* * *
Nell’Agosto del 1282 Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia con quel misto di albagia spagnola e di «avara povertà di Catalogna»: a Racalmuto - come detto - giunge la prima stangata fiscale datata “Palermo 10 settembre”; il nuovo re esige subito che si paghi per l’armamento di 15 arcieri.
Sotto la stessa data, re Pietro crede di addolcire la pillola inviando al nostro periferico casale un resoconto delle sue recenti imprese. Siamo sicuri che ai racalmutesi di allora (come d’oggi) non gliene importava nulla di sapere:
«Doc. X - Palermo 10 Settembre 1282 - Ind. XI. [1] Re Pietro dopo aver enumerate al Baiulo, ai Giudici ed agli uomini tutti di Adrano le ragioni, per le quali ha creduto intraprendere la spedizione di Sicilia; e raccontato del suo sbarco a Trapani, nonché del suo arrivo, per terra in Palermo, il venerdì 4 Settembre; ordina che, adunati in assemblea, eleggano due fra i più cospicui della loro terra; i quali, come loro sindaci, vengano a prestargli il debito giuramento di omaggio e fedeltà; più, che tutti i cavalieri, pedoni, balestrieri, arcieri, lancieri, scudati si rechino, con armi e cavalli, in Randazzo, pel 22 Settembre al più tardi.
«Simili lettere a tutti gli uomini di tutte le terre al di là del fiume Salso.»
«[......] Item et infra fuit scriptum eodem modo videlicet.
« [...] [2] Burgio, Sacca, Calatabellota, Agrigento, Licata, Naro, Delia, Darfudo, Calatanixerio, Rahalmut [corsivo ns.], Mulotea, Sutera, Camerata, Castronuovo, Sancto stephano, Bibona, Sancto Angilo, Raya, Busaxemo [Buscemi], Curiolono, Juliana, [...]»
Nel successivo mese di gennaio del 1283, Racalmuto viene chiamato - unitamente ad altri centri - ad una sorta di tassazione aggiuntiva: dovrebbe approntare altri quattro arcieri oppure dei fanti armati. La missiva parte da Messina il giorno 26 gennaio 1283, XI indizione. Ed è diretta al baiulo, ai giudici ed a tutti gli uomini Rakalmuti. Perché mai questa resipiscenza? Evidentemente, la base imponibile che era stata calcolata a caldo, il 10 settembre 1282, si appalesava errata per difetto: i racalmutesi tassabili erano di gran lunga più numerosi; se prima si era pensata ad una tassazione di 75 fuochi o famiglie abbienti, ora si sapeva che almeno altri 20 fuochi erano in condizioni economiche tali da fornire mezzi aggiuntive alla guerra che Pietro d’Aragona andava conducendo - più o meno indolentemente - contro l’Angioino. Se questa nostra tesi è accettabile, l’area degli abitanti racalmutesi riconducibile alla platea dei contribuenti saliva da 300 a 380 (calcolando, come si è soliti, il numero dei fuochi per la probabile consistenza media del nucleo familiare, pari al coefficiente 4). Ma non basta, bisogna aggiungere quelli che riuscivano a sfuggire a quel censimento fiscale e quelli che di solito erano esentati come preti, non abbienti, ebrei ed altri: una rettifica, dunque, che non si è lontani dal vero assumendo una maggiorazione dell’ordine del 20%; di talché perveniamo ad una popolazione stimata di circa 456.
Re Pietro aveva voglia di scherzare quando il 10 settembre 1282 si rivolge ai racalmutesi - ed in latino - per dir loro che finalmente il tanto aspettato suo arrivo si era verificato; che il suo aiuto era già in corso; che quindi potevano e dovevano abbandonarsi ad una “tripudiosa giocondità”. Fidelitati vestre feliciter nunciamus. «Felicemente l’annunciamo alla vostra fedeltà». Ma occorrono gli adempimenti burocratici, i formalismi. Pertanto, come è di diritto, l’ Universitas è chiamata a prestare fisici giuramenti “corporalia iuramenta” della debita fedeltà e dell’omaggio al re. Nomini i suoi “sindici” e si inviino davanti al cospetto della “celsitudine” regale. Il re vuole fermamente che il nemico lasci il paese pressoché annichilito e sterminato. Quindi si mandino cavalieri, balestrieri, arcieri, uomini armati di tutto punto, di scudi o di altri tipi d’armatura e «vengano presso di noi Re Pietro in quel di Randazzo o là dove stabiliremo. E tutti dovranno avviarsi entro il 22 di questo mese di settembre proprio a Randazzo. Se qualcuno disubbidisce, incapperà nella nostra reale indignazione.»
Non v’è storico che descriva quale stato d’animo abbia accorato quei siciliani del 1282 dinanzi a quelle pretese del nuovo padrone. Neppure i letterati, ci risulta, hanno saputo evocare quelle angosce e quello sgomento. Neppure Tommasi di Lampedusa, neppure Leonardo Sciascia, neppure quando sembra farne accenno sminuendo ogni cosa con l’approssimativa chiosa sulla locale storia, appena “descrivibile”, «dell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.» [3] E questo sarà un bel dire, ma di scarso senso per quello che davvero avvenne, per quella vita racalmutese che è più che “descrivibile”, che ci pare tanto “narrabile”, tanto angosciante, tanto rimarchevole “storia”.
Chi spiegò quel “latinorum” ai racalmutesi? Dove? Come? Quali decisioni furono prese? chi fu eletto per ‘sindico’ - che onore non era ma pericolo per la vita e per i beni dovendosi recare tanto lontano in tempi calamitosi e per strade impervie e cosparse di agguati da parte di ladri e “prosecuti”?
C’è da pensare che già sin d’allora, i notabili furono adunati in chiesa al suono della campana, come sarà costume alla fine del ‘500. Un prete avrà tradotto la missiva. A dirigere i lavori assembleari colui che si era autoproclamato Baiulo e quei due o tre maggiorenti - il notaio, il farmacista-medico - che lo affiancavano. Un paio di “burgisi” - che disponevano di giumente - avranno dovuto accettare l’incarico di recarsi dal re nella lontano Randazzo. Con la ritualità che riscontreremo nell’adunata popolare del 7 agosto del 1577.
La libera universitas di Racalmuto: 1282-1300 ca.
Ne siamo quasi certi: dopo il Vespro, Racalmuto non ebbe soggiogazioni feudali per quasi un ventennio. Crediamo di aver provato come non è da parlarsi di una baronia sotto i Barresi. Circa la promessa data a Piero di Monte Aguto, la cosa si risolse in un semplice intento, finito lì. Anche la notizia (secentesca) di una assegnazione feudale di Racalmuto a Brancaleone Doria, è frutto di un plateale falso, ostando irrefutabili ragioni cronologiche.
Una signoria del Doria a fine secolo è impensabile, dato che costui ebbe, sì, una qualche influenza su Racalmuto, ma dopo aver sposato la vedova, Costanza Chiaramonte, del conterraneo Antonio Del Carretto, attorno agli anni trenta del XIV secolo.
Nessuna fonte, invece, ci riferisce di un ritorno di Federico Musca, che - dome detto - preferisce andare a guerreggiare in quel di Calabria, sempreché si tratti dell’identico Musca, e l’antico proprietario di Racalmuto ed il milite, denominato conte di Modica, siano un solo personaggio. Di certo, un Federico Musca , comes Mohac, si rinviene tra i diplomi di Pietro I.[4] Su tale Federico Musca, araldisti e storici qualcosa ci dicono: Il Villabianca scrive:
«....[PAG. 4] entrati che furono gli Aragonesi nel governo di questo Regno, appare in tal tempo essere stato signore di questo Stato [Modica] Federigo MOSCA, quello stesso che fu Governatore della Valle di Noto sotto il Rè Pietro Primo d'Aragona, e con 600 soldati pose a ferro, e fuoco gran numero di Franzesi nelle vicinanze di Reggio (d] d .
«Essendo stato anch'egli uno de' quaranta Cavalieri, che associarono Rè Pietro al famigerato duello di Bordeaux; così per fede del Dott. Placido CARAFFA nella sua Modica Illustr. f. 70. «Inter quos - egli dice - Modicae Federicus Musca interfuit, qui Regem Petrum ad monimachium provocatus est: Manfredus Musca fuit vir strenuus, et in arte bellica magnus a consiliis, et semel a Petro missus, ut Scalaeam oppidum reciperet.» Ma se sia stato costui discendente per linea retta da GUALTIERI testè mentovato, o forse da altro modo comissionario di differente Famiglia io non ardisco affermarlo. E' certo però, ch'egli fu l'ultimo Barone della Prosapia Mosca, e da potere di lui, o al certo dalle mani del suo figlio Manfredo, come scrivono alcuni, passò esso Stato in potere di Manfredo Chiaramonte, e de' suoi successori, come si dirà appresso, vegnendogli conceduto dal Ser.mo Rè Federigo, con titolo di Contea in considerazione de' suoi segnalati servizi non meno, che per esser marito d'Isabella Mosca figlia di Federigo, e sorella di Manfredi sopravvisato, che secondo vogliono i detti Autori, fu dichiarato ribelle, e spogliato di essa Contea dal succennato Sovrano, per avere egli seguitato le parti del Rè Giacomo di Aragona di lui fratello (a) a.» [5]
Esplosa la rivolta del Vespro, Racalmuto si ritrova, dunque, libero, ma subito soggetto, agli appetiti tassaioli del sopraggiunto re iberico. Ricevuta la missiva del 10 settembre 1282, tutti i notabili racalmutesi dell’epoca dovettero adunarsi per stabilire il da farsi. A presiedere quell’assemblea il baiulo con a fianco i giudici. Chi furono i due sindici eletti per andare il giuramento e l’omaggio al nuovo re in quel di Randazzo, non sappiamo. Baiulo, giudici e sindici dovevano avere dei patronimici non molto differenti da quelli che incontriamo nelle prime fonti storiche racalmutesi: Liuni, mastro Rayneri, Sabia di Palermo, de Salvo, de Graci, de Bona, de Mulé, Fanara, Casucia, La Licata, de Messana, de Santa Lucia.
Ebbero a radunarsi in qualche chiesa: forse nella chiesetta dedicata alla Madonna, quella stessa ove nel 1308 officierà Martuzio Sifolone. Sappiamo di certo che, comunque, la chiesa di Santa Margherita o di Santa Maria - quella che ancor oggi si dice normanna - non era stata eretta, né dal Malconvenant né da qualche suo parente passato dalle armi alla milizia del Cristo: in quel tempo, come si disse, Racalmuto non era ancora sorto.
Interlocutoria ebbe, invece, ad essere la decisione sul riparto dei balzelli imposti dall’Aragonese: quindici arcieri non si sapeva dove reperirli fra quegli imbelli contadini, appena capaci di disseminare il suolo di tagliole per intrappolare i conigli selvatici. Frattanto, Berardo di Ferro di Marsala, viene nominato dal re giustiziere della Valle di Girgenti: nominiamo «te justiciarum nostrum in singulis terris et locis vallis Agrigenti» recita un documento in quel torno di tempo. [6] Il 17 settembre, il Giustiziere viene invitato a costringere le terre e i luoghi di sua giurisdizione ad un celere invio del “fodro” (vettovaglie, vino, vacche, porci, castrati) a Randazzo: segno che le terre ed i luoghi non se ne davano ancora per intesi. Berardo de Ferro, milite giustiziario, è, invece, sollecito a far nominare maestri giurati di sua fiducia: il re, da Messina con lettera dell’8 ottobre 1282, gli ordina «di non volersi intromettere in quella elezione nelle terre demaniali, delle chiese, dei Conti e Baroni, elezione che si era riservata»[7]. Per di più, il 20 ottobre 1282, il re deve intervenire contro lo stesso Berardo di Ferro, che aveva spogliato Errico de Masi e tutti i marsalesi dei loro beni: manda a Marsala il giudice Nicoloso di Chitari da Messina per reintegrare quegli abitanti nel possesso dei loro beni. [8]
Occorre pagare, intanto, le quote della tassazione straordinaria di ottomila once: con decreto del 26 novembre 1282, emesso a Catania, «Re Pietro ... stabilisce che le [suddette] ottomila once promesse dai sindici delle terre al di là del Salso siano corrisposte ai regi tesorieri.»[9]. Povero Racalmuto, ormai preda di voraci esattori! Con provvedimento del 17 novembre 1282 viene rimosso Ruggero Barresi, milite. Non risulta, però, cointeressato in qualche modo a Racalmuto. [10] Questi contadini dell’Agrigentino sono proprio riluttanti a pagare le tasse: da Messina, il 15 novembre 1282, s’ingiunge «a Berardo de Ferro, Giustiziere del Val di Girgenti, sotto pena di once 100, di far subito eleggere dalle Terre di sua giurisdizione sindici che si rechino a lui, Pietro, nel termine di 8 giorni per discutere, con gli altri sindici di Sicilia al di qua e al di là del Salto, la controversia sorta in Catania fra i sindici delle due grandi circoscrizioni, circa alla promessa del sussidio.»[11] Ed il successivo 20 gennaio 1283, siamo ancora alle solite: inadempienze fiscali. Re Pietro «incarica Santorio Banala di sollecitare, recandosi sui luoghi, il versamento dalle Università al di là del Salso.»[12] Racalmuto risulta tassato per 15 once, [13] preceduto da:
Licata: unc. 238;
Delia unc. 3;
Naro unc. 166;
Calatarapetta (sic) Mons maior unc. 6;
Tusa unc. 2;
Misiliusiphus unc. 4;
Sciacca unc. 250;
Calatabellottum unc. 122;
Agrigentum unc. 380.
Il successivo 26 gennaio, come detto, si rincara la dose: Racalmuto è chiamato ad armare ed inviare altri quattro arcieri o fanti.
Dopo il Vespro, gli eventi della Sicilia fibrillano per una cinquantina d’anni. Non è questa la sede per rievocarli. Michele Amari, nella sua storia del Vespro, ne fa quasi un diuturno resoconto. Ancor oggi è viva la polemica su quella temperie storica e studiosi di grande levatura dei tempi nostri continuano a cimentarvisi. Si pensi che Benedetto Croce, capovolgendo un indirizzo consolidato, ritenne la cacciata degli angioini dalla Sicilia una nefasta frattura. Abbiamo visto che persino Leonardo Sciascia ha voglia di essere originale su quello snodo della storia siciliana: una improvvisa e scomposta fiammata ribellistica del popolo palermitano, su cui si innesta una vorace conquista di un rappresentante dell’ «avara povertà di Catalogna».
Certo, al papa quella faccenda non piacque: comminò scomuniche, che si ripeterono più volte per quasi un secolo. Solo nel 1276, 31 marzo, Racalmuto ne fu totalmente assolto. Che cosa abbia fatto di così irreligioso il nostro paese da meritarsi un quasi secolare interdetto, è tuttora un mistero. Ma noi ne siamo oltremodo sicuri: nulla. Così come per l’altra scomunica - quella del 1713 - le anime credenti racalmutesi patirono il terrore dell’inferno per ribellioni (al francese Carlo d’Angiò, fratello di San Luigi, re di Francia, nel 1282) e per diatribe tra vescovi ed autorità civili (insorte nel 1713 per una faccenda di tasse su alcuni rotoli di ceci del vescovo di Lipari), di cui francamente non ebbero né coscienza e neppure significativa conoscenza.
Racalmuto, decentrato, non fu artefice in alcun modo della ribellione del Vespro; non capì cosa fosse venuto a fare re Pietro d’Aragona; non si rese conto - o non immediatamente - che entrava nell’orbita spagnola; subì passivamente la politica del nuovo re che si mise a foraggiare con feudi quei nobili che corsero in suo soccorso; seppe di certo che Pietro d’Aragona cessò di vivere il 10 novembre del 1285; capì ben poco delle faccende dinastiche del successore Giacomo e della sua rinuncia alla Sicilia nel gennaio del 1296; ebbe forse qualche simpatia per il ribelle fratello Federico (II o III) ma non riuscì a comprendere le ragioni che spingevano i due potenti fratelli (Federico e Giacomo) a combattersi fra loro. Quando giunsero gli echi delle scomuniche papali, in loco non se ne intuirono le ragioni; i racalmutesi non si ritennero colpevoli di nulla (non lo erano); si smarrivano nell’ascoltare i contorti ragionamenti che preti e francescani si sforzavano di propinare nelle loro infuocate prediche. Per fortuna, le tante guerre e guerricciole si combattevano lontano, vicino ai posti di mare, in Calabria, a Napoli: sì e no giungeva l’eco. Qualche vantaggio, sì: il frumento aveva un mercato; qualche guadagno si riusciva a conseguirlo; la pesante fatica dei campi non era ingrata. L'universitas si accresceva con nuovi immigrati e con fertili nozze.
Nel 1308 e nel 1310 Racalmuto è tanto grande da consentire a due religiosi di riscuotervi pingui rendite. Da Avignone, il papa - colà rifugiatosi nel 1309 - arrivano ordini per la tassazione di due redditieri per quelle due precorse annate. L’Archivio Segreto Vaticano ci conserva le registrazioni di quei prelievi fiscali. A leggerli, vien fuori qualche dato sulla Universitas di Racalmuto del primo decennio del XIV secolo. Nel registro «Rationes Collectoriae Regni Neapolitani - 1308 - 1310», Collect. n.° 161 f. 96 abbiamo:
«Martutius de Sifolono pro ecclesia S. Mariae de Rachalmuto solvit pro utraque decima uncia J.»
In altri termini, Matuzio de Sifolono corrispose per la chiesa di S. Maria di Racalmuto un’oncia per entrambe le decime del 1308 e del 1310. E nel retro del foglio n.° 97 ( 97v):
«presbiter Angelus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti, solvit pro utraque tt. ix.»
Il che equivale a dire: il sacerdote Angelo di Monte Caveoso corrispose per il suo ufficio sacerdotale, che ha svolto nel Casale di Racalmuto, nove tarì. Racalmuto non viene segnato come castrum anche se il Castello doveva essere già costruito, stando al Fazello. Del resto, la grafia non del tutto corretta del toponimo (Rachalamuti) sta a segnalare l’approssimatività dello scriba pontificio.
Coteste ricerche d’archivio ci permettono di individuare due sacerdoti officianti a Racalmuto all’inizio del XIV secolo. Sono religiosi e non appaiono neppure autoctoni; l’uno, Martuzio de Sifolono, è titolare della chiesa di S. Maria, ed è chiamato a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310); l’altro, è il “prete” Angelo di Montecaveoso, ed è tassato per nove tarì in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Del primo non sappiamo neppure se fosse un sacerdote. Ignoriamo anche dove era ubicata la chiesa di S. Maria - ed ogni attribuzione ad uno dei vari templi oggi dedicati alla Madonna è mero arbitrio. Il “presbiter” Angelo de Montecaveoso [14] ha tutta l’aria di essere un frate: parroco di Racalmuto nel 1308 e nel 1310, non sembra indigeno; ricava proventi che dovevano essere di poco più di un terzo rispetto alle ricche prebende di chi era titolare della chiesa di Santa Maria (dopo, l’arcipretura di Racalmuto diverrà molto appetibile e la vorranno prelati di Messina, Napoli, Prizzi, S. Giovanni Gemini, etc.).
La chiesa di Santa Maria era talmente ricca, dunque, da non potersi ritenere soltanto un luogo di culto; dovette essere quindi una chiesa dotata di feudi o di terreni allodiali. Il suo titolare fu forse un canonico agrigentino, e da qui poté nascere il beneficio di Santa Margherita che risulta documentato solo a partire dalla fine del secolo XIV. Ma poté trattarsi anche di un convento, forse di benedettini, insediatosi per lo sviluppo agricolo e per l’estensione della coltivazione granaria, divenuta molto richiesta dal mercato a causa dell’endemico stato di guerra. Da qui, quel convento benedettino cui accenna Giovan Luca Berberi nei suoi Capibrevi dei BENEFICIA ECCLESIASTICA, «liber Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211». II Pirri descrive il Cenobio con annessa chiesa di san Benedetto che trovavasi nella via che congiungeva Racalmuto ad Agrigento. Credo che bisogna concordare con chi ritiene che quel convento sorgesse nel vecchio Campo Sportivo. Una volta tanto, ci soccorre attendibilmente Eugenio Messana alle pag. 50 e 51 del suo volume su Racalmuto. «Il Pirri e Giovanni Luca Barberi parlano di un convento di s. Benedetto a Racalmuto, sulla via che conduce a Girgenti. Di questo monastero non rimane traccia, dei sospetti lo fanno ubicare dove ora c’è il campo sportivo. I sospetti si basano sulle fondamenta di un grande edificio con cortile e pozzo nel mezzo, che furono quivi trovati, quando la terra donata dal dott. Enrico Macaluso al comune, secondo la volontà del donatario (sic), fu spianata per adibirla a stadio.» Il Messana cita anche un testo di Illuminato Peri, (Manfredi Editore Palermo, 1963 - Vol. II, pag. 18 ) ove è pubblicato appunto il foglio 211 che recita «MONASTERIUM SANCTI BENEDICTI - 211 -Monasterium cum ecclesia sancti Benedicti prope iter inter Agrigentum et Rayhalmutum [Messana, erroneamente, trascrive in: Rayelmutum] existens de suffraganeis maioris agrigentine ecclesie». Il padre Calogero Salvo nel suo libro Ecco tua Madre riconsidera tutta la questione in termini decisamente critici. Non sappiamo quanto di valido ci sia nel pregevole lavoro di padre Salvo.
I nove tarì corrisposti per due anni dall’arciprete Angelo di Montescaglioso dovettero essere un lieve aggravio sulle primizie corrisposte dai parrocchiani: un qualche riflesso demografico devono dunque averlo. Quattro tarì e mezzo per un anno sembrano riflettere appunto quel mezzo migliaio di abitanti che allora Racalmuto accoglieva sul suo suolo. Era un centro che non poteva non dispiegarsi nei pressi del nuovo fortilizio cilindrico, costruito da Federico II Chiaramonte pochissimi anni prima, secondo la versione tramandataci dal Fazello. Vicino sorgeva senza dubbio la nuova chiesa madre, pensiamo là dove verrà costruita poi la Matrice intitolata a S. Antonio e cioè, secondo noi, in piazza Castello, in quarterio Castri, come leggesi in taluni diplomi del ’500. I documenti vaticani spingono dunque ad una totale revisione della tradizione (per noi falsa) che gli storici locali, e non, hanno avallato in ordine a Racalmuto, per il periodo in discorso. E’ difficile sostenere che in quel tempo il paese sorgesse a Casalvecchio: una tesi questa che resiste imperterrita, sposata anche da studiosi valenti come il padre gesuita Girolamo M. Morreale [15]. A Casalvecchio, già alla fine del XIII secolo, c’erano solo ruderi dell’antico insediamento bizantino. Da rigettare in pieno quello che dopo l’avvento di Garibaldi si scrisse su Racalmuto e cioè:
«Antica è l'origine di Racalmuto: il suo nome è di origine arabica. Fu distrutto dalla peste del '300, indi nel ripopolarsi non occupò il luogo primitivo, che si trova ora alla distanza di un chilometro, e si chiama Casalvecchio. Nell'occasione dei lavori eseguiti ultimamente per stabilire una carreggiabile, si rinvennero ivi dei sepolcreti e ruderi di edifici. » [16]
I dati che possiamo ricavare dalle tavole delle collette pontificie del 1308-1310 non consentono fondate ipotesi su un grande sviluppo demografico di Racalmuto in quel torno di tempo: nella comparazione con le altre località che riusciamo a desumere (Agrigento, Butera, Caltabellotta, Caltanissetta, Cammarata, Castronovo, Delia, Giuliana, Licata, Naro, Palazzo Adriano, S. Angelo Muxaro, Sciacca e Sutera), il nostro paese aveva una certa rilevanza nell’approntare tasse e risorse finanziarie alla lontanissima corte papale di Avignone. Un’onza e 9 tarì non erano poi pesi intollerabili, ma pur sempre era un prelievo dalla magra economia curtense racalmutese che veniva dirottato, senza contropartita di sorta, verso terre francesi di cui si sconoscevano persino le denominazioni.
Gli emissari pontifici si erano già recati nell’agrigentino per riscuotere laute decime per gli anni 1275-1280. Eravamo sotto il dominio di Carlo d’Angiò, fiduciario del papato. Eppure la resa non fu elevata rispetto a quello che il papa ebbe a pretendere immediatamente dopo il 1310 - in quella sorta di compromesso storico tra corte avignonese e potenza aragonese.
Ci sia di un qualche lume questo confronto:
[1] ) Cfr. l’opera precedentemente citata del Silvestri, Vol. V Palermo 1882, pag. 9 e segg.
[2] ) cfr. ibidem pag. 12.
[3] ) Leonardo Sciascia, presentazione della mostra di Pietro d’Asaro, Racalmuto 1984, pag. 20.
[4] ) cfr. raccolta dei Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V. - Fasc. IX-XI - Appendice - Messina 30 dicembre 1282 - pag. 687.
d ) ) [CARUSO, Storia di Sicilia par. 2. lib. I. f.19].
a ) [Vedensi le Allegazioni del Dottor don Emanuele lo Giudice fog. 8. e 96. fatte a favore del Principe della Riccia per l'esecuzione della Chiaramontana reintegrazione stampate in Palermo 1755. f. 96].
[5] ) Francesco M. Emanuele e Gaetani, marchese di Villa Bianca - DELLA SICILIA NOBILE - Palermo 1759 - Parte Seconda - lib. IV, pag. 4 e segg.
[6] ) Documenti per servire alla storia di Sicilia, Vol. V 1882, cit. doc. XXI p. 24.
[7] ) cfr. DSSS, vol. V, cit. p. 66 doc. n.° LXVIII.
[8] ) ibidem, pag. 131 - doc. n.° CXLI.
[9] ) ibidem, doc. n.° CCXXIX.
[10] ) ibidem pag. 203.
[11] ) ibidem pag. 231 - doc. n.° CCLXXVII.
[12] ) ibidem, pag. 293 - doc. n.° CCCXCIV.
[13] ) ibidem pag. 295.
[14] ) Montescaglioso (Matera), comune: 9900 ab., a 352 m s.m. Centro agricolo tra la valle del fiume Bradano e la gravina di Matera. Anticamente si chiamava Severiana. La contessa Emma vi fondò verso la fine del XII secolo un monastero intitolato a San Michele. L’imperatore Federico II lo dotò nel 1222
[15] ) Girolamo M. Morreale, S.J. - Maria SS. Del Monte di Racalmuto, Racalmuto 1986, pag. 23 ove, tra l’altro, leggesi: «La distanza tra Casalvecchio (Racalmuto) e la Chiesa di S. Margherita, circa tre chilometri, fa pensare che a Casalvecchio ci fossero altre chiese officiate da Sacerdoti.»
[16] ) DIZIONARIO COREOGRAFICO DELL'ITALIA a cura del prof. Amato AMATI - Milano (Vallardi) - (1869) voce: Racalmuto.
Nessun commento:
Posta un commento