Il contesto storico di RACALMUTO
Note orientative. Un quadro storico
di estrema sintesi.
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo
ha lasciato, da quasi dieci millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora
intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico,
quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio
a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a
prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a
tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare
divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana sarebbe del tutto scomparsa
(a meno che non abbia lasciato – come più logico - testimonianze atte a
superare l’onta del tempo).
In Sicilia, a partire dall’VIII
secolo a. C., inizia il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto, questo
nostro paese dell’entroterra agrigentino,
appare completamente estraneo – nelle fasi di esordio – a codesto
processo di colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia ellenica di
Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne
del nostro altipiano. Di documentato, però, non abbiamo nulla e dobbiamo
accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci
fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni».
Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da
Sicilioti.
Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è
solo sporadico l’interesse di coloni, che
solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di
Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie
nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica
romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come
attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di
cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese,
anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località
siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena
epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del
luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti secondo pur sommi
archeologi all’imperatore Commodo (ma
moderni più ponderati studi dissolvono quella datazione) e che in ogni caso
sono collocabili tra il II al IV secolo d. C. e che stanno a comprovare una
intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a
qualche decennio fa prosperava tale industria estrattiva.
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il
silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei
bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per
razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441
almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio
racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni
dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a
sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del
pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro
ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre.
Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della
Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di
Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono
concentrarsi nelle contrade di Grotticelli, di Casalvecchio e della decentrata
Montagna e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie
sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste,
è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze
delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la
significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino
all’incursione araba, allorché appassì e si disperse. Alcune monete -
rinvenute, però, nella periferica contrada della Montagna - portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas
e Tiberio II. Il primo risale al 641; il
secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso
nel 705 ([1]). Le
tante e ricorrenti vestigia archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti
di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie
abitative affioranti, etc.) che si rinvengono
nella zona che va dallo Judì al Caliato, dalle Grotticelle a Casalvecchio
e da ultimo, secondo rinvenimenti recentissimi, nella plaga sotto fra Diego, attengono alla cultura
bizantina prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa
e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata
cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né
rinvenimenti archeologici, né testimonianze scritte, né tradizioni appena
attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel
Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana
pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo il loro paese
non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome
del paese - o l’etimologie saracene dei vari lemmi della parlata locale, resta
da vedere se risalgono ai tempi della dominazione musulmana o non piuttosto,
come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte
popolazioni arabe. A sfogliare una
qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di
storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità,
risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi
di vaneggiamenti, di fole, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né
consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di
2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né
nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo
credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz
ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di
Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria
agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle
imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera
operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a
quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e
994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore
di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per
bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al
suo Padrone Grande a seguito
dell’ordine ricevuta dall’Emir di
Giurgenta ([2]) Ma l’intera faccenda
nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella.
Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare
lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una
mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», non
sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è
falso». Ma ecco che lo stesso Sciascia
confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento
pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» ([3]) E di
piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il
compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre,
Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben
vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel
presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza
storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva
già, un pò più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato
da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla
morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende
oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o
più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v.
pagg. 33 e segg.), sull’onda del famigerato abate Vella. E di fantasia in
fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento
confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi
eroi saraceni racalmutesi, Apollofar
e Apocaps ([4]),
distintisi nella lotta contro i Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò
Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il
Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che
Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello
e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che
furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe,
Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e
non si è certi della corretta trascrizione di tutti i toponimi. Sia come sia,
Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto
Rahal. Un tempo abbiamo aderito a
tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il
nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun
centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte
è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima
metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a
Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche
modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della
Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il
periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il
primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di
Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto
il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio
delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché
costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese
non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche
presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che
seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero
centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al
1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi annotò - commentando un
diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « .... l'unica e più antica notizia di Racalmuto,
che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche
etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca
originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la
quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind.
XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu
denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra
i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale,
greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ». ([5]) Ma
la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di
Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ([6]). Il Rachal Chammoùt (
xammon) del diploma greco del 1178 nulla ha
dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno
Racalmuto. E ciò destituisce di ogni
fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel
1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale
S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono
stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite
racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei
canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S.
Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc.
Agrig. à Roberto Malconvenant domino
illius agri extructum...” ( [7]) «A
tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era
quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento, da Roberto Malconvenant, signore di quel
territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su
documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961,
si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S.
Margherita Belice.
Svanisce così la credenza di un
dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei
Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli
Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli
scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile;
sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente
una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia
pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino - autentico ed
illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte
le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci
informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si
abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande
famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca
tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di
Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro
Nigrello di Belmonte ([8]). Il
Vespro ci mostra un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e
d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei sindaci fra le persone più
cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al
nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto
pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là
del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre:
Racalmuto deve versare 15 once ([9]). Il
Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([10]). Il
26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus
Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor» ([11])
cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale
con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si
trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti
probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con
perizia di antica tradizione. Non erano più villani
dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino furono
tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere
prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino
a quando costui non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([12])
Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il
risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto
di manodopera contadina. ([13]) Nel
1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa
agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia
per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di
polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono
così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere
più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i
proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
Fu a seguito dell’assestamento che
Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi
coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere
il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il
personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ([14]) Nel
1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso
di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà
possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il
castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge maestoso ed imponente entro la cinta del
paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello
pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove
si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco
recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca:
«Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano
e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per
dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria
sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo
decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su
Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi
i figli del fratellastro Antonio,
Gerardo e Matteo del Carretto. ([15]).
La narrazione sinora soltanto
abbozzata tende ad additare un punto per noi basilare della
storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il
salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino,
sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di
Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a
divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra
“meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.
Francamente non riusciamo a
concordare con Leonardo Sciascia secondo
il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile”
nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di
Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute
angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e
rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ([16]) Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame
produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure
care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il
medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” -
martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack
Smith ([17]) -
Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore,
forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti
celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o
disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli, Racalmuto
lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche
e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla
cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati
magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti
nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo
sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta
cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici,
sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a
seconda dei tempi).
Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con
passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti
quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura
degli autori paesani.
E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può
certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503, così come, in buona fede, non può affermarsi
che vi siano state tasse per uzzolo dei
Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola
del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la
presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero
locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento
di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro di lettura: è solo
sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico però una grande
dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per
una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in
definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni
racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se
vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere
di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le
donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e
“gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in
natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a
prezzo calmierato), e via di seguito.
Lo studio cui ci accingiamo ha
l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti e ricerche
sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più che
esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di
auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti
notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561
al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.°
56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche
curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo
atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta
polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di
una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse,
risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e
governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e
religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi
demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto
ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità
degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a
cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare
ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti
non è da tutti - , ad incentivi
economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse
in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una
delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione
dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il
libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così
com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che
aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi
trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti
racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più
intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver bisogno di
frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato
storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?
Francamente credo di no e questo libro - bando
alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua
vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a
Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta
Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper
sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese
volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza
nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il
Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle
tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il
riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle
prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali
questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali,
viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del
Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo,
uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida
ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come
l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo
Covarruvias e quelli latitanti come il
napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo
e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua
colpa.
I falsi del
Tinebra Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e
tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello
quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato
nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da
rendere talora irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla
“carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di
essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero, lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì
con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”.
Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo. In ogni caso l’uomo invita al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti.
Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della
borghesia postunitaria racalmutese. Abbiamo potuto fotografare interessanti
documenti dei primi anni del Settecento ove figura il timbro a secco del Comune
di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma
a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo
io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola
come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni
- sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo
sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche
vezzo omosessuale.
* * *
L’intreccio
del volume che presentiamo utlilizza fra l’altro una fonte, sinora
sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a
Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende,
disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico
racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è
avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del
Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti
fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto
viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà
agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere
un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola
nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale
con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta
letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia
Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di
sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo
.. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo,
l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese,
l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi
si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se
il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità
esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su
Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto
- quella che si dipana dal 1271 sino ad oggi - è solo uno scisto della storia
ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo la magistrale opera di Fernando
Braudel su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel
frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del
Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le
scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o
un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate
note delle sue vicende.
E la
documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile
presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non
parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torino o di quanto trovasi su
Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.
Racalmuto, la
patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica;
potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso
nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile
locale.
Non sappiamo
se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque,
tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli
che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della
sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della
famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della
curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto
civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con
l’invadente ruolo conventuale di
francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori
contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà
terriera, con gli oneri dominicali del conte sulle case e sulle terre, con il
terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro
quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la
gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come
moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi
presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora -
collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda
fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una
faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i
suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna;
imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.
Queste
ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta
l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie)
ai “diritti di quarta” della Curia
vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa
Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare
con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per
battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava
il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.
*
* *
Il lavoro di
ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui
libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e
morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza
distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad
oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici;
quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei
primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in
gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla
Matrice di Racalmuto, no. Solo una mano
sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine
racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di
via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che
attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d.
Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben
guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha
sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare
quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario
Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana il 24 aprile 1879. ([18])
* * *
Quando il
giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana - si mise a scrivere improvvisandosi storico
locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno
ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del
Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio
Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di
una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande
Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato
in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando
crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a
Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò
avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo
ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso
Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto
- che secondo l’insinuazione di Sciascia fu fatto trucidare dal monaco – il
conte era poco più che tredicenne.
Non fu, poi,
questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno
ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad
accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in
cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del
“terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte
morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno
con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore
dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea
(e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la
giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era,
costei, una Ventimiglia.
(E tanto grazie a recenti scoperte d’archivio.
Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta
marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti
et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae
defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267
v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo
del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel Cenobio di S. Lorenzo il 28 ottobre 1654).
Anche il pur
meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere
disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una leggenda
di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni]
Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una
inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di
matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di
detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo
borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA
sposa SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA.
Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:
Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo
Superfluo
aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome
e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.
* * *
Se poi
consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni
o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di
Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da
solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una
distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua
impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente
raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in
deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle
spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia:
Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).
E dire che
sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto
sacerdote - atto transattivo che si
conserva in Matrice - per fugare tali
infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”;
la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al
primo ventennio dell’Ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che
non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.
* * *
Mi rincresce
davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro compaesano
sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il grande
scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono dati
sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di suo
nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).
1690 circa - SCIASCIA LEONARDO M.°
29.9.1726 - SCIASCIA GIOVANNI
M.°
7.1.1754 - SCIASCIA LEONARDO
M.°
24.2.1802 - SCIASCIA CALOGERO
26.8.1810 - SCIASCIA PASCALIS
25.10.1884 - SCIASCIA
LEONARDO
27.3.1920 - SCIASCIA PASQUALE
8.1.1921
- SCIASCIA LEONARDO
|
Sciascia è
racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi
dell’Ottocento” come amò credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente
avversione locale verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia
ama inventarsi un bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal
Naduri - cito Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna:
essere dunque zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è
venuto a Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che
era stato, a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure
commerciandole”. Non so dove abbia appreso
queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri
parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero
genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso
Sciascia.
L’invocato
“nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla
“maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo),
apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad
un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina
Vincenza Quagliato.
“Lapsus della
memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può neppure
affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse riferirsi al
“nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo Sciascia. Invero, anche costui era racalmutese, figlio
di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia, professore universitario,
di cui parla il Tinebra ed a cui lo
stesso Leonardo Sciascia teneva particolarmente.
Mi si perdoni
questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il «'lapsus'
della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante occorso - o
cui il grande scrittore amò indulgere - per esigenze dell'intelligenza ai fini
di uno dei suoi raffinati aforismi. Se
voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono
'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o
«un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so
se borgesianamente o
esistenzialisticamente.
Racalmuto non
ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal
altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile
moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo
nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra'
sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia
convinzione.
Non pretendo
certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del grande
Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria di
quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag. 54
), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene atto
a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore racalmutese.
La storia di Racalmuto va
integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo
espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente
esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti,
completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della
storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia.
Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta
fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile,
frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di
inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocri) famiglie, sindaci e
podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e
sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papi neri, di santi e di venute
miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili
e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia
francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai
conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare
tra i miasmi dei calcaroni solfiferi
o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e
apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare
Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del
1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono
nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e
conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato,
acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletora di uomini
illustri (oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi ma quei bambini non potevano scrutare ciò che
sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro ‘sguardo’ si avvale di
ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti
archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e
nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di una rivisitazione della storia (o microstoria,
che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.
[1]) Georg Ostrogorsky : Storia dell’impero bizantino, Torino 1993. Per ERACLEONA v. pp. 95,
99, 100 e 543; per TIBERIO II v. pp.
120-122, 157 e 543. Le notizie
sulle monete ed i dati di riferimento cronologico sono desunti dagli studi di
André Guillou (v. Arch. Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149 ove si
accenna ad un tesoro di «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».)
[3])
AA.VV.: Pietro D’Asaro, il Monocolo di
Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.
[4]) Da
un manoscritto sunteggiato da Eugenio Napoleone Messana: Racalmuto nella storia
della Sicilia, Canicattì 1969, pag. 39.
[5]) Carlo Alberto
Garufi, PATTI AGRARI E COMUNI FEUDALI DI NUOVA FONDAZIONE IN SICILIA,
parte II dell'articolo, in ARCHIVIO
STORICO SICILIANO, anno 1947, pag. 34.
[6]) Vincenzo Di Giovanni: Il Monastero di S. Maria di Gàdera, poi
Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi, in Archivio Storico Siciliano 1880 pag. 15 e ss.
[8])
Registri della Cancelleria Angioina - vol VIII - n.° 209 - Napoli 1957.
[9])
Documenti da servire alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica ,
Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9
settembre 1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona
di Aragona - pag.295.
[10]) Henri
Bresc, Un monde
méditerraneéen. Économie
et société en Sicile - 1300 - 1450 - Regione Siciliana Assessorato ai Beni
Culturali e Ambientali e della Pubblica Istruzione - Accademia di Scienze,
Lettere e Arti di Palermo - 1986, Tomo
I, pag. 64.
[11])
Documenti da servire alla storia di Sicilia - Prima Serie - Diplomatica ,
Palermo 1882 - De Rebus Regni Siciliae (9
settembre 1282-26 agosto 1283) Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona
di Aragona - pag. 9 e 364.
[12])
Scrive il Pirri «cum Agrigentina
ecclesia propter bellum Saracenorum et propter amissionem villanorum, quibus
quondam Fridericus Imperator eamdem ecclesiam spoliavit, eos in Apuliam
tranferendo, tum propter alia gravamina, quibus tam dictus Fridericus quam
officiales sui supradictam ecclesiam vexaverunt, ad eam tenuitatem et inopiam
devenerit ut dictus episcopus [Rainaldo d’Acquaviva] non haberet unde se et
ecclesiam suam sustentaret, ei concessit omnes redditus et proventus judaeorum
et tintoriae civitatis Agrigenti.. » Cfr: Rocco Pirri: Sicilia Sacra - Notizie
della Chiesa Agrigentina - pag. 704.
[13]) ibidem
[14]) Scrive il Surita: « a onze del mismo
mese de Noviembre [1282] Federico Musca conde de Modica , que
estava en la Escaleta, con gente de guerra, y tenia cargo de la costa de
Catania, y del val de Noto, embio cinco mil almogavares a Calabria contra los
lugares vezinos de Rijoles.» Cfr.: ÇURITA GERONYMO, CHRONISTA DE ISTO
REYNO: ANALES DE LA CORONA DE ARAGON -
ÇARAGOÇA 1610 - Libro IIII de los Anales - MCCLXXXII - De la passada de los
Almogavares a la Corona, y del destroçio que hizieron en la gente de armas que
alli estana. XXVII (pag. 253).
[15]) «Praedictus dominus Gerardus - recita un
diploma dell’archivio palermitano - tamquam primusgenitus habet et habere
potest et debet iure successionis et hereditatis quondam magnifice domine
Constantie de Claramonte eius avie, quam etiam
hereditatis magnificorum quondam
domini Antonij de Carretto et quondam domine Salvagie, parentuum suorum, nec
non quondam magnifici domini Jacobinj de
Carretto eius fratris, quam iure successionis et hereditatis quondam magnifici Mathei de Auria et
etiam quocumque alio iure competente
domino domino Gerardo aliqua ratione occasione vel causa et specialiter in
baronia Racalmuti ut primogenito magnificorum quondam parentum suorum et
Iacobinj eius fratris, et eius territorio castro et casali nec non in bonis
burgensaticis ....».
[16])
AA.VV.: Pietro D’Asaro, il Monocolo di Racalmuto - Palermo 1985, pag. 20.
Nessun commento:
Posta un commento