Noi restiamo
impigliati – lo confessiamo – nella aporia o pseudo contraddizione di Sciascia
che nel presentare la storia del Tinebra, prima dice del libro di Eugenio
Napoleone Messana che trattasi di opera “voluminosa, fitta di notizie” e poi –
a conclusione della sapidissima prefazione – vuole il nostro paese povero di
memorie storiche di origine libresca o documentaria, dacché “limitato è il
numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e
manoscritti”. L’insigne scrittore si salva in corner asserendo e dimostrando
che “moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono
estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria”. Ma se anche noi, trovata
venia per gli sporadici spunti sopra estesi, seguissimo (pur con la modestia
dei nostri mezzi espressivi) il sommo racalmutese ci parrebbe di andare a
navigare in una memoria demente, per dirla con qualche ermetico del ‘900.
Sciascia esige
invero notizie “narrabili”, (oppure, in mancanza, notizie fervorose distillate
dalla memoria collettiva del paese). Ci rammenta, in Occhio di
Capra: «la mia infanzia è stata tutta un rondò di zie e zii. Di
parenti e di amicizia. Personaggi indimenticabili: e pochi credo di averne
dimenticati, scrivendo. Col loro nome o dandogliene un altro. Ma la memoria,
che con gli anni si fa lunga ed aguzza a cogliere le cose lontane, oggi me ne
fa riapparire due di cui mi pare di non avere mai scritto …». A sceverare Occhio di Capra o Nero su Nero
o Cruciverba e soprattutto Fuoco
all’anima, abbiamo di che rimembrare con il ricordare di Sciascia su
fatti usi e bizzarrie (ed anche demenze) racalmutesi. Ma la storia, quella non
astringibile in aneddotica di famiglia o di paese? Beh, Sciascia è pessimista.
A Racalmuto è rada, larvatissima la “vita
che Américo Castro direbbe «narrabile», da «descrivibile» che appena e
soltanto era.” E molto ci affligge e ci intimorisce questa lezione contenuta
nella presentazione sciasciana della storica mostra su Pietro d’Asaro, svoltasi
dal novembre 1984 al 13 gennaio 1985 nella Matrice (destinata - pare - per
incuria, insipienza e peggio a crollare) e nel santuario del Monte, acropoli
moderna votata all’ascesi e alle mistiche redenzioni locali.
Castro ci
avvince, in qualche modo lo conosciamo e quindi crediamo di non tradire la sua
teorica addentrandoci in ricostruzioni fattuali racalmutesi che se non proprio
nobilmente (e presuntuosamente) narrabili restano pur sempre rivelatrici di
vicende descrivibili, e per la microstoria locale tanto va perseguito, ascrivendosi
a merito per interessi della cultura o. se non altro, della memoria collettiva
del locale aggregato sociale. Non mancherebbe un ritorno turistico, non scevro
di additive risorse economiche, disprezzabili dalle guglie degli elitari colti
o supponenti tali, necessitanti per la sopravvivenza della collettività. Cose
piccole, non disprezzabili, però.
In tale
riquadro, va riguardata questa nostra fatica. Vogliamo riscrivere la storia di
Racalmuto – narrabile o solo descrivibile, poco ci importa. E ci pare di non
potere essere smentiti se diciamo che tante, tantissime sono le notizie
ricavabili da scritti altrui e soprattutto da documenti, diplomi, “rolli”,
archivi - nazionali, vaticani, esteri e persino parrocchiali. Certo non basta
additarli, quegli archivi, per credersi benemeriti della rievocazione storica
racalmutese. Occorre faticare, respirare polvere – nociva ai polmoni ed agli
occhi – e soprattutto “intelligerli” (alla Sciascia per intendersi). Non
presumiamo di riuscirvi in pieno. Ma qualche risultato ci sembra di averlo
conseguito. Agli altri, però, l’ardua sentenza.
Il più antico
documento, a ben vedere, è la grotta di Fra Diego: non è molto che si chiama
così. Sciascia con la sua Morte dell’Inquisitore
ha contribuito a sancire tale denominazione. Prima, in una visita di William
Galt attorno al 1934, pronubi Pedalino De Rosa ed il notaio Sajeva (dice
Giovanni Di Falco che fu notaio racalmutese per un solo atto) si era insinuato
che il toponimo di Fra Diego che pur circolava si potesse riferire al noto – e
per i clericali, famigerato – fra Diego La Matina, monaco agostiniano del ‘600
dell’ordine centuripino di S. Giuliano.
Vi avrebbe addirittura preso dimora nei periodi della sua fuga. Pensate
che nei rilievi militari dell’esercito effettuati subito dopo l’Unità d’Italia
il toponimo non figura in alcun modo.
Quell’antro,
ubicato a sud-est, poté davvero essere adatta dimora al primo uomo che ebbe il
destro di sistemarsi nelle nostre plaghe. Egli poteva essere benissimo del tipo
di Cro-Magnon, e la sua periodizzazione non osterebbe ad essere collocata verso
una trentina di migliaia di anni fa. La grotta di fra Diego, per noi, è
l’impluvio di acque piovane che discendevano dal monte Castelluccio. Sotto, ad
un certo momento, ebbe a crollare una enorme volta gessosa; vi fu il formarsi
di un esteso zubbio, quello gigantesco ai piedi della
grotta, ai fianchi a ridosso. Che cosa sia uno zubbio
è detto in testi scientifici. Qui basta accennarvi. Così sotto il costone
abbiamo ora ben sette inghiottitoi, a dire del mio amico sig. Palumbo di
Milena. E quegli inghiottitoi vanno investigati, esplorati da squadre di
speleologi professionisti: più della grotta visto che ivi non è stato trovato
granché, almeno sotto il profilo archeologico. Nei sette inghiottitoi a valle
vi saranno di sicuro argille cotte ed altro materiale sicano e d’altre culture,
a testimonianza del vivere che in Gargilata v’è stato con un continuum che sempre il mio amico Palumbo mi
mostrava analizzando i minuscoli cocci che affioravano. Dalla civiltà
pre-sicana (quale noi riteniamo vi sia stata in base ai reperti archeologici
risalenti ad una decina di migliaia di anni fa, come si è dimostrato nella
contermine Milena), a quella delle tombe sicane (coronanti la stessa grotta e
che si sogliono datare agli esordi del secondo millennio avanti Cristo), alla
successiva della Magna Grecia (dipendenza agragantina) e quindi alla civiltà
greco-romana, a quella intermedia del passaggio dei barbari (vandali, goti,
etc.), alla restaurazione bizantina, per giungere a certa ceramica araba che
andrebbe studiata con molta attenzione per i risvolti nella chiarificazione
della dominazione araba (a dire il vero berbera) e del succedersi delle vicende
legate a normanni e svevi, sino al 1271. Questo caleidoscopio storico giace
negletto in terre un tempo vivificate da una sorgiva cui da bambino andavo ad
attingere l’acqua con una minuscola brocca zingata (lanciddruzza);
si trovava nello sprofondo di Gargilata. Ora, per incuria delle autorità
preposte alla vigilanza la sorgiva è stata sotterrata per un po’ di vigna.
Quelli di Agrigento hanno erroneamente invertito le particelle catastali
soggette a vincolo ultraprotettivo. Mera disattenzione o censurabile
compiacenza? E perché, nonostante le mie segnalazioni, non se ne danno per
intesi?
La vita a
Racalmuto parte dunque da Gargilata, tanto propinqua a Milena. E citiamo Milena
giacché decenni di scavi e ricerche, da parte di superprofessori
dell’Università di Catania (indichiamo per tutti: De Rosa) rendono eminente la
cultura pre-greca dei Sicani. Quelli che indugiano su Gardutah, o su
Casalvecchio, o su lo Judì e via discorrendo peccano di erudizione. Faranno
tutto ma non storia o veridica microstoria racalmutese. Se Sciascia incide il
bisturi del suo scrivere alato nella locale microstoria per dirci che
“Racalmuto … [uguale] Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli
abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza”
(Occhio di Capra) ed indulge nella diceria del “paese che esisteva già, un po’
più a valle” (presentazione mostra Pietro d’Asaro), e se giunge persino
all’aforisma di un paese (che «profondamente gli pare di conoscere, nelle cose
e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e
nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice
di Buenos Aires. “ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore
alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”») la cui vita
non si riesce “ad immaginare, a vedere, a sentire… prima che gli arabi vi
arrivassero e lo nominassero”, a noi sia concesso il privilegio del dissenso, o
almeno dello scetticismo. Si pensi, non era solo nelle anagrafi parrocchiali
che si scriveva Xaxa, ma anche nei rolli, nelle carte notarili, negli archivi
laici. Ed il nome nulla diceva; pure le etimologie artatamente arabe sono
ridevoli. Si pensi, oggi qualcuno, con soldi regionali, ci vuole erudire che
tutto ha valenza terminologica araba (anche Montedoro, anche Gallo d’oro, anche
… etc. etc.). Vedremo che di mirabilia in mirabilia, per il più grande arabista
vivente, Racalmuto deve intendersi come il paese del moggio. (E D’Annunzio non
ha fiaccole da nascondervi; a meno che questo non sia pretesto per far
scintillare la rutilante poesia dell’Abruzzese sul palcoscenico del locale
teatro, costosissimo nella erezione, ancor di più nella ricostruzione e adesso
nel mantenimento di nebulose fondazioni.)
Del resto non si
potevano aspettare gli arabi per trasformare plaghe ubertose in dimora vitale,
autoctona. Racalmutesi da trentamila anni ce ne sono stati anche se non si
chiamavano così. E dicevamo che si erano acquartierati a Gargilata, da cui
sciamarono lungo il costone del Castelluccio, lungo le alture quasi dentarie
del Serrone, da est ad ovest, ed anche giù nel vallone a tramontana, là dove
v’era pastura, possibilità di caccia, germogli frumentari, terra atta a vitigni
o ferace d’erbe per pascolo. Le testimonianze sono quelle delle tombe (a forno
prima, a tholos dopo); o gli incavi funerari bizantini. Le nostre modeste ma
irriducibili investigazioni del suolo ci hanno confortato di conferme per
significativi manufatti, per ruderi che certificano, che ancor oggi segnalano
il vivere antico tramite gli onori della tumulazione nella pietra friabile, là
dove era disponibile.
Prima del
Pliocene centinaia di milioni di anni fa, ovvio che l’altipiano racalmutese
fosse tutto un mare. Cominciato il prosciugamento nel versante dal Castelluccio
a tramontana, appena si ebbero a formarsi acquitrini pare – sono sommi
scienziati ad attestarlo – che sciami e sciami di vibrioni (li chiamano col
termine di Desulfovibrio desulfuricans)
pavimentarono il territorio; e si dice vi deposero gli strati solfiferi delle
future miniere. Altri sconvolgimenti
geologici subentrarono e proprio nel Pliocene (circa 25 milioni di anni
addietro) l’intero effigiarsi del Vallone dal Castelluccio fino al
fiumiciattolo ed oltre sino al sistema
collinare della Pernice, da sud a nord, e dalla Montagna giù giù sino allo
“Strittu”, divenne come oggi lo vediamo ed amiamo. Il vulnus minerario del
paesaggio naturalmente fa eccezione.
L’altro
versante, da est a sud e da sud ad ovest, quello che plana sino al mare dalle
punte del Castelluccio e del Serrone suole assegnarsi agli esordi del
Quaternario, al Pleistocene, ad era recente (ma si fa per dire visto che
dobbiamo parlare di sette/otto milioni di anni fa). Qui, da una parte la terra
è pigra; Cugni Luonghi, Mangiauomini ed altre lande
acquitrinose non hanno destato molto attaccamento alla terra; la moderna
costruzione di un autodromo lascia nell’indifferenza i racalmutesi (pur se vi è
da congetturare che verranno assordati); altro discorso invece per il versante
ovest: se vi si progetta un aeroporto tanti arcigni paesani si ribellano. Terre
feraci, humus fertilissimo, terreno intoccabile insomma vogliono
rappresentarcelo. Stanno ordendo una rivolta civica. Manco a farlo apposta, a
mo’ di torre vi è la contrada Noce ove albergava d’estate Sciascia per
scrivervi i suoi non facondi libri. Sapeva raccogliervisi ed ispirarsi e
comporre con la sua prosa non scivolosa, ipotattica disse Pasolini. Il silenzio
si addice ai dintorni della Noce, scrivono persino gli eccentrici organi di
stampa meneghina.
Storia narrabile
dunque anche quella preumana delle ere geologiche. (se non vi era l’uomo, vi
sarà).
La civiltà
sicana che stanziava a Milena, alle Raffe, sotto Mussomeli si irradiò anche
nelle contermini terre di Racalmuto. O, come amiamo pensare, da qui, epicentro
per fertilità del suolo e vicinanza al mare, passò all’interno sino alla Rocca
di Cocalo. Le note del Mauceri, [1] nelle
relazioni al Bullettino romano del 1860, dimostrano un iter sicano che da
Licata si inerpica sino all’interno,
sino a Racalmuto. L’ingegnere delle ferrovie, invero, attribuisce al nostro
territorio Pietralonga (ove le “pruvulate” per avere pietrame da spalmare per
le rotaie della costruenda strada ferrata rivelarono necropoli sicane subito
depredate). Apparteneva invece a Castrofilippo. Nel 1980, nel chiosare un piano
regolatore racalmutese, l’insigne archeologo De Miro segue pedissequamente
l’errore del Mauceri e – qui pro quo – vincola come racalmutese l’estranea
località di Castrofilippo. Quando si dice un ricorso storico secolare. Per
colmo d’ironia, quel De Miro, proprio Noce, Menta e dintorni – vere miniere di
reperti archeologici greco-romani – dimentica di vincolarli. Dimenticanza o
atto di devozione verso un nume letterario? Ora, i racalmutesi interessati,
invocano la negletta archeologia per impedire l’aeroporto. Speriamo che almeno
vi si stendano i vincoli di dovere.
Dal
Castelluccio, l’apice del primo deflusso di acque geologiche, scese in declivio
terra argillosa che i venti subito coprirono di humus fertile e che la
successiva incuria degli uomini affidò alle inclemenze delle piogge capaci di
spogliarla (e dire che siamo in tempi successivi alle cure dei monaci
centuripini di S. Giuliano, abili invece a terrazzarla). Da lassù iniziarono il
loro lento scivolare grandi scisti ed ancora sono in cammino verso il fondo
valle. Prima i sicani e poi i bizantini se ne servirono per le loro
sepolture. Un patrimonio archeologico
che almeno andrebbe inventariato. Del pari, dalla punta del Loggiato scesero
altri massi che scheggiandosi e venendo corrosi dai venti sono ora penduli sui
cigli con sembianze quasi umane, paurose eppure ammalianti. Come lo è l’orrido.
Come nostrana sembianza, un simbolo, il vero stemma racalmutese. L’abbiamo
additato all’attenzione dei nostri concittadini, con i miseri mezzi di una
locale televisione, al suono pertinente, suadente di una stagione di Vivaldi.
La labilità delle immagini, per i rudimentali mezzi della registrazione, si
accentua sempre più e prossima è la fine di quelle immagini. Il Comune non ha
attenzione per simili atti di amore, ha da finanziare estranei (ma potenti) o
queruli soggetti pluridecorati (ma sono gli
“amici”).
La data di
nascita di Racalmuto non è araba; il toponimo lo è ma circolava già da un
secolo; Rahal Kamout si chiamava nel 1161 una località di Petralia (che invero
nulla aveva a che fare con Racalmuto). Il nostro altipiano ovviamente
preesisteva. Non vi era però nessun grosso centro che potesse prefigurare
l’attuale paese con il suo cacofonico nome arabo. Se Laterza chiamò il paese di
Sciascia Regalpetra e ne invocò le sue parrocchie, fu uzzolo letterario.
Regalpetra ci piace ancor meno, e tra il toponimo della letteratura e quello di
nebbiosa origina araba preferiamo il secondo. Come per lo stemma racalmutese,
il pessimo gusto locale esplode. Quant’era bello l’arcigno simbolo: strisce
gialle – tante quante erano le migliaia di abitanti che si andavano man mano
censendo – su campo rosso e tutto sotto una corona nobiliare (pare persino
regale, sicuramente marchionale – vecchia ambizione dei Del Carretto). E’ lo
stemma dipinto in un bruciacchiato quadro dell’Itria. A cominciare da certi
sapientoni palermitani dell’Ottocento lo si dice di Pietro D’Asaro; ma è
infondata arditezza.
Eppure vi era
vita. Se mancava una estesa dimora vitale come oggi siamo abituati a vedere un
paese, non si trattava solo di masserie disseminate qua e là, come si crede che
sia avvenuto dopo il crollo dell’impero romano; come si va dicendo che sia
avvenuto nell’Agrigentino sotto papa Gregorio. Le testimonianze archeologiche
ci fanno pensare ad una sorta di cespugli uno qua uno là. Il più consistente
sotto fra Diego. Non era Mothion, termine che in lingua pre greca poteva pur
significare ‘aiuto’, e che non disdice ad un insediamento di nostri avi. Padre
Salvo è acuto – ma troppo fantasioso: vorrebbe Racalmuto un misto di arabo e di
antichissima lingua (sicana). «Ben si spiegherebbe la composizione del nome
arabo di Racalmuto, che potrebbe risultare dal prefisso arabo Rahal e da Mothion, cioè da Rahal-Mothion corrotto in arabo in Rahal-Maut, ‘Villaggio di Mothion’. In questo caso
gli Arabi avrebbero conservato l’antica denominazione del vecchio villaggio
presso cui si stabilirono in contrada Casalvecchio-Saraceno.» Il prete è
erudito e si vede.
Noi lo stimiamo.
Francamente è andato un po’ troppo nel congetturare. Una storia così può
soddisfare solo chi se la inventa.
Alla fantasia
noi concediamo invece che il primo uomo sapiens sapiens
dell’altipiano possa essersi deciso a stabilirvi stabile dimora una trentina di
migliaia di anni prima degli arabi. Doveva necessariamente essere troglodita:
la grotta di fra Diego, questo inghiottitoio di acque essiccatosi dopo il
crollo del gigantesco zubbio, esposto a sud-ovest dovette essergli propizio,
accogliente per le sue primordiali esigenze abitative. E dopo?
Dopo una ventina
di migliaia di anni, una popolazione autoctona ebbe a diffondersi in tutto il
circondario: da lì sino a Mussomeli, ma
anche da lì sino a Pietralonga; a cespugli più che ad estesi
agglomerati, a grossi insediamenti. Le tombe di fra Diego sono tante: svelano
aggregati umani non spregevoli. Quelle di Ponte Gianfilippo sono anch’esse non
sparute. Ma le altre – dietro, sotto, a fianco del Castelluccio, ad esempio –
se non solitarie, sono circoscritte: due o tre nuclei familiari conviventi vi
trovavano sepoltura se non imperitura, almeno durevole. Anche la pubblicizzata
necropoli di Pietralonga aveva dimensioni plurifamiliari, ma limitate.
Quella
popolazione autoctona la si chiama sicana. Persino Tucidide vi ha messo del suo
per consacrare quel ceppo, quella genia. Risaliva a circa sette cento anni
prima della caduta di Troia, riferiva. Ora, per i vicinissimi reperti
archeologici di Milena, i laboratori di fisica nucleare di Catania non
escludono datazioni risalenti a dieci mila anni fa. La scienza contro la storia
antica. Ma fino ad un certo punto, basta sapere coordinare; smussare le
discrasie più illogiche. Nulla vieta di chiamare sicani gli antenati
racalmutesi che dieci mila anni fa – a Gargilata – sapevano già cuocere
materiale fittile per i loro usi domestici. Non siamo come Sciascia; non
vogliamo essere arabi a tutti i costi (sol perché i preti scrivevano nei loro
registri parrocchiali Xaxa). Ci piacerebbe tanto essere gli eredi di quei
sicani di dieci mila anni fa, con il nostro sicilianissimo – come dire
racalmutese - DNA, con le stigmate del
sopravvivere in un aprico altipiano, con quel sole che sorge sempre da dietro
il Castelluccio e che tramonta dietro la Montagna, con il succedersi di
stagioni bizzarre, eppure composte, che ci hanno forgiato nella mente, nel
cuore, nel nostro peculiare essere blasfemi, violenti eppure generosi, amabili,
sottomessi a leggi, a potenti, a signorie anche straniere con sornioneria,
senza suicidi ribellismi.
Dove abitarono
di solito i ceppi dell’altipiano che più si condensarono dopo nell’attuale
Racalmuto? I reperti archeologici dicono prevalentemente in due posti: in
contrada Fra Diego La Matina ed in
contrada San Bartolomeo-Garamoli.
Noi ci avvaliamo
per dire questo di un singolare personaggio, neppure racalmutese, che se ne
viene ogni autunno a Racalmuto a spiare (e raccogliere) quello che trattori
rivoltano dalle terre bagnate. Ritenendosi archeologo, costui ha collezionato
“trusce” di “giarmaliddri” di pietruzze
di minuscole ossidiane, di selci levigate etc. Si è spinto a farne persino una
classificazione, una elencazione comunque. Il tutto – quello almeno che ci ha
descritto in due fax del febbraio del 2001 – lo ha portato ai BB.CC.AA. di
Agrigento, consegnandolo, unitamente ad un attuale assessore comunale, nelle
mani di una funzionaria dell’epoca, la Maugeri (se non sbagliamo). Dove siano
andati a finire quei reperti, non sappiamo. Dovevano essere fotografati. Di
certo, quando, dopo ne abbiamo chiesto notizia, non se ne sapeva più nulla (o
non si è voluto rivelarlo).
Ecco quello che
dicono a me quelle annotazioni. A Gargilata (sotto la grotta di Fra Diego) il
centro abitativo sepolto fa oggi affiorare macine di pietra che il nostro
dilettante archeologo vorrebbe di cultura Pantalica Nord. Ma anche macine in
basalto. Non manca una accetta litica votiva in basalto nero ed un’altra in
bachelite. Diffuse sono le pietre di selce e quarzite lavorate dalla mano
dell’uomo primitivo: secondo il Nostro, della cultura dell’età del bronzo. E
poi pietre finemente lavorate - a forma
di mandorla o di accetta – che avrebbero valore votivo e riguarderebbero l’uomo
sicano. Numerose le lame in silice grigia, rossa, gialla. Due lame in ossidiana
con taluni reperti del medesimo materiale. Interessante una mazza litica con
traccia identificabile dalle tacche dell’impugnatura per le dita. Sarebbero
della facies Pantalica una decina di pestelli. Bolas caratteristici delle zone
gessose-solfifere e tantissimi reperti litici (nuclei, utensili in pietra,
raschiatoi, bulini). I culti e le arti avrebbero le loro vestigia nella
contrada Gargilata, sotto Fra Diego: rinvenuti tre falli fittili e tre
fuseruole fittili ‘in ottimo stato di conservazione’. Questo materiale – se
ancora sopravvive – non potrebbe essere restituito a Racalmuto e custodito nei
locali blindati (che tanto ci sono costati) della Fondazione Sciascia? Ad
Agrigento, a che servono?.
Passiamo alla
contrada di San Bartolomeo Garamoli. Abbiamo le solite macine in basalto e in
pietra. Anche qui pestelli della cultura Pantalica Nord (a dire almeno del
Nostro) non mancano. Rinvenuto un ciotolo fluviale con marcati segni di
combustione, probabile pietra focolare. Votiva dovrebbe essere un’accetta
litica in talcoscisto. Presente forse la cultura campignana con un’amigdaloide.
Non rare le lame in selce grigia e gialla. Molto lavorati una cinquina di
reperti in selce, frammisti ad altri utensili di identica materia. Spicca un
coltello/pugnale in selce. Uno stadio evolutivo molto accentuato rivelano
taluni reperti sempre in selce. Non meglio classificati ben 101 frammenti di
vario tipo e dimensioni. Di fittile abbiamo: sei fuseruole ben conservate; due
corni o falli; un peso da telaio – e questo starebbe a testimoniare in modo
specifico un insediamento greco -; n. 54 frammenti fittili con decorazioni
tipiche dell’età del bronzo. I sicani, dunque, si sarebbero insediati e
stabilizzati anche in quella contrada, tanto distante da Fra Diego.
Questo nostro
popolo d’antenati, questi sicani si sono dunque diffusi per l’intero territorio
di quello che oggi si chiama Altopiano di Racalmuto. Abbiamo detto che ve ne
furono di quelli che scesero a valle, di fronte alle zone della Pernice, quasi
all’imboccatura dello “Stritto”. Abbiamo tombe a forno in vari punti della
Forestale, sotto “Vriccicu”. Manie mariologiche del Novecento hanno eroso e
corroso queste sopravvivenze funerarie. Abbiamo dileggiato gli antichi e
vilipeso le ultime credenze cristiane. Vi è ora un clero che ama padre Pio, che
vorrebbe santificare padre Elia Lauricella (senza manco conoscerlo). E’ con il
suo misticheggiante vescovo, lontano dal popolo e dalla nuova cultura. Riesce
solo nella profanazione delle tombe sicane.
Quanto va
emergendo dagli studi scientifici dell’insediamento sicano di Raffe o della
riserva di Monte Conca è già tanto (ed al contempo poco) nel far baluginare la
civiltà sicana. Naturalmente, il loro (dei sicani) culto della sopravvivenza
mortuaria, il loro dedicare energie oltre il tollerabile nello scavare tombe
emblematiche, nella pietra, a davvero futura memoria, il sapere cuocere
l’argilla per un vasellame rudimentale ma molto rivelatore di usi, benessere e
tenore di vita ci testimoniano una dimora vitale che si può dire narrabile.
Nella vicina Palma di Montechiaro, studiosi quali Castellana, vogliono dire di
avervi trovato pani di zolfo risalenti a quell’epoca: il che equivale a dover pensare che i sicani sapessero un paio
di millenni prima di Cristo di calcheroni, balate, gavite. Se là vi fu
industria dello zolfo, non poté non esserci eguale sagacia estrattiva a
Racalmuto, dove il nostro vibrione fu più operoso a lasciare ‘gallerie’
solfifere appena sotto la crosta dell’humus ferace.
Tanti pozzetti o
tanti fornetti – così chiamati per le vaghe rassomiglianze – quali ci
incuriosiscono a Fra Diego o al Ponte di Gianfilippo, o negli anfratti sotto il
Castelluccio o a S. Bartolomeo o nella Montagna prima del bel suolo aprico
requisito da assenti padroni panormitani, ci svelano un pauroso culto dei
morti. Nei modesti incavi vi venivano deposti in forma fetale i morti, non
molti in una sola tomba per l’angustia dello scavo. Un richiamo al ventre
materno, uno sceneggiare la morte come l’origine della vita. Un ritornare alla
terra. Senza la teologia di adesso, ben s’intende. Ma quell’uomo, quella donna
ivi sepolti non morivano del tutto. Il loro spirito rimaneva. Ma doveva restare
racchiuso nel piccolo antro gessoso. Una pietra suggellava l’abituro funerario.
E dentro il morto veniva legato nella suo rannicchiamento fetale. Non doveva
uscire. Avrebbe potuto arrecare danno, ai vivi, ai superstiti. Qualche
paleoantropologo alla Tiné non esclude riti di vago sapore cannibalesco. Pare
che i morti venissero messi a bagnomaria, con coltelli di selci – e si è sopra
detto che ne sono stati rinvenuti nei pressi – venivano scorticati. Andava
perduta quella carne? In tempi di penuria, quando ardua era la caccia e pochi
dovettero essere gli animali addomesticati, arduo è credere in schifiltoserie
che la opulenta civiltà moderna ci incute irresistibilmente. La voglia di ristorarsi mentre ci si addolora
per la dipartita di un parente, di un amico è vivida al presente. E’ ardito
cogliervi residui di una tradizione millenaria, sacra e truculenta?
Un aforisma molto racalmutese recita: «lu cuccu cci dissi a li cuccuotti, a lu chiarchiaru nni
vidiemmu tutti.» L’imprendibile senso del detto locale sfugge – a
nostro avviso – anche al grande Sciascia. Ma con lui concordiamo quando scrive:
«al chiarchiaru è come dire agli inferi, ad un luogo
di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la memoria
delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese
se ne trovano.» Il rovello degli spiriti sicani, i sicani nostri antenati che
sono evaporati dalle loro tombe violate, aperte, si ridesta con il lamento del
cucco al chiarchiaro («una collina rocciosa, un sistema di anfratti, di
crepacci, di tane. Pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di
serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta “ ‘mpintu”,
impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che
l’aggroviglia», icasticamente per Occhio di Capra).
La civiltà
sicana racalmutese può periodizzarsi, può tripartirsi. Da una decina di
migliaia di anni fa sino al XVII secolo avanti Cristo, quando tecniche,
utensili, crescita civile, acuirsi del culto dei morti permisero di onorare i
defunti in nicchie ovali, simili al ventre materno. Dopo, sino al XIII secolo,
i passaggi epocali delle varie età metalliche non furono nefasti a quel popolo
autoctono; anzi le fertili terre racalmutesi, la selvaggina che vi aveva sempre
più propizia dimora, l’addomesticamento più folto di accresciute specie e la
sagacia nel modellare ed istoriare materia fittile, il caolino dei calanchi, e
l’abilità nel dare un tetto stabile ai capanni della dolce vallata che le acque
torrentizie non dilavavano venendo con sapienza incanalate in ingegnosi
“gattani” , tanto eccelse per una prospera ulteriore dimora vitale, sparsa in
più o meno estesi addensamenti umani, per l’intero altipiano. E ciò sino all’avvento
dei greci, di quei rodi-cretesi di Gela che dopo essersi attestati ad Agrigento
ebbero a spingersi sino nelle nostre lande.
Caratteristica
di questo periodo fu la tomba a tholos: un’ampia caverna, con sedili a forma di
ferro di cavallo ove depositare i morti, sempre rannicchiati in forma fetale e
sempre legati ma in numero ora cospicuo come imponeva la crescita demografica e
come la più scaltrita tecnologia, anche per l’abilità nel forgiare utensili
metallici, consentiva.
In alto si
praticava un foro, oppure, se la sommità era imperforabile, si scheggiava una
corona circolare, come una moderna insegna per additare alle anime dei defunti
la via del cielo. Ci siamo intestarditi nella ricerca di simili tombe – così
evidenti ed avvincenti a Milena – ma sinora non ne abbiamo trovate. Pensavamo
un tempo che ciò era il segno di una eclissi demografica, di un ritirarsi
nell’interno montagnoso di Milena e Sutera per esigenze difensive verso
aggressori che venivano dal mare. Adesso, pensiamo a cosa diversa: quelle
tombe, appena riadattate, accoglievano d’estate, vi si abitava durante il
raccolto o la fruttificazione estiva ed autunnale; avveniva sino a non molto
tempo fa; era uso ancora durante la mia infanzia e i miei ricordi sono tuttora
trepidi. Certo, durante la trebbiatura si dormiva sulla pula, sotto stelle
vivide, talora filanti, mirabili, annuenti. Non per romanticherie, s’intende,
ma per tutela e guardia del grano prezioso ed amato.
Annusando cose
dì archeologia paesana ci siamo imbattuti in un grande scisto gessoso in
contrada Pian di Botte (sotto il cimitero). E’ zona suggestiva anche se aspra.
Nel raggio di mezzo chilometro abbiamo un mulino ad acqua del Cinquecento (gli
archivi palermitani sono prodighi di notizie), il rosticcio della miniera di
Calogero Casuccio – al tempo oggetto di scontro con i principi di Sant’Elia, e,
stando a nostri rinvenimenti
archivistici romani, località pressoché certa delle “tegulae sulfuris”
mommseniane – ed un avello di forma strana, di cui qui si vuol dire qualcosa.
Stavolta l’incavo, palesemente tombale, è alto e stretto, come se vi si dovesse
deporre un solo uomo, all’in piedi e non in forma fetale, e come se si
trattasse di uomo gigantesco. Ma l’incavo è troppo superficiale per scopi di
seppellimento. Pensiamo dunque ad un inizio di tomba a tholos, abbandonata per
fuga della famiglia interessata o per altri disastri quali terremoto,
epidemia. Oggi, attorno è desolazione,
‘cannedri’ irti, zona inaddentrabile. Terra abbandonata che potrebbe essere
dalla comunità requisita e studiata, archeologicamente. Non molto tempo fa non
era così se sopra la roccia è visibile la piattaforma di un palmento ove
pestare uva che i dintorni dovevano pur fornire in abbondanza.
La nostra tomba
– o quella che crediamo tale – segna, a nostro avviso, lo spartiacque tra i
sicani della tomba a forno e quelli influenzati dal mondo miceneo, da intrusi
che a dire del De Miro ed altri venivano da Creta alla ricerca del sale, lungo
il fiume Platani, sino alla Rocca di Cocalo, sino a S. Angelo Muxaro –
significando così il mito di Minosse in Sicilia – e divaricandosi sino alle
alture di Milena, che ci hanno restituito splendide tombe a tholos con spade ed
anelli del XIII secolo quali ognun dice essere micenei o di tale influenza.
Anche a Racalmuto dobbiamo pensare a similare epigono sicano, durato sino al
VI-VII secolo avanti Cristo.
Finisce qui la
civiltà sicana, inizia quella della Magna Grecia. Non è che sia cessata la
presenza sicana; solo si è sviluppata o inviluppata. Monete greche di varie
età, con impressi granchi agrigentini (ne abbiamo intravisto taluna trovata
sopra i Malati) o cavalli alati (monete
siracusane?) o d’altre forme che qualcuno individua nella circolazione fenicia
(ma trattasi di dati male riferiti dal Tinebra Martorana).
Ed a questo
punto ci accorgiamo di esserci troppo dilungati per un capitolo che dovrebbe
avere valore solo introduttivo. Ondivagando, abbiamo cercato di chiarirci – più
che chiarire – che cosa intendiamo per microstoria e soprattutto per
microstoria racalmutese. Abbiamo dovuto fare i conti con Sciascia. E quando lo
contraddiciamo, in fondo in fondo temiamo che lui abbia ragione e noi no. Resta
pregiudiziale la stroncatura di notizie “non memorabili”. Non sarebbero storia
“narrabile”. Ma l’indulgere a secrezioni di appannate memorie individuali e
peggio collettive non è indulgere ad una memoria demente? Letterariamente
sublime ma storicamente insensa.
Ci ripetiamo, lo
ammetto. Eppure, se la storia è un pensare il vivere antico quale svolgimento
di un valore ideale (la libertà, la giustizia sociale, la democrazia, la storia
ideale eterna, il disegno della divina provvidenza), che cosa può essere la
microstoria se non la ricerca di un principio atavico di sopravvivenza in una
chiusa comunità, piccola per pretese cosmiche, umana per essere obliata?.
Dice Sciascia:
«Ma la vita vi era tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore e alla fame
come erba alle rocce.» L’acuto assioma noi l’abbiamo reiterato tante volte, e
chissà quante altre volte lo ripeteremo. Anche per noi la microstoria di
Racalmuto deve rivolgere l’attenzione a questo”antico paese che esisteva già”
prima degli arabi. Ci pare arbitrario o impreciso o disorientativo aggiungere
che esso stava «un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo
desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-mauth, paese morto. Ma non era
per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal
paese prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano solfifero).» In ogni
caso, fu sempre “dimora vitale”. Ed era vita grama, spesso violenta, più
schiava che libera. Prima dell’ “avvicendarsi dei feudatari che venivano dal
nord predace e dalla non meno predace «avara povertà di Catalogna», col carico
delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni
nuova signoria apportava”, altre angherie epocali erano avvenute, quelle di
sicani forti che conquistano sicani deboli, quelle dei gheloi akragantini che
schiacciano gli indigeni, quelle dei romani, quelle dei barbari, quelle dei
bizantini, quelle degli arabi (cui subentrano miseri e remissivi berberi),
quelle dei normanni, quelle dei vescovi bretoni, quelle fridericiane, quelle
angioine, quelle catalane, quelle chiaramontane. Dopo i Del Carretto. Ma dopo i
Del Carretto ecco le angherie degli Schettini, dei duchi di Valverde (i
Caetani), e quindi un ritorno al ceppo femminile dei Del Carretto con i
Requisenz, e frattanto le angherie dei Savoia, quelle degli Austriaci, quelle
dei Borboni, e poi quelle garibaldine, di Nino Bixio, della Destra, di Crispi,
di Giolitti, della vecchia mafia, della nuova mafia, del fascismo, della
Democrazia Cristiana, degli agrari di Alliata e del bandito Giuliano (qualcuno
ci vorrà mettere Li Causi e trasformare in aguzzini le vittime di Portella delle
Ginestre), del centro sinistra, della mafia dei pentiti, dell’antimafia
aggiungerebbe Sciascia, ed ora quelle dell’era berlusconiana non escludendo i
trasformismi paesani, accondiscendenti all’autodromo e imprecanti contro il
progetto dell’aeroporto. E frattanto Racalmuto muore – forse, bisogna dire,
sembra morire. Certo saprà ancora una volta abbarbicarsi al dolore ed alla fame
‘come erba alle rocce’. Riuscirà di sicuro a sopravvivere. L’usare
intelligenza, il pensare, il ripensare a tale grama eppure esaltante
sopravvivenza è il filo conduttore della nostra microstoria. E passiamo quindi
ad abbozzarla. Schiavi dei nostri giudizi e pregiudizi. Ma con viscerale
attaccamento. Da passionari quali ci sentiamo. Da racalmutesi che qui a
Racalmuto ci siamo nati da mille generazioni, senza soluzioni e nel frattempo
vi risiedevamo, senza fronzoli borgeani.
[1] ) Presso
l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il
Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e
Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale di
Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S. di
Roma - Fondo: ANTICHITA' e BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° versamento – busta n. 21
- Fascicolo 40.5.2 ).
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