Esaminandoli radiograficamente, il dottor Milone ha riscontrato che tra i vari colpi esplosi certamente vi furono anche quelli di quest’arma (cal. 9 parabellum) in possesso di Salvatore Ferreri, alias Fra’ Diavolo. Il confidente dell’ispettore Ettore Messana. Un testimone scomodissimo che fu liquidato il 26 giugno 1947 dai Carabinieri in un conflitto i cui contorni sono stati chiariti durante il processo Giallombardo-Casarrubea riportato in questo stesso blog.
I giudici di Viterbo ci dicono, inoltre, sia pure in un breve accenno, che quella mattina a Portella furono esplose delle granate. I contadini le scambiarono per ”mortaretti”, ma quegli spari, invece, che essi chiamavano “carrittigghi”, avevano lo scopo di disperdere la folla per consentire che i terroristi-banditi mettessero in atto i loro piani: sequestrare e uccidere, davanti a tutti, i capi del movimento contadino presenti sul luogo. Maria Caldarera, un’operaia agricola ferita quel giorno, sentita dai giudici istruttori qualche ora dopo la strage, ci ha raccontato che subito dopo gli spari vide “la terra aprirsi e sollevarsi davanti ai suoi occhi” e che gli effetti prodotti da quelle esplosioni erano tali che i frammenti metallici degli ordigni raggiungevano gli arti inferiori provocando ferite penetranti.
Una prima ispezione fra i roccioni fu operata dal capitano dell’esercito Ragusa, lo stesso pomeriggio del 1 maggio. La prima domanda era d’obbligo: che armi si erano usate? La verifica fu fatta da graduati dell’artiglieria di Palermo, che per l’occasione spararono, dal punto in cui si erano trovate le tracce delle postazioni di armi automatiche, in direzione del podio (480 metri), usando 1 fucile mitragliatore Breda mod. 30, 4 moschetti mod. 91, 1 mitra americano, 1 mitra Beretta mod. 1938/A a canna lunga. Ma ci si sarebbe dovuti chiedere, però, e non risulta dagli atti processuali che qualcuno se lo sia chiesto, come mai si era potuta registrare una grande varietà di armi, quando i quattro cacciatori presi in ostaggio, ebbero a dichiarare, al contrario, che, per tutte le ore in cui restarono sequestrati, essi avevano visto “dodici individui armati di moschetto militare e di un fucile mitragliatore, avvolto in una coperta e portato a spalla”. Evidentemente non c’erano state solo le undici postazioni di tiro individuate.
Il militare poté raccogliere ben oltre 800 bossoli e desumere, dai punti in cui erano stati in gran parte trovati, che le persone che avevano sparato erano otto. Era stato preceduto, quel pomeriggio, da Giovanni Parrino (immediatamente avvisato dal Caiola in mattinata), dal maggiore Angrisani, e dai commissari Guarino e Frascolla. Il più tempestivo era stato il maresciallo Calabrò della stazione dei carabinieri di San Cipirello, solerte quanto qualche altro graduato della vicina stazione di San Giuseppe: si erano messi a raccogliere bossoli, senza nessun coordinamento, e senza che nessuno abbia mai saputo a quali armi si riferivano e dove e quando fossero stati repertati e conservati. E soprattutto da quali posti fossero stati prelevati. Fatto che non esimeva, però, il Parrino dal dichiarare, davanti al giudice, che “i bossoli rinvenuti dal Ragusa [erano] diversi da quelli rinvenuti dai carabinieri del nucleo e della stazione di S. Giuseppe Jato e di S. Cipirello”.
Sul luogo, dopo le prime ricognizioni, furono trovati complessivamente oltre mille bossoli, non tutti repertati, e non contando quelli che erano andati a finire nei crepacci della montagna, o che non furono mai trovati per altre ragioni. Dirà l’Angrisani ai giudici: “Ricordo che furono rinvenuti caricatori di fucile mitragliatore e di armi automatiche italiane, senza trovare i relativi bossoli. La qual cosa mi fece supporre che quelli che spararono raccolsero poi i bossoli”. E’ più ragionevole pensare che siano stati altri a svolgere questo delicato compito. Erano entrati in funzione fucili italiani, tedeschi e americani, armi di grande potere balistico, mitra e mitraglie. Una massa di fuoco imponente. Le stesse forze dell’ordine capirono immediatamente che, oltre alla banda, c’erano stati altri tiratori. Conoscevano bene i personaggi, e sapevano che non avevano potuto agire da soli. Lo stesso Paolantonio dirà: “Ordinariamente, Giuliano, quando doveva compiere un’azione in grande stile, cercava di neutralizzare le caserme dei carabinieri, e perciò non è da escludersi che oltre coloro che spararono a Portella vi siano state delle pattuglie di protezione in vari posti”. Ma non tutto quel potenziale di morte fu scaricato sulla folla. I primi colpi, come asserivano diversi testimoni, ad esempio Leonardo Di Maggio, furono sparati in aria, servirono a fare disperdere la folla. Dirà Giovanni Parrino, che da carabiniere dovette assistere impotente alla tragedia:
“D.R.: La sparatoria durò circa venti minuti.
D.R.: Ebbi la sensazione che delle pallottole mi lambissero quasi le spalle; data la posizione in cui mi trovavo e dati i luoghi non potevano che provenire dalla Pizzuta.
D.R.: Se i primi colpi sparati avessero avuto la direzione e la prensione che ebbero gli ultimi, lì a Portella si sarebbe avuto un secondo cimitero di Piana.
D.R.: I primi colpi non furono neppure da me avvertiti o almeno non li intesi passare sulla testa e quindi penso che avessero avuto una direzione verso l’alto.
D.R.: Non posso dare spiegazione come mai i primi colpi non avessero raggiunto il podio, perché era naturale che si volessero colpire quelli che erano attorno al podio che dovevano essere le autorità”.
Giuliano si era distinto per avere adoperato il mitragliatore Breda 30 cal. 6,5; la maggioranza della banda aveva usato, poi, il moschetto militare mod. 91 cal. 6,5, qualcuno la carabina americana cal. 7,6, o il mitra corto Thompson. Ma si era fatto ricorso anche ad armi che non erano solitamente in dotazione alla banda, quali il fucile a ripetizione Enfield, il fucile mitragliatore Bren, il moschetto automatico mitra Beretta cal. 9. Sette tipi di armi diverse, in tutto. Ad esse dovevano essere aggiunte quelle usate dal versante del Kumeta, e le altre che avevano sparato dalle postazioni disseminate, che nessuno identificò mai per il semplice fatto che nessuno si prese la briga di effettuare un’analisi dettagliata su tutto il terreno di Portella, nel raggio di almeno 500 metri attorno al podio. In ogni caso, la superficialità nell’espletamento delle ricognizioni è dimostrata dalle contraddittorie relazioni degli ufficiali che se ne occuparono. Bastino, per tutte, quelle del Ragusa, ribadite l’indomani (8 maggio) dal Frascolla, e dell’Angrisani che redasse la sua relazione qualche giorno dopo:
I giudici romani fecero notare: 1) che nella prima relazione mancava ogni riferimento ai reperti dei mitra Beretta; 2) la notevole difformità sui caricatori e sui bossoli. Questa contraddizione non poteva spiegarsi, soprattutto se si poneva mente al fatto che le indagini sul terreno furono avviate dal Ragusa lo stesso primo maggio e che questi nella sua relazione aveva “omesso di menzionare altre sei postazioni rinvenute più in basso”.
“Mancò -scrivevano- un coordinato piano di azione per la conservazione delle tracce del reato, o quanto meno per l’esatto accertamento di esse, ai fini dell’identificazione topografica di tutte le postazioni da cui i malfattori avevano sparato; taluni degli investigatori, non ritenendolo compito proprio, non riferirono nulla all’Autorità giudiziaria, altri, distratti forse da più pressanti incombenze, omisero di esporre in modo completo i risultati delle loro osservazioni.
[ ... ] E’ manifesto -concludevano- che, purtroppo, da parte di coloro cui incombeva l’onere della conservazione di tali reperti non si ebbe la percezione della importanza di essi, e non si pose la dovuta cautela nella loro custodia”.
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