Calogero
Taverna
La donna del Mossad
CONCOMITANZE
Alla Farnesina d’improvviso fu sgomento: il vecchio
guru, che querulo saccente malefico lo era da tempo, si impossessò
del massimo scranno. Erano teorie di sale a cassettone, lucide d’oro,
allicchittate1
e poi gli anodini arazzi, gli squallori di quadri vetusti ma
stinti, il sapore insomma di una politica estera in minuetto e
servile, incisiva forse solo al tempo del Duce. Quel fascistone, lì,
il fatto suo lo seppe fare con i convitati dei grandi del mondo …
almeno sino ad una certa epoca della sua enfiata era.
I molteplici salti di quantità del votare a fiume in
piena per quel tale Berlusconi, di colpo segnarono il cambio di tutta
intera l’Italia. Era, ora, bifronte: spezzata provinciale e svagata
all’interno; insensa, minuscola acquiescente, fuori degli storici
confini. Il guru della Farnesina nulla valeva, nulla poteva. Il primo
ministro aveva palesi tedi nel sentirlo: solo voglie vindici verso i
già licenziati plenipotenziari, un tempo amici dei comunisti, razza
ormai desolatamente estinta. Ed a Berlusconi quel rimasuglio delle
sue antiche crociate dava disgusto, come il parlar pederasta a donna
che quando vergine fosse adusa a concedere la retroposta entratura.
Aveva imposto abiure umilianti e remissive, anche il Belloni s’era
lasciato andare ad assiomatiche inconciliabilità tra comunismo e
democrazia: poté diventare sindaco di Merlopoli per momentanea
permissione di monsignor Rubiccio, arcigno modenese in eterno astio
verso i conterranei rossi sciamanti dall’Abetone alle radure
benedettine del nonantolese. Durò poco il canuto Valter e sparì di
scena: sapeva d’affari e gli esperti suoi familiari seppero
arricchire nell’interscambio astuto con gli astuti ex sovietici.
Fu un pomeriggio del 29 giugno, quando Roma in
impercettibile devozione verso i suoi santi padroni Pietro e Paolo
non permise agli addetti della Farnesina di trasmigrare ad Ostia per
la lasciva contemplazione degli ancora bianchicci glutei di
ragazzotte romane dell’ultima generazione, alte poppute auree su
trampoli rastremati come di gazzelle umane. Il guru, umidiccio di
sudore, stanchi gli occhi dietro lenti spesse, quasi spenti per
defluvio dell’intelligenza, ebbe scatto iroso:
- ma che cavolo mi porti?
- dottore, stava abbandonato sul tavolo dell’ambasciatore Michetti.
- ed io di Michetti me ne sbatto le palle …. ma già ora trema per il suo culetto al n. 4 della Rehov Weizmann di Tel Aviv. Là ci fui anch’io, è vero; là anch’io ebbi talora spavento per quei palestinesi bombaroli … che si diverti ora lui, come hanno cercato di far divertire me i suoi porci amici quando comandavano … al soldo del Kgb …
Il dottor Giliberti, Mefisto nell’eloquio
dell’ambiente, mefistofelico appariva davvero: nero, con abito
sempre nero; barbetta nera sotto occhialetti tondi in radica nera;
sibilante di parola, tetro, proprio infernale:
- non so, proprio male forse ho fatto. L’ho visto là quel telex: l’ho letto. Misterioso l’ho trovato. Mi sono precipitato da sua eccellenza, prima che altri lo notassero.
Quell’eccellenza non si poteva più usare, non si
doveva. Eppure Mefisto sapeva che al guru piaceva. Se era trasmigrato
a destra da Lotta continua (perché da giovane il guru lì militò)
non poco contribuì la soppressione democratica degli orpelli
ministeriali. Finì l’«eccellenza» proprio quando la folgorante
carriera del guru approdava al lido dell’ «eccellenza».
Il guru si ammansì di colpo:
- dai, dai. Fai vedere, va! …. Ma che cazzo significa? Quella sfilza di citazioni bibliche, con l’indicazione dei soli libri e dei … versetti, è proprio stramba…
Il guru ebbe un moto di autocompiacimento per quel
“versetti”…. si sentì eruditissimo come di sapiente “in
utroque”. «Che bravo che sono» – si disse e plaudì a se stesso
per quelle rimembranze del latino clericale. L’aveva appreso in
seminario.
Restituì il foglio al Mefisto. Sottolineato colpiva:
Fino all’anglicismo e-mail il guru arrivava;
Mefisto neppure lì.
- Che ne faccio?
Un fuggevole istante per il solito tic: aggiustare gli
occhiali sul naso mentre la fronte si aggrottava.
- Passalo agli infami.
- Al dottor Ciunnameli del Sisde? – volle con malizia essere preciso il Mefisto.
- Ed a chi? Se no?
Tornò ingrugnito il guru.
Era pomeriggio duro, non tanto per il caldo che
l’incombente temporale non riusciva ad addolcire, ma per l’inane
gelosia che tutto nell’intimo sfibrava il signor ministro degli
esteri dell’Italia berlusconiana. Elisa, napoletana di cerulee
fattezze, quel pomeriggio aveva voluto godere della festività per i
santi padroni di Roma. Segretaria del guru, imbecillotta ma
avvenente, nella pausa antimeridiana doveva sobbarcarsi alla
“fellatio in ore” in quella che nel gergo ministeriale si
definiva l’ora erotica, dalle 14 alle 15. Sciamavano dal
ministero le frotte impiegatizie per l’onanistico food nei
bar dei dintorni. Dentro rimanevano i dirigenti, quelli d’alto
grado che usufruivano di stanza a solo. Quasi tutti si sprangavano
nel loro ufficio con la collaboratrice e consumavano l’ora erotica,
appunto.
Il guru, prima da direttore generale ed ora da ministro,
si avvaleva della bella Elisa, cui incombeva il bacio della lascivia.
Non eravamo negli Stati Uniti ed il guru non era Clinton. Nessun
timore, nessuno scandalo era da paventare. L’affaretto semifloscio
stentava a piangere, ma con pertinacia anche se con ripulsa Elisa
alla fine riusciva. Non volle però mai rapporti completi o diversi.
Conservava la sua verginità per il suo lui. Ed una volta descrisse
al guru annientato da collera gelosa l’imene violato dal suo priapo
biondo, massiccio ed inestinguibile. La fece pedinare, il guru. Gli
uomini di Tom Ponzi non ebbero nulla di impudico da riferire.
Mentivano?
E quel pomeriggio la Elisa lontana, il bacio mancato, il
disagio dell’estate incipiente in una Roma al caldo-umido ed il
telex biblico snervavano il guru come in un preludio tetro e cupo del
meritato castigo eterno. Già, il guru all’occiduo stagionare della
vita era tornato cattolico, roso da scrupoli intrisi di religiosa
tortura, inquieto, peccatore cui Dio stentava a dare l’ultima
assoluzione, destinato alle pene del fuoco eterno. Solo il giorno in
cui, con la lingua del burocrate, avesse dismesso Elisa si sarebbe
forse salvato. Ma la volontà steccava, imperdonabilmente. Che
fortuna nascere nella terra protestante dell’America clintoniana.
La porta si riaprì con nervosissimo scatto. Mefisto
sibilò:
- come glielo mando?
Il guru trattenne l’insolenza scurrile che l’esser
distratto da pensieri di chiesa e da rabbie dell’eros stava per
ingozzarlo con furia di non facile controllo:
- ma mandaglielo con la solita nota d’accompagno ….. Mi raccomando: sii conciso!
- Dovrò portargliela alla firma?
- Firma tu, firmala tu stesso.
* * *
Così quella “nota d’accompagno” è lì ora sul
mio tavolo da lavoro, nella mia villetta alla Zingarella. E qui è
d’uopo presentarmi. Sono Meluccio Cavalieri di Giorgenti. Dottore
in legge, molti anni fa; sceneggiatore squattrinato, per decenni in
preda alla mala povertà; ora ricchissimo avendo scritto scriteriati
gialli che la gente (pronuba la pubblicità) legge a valanghe. La mia
notorietà – oh quanto l’avrei voluta da giovane! – è divenuta
mitica; si è accoppiata – con mio disappunto – autorità
indiscutibile, somma, perentoria. Persino il ministero, persino
Berlusconi (ed io sono vetero comunista tutt’altro che pentito) si
avvalgono di me, come consulente (e vengo profumatamente pagato) per
dipanare i misteri dei tanti, troppi omicidi che si consumano in
questa Italia di destra, che di efferati fatti di sangue, specie a
sfondo politico, non dovrebbe registrarne di taluna sorta.
La “nota d’accompagno” reca in agghindata grafia
la firma di M. Giliberti. Non scherziamo:‘M’ non sta per Mefisto.
Michele? Mario? Manilo? Minuzio? Marcello? Marzio? Massimo? Metello?
Sì, forse Metello: mi sembra il più acconcio a quel cognome tanto
italianamente esotico. Non mi si dica: che ti costa interpellare il
Ministero? Sì, mi basterebbe una telefonata alla signorina Saguatti
(tanto modenese, tanto caruccia anche per i miei quindici lustri), ma
non ne ho voglia alcuna. Diciamo: non mi va.
Vorreste sapere se vi sono le tante note di colore che
prima ho profuso? Ovviamente, no. Eppure gli ipotattici incisi, alla
Sciascia (limitatamente alla ostica sintassi, s’intende) e i miei
irrefrenabili svolazzi fantasiosi rendono veridica, anche se non
vera, la narrazione di quel pomeriggio romano alla Farnesia che si
data 29 giugno duemila…..
Siete curiosi e vorreste sapere dell’altro? Con
comodo, a suo tempo e luogo come si conviene ad un giallo di consueta
fattura.
Sto rimestando carte, appunti, rapporti, ritagli,
missive, libri ed ho già consultato l’intero hard-disk del dottore
Aurelio La Matina Calello di Racalmuto. Ha tentato di mutarne i
connotati lo scrittore indigeno Sciascia, cercò di farlo chiamare
Regalpetra, ma Racalmuto resta Racalmuto ad onta di tutto. Ed il
dottore Aurelio La Matina Calello racalmutese lo fu fino al midollo.
In che senso? Ma nel senso da lui stesso dato in uno dei suoi
abortiti sforzi letterari: «Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia
tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere
storiche e si appalesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai
costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni
reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con
connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi
talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione
all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive.
Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna
carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici,
sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o
civili, a seconda dei tempi).
* * *
A trovarlo riverso sul tavolinetto di ignobile fattura
era stato il fratello il pomeriggio del 19 gennaio del 20…, quando
messosi in apprensione per una lunga giornata di silenzio, anche a
telefono, si era deciso ad andare a vedere che cosa fosse successo.
Era giunto tra fanghi quasi invalicabili alla cascina di contrada
Bovo, aveva bussato e non avendo risposto alcuno, col piccolo
chiavino 2
di cui aveva copia aprì il portoncino in metallo dal colore stinto
ed ebbe la violenta visione:
- Liù! – gridò e dopo il balzo in vorticosa angoscia toccò di spalla il fratello per averne la tragica conferma della morte.
Non pensò, certo, a morte violenta, credette a “morti
subbita”: del resto anche la vecchia mamma se ne era andata per
improvviso cedimento cardiaco. Spostò il cadavere - ormai
irrigidito, pendula la bocca, stravolti gli occhi - nel letto della
stanza accanto, disfatto come d’abitudine per quel settantenne
fratello, non privo d’ingegno ma nevrotico, eccentrico, loquace e
senzadio. Solo, scosso ed anche lui non più giovanissimo, Girolamo
La Matina Calello, stentò parecchio in quelle mortuarie incombenze.
Alla fine si decise: telefonò alla moglie in paese. Insieme al
figlio giunsero quasi all’istante. Il figlio sentenziò:
- non toccate nulla! C’è qualcosa che non mi convince. Innanzi tutto chiamiamo il medico.
Laureato in legge da poco, aveva conseguito
autorevolezza in famiglia.
Faceva impressione sul tavolinetto dozzinale la tazzina
di caffè ancora piena fino a tre quarti; frantumata per terra
un’altra analoga tazzina, senza caffè sparso per terra, comunque.
Non tardò molto il dottore, don Lillì Merillo.
Politico sempre fallimentare, come medico curante, bravino lo era
davvero. Girò e rigirò il cadavere. Tentennò, scosse varie volte
il capo canuto ma folto di capelli. Sentenziò:
- il dottore non è morto d’infarto: è stato avvelenato … addirittura ieri.
Il giorno prima aveva diluviato a Racalmuto: dalla
Montagna e da Bovo fiumare d’acqua erano scese a valle; avevano
trovato occluso il ponte del Carmine. Colpa di un vecchio tecnico
comunale che aveva fatto otturare il canaletto sotto la strada
provinciale. Il deflusso di acque dalle terre di Troisi aveva
sradicato alberi e con il pietrisco in crescita si eresse sbarramento
all’entratura del sottopassaggio del ponte ferroviario, ché follia
era stata nell’Ottocento quella barriera sopraelevata per fare
accedere alla stazione gli sbuffanti ma stracchi treni dell’epoca.
Il fratello del tecnico ancor oggi vuol teorizzare dovute ad
imperizia dei costruttori delle case popolari le allaganti
ostruzioni.
Girolamo pensò che don Lillì non potesse dunque che
sbagliare. Il medico che si era seduto sulla poltroncina color giallo
senape in rudimentale rivestimento di un’anima in ferro – erano
sedie e poltrone comprate d’estate all’imbocco di Canicattì –
si scosse dal suo apparente letargo, non chiese neppure permesso,
alzò la cornetta del telefono, ed ora flemmatico come si addice ad
un professionista, sia pure racalmutese, quasi dettò:
- qui alla casina di Bovo del dottore Aurelio La Matina Calello, ho trovato il medesimo deceduto per avvelenamento. Ignota al momento la natura del veleno. Ritengo risalire al tardo pomeriggio di ieri sera il decesso.
Imbarazzo, silenzi, grugniti all’altro capo del
telefono.
- Lascio tutto come l’ho trovato … non faccio toccare nulla. Penserà la vostra scientifica agli accertamenti del caso. Avvisate il giudice per la rimozione del cadavere.
La moglie di Girolamo svenne.
* * *
Rovistando tra le carte del dottor Aurelio La Matina
Calello, m’imbatto in un plico bianco a doppia tasca. Do not
fold – Non piegare ed analoga dicitura in ebraico che
naturalmente non so decifrare: Provenienza: Israele Tel Aviv, par
avion. Leggo dietro: SENDER : Melissa Cohen,
address 325 Haligilboa St., code 65223 Tel-Aviv country ISRAEL.
- Chi cavolo sarà codesta Melissa Cohen?
Allegata vi è una rivista patinata in ebraico, come
dire in turco per me. Ma un foglio è in italiano, sgangherato quanto
si voglia ma in italiano. Del resto magari sapessi scrivere io in
ebraico sia pure sgangherato. Leggo:
Caro Francesco,
Ti ringraziamo di cuore per un bellissimo pommerigio
a Racalmuto: ci hai convinti nel modo pi’ assoluto che c’è chi
ama la sua terra, in Sicilia. Speriamo di rivederti qualche giorno in
Sicilia, o, chi sa, forse in Israele? Purtroppo l’articolo sulla
Sicilia (pagine 90-94 della revista rinchiusa, “Massa Acher”)
troverai un po’ difficile leggerlo … comunque c’è anche una
foto di Racalmuto, vediamo se la trovi! Grazie anchora e tanti
saluti, anche da parte di Dubi. Melissa Cohen etc.
La foto la trovo subito ed è splendida. La precede una
sfilza di mirabili squarci fiorentini con la solita iconografia
rinascimentale. Che birichina quella Melissa a propinare alle pudiche
lettrici della terra della casta Susanna la tizianesca “Venere
d’Urbino”, la cui masturbazione femminea, sfacciata ed irridente,
è ostensa con maliziosissima impudicizia. E non solo, «bellezza
tizianesca, bellezza fisica, colta nell’intimità della sua alcova,
nella sua naturale esistenza» come singultiano i nostri scolastici
testi d’arte.
E qui mi vien voglia di pensare ai fatti nostri, alla
nostra cultura cattolica, all’ultimo catechismo del cardinale
Ruini, a questa nostra cappa di moralismo sessuofobo di vaticanesca
ispirazione.
Tiziano qui non si diletta nella pornografia? Proprio
come oggi la chiesa censura: «la pornografia consiste nel
sottrarre all’intimità dei partner gli atti sessuali, reali o
simulati, per esibirli deliberatamente a terze persone. Offende la
castità perché snatura l’atto coniugale, dono intimo l’uno
all’altro. Lede gravemente la dignità di coloro che vi si prestano
(attori, commercianti, pubblico) poiché l’uno diventa per l’altro
l’oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno:
Immerge gli uni e gli altri nell’illusione di un mondo irreale. E’
una colpa grave. Le autorità civili devono impedire la produzione e
la diffusione di materiali pornografici »(Ciò recita con sussiego
catechistico l’art. 2354).
Caro Berlusconi, beccati questa: non tu (che il gusto
del sesso ce l’hai) ma il tuo evirato improbabile successore chissà
se non finisca per accogliere l’anatema del successore di Ruini e
pronuba, magari, la casta pronipotina del castissimo Formigoni –
sia pure incinta, o appunto perché incinta – non metta all’ndice
il pornografo Tiziano e svelli dagli Uffici cotanto materiale
masturbatorio, addirittura femminile. Lo mandiamo a Tel-Aviv. Mi
piacerebbe, al mio consanguineo Gheddafi (ma quello è costretto a
ripudiare le immagini, se no, che arabo sarebbe?).
Non v’è rimedio: l’art. 2521 sancisce il pudore
senza limiti «Esso è una parte integrante della temperanza.»
Tiziano non è di sicuro un “temperato”. «Il pudore preserva
l’intimità della persona». Tiziano ha voglia di diffondere, in
tempi senza foto e senza cinema, le più intime voglie erotica di una
bagascia insoddisfatta. «Consiste nel rifiuto di svelare ciò che
deve rimanere nascosto» E l’intimo piacere poche donne hanno
voglia di svelare, ancora ai nostri pecaminosissimi giorni. «E’
ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza.» La Venere
d’Urbino, tutto al contrario. «Regola gli sguardi e i gesti in
conformità alla dignità delle persone e della loro unione.» Caro
Berlusconi, come “autorità civile” acclamata dagli
ecclesiastici, non hai scampo. La condanna è da cassazione: svelli
il Tiziano.
Tralascio di commentare la botticelliana nascita di
Venere, tutta cerulea, conchigliata, presa da sublimità erotica, di
certo splendida nudità ridestativa del fomite carnale e del deliquio
visivo. Irridente per la tenebrosa bellezza delle figliole di Sion:
nigra sum sed formosa. Giammai, però, glauche ispiratrici di
concupiscenza, botticelliane. Ma in Israele non v’è censura? Non
v’è l’analogo della mora cattolica? La licenziosità quali spazi
di permissibilità consegue?
Mi accorgo, a questo punto, di avere sfogliato la
rivista nel verso sbagliato: dovrei girarla dalla fine all’inizio
come si addice ad una pubblicazione ebraica. Non ne ho più voglia.
Mi soffermo solo sulla fotografia del panorama racalmutese. Vi è
allegato un appunto del dottor Aurelio La Matina Calello. Invero è
uno squarcio della lunga missiva inviata alla negroide Melissa (che
se è quella che appare nella rivista è un’appetitosa gnocca,
insomma una gran cucchia3
).
E’ cerimonioso il dottore Aurelio, alquanto ipocrita
però: «Quella magnifica fotografia che avete pubblicato nella
Vostra insuperabile rivista (peccato per noi, in caratteri ebraici
inaccessibili) mi richiama lembi di terra d’Israele che ebbi la
fortuna di visitare 33 anni fa. Quando parlo di terra d’origine,
non è a vanvera: a Racalmuto vi fu fino a tutto il Quindicesimo
secolo una prospera colonia ebraica: fu la famigerata Isabella di
Castiglia a disperderla. Quanto ricca, quanto potente fosse quella
colonia si evince da un celebre documento dei fratelli Lagumina.
Ho detto disperdere – ma impropriamente. Fu invece
una violenza cattolica che spinse degli industriosi e colti ebrei a
diventar marrani, a mimetizzarsi quali cattolici osservanti, persino
bigotti pur di sopravvivere in questa plaga che si dice Altopiano di
Racalmuto. Poter continuare a godere del sole di Sicilia, del suo
occiduo chiarore rifluente dalla Montagna poteva valere il mantenere
peccaminosamente frenate le pudenda.
Le mie ricerche nei registri parrocchiali della
Matrice di Racalmuto mi rendono certo e quindi ambiguamente basito
per le mie indubbie origini ebraiche.
Se mi si
perdona questo excursus, spero che Ella voglia omaggiarmi delle copie
delle mirabili fotografiche scattate a Racalmuto dalla Sua Rivista e
che forse non sono state tutte pubblicate: edito a mie spese una
periodico dilentantistico dal titolo QR (quaderni racalmutesi) di cui
all’acclusa fotocopia e vorrei lì pubblicarle con il debito
commento.»
Davvero Racalmuto, visto dal pizzo di quel calanco che
si diparte dalla Fondazione Sciascia ha richiami brulli ed opachi
come una collina del Getsemani con gli ulivi divelti. L’idiota che
pose quel masso cimiteriale non capì che Sciascia rinnegava ogni
ragionevolezza al Racalmuto od alla Regalpetra che dir si voglia.
Arido e sconfortato dichiarò invece il paese scabro di ragione e di
giustizia, quale forse va man mano divenendo. Il politicante di turno
ebbe fortuna a dichiarare Racalmuto «il paese della ragione», come
se tanto avesse pensato il locale scrittore. Non era vero:
l’ignoranza dominò vittoriosa. L’imbecille fu fatto persino
onorevole. Così vanno le cose a Racalmuto. Il fotografo d’Israele
seppe leggere le intime nudità dello spirito, seppe vedere tra le
brume sonnecchianti su miserevoli chiese e su castelli memori
d’antiche ignominie; capì il senso orientaleggiante di donne
partorienti con dolore, senza fisico piacere, di bambinelle
arrancanti su basalti scivolosi sotto l’ombrello di nailon, come la
madre giovane ma disfatta. E la tante casupole che da terranee quali
erano nei secoli del primo fiorire dell’era moderna, furono
chiavate ed inseminate di “cammare solerate”, prima in gesso ed
ora in blocchetti d’arenaria o cementizi, ignorata e violata
l’ordinanza municipale dello “scuci e cuci”.
* * *
Proprio stamani (oh quanto mi piace questo toscanismo:
ma un gnera miegliu si diciva stamatina. Oh Dante, Dante
perché sei nato prima dell’abate Meli?) ho ‘rassegnato’ (e qui
mi piace scrivere burocratese) il rapporto alle ’competenti
autorità’ sulla personalità del dottore Aurelio La Matina
Calello. Non lo trascrivo: è troppo burocratese appunto. Il senso
generale però ve lo svelo (verrò incriminato per violazione dei
segreti d’ufficio e forse di stato e forse di stati?).
Nato a Racalmuto nell’anno del signore 1930, così lo
stesso dottore Aurelio amava descriversi:
«racalmutese
da dieci generazioni, nutre per la sua terra attaccamento profondo,
tattile, senza suggestioni borgesiane, schivo di metafisiche
devianze.
Nato
a Racalmuto il 1930, da genitori anche loro del luogo, ha fatto gli
studi ginnasiali nel seminario di Agrigento: vi ha appreso latino e
greco, religione e nozioni umanistiche; vi subì le malie liturgiche
ed ebbe orecchio per le monodie gregoriane.
Il
liceo ad Agrigento, l’università a Palermo ma il primo lavoro a
Modena quale funzionario della Banca d’Italia. Carriera fulminea in
esordio; incarichi ispettivi scottanti contro Sindona, Fabbrocini,
gli uomini della P2 di Livorno etc. Finì in rotta di collisione con
lo stato maggiore dell’Istituto di via Nazionale.
Messosi
in pensione anzitempo, si dedica alle ricerche storiche
focalizzandole sulla minuscola vicenda di Racalmuto. Gli vengono in
soccorso gli archivi della matrice, della curia vescovile di
Agrigento, dell’archivio segreto vaticano, quelli statali di Roma,
Palermo ed Agrigento. Le carte locali – pure esistenti - sono
tuttora trafugate in sotto-terrazze inaccessibili.
Pubblicazioni
a proprie spese scandagliano i vari momenti del vivere racalmutese,
dai tempi più antichi - dieci mila anni fa dicono certe ceramiche –
a quelli del passato prossimo; dai parossismi geologici alle
devastazioni recenti, proprio quelle in cerca del sale, dello zolfo
ed anche del potassio.
Una linea, un filo, un defluire
che dura da oltre cento secoli, ora tenue ora in tumulto, senza
gloria ma pur sempre umano, sofferto, scandito in una sorta di
memoria demente, comunque un vivere tenace ‘come erba abbarbicata
alla roccia’».
Il profilo di smaccata
autobiografica compiacenza se lo ritagliò a proposito di un libretto
di storia locale «la signoria racalmutese dei del Carretto». 500
copie stampate, 15 vendute.
Ma a me il dottore Aurelio non la
dà a bere: alto allampanato, misogino frustrato, malato di sesso,
dedito all’autoerotismo sino alla morte, scapolo, ebbe casa
spaziosa a Roma in via del Casaletto 2123 (con fondi dispensati dalla
sua pur tanta odiata Banca d’Italia), ma dimora abituale (dopo il
pensionamento baby) nello squallido villino in contrada Bovo di
Racalmuto.
Uscito dal seminario dopo il
ginnasio (conseguita la licenza ginnasiale, di diceva allora) fece i
tre anni di liceo ad Agrigento, senza donne, come quasi tutti gli
altri suoi coetani, del resto. All’università palermitana, facoltà
di legge, ebbe il povero Aurelio a prendersi una cotta con tutti i
sacramenti per una tale Mara Cipollara, una sventola alta, bionda con
deretano a chitarra, ma con mammelle alla francese, come dire
inesistenti. Non sembrava della terra dei berberi, traccagnotti e
scuri. S’era messo a “taliarla” con maniacale perseveranza. Si
convinse della sua irrefrenabile corrispondenza dell’amoroso senso,
La “fermò”, si dichiarò. Ebbe risposta allibita, di ineffabile
sorpresa.
- ma tu sei innamorata di me, grignò Aurelio;
- no, io amo Michele, graziosamente piagnucolò lei;
- non è vero! E giù un ceffone.
Venne aggredito da una folla
inferocita, portato in questura. Fu processato ebbe una lieve
condanna con la condizionale.
Questo non gli impedì di
concorrere ad un posto di segretario in esperimento presso la Banca
d’Italia. Per sua fortuna, i carabinieri di Racalmuto non gli
avevano apposto il famigerato segno rosso nelle schede segretissime.
Quanto a politica, era decrocratico cristiano ad oltranza. Nelle
risposte segrete all’Istituto di Emissione, i carabinieri scrissero
“fervente sostenitore del partito dell’ordine”. Aurelio vinse
il concorso ma fu sbattuto a Modena, che raggiunse un pomeriggio del
31 gennaio, quando ferveva la festa di S. Geminiano, protettore sommo
della città e titolante la banca cittadina, affidata alle cure del
nipote del pro-segretario di stato, mons. Tardini. Il giorno dopo
ebbe a cadere tanta di quella neve a Modena (“la cacca degli
angeli”, diceva Aurelio sentendosi spiritosissimo) da intristire
irrimediabilmente il poco ilare cuore del neo dipendente della
Filiale di Modena della Banca d’Italia. Non ebbe più donne, salvo
un’avventura che forse dopo rivelerò.
Mara frattanto si era sposata col
suo Michele, un appuntato dei carabinieri anche lui bello, aitante,
nordico, seppure nato a lu Naduri.
Mara, vergine, fu deflorata in un alberghetto nei pressi della
stazione centrale di Roma. Michele fu maldestro: Mara, prima esplose
in risa isteriche vedendo quell’uomo per la prima volta nudo col
suo affarone gonfio ma frettoloso. Poi strillò anche per il dolore
fisico. Ebbe ripugnanza del sesso. Subì dopo qualche coito, con lui
sempre ‘precox’. Alla fine si ignorarono entrambi: entrambi
avevano ormoni sovrabbondanti dell’altro sesso. Trovarono splendidi
amanti, tutti e due nel versante della peccaminosa omosessualità.
Solo i vicini del piano condominiale capirono qualcosa: sembravano
coppie di coniugi amici. Si sussurrò di orge: non era vero. L’amore
veniva consumato in due camere separate, in due letti diversi, tra
appartenenti allo stesso sesso. La coppia estranea cambiava: non
erano coniugi, lo davano solo a vedere. Mara appassì presto: morì
giovane, senza figli, senza rimpianti. Di Aurelio non ebbe mai modo
di ricordarsi o non volle mai. Michele sparì, nessuno ne sa più
alcunché.
Aurelio a Modena trascorre n
biennio oscuro ed ingrato: finito in tesoreria, doveva vedersela con
catorci, antenati dei moderni computer in rete, a battere barre nere
e barre rosse e rilasciare quietanze e documenti similari nella
sterile sudditanza ad una contabilità di stato ottocentesca. Se non
veniva da Roma l’ordine dell’assegnazione all’ufficio
segreteria, cambi e vigilanza, il dottor La Matina Calello, manco
segretario di ruolo passava.
Nel nuovo ufficio, dovette subito
cimentarsi con il burocratese ed aveva la peggio nei confronti del
collega un tantinello più anziano di lui. Il capo ufficio aveva una
figlia appassita e negretta ed avrebbe voluto appioppargliela.
Aurelio non se ne dava per inteso ed il capo ufficio finì con
perseguitarlo, irridendo agli strafalcioni (o meglio alle
inadeguatezze stilistiche dello scrivere lettere volte ad ottenere
l’autorizzazione ad accordare tre zampilli anziché due ai bidet
dell’appartamento di servizio del signor direttore) ed alle
reiterazioni concettuali nelle mensili relazioni dell’andamento
dell’edilizia modenese (sulla quale Aurelio era del tutto
disinformato).
Una bella pezza di pecorino col
pepe – fatta venire da Racalmuto – ammansì il capo ufficio
segreteria, cambi e vigilanza, frustrato per le bocciature annuali
nel concorso interno al grado di vice direttore ed angustiato da una
famiglia spendacciona ben oltre il pur lauto stipendio della Banca
d’Italia.
E fortuna su fortuna, a Modena
giunse il dottor Pelillo, reduce da una rappresentanza della Somalia,
con voglie amatorie (giustificabili con quella moglie bresciana,
svuotata di carne e di sesso, acida, impura ma tutta all’interno –
sposata per denaro, era per di più risultata intestataria di quote
societarie in irrimediabile stato di decozione). Il direttore fiutò
in Aurelio uno scrittore ed uno storico mancati: lo mandò in
biblioteca per ricerche sulle tresche tra Maria Cristina di Svezia ed
il cardinale Borri.
- sa, dovrò farne una conferenza al rotary, alla conquista delle disponibili signore della borghesia modenese, appetibili anche se alle prese con la cellulite.
Aurelio si smarrì.
- che dottore? Non sa che cosa è la cellulite? Non ha mai goduto delle bellezze posteriori di una quarantenne?
Uomo di mondo, il dottor Pelillo,
intuì e non imperversò.
Aurelio fu abile nelle ricerche
sull’alchimia del cardinale Borri; non trovò molto, o non seppe,
su solleticanti fatti delle secentesche alcove cardinalizie o sulle
reali debolezze di una donna dal volto mascolino, dalle zinne
prorompenti, dal cervello di prim’ordine, colta, grecista,
latinista e poliglotta. In questo supplì mirabilmente il direttore
Pelillo: giammai scurrile, sinuoso, ammiccante, ottenne strepitoso
successo. Risero sboccatamente le signore; nessuna – pare – che
si sia concessa al brizzolato direttore. Ai due figli –
elegantissimi ed aitanti – sì. Usavano la macchina di servizio. Vi
lasciavano con grande incuria preservativi ricolmi. Il custode era
furente.
Il dottor Aurelio La Matina
Calello cotali aspetti non interessavano per nulla. Continuò in
ricerche letterarie, funse da segretario in arditi incontri sindacali
presso la filiale della Banca d’Italia di Modena, ispirò relazioni
inconsuete al direttore. Non toccò più pratica alcuna.
- lasci a quei cretini dei suoi giovani colleghi lo studio e l’applicazione del profluvio di numeri unici, roneate, circolari e disposizioni con cui Roma ama inondarci. Noi abbiamo intelligenze per non provare tedio delle imbecillità.
1
) non nel senso del Traina (= parlar con facezie), ma in
quello del paese mio, come dire agghindate ma sciattamente;
intraducibile dunque.
2
) al maschile come usa a Racalmuto
3
) Il senso va molto più in là del casto Traina.
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