbyter Monserrato de Agrò, mihi etiam notario cognito et stipulante pro dicta ecclesia uti eius cappellano et se contentante de praesente attu et omnibus in eo contractis et declaratis et non aliter.
Ma negli ultimi giorni di agosto dell’anno successivo è già infermo e si accinge a fare testamento. Il suo attaccamento alla chiesa di S. Maria di Gesù è tale da presceglierla quale luogo della sua tumulazione. A tal fine assegna una rendita annua di un’onza e 3 tarì.
In un atto della chiesa del 12 settembre 1596 viene formalizzato il contratto di concessione in termini che sono uno spaccato del vivere civile e religioso dei racalmutesi dell’epoca.
Sappiamo dal rivelo del 1593 che a quel tempo il sacerdote aveva 45 anni. Era nato dunque attorno al 1548. Muore giovane, all’età di 48 anni. Abitava, apparentemente da solo, nel quartiere della Fontana come da questa nota del rivelo del 1593:
3 149 AGRO' (DI) PRESTI MONSERRATO [Sac:] CAPO DI CASA DI ANNI 45
La cappella desiderata da don Monserrato sorse nella chiesa di S. Maria vicino a quella di S. Maria dell’Itria e di fronte all’altra ove era raffigurata l’immagine di S. Francesco di Paola (intus dictam ecclesiam Sanctae Mariae Majoris prope Cappellam Sanctae Mariae Itriae in frontispicio cappellae Imaginis Sancti Francisci de Paula...). Risulta che questa fu dedicata a S. Michele Arcangelo ( nell’atto del 1604 si parla, infatti della dote Cappellae Sancti Michaelis Arcangeli condam presbiteri Monserrati de Agrò).
Per quel che ci dice il Rollo della confraternita di S. Maria di Gesù, don Monserrato aveva almeno quattro nipoti di cui si ricorda nel testamento:
Est sciendum quod inter alia capitula donationis causa mortis facta per condam don Monserrato de Agrò Paulino, Natali, Joseph et Joannelle de Agrò eius nepotibus est infrascriptum capitulum tenoris ....
Il nipote Paolino d’Agrò risulta figlio di quel Simone d’Agrò che approvò la transazione feudale con il conte Girolamo del Carretto nel 1581 (è il 229° dei presenti nella chiesa maggiore di Racalmuto che diedero l’assenso il giorno 15 gennaio 1581). Don Monserrato si limiterà ad apporre la sua firma come teste.
I primi cappellani:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il più antico quinterno di atti battesimali della Matrice è composto di n.° 26 colonne. In alcune parti è indicata la data del 1554 (ad esempio 24 di augusto 1554 o die Xbris 1554) in altre 1563 (adi 9 januarii 1563) ed in altre ancora 1564 (junii VII ind. 1564). Non è facile districarvisi. A noi comunque sembra che le date sia apocrife, aggiunte successivamente. In effetti il fascicolo dovrebbe essere datato 1563-64, settima indizione anticipata.
Vi vengono segnati i sacerdoti che celebrano il battesimo. Sono costoro i cappellani della Matrice (operante nella chiesa di S. Antonio). Non riscontriamo mai la presenza dell’arciprete (né don Gerlando d’Averna, né quello che si considera il suo predecessore, don Tommaso Sciarrabba (“Arciprete e canonico della cattedrale di Girgenti anno 1553”, annota il Liber citato, c. 1 n.° 2).
I cappellani officianti risultano:
don Vincenzo Colichia;
don Antonino La Matina;
don Dionisi Lombardo;
don Antonio Castagna.
Il primo atto di battesimo della Matrice di Racalmuto
Anno 1554 Viene Battezzato il figlio di Gilormo La Licata Inferno
Il sacerdote celebrante è il rev. Presti Vincenzo Colicchia
La maggior frequenza si registra per don Vincenzo Colichia e per don Dionisi Lombardo. Entrambi vengono segnati con il titolo di “presti” (prete). Di nessuno di loro si fa il più vago cenno nel “Liber”. Nella successiva documentazione del 1570/71, riappare soltanto il cappellano don Antonino La Matina.
I cappellani del periodo successivo (1570/1571):
Don Vincenzo d’Averna;
Don Jo Cacciatore;
Don Antonino D’Auria;
Don Giuseppe Garambula;
Don Antonino La Matina;
Don Filippo Macina.
E’ il periodo centrale dell’arcipretura di don Gerlando D’Averna che spesso presiede alla funzione battesimale. Su don Vincenzo d’Averna ci siamo già abbondantemente soffermati. Abbiamo pure accennato a don Antonino La Matina, presente negli atti del periodo precedente del 1564 (o giù di lì). Sul D’Auria, Cacciatore e Garambula non disponiamo di altri dati. Fra tutti questi cappellani, il solo ricordato dal Liber è don Filippo Macina (c. 1 n.° 8). Stando ai cognomi, il D’Auria, il La Matina e Jo Cacciatore possono essere stati benissimo indigeni. Il Macina ed il Garambula appaiono oriundi.
I cappellani del periodo 1575/76
Don Vincenzo d’Averna;
don Lisi Provenzano.
I salti della documentazione disponibile ci portano a questa quarta indizione anticipata (1575/76). I battesimi vengono ora suddivisi solo tra il d’Averna ed il Provenzano. Su entrambi ci siamo dilungati in precedenza. Arciprete di Racalmuto è ancora don Gerlando d’Averna
I cappellani del periodo 1579/1582:
Don Michele Abate;
Don Monserrato d’Agrò;
Don Lisi Provenzano;
Don Giuseppe d’Averna.
Nei fascicoli dei battesimi del 1579 appare segnato come arciprete Don Michele Romano, dottore in sacra teologia (S.T.D.). Nel Liber vengono citati Abbate (n.° 24), Monserrato d’Agrò (n.° 7) , Giuseppe d’Averna (n.° 13) e naturalmente l’arc. Romano ( n.° 4). Il Provenzano è segnato come diacono (n.° 18) non si sa se per errore o perché c’era veramente un diacono Luigi Provenzano morto il 20 luglio 1600.
I cappellani del periodo 1583/84:
Don Monserrato d’Agrò;
Don Francesco Nicastro;
Don Paolino Paladino;
Don Lisi Provenzano.
Arciprete del tempo è don Michele Romano che appare in qualche battesimo. Rispetto al precedente periodo appaiono per la prima volta don Francesco Nicastro e don Paolino Paladino: entrambi sono annotati nel Liber, ma senza alcun altro dato all’infuori del nome e cognome.
Don Giuseppe Romano
Annotato nel Liber (c. 1 n.° 17) si riscontra solamente in questa nota a margine del libro parrocchiale delle trascrizioni dei matrimoni 1582-1600:
Die 24 ottobris Xa ind.s 1597, mi detti lu cunto don Leonardo Spalletta delli sponczalicii a mia don Joseppi Romano come procuraturi di mons.r ill.mo.
L’arc. don Michele Romano era morto solo da poco tempo (28 luglio 1597). Che vi sia un qualche vincolo di parentela, è congetturabile.
Arciprete Michele Romano
Ha tutta l’aria di essere il primo arciprete d’origine racalmutese. Insediatosi attorno al 1579, succede a don Gerlando d’Averna. Muore il 28 luglio 1597, prossimo al suo ventennio di arcipretura. Ebbe forse ad acquisire un discreto patrimonio, fatto sta che il vescovo Horozco intenta una lite al conte del Carretto per rivendicare i beni successori del defunto arciprete Romano. Il Vescovo ne fa cenno in una sua difesa inviata al Vaticano, ove fra l’altro si legge:
« [.....]Il detto Conte di Raxhalmuto per respetto che s’ha voluto occupare la spoglia[1] del arciprete morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante à detta Ecclesia, per la qual causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come se l’have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione ecclesiastica con lo regitor di detto Regno. »
A distanza di secoli non è facile sapere chi avesse ragione. Di certo, il Romano durante la sua vita non si mostra contrario ai Del Carretto. Sul punto di morte è persino propenso a favorire il conte facendogli - a dire del vescovo - «certi testamenti et atti fittizij, falsi e litigiosi».
L’arciprete Romano deve vedersela con il primo conte di Racalmuto, Girolamo del Carretto - divenuto tale nel 1576 - e, dopo il 9 agosto 1583, con il successore, l’avventuroso Giovanni del Carretto, che finirà trucidato a Palermo il 5 maggio 1608. Entrambi furono però signori di Racalmuto che amarono starsene a Palermo. L’arciprete Romano ebbe a che fare più con gli amministratori comitali, quali Cesare del Carretto e Girolamo Russo, che non con gli altezzosi titolari. E l’intesa sembra essere stata buona, anche quando si trattò di stabilire, nel 1581, oneri e tributi di vassallaggio.
Quando scende a Racalmuto un parente dei del Carretto per battezzare il figlio di un personaggio eccellente, in quel tempo operante nella contea, l’arc. Romano è ovviamente presente:
“Adi 9 marzo VIe Indiz. 1593 Diego figlio del s.or Gioseppi e Caterina di VUO fu batt.o per me don Michele Romano archipr.te - il Compare fu l'Ill'S.or Don Baldassaro del CARRETTO - la Conbare l'Ill'S.ora Donna Maria del Carretto''
In ogni caso, nei raduni del popolo, chiamato ad avallare gravami tributari, l’arciprete si mantiene, almeno formalmente, al di sopra delle parti e non appare neppure come teste.
Arciprete Alessandro Capoccio
Il Vescovo Horozco lo nominò arciprete di Racalmuto nell’estate del 1598. Il Capoccio aveva vari incarichi presso la Curia Vescovile di Agrigento e non aveva tempo di raggiungere la sede dell’arcipretura: mandò due suoi rappresentanti, muniti di formalissimi atti notarili. Presso la Matrice può leggersi questa nota apposta al margine di un atto matrimoniale:
«DIE 16 Julii XIe Indi.nis 1598: ''Pigliao la possessioni don Vito BELLISGUARDI et don Antonino d'AMATO (?) procuratori di don Lexandro Capozza p. l'arcipretato di Racalmuto come appare per atto plubico''.» (cfr. Atti della Matrice: STATO DI FAMIGLIA - M A T R I M O N I - 1582-1600 )
Tre anni prima, don Alexandro Capocho era stato inviato a Roma, al posto del Covarruvias, per presentare la prima relazione 'ad limina' dei Vescovi di Agrigento al Papa[2]. Nell'atto di delega del 12 settembre 1595 "Don Alexandro Cappocio' viene indicato come "Sacrae theologie professor eiusque [del vescovo] Secretarius”.
In Vaticano si conserva il processo concistoriale di quel vescovo (Archivio Vaticano Segreto - Processus Concistorialis - anno 1594 - vol. I - (Agrigento) - ff. 30-62.). La testimonianza del Capoccio è, a dire il vero, schietta e per niente compiacente (f. 36v e 37).
Sintetizzando e traducendo dallo spagnolo ricaviamo questi dati:
«Depone il dottor Don Alexandro Capocho, suddiacono naturale del Regno di Napoli e residente per il momento in questa corte. Egli testimonia che conosce il detto signor Don Juan de Horoczo y Covarruvias di vista e solo da due mesi, poco più poco meno, e di non essere né familiare né parente dell’ Horozco».
Salta quindi ben dodici domande che attenevano alle origini ed alla vita del futuro vescovo. La sua testimonianza è quindi molto minuziosa sulla Cattedrale di Agrigento (circostanza che non ci pare qui conferente). ‘Conosceva piuttosto bene Agrigento per esservi stato due anni, poco più poco meno’.
Per quanto tempo il Capoccio sia stato arciprete di Racalmuto, s’ignora. Sappiamo che subentrò l'Argumento, nominato nel marzo del 1600.[3] Quel che appare sicuro è che l’arciprete Capoccio non fu presente in alcun atto di battesimo o nella celebrazione di un qualsiasi matrimonio nella parrocchia racalmutese di cui per un biennio fu titolare. A sostituirlo nelle incombenze pastorali fu di certo don Leonardo Spalletta, il cappellano di cui gli atti parrocchiali testimoniano zelo ed assidua presenza.
I CONVENTI DI RACALMUTO NEL ‘500
CENNI INTRODUTTIVI
Non crediamo che vi siano stati conventi a Racalmuto nei primi quarant’anni del ‘500: solo attorno al 1545 è di sicuro operante il convento di S. Francesco, ove erano insediati i padri francescani dell’Ordine dei Minori Conventuali. In certi documenti vescovili che riguardano il sac. don Lisi Provenzano abbiamo rinvenuto elementi tali da suffragare questa antica datazione del convento. L’altro cenobio che appare alla fine del secolo, quello dei carmelitani, sorge all’incirca verso il 1575 se diamo credito alla lapide dell’avello del primo priore padre Paolo Fanara, quale ancora si legge nella chiesa del Carmelo (la chiesa sembra invece essere esistita già dal tempo della visita del Tagliavia nel 1540 ed è citata nel testamento del barone Giovanni del Carretto).
Giovan Luca Barberi parla di un convento benedettino presso Racalmuto, ma gli ereduti locali negli ultimi tempi sono propensi a ritenere che il chiostro fosse quello di S. Benedetto, in territorio di Favara.
Quanto all’altro convento francescano, quello dei Minori di Regolare Osservanza, esso, seppure se ne parla già nel 1598, inizia la sua attività nei primi anni del ‘600.
Per tutto il Cinquecento non vi sono conventi femminili a Racalmuto. Il primo - quello di S. Chiara - comincerà ad operare verso il 1645.
Convento di S. Francesco.
Sappiamo con certezza che il 21 novembre 1545 il convento di S. Francesco era operante. Noi pensiamo che sin dagli esordi furono i padri minori conventuali ad occupare il convento, sotto l’egida di Giovanni del Carretto. Pietro Rodolfo Tossiniano, vescovo di Senigallia, accenna a questo convento racalmutese nel libro 2° della sua Historia Serafica. Il maltese Filippo Cagliola nel 1644, fa un discorso un poco più articolato e, descrivendo le “Almae sicilienses Provinciae ordinis Minorum Conventualium S. Francisci”, prende in considerazione anche Racalmuto in questi termini:
LOCUS RACALMUTI [custodia agrigentina]. suae fondationis certam non habet notam, cum scripturas omnes grassantis pestis insumpserit lues. Quam ob rem annus 1576 a THOSSINIANO inscriptus, ad reparationem Ecclesiae, post eliminatum languorem, non ad fundationem referendus; pugnaret siquidem secum Auctor, qui a Comite Ioanne, certam pecuniam pro Ecclesia reparatione, legatam asserit, anno 1560. Ecclesia denuo excitata, imperfecta iacet, locus iuxta arcem a Friderico Claramontano constructa, situs amoenus, qui fabricis non spernendis incrementa suscepit. Ecclesia Divo Francisco dicata.[4]
Dunque non era nota la data di fondazione, per la distruzione dell’archivio nel tempo della grande peste del 1576. Questo stesso anno viene indicato dal Tossiniano come data di fondazione, subito dopo la cessazione del flagello. Ma questi cade in contraddizione con se stesso, dato che afferma che il conte Giovanni [invero era barone] ebbe a lasciare una certa somma nel 1560 per riparare la chiesa. La chiesa, invero, di nuovo eretta, giace ora incompleta vicino al castello edificato da Federico Chiaramonte, in un luogo ameno e con un notevole chiostro. Essa è dedicata a S. Francesco.
Il barone Giovanni del Carretto, a dire il vero non aveva tanto pensato alla chiesa ma alla sua tomba. Egli lasciò cento onze per la sua cappella tombale. Ed altri mezzi per la celebrazione di messe in Conventu Sancti Francisci dictae Terrae, che dunque nel 1560 era attivo.
Francescani conventuali nel 1593
Da una ricerca del prof. Giuseppe Nalbone risulta che nel 1593 stanziassero a S. Francesco i seguenti religiosi:
1
|
1593
|
COLA ANDREA
|
GAITANO
|
PADRE PRIORE
|
2
|
1593
|
GIOVANNIANTONIO
|
TODISCO
|
FRA
|
3
|
1593
|
SEBASTIANO
|
D ' ALAIMO
|
FRA
|
4
|
1593
|
FRANCESCO
|
BARBERIO
|
FRA
|
5
|
1593
|
GIO
|
BARBA
|
FRA
|
6
|
1593
|
LODOVICO
|
DI SALVO
|
FRA
|
7
|
1593
|
GIUSEPPE
|
LA MATINA
|
FRA
|
Francamente non conosciamo granché di tutti questi francescani: abbiamo, ad esempio, alcuni accenni nell’atto di donazione di quel singolare personaggio che fu Antonella Morreale, rimasta vedova piuttosto giovane di Leonardo La Licata. Il rogito è datato 9 gennaio 1596 e ad un certo punto stabilisce:
Et voluit et mandavit ditta donatrix quod dittus Jacobus donatarius ...debeat ac teneatur supra dicto ut supra donato solvere uncias decem po: ge: in pecunia fratri Lodovico de Salvo ordinis Sancti Francisci, filio magistri Rogerij consanguineo dittae donatricis infra annos duos cursuros et numerandos a die mortis dittae donatricis in antea hoc est anno quolibet in fine unc. unam in pacem pro vestito ispius Lodovici pro Deo et eius anima ipsius donatricis et solutis dictis unc. 10 ut supra dictus Jacobus de Poma donatarius per se et successores teneatur et debat pro dittis unc. decem anno quolibet in perpetuum solvere unciam unam redditus supra dicto loco de supra donato dicto ven.li conventui Sancti Francisci dictae Terrae Racalmuti eiusque guardiano mentionato pro eo et successoribus in ipso conventu in perpetuum legitime stipulante in quolibet ultimo die mensis augusti cuiuslibet anni incipiendo solvere anno quolibet in perpetuum pro Deo et eius anima ipsius donatricis pro celebratione tot missarum celebrandarum per fratres dicti ven. conventus
Fra Ludovico de Salvo era dunque un consanguineo della Morreale. Nella donazione si parla di sussidi per il suo vestiario. Per le messe v’è un altro legato di un’oncia annua in favore del padre guardiano.
Il guardiano padre Cola Andrea Gaitano
La Morreale si ricorda di questo priore anche a proposito della sistemazione della non chiara vicenda del lascito da parte del marito di un vestito appartenente a don Cesare del Carretto. In dialetto, ella dispone piuttosto prolissamente che:
Item ipsa donatrix pro Deo et eius anima ac pro anima ditti condam Leonardi olim eius viri titulo donationis preditte post mortem ipsius donatricis ... donavit et donat ditto ven. conventui Sancti Francisci ditte terre uti dicitur: una robba di donna di villuto russo chiaro con li soi passamanu di oro, quali robba ditta donatrichi teni in potiri suo in pegno del sig. don Cesaro il Carretto, la somma dello quali pignorationi ipsa donatrici non si recorda, per tanto essa donatrici voli chè si il detto del Carretto paghira ditto conventu seu suo guardiano la reali summa per la quali robba fui inpignorata, chè in tali casu lu guardiano di detto convento chè tunc forte serra sia tenuto restituiri ditta robba a ditto del Carretto et casu chè il detto del Carretto non si recapitassi detta robba oyvero non declarira la summa per la quali detta robba sta pignorata voli la detta donatrichi chè lu guardiano di detto convento habbia di obtenere lettere di executione et per quella somma chè serra revelato il detto guardiano debbea detta robba per detta somma ad altri personi inpignorarla et quelli denari convertirli et expenderli in subsidio et bisogno di detto conventi et fari diri tanti missi per l’anima di detta donatrici et il ditto condam Leonardo per li frati di detto convento et quoniam sic voluit ditta donatrix et non aliter nec alio modo.
Il nome del padre guardiano doveva essere padre Cola Andrea Gaitano: non è certamente racalmutese, mentre originari del paese appaiono tutti gli altri sei fraticelli.
Fra Ludovico de Salvo
La famiglia cui apparteneva fra Ludovico Salvo è così censita nel rivelo del 1593:
36
|
360
|
Salvo (de) Mg. Ruggero, soldato anni 45
|
Nora de Salvo moglie; Santo anni 14; Ludovico 11; Francesco 7; Ivella; Caterina; Vincenza
|
confina con La Lattuca Paulino
|
abita al Monte
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Nel 1602 consegue i quattro ordini minori e pare che non sia andato oltre. Un’annotazione del vescovo Bonincontro del 1608 farebbe pensare che fra Ludovico abbia lasciato il convento e si sia secolarizzato. Lo troviamo infatti fra i chierici sottoposti alla giurisdizione dell’ordinario diocesano:
Ludovico di Salvo an 26 cons. ad 4 m. ord. die 23 martii 1602 ... S. Francisci
Fra Ludovico era nato a Racalmuto nel 1581 come da questo atto di battesimo:
19
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7
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1581
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Lodovico
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Rogieri m.o
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Salvo
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Nora
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Fra Sebastiano d’Alaimo
Semplice frate nel 1593 ricevette sicuramente gli ordini sacerdotali. Nella visita del 1608 viene autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater Sebastianus de Alaimo ordinis S.ti Francisci Convent. ad sex menses
Risulta dai Rolli di S. Maria quale teste in un atto del 28 ottobre 1597. Null’altro ci è dato di sapere su questo francescano, sicuramente racalmutese.
Il Convento del Carmine.
Per il Pirro questo convento è nobile ed antico ed ai suoi tempi (1540) contava 10 religiosi con 108 onze di reddito. Ne era stato solerte priore per 46 anni il racalmutese fra Paolo Fanara. La lapide del suo sepolcro fornisce questi dati biografici:
Paolo Fanara innalzò, accrebbe e decorò, dotandolo d’immagini, questo tempio; curò l’edificazione del convento con somma operosità. Visse 71 anni e nell’anno della salvezza 1621, dopo 41 anni di priorato, morì nella pace sel Signore.
Fra Paolo Fanara nacque dunque nel 1550; nel 1575 diviene priore del cenobio carmelitano di cui è fondatore a Racalmuto. Il convento viene edificato accanto alla chiesa periferica del Carmelo, che stando ai documenti disponibili sorgeva invero da tempo, a dir poco dal 1540.
La chiesa, invero, sembra in costruzione al tempo della morte del barone Giovanni del Carretto che così ne accenna nel suo testamento:
Item praefatus Dominus Testator dixit expendisse unceas centum triginta in emptione lignaminum et tabularum facta per Magistrum Paulum Monreale, et per Magistrum Jacobum de Valenti, de quibus dominus Testator consequutus fuit nonnullas tabulas, et lignamina; voluit propterea, et mandavit quod debeat fieri computum per dictum spectabilem D. Hieronymum heredem particularem, et faciendo bonas uncias viginti septem solutas Ecclesiae Sanctae Mariae de Jesu, et uncias undecim solutas pro raubis; de residuo tabularum et lignaminum compleri debeat tectum Ecclesiae Sanctae Mariae di lu Carminu dictae Terrae Racalmuti, et voluit quod debeat expendere unceas quindecim in pecunia in dicto tecto, et ita voluit, et mandavit, et hoc infra terminum annorum trium.
Nel 1560, dunque, la chiesa di Santa Maria del Carmelo era a buon punto e doveva soltanto completarsi il tetto, cosa che andava fatta entro tre anni. Non è attendibile quindi quel che dice l’avello del p. Fanara, quanto alla chiesa. Certo dopo il 1575 fra Paolo non mancò di farvi fare opere murarie e migliorie ed a ciò è da pensare che si riferisca l’iscrizione della lapide.
I carmelitani racalmutesi del secolo XVI
Nel rivelo del 1593, questo era l’orrganico del cenobio carmelitano racalmutese:
1
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1593
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PAULO
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FANARA
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PADRE PRIORE
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2
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1593
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RUBERTO
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COSTA
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PADRE
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3
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1593
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SALVATORE
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RICCIO
|
FRA
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4
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1593
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FRANCESCO
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SFERRAZZA
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FRA
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5
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1593
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ANGELO
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CASUCHIO
|
FRA
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6
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1593
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GEREMIA
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RUSSO
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FRA
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7
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1593
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GIUSEPPI
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RAGUSA
|
FRA
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8
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1593
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ZACCARIA
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RICCIO
|
FRA
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Fra Paolo Fanara
Nella visita del Bonincontro del 1608 il priore del carmelo è ricardato fugacemente come confessore approvatoed indicato semplicemente come “fra Paulo di Racalmuto padre giardiano del Carmine”.
Fra Paolo fu molto attivo anche nelle faccende sociali. Lo incontriamo in un documento del 1614[5] in cui si briga per consentire una “fera franca” in occasione della festività della Madonna del Carmine.
«Ill.mo Signor Conte di questa terra. Fra Paulo Fanara priore del Convento del Carmine di questa terra, dice a V.S. Ill.ma che per devotione et decoro della festività della Madonna del Carmine quali viene alla terza domenica di giugnetto [luglio] resti servita V.S. Ill.ma concedere ché ogn’anno per otto giorni cioe quattro inanti detta festa et quattro poi, si possa inanti detto convento farci la fera franca di quella di Santa Margarita la quale si transportao in lo conventu di Santa Maria di Giesu per lo decoro della detta festa et della terra di V.S. Ill.ma ché li sarà gratia particolare ultra il merito che per tal causa haverà ut altissimus etc. - Racalmuti Die XX° octobris XIII^ ind. 1614.»[6]
Nel 1596 lo incontriamo come teste in un paio di atti della confraternita di S. Maria di Gesù. Non spesso, ma qualche volta assiste pure alla celebrazione del matrimonio di qualche racalmutese in vista.
Fra Salvatore Riccio di Racalmuto
Dalla solita visita del 1608 sappiamo che èsacerdote ed è autorizzato alle confessioni per sei mesi:
Frater Salvator Riccius Carmelitanus ad sex menses.
A dire la verità abbiamo dubbi sulla correttezza della grafia del cognome. Se Racalmutese, ebbe forse a chiamarsi fra Salvatore Rizzo.
Fra Zaccaria Riccio
Anche in questo caso, il cognome è forse da correggere in Rizzo. Un chierico a nome Zaccaria Rizzo è presente in vari atti di battesimo ed in atti di trascrizione matrimoniali della Matrice dal 1598 in poi. Costui è anche citato nella nota visita del 1608:
cl: Zaccaria Rizzo an. 25 cons. ad p. t. die 19 decembris 1597 alias vocatus Leonardus
Tratterebbesi di un racalmutese nato nel 1581 come da seguente atto di battesimo:
5
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9
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1581
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Rizzo
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Leonardo
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Martino
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Norella
|
Ma resta pur sempre da appurare se v’è identità fra il fraticello carmelitano ed il chierico che s’incontra negli atti della matrice e della curia vescovile di Agrigento.
Fra Angelo Casuccio
Nel 1608 lo ritroviamo fra i confessori:
P. Angelo Casuchia
Stando al Liber in quo .. sarebbe morto il 4 febbraio 1636 (c. 2 n.° 45). Certo sorge il dubbio che tra il frate carmelitano del 1593 ed il sacerdote che del 1608 vi sia identità di persona. Noi siamo per la tesi affermativa e pensiamo ad una secolarizzazione del giovane fraticello del Carmine. Il Casuccio che s’incontra in Matrice è chierico tra il 1598 ed il 1600 e figura come diacono in un atto di battesimo del 30 agosto 1600. Il 12 gennaio 1601 è già stato, comunque, ordinato sacerdote.
Fra Francesco Sferrazza
Analogo dubbio sorge per questo fraticello, visto che negli atti della Matrice figura un omonimo che però viene indicato nel Liber (c. 2 n.° 38) come don Francesco Sferrazza Fasciotta (ma rectius Falciotta).
A quest’ultimo di certo si riferiscono gli atti della visita del 1608, ove è reiteramente citato. Vengono forniti alcuni dati anagrafici:
D. Franciscus Sferrazza an. 27 cons. ad sacerd. die 17 decembris 1605 Panorm ... quas dixit amisisse
Costui era già protagonista a quell’epoca, come emerge dai seguenti passi di quella relazione episcopale a proposito di S. Giuliano:
Sequitur Cappella transfigurationis S.mi Dni Nostri Iesu Xristi, quae fuit constructa a Don Francisco Sferrazza propriis expensis. et adhuc non est completa. Altare d.e Cappellae est decenter ornatum super quo est Scena trasfigurationis praedictae cum multis imaginibus aliorum sanctorum, est bene depicta et pulchra, est dotata uncias duas redditus relictus a q. Antonino praedicti de Sferrazza pro celebratione unius missae qualibet hebdomada quae celebratur a Cappellano Ecclesiae
Habet etiam dicta Cappella incias X pro maritaggio inius orfanae consanguineae, pariter relictus iure legati a d.o Antonino Sferrazza.
Da altri elementi risulta che trattasi di un membro dell’importante famiglia degli Sferrazza Falciotta. Sembrerebbe quindi che si debba escludere l’identità con l’umile fraticello del Carmelo. D. Francesco Sferrazza Falciotta fu peraltro anche Commissario del Tribunale del S. Officio e morì il 7 maggio 1630.
Se fra Francesco Sferrazza, carmelitano nel 1593, fu persona diversa, come sembra, nulla sappiamo all’infuori di quella citazione del rivelo.
Fra Giuseppe d’Antinoro
Dalle brume documentali dell’archivio parrocchiale dell’ultimo scorcio del ‘500 affiorano alcune figure di religiosi racalmutesi o, comunque, operanti a Racalmuto: uno di questi è fra Giuseppe d’Antinoro, sicuramente un carmelitano, che l’11 settembre 1584 è presente nel matrimonio insolitamente celebrato nella chiesa del Carmine. Per questa inusuale celebrazione era occorso il benestare del vescovo agrigentino. Il matrimonio era avvenuto tra certo La Licata Paolo di Paolo e La Matina Antonella di Pietro e di Vincenza. Benedisse le nozze l’arc. Romano. Ne furono testimoni il noto fra Paolo Fanara ed il citato fra Giuseppe d’Antinoro. Ne trascriviamo qui l’atto che si conserva nella matrice.
11 9 1584 La Licata Paolo di Paolo e di Angela con La Matina Antonella di Petro e di Vincenza.= Sacerdote benedicente:Romano Michele arciprete. Testi: Fanara r. fra Paolo ed D'Antinoro frate Gioseppe. Nota: foro benedetti nella chiesa del Carmine ex concessione Ill.mi et rev.mi n. Epi. Agrigentini
Due religiosi di fine secolo:
fra Antonino Amato;
fra Pasquale Di Liberto
gli atti di matrimonio di fine secolo restituiscono alla memoria questi due monaci, di cui però s’ignora tutto: dall’ordine d’appartenenza ad un qualsiasi altro dato biografico. Quel che conosciamo è tutto contenuto in queste annotazioni d’archivio:
1 9 1588 Gibbardo Berto Vincenzo con Savarino Francesca di Joanne Benedice le nozze: Amato frati Antonino. Testi: Todisco Pietro e Rotulo Pietro
30 9 1596 Mendola (la) Leonardo di Angilo e Paolina con Aucello Antonella di Paolo e Minichella. Benedice le nozze: Spalletta don Nardo. Testi: Mulioto Giuseppe e Di Liberto frati Pasquali.
Nella visita del 1608 è invero ricordato un francescano a none fra Antonino Amato: che si tratti dello stesso monaco del 1588, non abbiamo elementi per affermarlo. Questi comunque non figura nel rivelo del 1593. Nella relazione episcopale del 1608 è indicato in questo stringato modo:
Notamento di confessori di S.to Francisci: il p.re guardiano - fra. Antonio di Amato.
Chiese, quartieri e facoltà nel rivelo del 1593
I ponderosi volumi del rivelo del 1593 non possono essere tutti minuziosamente setacciati, se non da una squadra di studiosi e con rilevanti mezzi economici. Dobbiamo quindi accontentarci di alcuni sommari cenni.
A quell’epoca la terra di Racalmuto era idealmente segnata da un sistema di assi cartesiani in cui l’ascissa era una linea ideale che dalla Guardia andava al Padre Eterno e l’ordinata (che all’atto pratico era una sequela di strade tortuose) partiva dal Carmine per giungere alla Fontana. Nel mezzo vi era di sicuro la chiesa di Santa Rosalia (sicuramente in prossimità dell’attuale Collegio, ma a quale punto non sembra che si possa individuare con certezza). In tale sistema la parte sud-ovest costituiva il popoloso quartiere di S. Margaritella; quella di sud-est il quartiere di S. Giuliano; l’altra di nord-est era la Fontana ed infine il quartiere del Monte occupava la sezione di nord-ovest.
All’interno vi erano località di spicco che negli atti ufficiali servivano per l’individuazione di case e beni: faceva spicco il rione di Santa Rosalia che in effetti risultava inglobato prevalentemente nel quartiere di San Giuliano ma una minima parte debordava in quello di S. Margaritella. Santa Rosalia - che talora veniva chiamata S. Rosana o S. Rosanna o S. Rosaria, non si capisce bene se per errata trascrizione o per omonimia popolare o per la presenza nella chiesa di qualche altra immagine della celeberrima Vergine Sinibaldi - ospitava tanti personaggi cospicui. Esclusivo appare anche il rione di S. Agata.
La comunità ecclesiale di Racalmuto nei primi anni del Seicento.
Il nuovo secolo, il XVII, si apre a Racalmuto con un vuoto: non c’è ancora il nuovo arciprete. Questi viene solo dopo alcuni mesi e si tratta di
Andrea d’Argomento.
Questo nuovo arciprete di Racalmuto è comunque esaminatore sinodale ad Agrigento, ed è dottore in utroque iure; giunge nel marzo del 1600, il giorno della festività di San Tommaso dottore della chiesa, prende possesso della chiesa arcipretale di S. Antonio, anche se forse anche lui preferisce la più centrale chiesa suffraganea della Nunziata. Questo pozzo di scienza immigra a Racalmuto, oriundo da non si sa quale parte della Sicilia. Forestiero, di sicuro, ma almeno in paese ci viene e rispetta le novelle costituzioni tridentine. Non muore però come arciprete del paese; si trasferisce o viene mandato altrove. Ma per l’intero triennio 1600-2 lo ritroviamo annotato qua e là nei registri parrocchiali. In quelli dei morti del 1601 rimangono rivelatrici annotazioni come “detti fra Paulo [pensiamo a fra Paulo Fanara] la palora a l’arciprete; all’arciprete; palora al s. arcipreti”. Il senso è evidente; non può che trattarsi del regolamento dei conti della cd. quarta dei “festuarii”; in altri termini la quota di spettanza per i funerali (che costavano per le spese di chiesa, 5 tarì e 10 grani per gli adulti ed un tarì e dieci grani per le “glorie”, i bambini). Negli esempi che qui sotto riportiamo, le sepolture avvengono “a lo Carmino” (ed ecco il riferimento al celebre priore fra Paulo Fanara, di cui abbiamo fornito cenni biografici), a Santa Maria (di Giesu) - e vi viene tumulato un pargoletto della racalmutesissima famiglia Mulé, ed a S. Giuliano (accompagnata da tutto il clero vi è sepolta una tale Angela Turano, ceppo poi emigrato da Racalmuto). Sia però chiaro che non abbiamo elementi di sorta per sospettare di questo arciprete dottore in utroque. Crediamo, anzi, che sia stato bene accetto e rispettato: un “signore arciprete”, dice il chiosatore dell’archivio parrocchiale.
Dopo il 1602 sino al 10 gennaio 1606, l’Horozco ha traversie giudiziarie, contese con Roma, deve vedersela con il conterraneo - ma non per questo meno ostile - vescovo di Palermo, Didacus de Avedo (Haëdo). Perseguitato dai nobili, è costretto a fuggire in un convento amico di Palermo. Artefice di obbrobri giudiziari per il tramite del suo manutengolo, don Francesco Zanghi, canonico percettore della prebenda di S. Maria dei Greci, soccombe presso la Sacra Congregazione dei Religiosi e dei vescovi nella persecuzione contro i canonici cammaratesi don Francesco Navarra, titolare della prebenda di Sutera, e don Raimondo Vitali: il primo era accusato di pederastia; il secondo di relazione peccaminosa con la vecchia madre del primo.
La diocesi sbanda e così Racalmuto. Certe carenze d’archivio parrocchiale ne sono un indice. Il nuovo vescovo Vincenzo Bonincontro, che si insedia il 25 giugno 1607 e durerà a lungo sino al 27 maggio 1622, dovette mettersi di buzzo buono per riordinare la sua turbolenta e disastrata diocesi.
Il 18 giugno del 1608, il novello vescovo da Canicattì si porta a Racalmuto per la sua visita pastorale. Ne tramanderà una relazione minuziosa, ricca di riferimenti a persone, chiese, istituzioni, fatti e misfatti, tale da rappresentare una preziosissima fonte per la storia di Racalmuto, e non solo quella religiosa.
L’anno successivo, il Bonincontro ritorna a Racalmuto e completa la vista..
Il Bonincontro trova a Racalmuto una situazione che doveva essere anomala sotto il profilo del codice canonico del tempo. Il figlio legittimato - era stato concepito fuori dal talamo coniugale dall’irrequieto Giovanni IV del Carretto - don Vincenzo del Carretto si era insediato nella chiesa di S. Giuliano, elevandola a sede parrocchiale. Dove e quando e se fosse stato consacrato sacerdote, l’Ordinario diocesano non sa ma si guarda bene dall’indagare. Il potente e collerico figlio del prepotente Giovanni IV non consente insolenze del genere. Neppure il titolo arcipretale e l’appropriazione di San Giuliano hanno i crismi della legalità canonica. Il Bonincontro sorvola: ratifica il fatto compiuto. Solo, divide la terra in due parti approssimativamente uguali: la bisettrice parte dal Carmino ed arriva a la Funtana lungo un percosso che per quante ricerche abbiamo fatte non siamo riusciti a tratteggiare con sicurezza. Non passava di certo per la discesa Pietro d’Asaro, al tempo un vadduni pressoché impraticabile, ma lungo un dedalo di viuzze a sud-ovest. Lambiva la chiesa di Santa Rosalia, posta al centro del paese, ma dalla parte di S. Giuliano, per irrompere nella parte terminale della vecchia via Fontana.
La parte a sud-est viene lasciata a questo strano arciprete; quella a nord-ovest, in mancanza di anziani ed autorevoli sacerdoti, viene assegnata al giovane - è appena ventisettenne - fratello del pittore Pietro d’Asaro, don Paolino d’Asaro. Di sfuggita annotiamo che il pittore nel 1609 è già affermato ed una sua tela - oggi purtroppo irrimediabilmente perduta - viene apprezzata, come abbiamo visto, in occasione della visita a Santa Margherita, la chiesa congiunta e collegata con quella di Santa Maria (Visitavit Altare, supra quo est pulchrum quadrum dictae S. Margaritae depictum in tila manu pictoris Monoculi Racalmutensis, annota il segretario del vescovo).
Giovanni IV del Carretto, familiare del Santo Ufficio, ma per interessi e per sottrarsi a tribunali laici molto meno accomodanti, non dovette essere molto religioso. Quel figlio legittimato che faceva il prete nel suo lontano feudo di Racalmuto doveva apparirgli come un povero diavolo che si arrabattava per superare le umiliazioni del suo essere stato concepito in toro non benedetto. Gli echi della vita religiosa della sede della sua contea gli saranno pervenuti, ma molto affievoliti, lasciandolo nella totale indifferenza. Non vi è documento che comprovi la sua presenza, anche saltuaria, a Racalmuto. Ma appena seppellito quel truculento conte, il figlioletto deve raggiungere la lontana dimora di Racalmuto, così diversa dai fasti di Palermo.
GLI ARCIPRETI DI RACALMUTO SOTTO GIROLAMO II DEL CARRETTO
Don Vincenzo del Carretto, arciprete di Racalmuto lo fu (o volle essere) per poco tempo. Ancora vivo, l’arcipretura risulta passata a tale Pietro Cinquemani , originario, forse, di Mussomeli. ([7]) Secondo il prof. Giuseppe Nalbone, costui sarebbe stato prima rettore e poi arciprete del nostro paese:
1613 PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo a f. 1, n°. 11 come «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili a Racalmuto, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale di Racalmuto. Non ci sembra un prete molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può far sospettare ancor di più, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano arciprete. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Se ne è parlato sopra: vi ritorniamo per la rilevanza di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori dello stato di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che non vollero essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò allora di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui abbiamo già detto. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza un anticlericale spumeggiare.
In una memoria del 1738 [8], quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto.
Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende incontrovertibili.
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere).
Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ([9]) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ([10]).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Horozco Cavarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ([11]) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ruffianesche relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ([12]).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella data dallo scrittore.
Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. Lanuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro.
Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ([13])
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ([14])
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio. [15]
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica.
Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di Fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte sulla nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note [16] di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea.
Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni.
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a subire in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito cadde sotto l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbriamento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione della storia dei del Carretto di Racalmuto. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia.
Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo nefasto: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ruffianeggianti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di rimangiarsi la medievale concessione della Legazia Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Certa intelligenza della curia agrigentina forse è in grado di dare una risposta. Ci serve per giudicare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellenti rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte del prof. Giuseppe Nalbone. Costituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete racalmutese della fine del Seicento, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi assottigliata la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale Chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale racalmutese, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposo nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là [17] troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi o a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
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