Pillole di storia. Il favarese Vittorio Ambrosini e la strage di piazza Fontana.
C’era un favarese come collaboratore del tenente colonnello Pièche, un intermediario fra ambienti dell’estrema destra e servizi segreti. Si trattava di Vittorio Ambrosini che venne drammaticamente investito dalle vicende di piazza Fontana e dell’eversione neofascista del 1968-69. Iscritto al Psi nel 1920, Vittorio Ambrosini partecipò alla mobilitazione del “biennio rosso” (1919-20) per poi avvicinarsi ed aderire al fascismo. Incluso nell’elenco dei 622 confidenti dell’Ovra, si candidò nelle elezioni del 1948 con il Msi dopo aver difeso Amleto Poveromo nel processo per l’assassinio di Giacomo Matteotti. Fratello di Gaspare (deputato della Dc e poi giudice della Corte costituzionale), tornò ad avvicinarsi agli ambienti dell’estrema destra negli anni sessanta/settanta sostenendo di aver partecipato il 10 dicembre 1969 a una riunione del gruppo Ordine Nuovo a Roma poco prima della strage di piazza Fontana e di essersi convinto del coinvolgimento del gruppo nell’attentato. Amico del ministro dell’Interno Franco Restivo e del deputato comunista Achille Stuani, denunciò a loro due, il 14 dicembre 1969, come la matrice della strage fosse da ricercarsi nel “gruppo di dissidenti uscito dal Msi (Ordine nuovo) che andarono in licenza in Grecia”. Dopo aver ritrattato tale versione davanti ai magistrati nel luglio del 1970, Vittorio Ambrosini fu ricoverato nel settembre del 1971 presso il policlinico Gemelli di Roma, dove morì precipitando dal settimo piano in circostanze molto dubbie (la versione ufficiale parlò di suicidio).
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