Introduzione.
L’erba e le rocce racalmutesi.
Questa storia di
Racalmuto, questa mia microstoria l’ho scritta e riscritta e poi riscritta e
quindi di nuovo scritta. Quando un quarto di secolo fa ho trovato tra le carte
segrete del Vaticano note e notizie vetuste sul mio paese, ebbi come una
folgorazione. Ne nacque una passione direi smodata. Le mie radici che credevo
decomposte nelle latebre del mio sotterraneo esistenziale si sono risvegliate
come vitigni americani. Da allora ricerche e congetture, vuoti ricolmati con
supposizioni magari subito svanite ma anche con scintillii documentari, con
transunti, con diplomi con trascrizioni di processi feudali. Di volta in volta
una nuova Racalmuto nasceva eppure spesso subito appassiva.
Mi accingo a
divulgare una microstoria racalmutese evenienziale, alla francese. So che non
ci riuscirò. Per Racalmuto non vi sono molti fatti narrabili, secondo i crismi
del Castro, come li avrebbe voluti Leonardo Sciascia: Ed anch’io finirei con
l’incappare nella sorniona ironia del grande scrittore. Ricordate? 1982: Mulé
assessore ai Beni Culturali; non ricordo chi fosse il sindaco (non si firmò);
si riuscì a far stilare all’eminente scrittore una sapidissima prefazione alle
memorie e tradizioni racalmutesi scritte da un acerbo ventiduenne alla fine del
XIX secolo. Sciascia esordisce con una monca bibliografia: sarebbero stati
scritti solo tre libri “sulla storia di Racalmuto”. Per uno di questi tre
scritti parla di “una storia … voluminosa, fitta di notizie”. Eppure quel libro
non fu prescelto per la riedizione commemorativa dei lustri racalmutesi. Non contraddittoriamente, ma con la solita
arguzia ed in definitiva bonomia però non compiacente, questa l’amara
conclusione: «limitato è il numero delle notizie che si possono estrarre da
libri e manoscritti» E dire che: «moltissime e di sottili e lunghi tentacoli
sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della
memoria.» Già con le Parrocchie di
Regalpetra, e poi con La morte dell’Inquisitore, e poi, qua e
là, con il Mare colore del vino, e
soprattutto con Occhio di Capra ed
infine, per tacer d’altro, con Fuoco
all’Anima, il nostro Compaesano munse quei succhi gastrici della memoria
racalmutese. Avvinto da Américo Castro,
dalla sua storiografia, per Sciascia Racalmuto
“emerge [solo] nella prima metà del XVII secolo a una vita ‘narrabile’, da
‘descrivibile’ che appena e soltanto era.» Di solito, tutto si racchiude in una
vita, pur sempre “tenace e rigogliosa” ma dimessamente “abbarbicata al dolore
ed alla fame come erbe alle rocce”. In quella visione desolata, il vivere
locale fu «per secoli vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi dei
feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord
predace o dalla non meno predace “avara povertà di Catalogna”; col carico delle
speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova
signoria apportava» E con empiti ancora più disperati il Genio racalmutese
sillabò che il senso di quella vita era una lontananza “dalla libertà e dalla
giustizia, cioè dalla ragione”. Una Racalmuto né libera né giusta; una
Racalmuto nel grembo della follia, dunque. Altro che paese della ragione;
sbagliano certi disattenti quando vorrebbero far credere che Sciascia credesse
in una Regalpetra dimora di chissà quale dea loica.
Né ammaliati da
sopraffine galassie delle paesane rimembranze e neppure inceppati da voglie
campanilistiche di vicenduole congetturate a maggior gloria del paese del sale
e dello zolfo abbiamo voglia di cogliere davvero molti di quegli sprazzi di
inconsueta intelligenza di cui (lo affermiamo senza tema di smentita) è ricca
Racalmuto e non abbiamo pudori nel far riaffiorare le propensioni al crimine,
al delitto, all’omicidio, alle perversioni, all’usura, agli illeciti
arricchimenti, alla pravità insomma di un paese solfifero, atto a trasformare
quella bionda materia prima in micidiale polvere da sparo; perché ciò si addice
ad una comunità di uomini né angeli né demoni, ma un po’ dell’una un po’
dell’altra natura; di un popolo che non avendo mai avuto bisogno di eroi (per
non avere guai) di guai ne ha avuti tanti per non avere mai avuto bisogno di
eroi.
Sciascia, per
dirla con Camilleri, non ebbe ‘testa di storico’: celiando con la ‘tentazione
alla visionarietà’ dello storico locale
Tinebra Martorana (dopo averlo accreditato quale autore di una buona storia del
paese) un po’ si assolve ma un po’ si rammarica per non essersi «privato del
piacere di riportare [un] documento pur conoscendone la falsità, e precisamente
nelle Parrocchie di Regalpetra». E ci
pare – ma forse ci sbagliamo sonoramente – che ancora nel 1985 il preteso
documento lo sussume al rango di fonte storica quando, nel presentare una
mostra di Pietro d’Asaro, ribatte che Racalmuto era «antico paese che esisteva
già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato
da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla
morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi
prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano zolfifero).» Non stiamo qui
a sottilizzare sulle licenze poetiche d’indole geologica, visto che di zolfo
nell’altipiano vero e proprio non ce n’è, non avendo avuto modo il vibrio desulfurecans di sciamarvi in
epoca del primo terziario. Saremmo leziosi e supponenti e chissà a quante
rampogne andremmo incontro. Ma almeno non può negarsi l’eco delle statistiche
propinate dall’abate Vella all’Airoldi – tutte notoriamente false e bugiarde –
e delle varie dicerie degli storici secenteschi e settecenteschi,
improvvisatisi arabisti.
Purtroppo noi
siamo tra quelli piccolissimi di per sé e tutti presi dalle angustie della
microstoria che non osiamo indulgere né ai falsi storici né alle fantasiose
dicerie. Così, cercheremo di scrivere su una Racalmuto né romantica né angelica
e neppure malefica sino ed oltre le soglie dell’inferno. Una Racalmuto umana,
speriamo, ove sono vissuti uomini talora liberi e talora servi; spesso vittime
della giustizia ma anche artefici di iniquità; in definitiva ragionevoli come è
consentito ai consorzi umani cui una più o meno divina provvidenza ha assegnato
un territorio a metà insalubre e pieno di calanchi ed a metà ferace come
l’humus del Pleistocene sa essere. Ed al di là degli allettanti sofismi di
Américo Castro ha tessuto una vicenda umana ‘narrabile’ in misura notevole se
si ha l’uzzolo (e l’umiltà) di scovare e sviscerare la sconfinata
documentazione che giace (spesso polverosa ed inconsulta) in archivi persino di
alto prestigio planetario quali quelli segreti del Vaticano o quelli di
Simancas (magari nelle diramazioni di Madrid e Barcellona), per scendere agli
altri relativamente meno prestigiosi di Palermo, Vienna, Torino, solo per lata
elencazione.
Sfogliamo un bel
libro: Manuel Vázquez Montalbán, Lo scriba seduto, Frassinelli 1994. Vi baluginano sprazzi di storia
paesana, racalmutese, ma attraverso una duplice e forse triplice lente
deformante (Sciascia, Domenico Porzio e forse il figlio di questi). Il
Vázquez traduce alcuni passaggi di un
volume controverso che accreditato in un primo tempo a Leonardo Sciascia, per
opposizione dei familiari, è persino scomparso dai cataloghi di Mondatori e
cioè Fuoco all’anima. A pagina 178 ci
viene segnalato, senza velami, che Sciascia avrebbe riferito «che dopo la
guerra, quando era impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, venne chiamato
a testimoniare in una causa per una sottrazione di grano commessa da un
arciprete e un contadino. Il contadino aveva frodato meno dell’arciprete, ma
lui venne condannato a due anni di galera e l’arciprete assolto.». Noi
racalmutesi di una certa età conosciamo bene l’incidente, i protagonisti e la
vera genesi del processo. Naturalmente non ci ritroviamo in quella letteraria
versione. La magia della memoria, ci pare, abbia portato lontano, di sicuro
oltre la banalità dell’accadimento storico. L’arciprete, che dopo certe
esecrazioni più di riflesso della impopolarità politica ed amministrativa dei
parenti che per iniquità sua - ed oggi è sacerdote sempre più rimpianto - subì
maliziose perquisizioni di potenti che risorti, dopo l’incubazione per l’intero
periodo fascista, erano ostili al prete per propensione massonica, per tacere
del sospetto di una loro propinquità alle locali aree mafiose. Quanto al
contadino – che vero contadino non era, ma come si diceva allora burgisi, ed era piuttosto benestante –
se la volle per bizzarria di carattere. I suoi figlioli, notevoli
professionisti fra gli ottimati di Racalmuto, seppero poi rendere pan per
focaccia. E, per la precisione, Sciascia non fu allora impiegato di nessun
Consorzio agrario – solo di un precario organismo postbellico, l’UCSEA, se non
andiamo errati.
Sciascia e la
mafia (racalmutese); Sciascia e la liberazione americana di Racalmuto; Sciascia
e la locale Democrazia cristiana; Sciascia e comunisti e socialisti; Sciascia
che acquista i campi della Noce; Sciascia che vi coltiva viti e ulivi «da cui
ricava qualche bottiglia di vino e poche damigiane di olio, in proprio, a guisa
di fluidi vitali che lo legano alla patria genetica»; sono noticine del libro,
deliziose ma molto incongrue per abbozzi storici o meglio microstorici. Avremmo
tanto a che ridire.
Nell’agosto del
1990 Domenico Porzio moriva improvvisamente; “stava lavorando alla stesura
definitiva del testo delle sue conversazioni con Leonardo Sciascia”, scrive il
figlio Michele Porzio nell’introdurre Fuoco
all’anima. Soggiunge di essere stato proprio lui ad “impegnarsi nella
revisione definitiva del testo”. Non mancò peraltro di «ringraziare la signora
Maria, moglie di Leonardo Sciascia, per il suo interessamento a questo lavoro e
per i preziosi consigli e chiarimenti profusi durante la realizzazione». Perché
poi quel libro – edito da Mondatori – sia stato ritirato dalle librerie e non
più ripubblicato, magari con rettifica dell’autore in autori e con Sciascia in
veste di semplice intervistato, resta un dilemma. Il libro è quanto di più
bello, semplice, melanconico possa attribuirsi a Sciascia. Racalmuto ne
possiede due copie: una sta in biblioteca; l’altra è in dotazione al Circolo
Unione.
Da lì traiamo
spunti, guizzi e verosimiglianze di una Racalmuto rievocata, nel punto estremo
dell’occaso da Sciascia: se quanto Michele Porzio mette in bocca al grande
Racalmutese non è vero, è però molto verosimile. E tanto basta al microstorico
che qui scrive.
Racalmuto e la
mafia
L’eloquio di don
Mariano Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni
persino folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale
a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava.
Il Giorno della Civetta esordisce,
icasticamente, con un brumoso paesaggio racalmutese: «La piazza era silenziosa nel grigiore
dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è codesta
descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale dalla
finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide. Tra
lo spiazzo della Matrice e lu
Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo echeggiano i luoghi comuni del
Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia non ci crediamo [voi]… non siete siciliano e i pregiudizi
sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. »
Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può anche indulgere alla
macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto relativo a un comizio
dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della mafia locale, alla sua
destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua sinistra il Marchica, era
apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un cero punto del suo
discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere rapporti coi mafiosi,
e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora riuscito a capire che
cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta coscienza di cattolico e di
cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai conosciuto un mafioso” al che
dalla parte di via La Lumia, al limite della piazza, dove di solito i comunisti
si addensavano quando i loro avversari tenevano comizio, venne chiarissima la
domanda “e questi che stanno con lei che sono, seminaristi?” e una risata
serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole, come non avesse sentito la domanda,
si lanciava a esporre un suo programma per il risanamento dell’agricoltura.» E
tanto non è forse la prosecuzione delle Parrocchie
di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano
Arena è una silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo
Novecento (e i figli di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha
anche culturale del paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal
moralismo di Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed
anche ricambiato) si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del
romanziere per il suo personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è
sarebbe stimabile. Il suo linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il
picciouttu, feroce e traditore (noi a
Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia” disse il vecchio
rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del
suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle invenzioni: cose
inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e
tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando … Dico con
rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del
bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa a
passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i
politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del
popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e
come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare
infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi
squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un
cornuto … » Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960
linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini
erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio
qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese
s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.
Ma don Mariano,
se deve incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se
sbirro – reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che
è un vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia
godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato
negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”.
Quando il capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo
fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si
spegne in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e
in dentro, per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi
rapporti mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine
motteggiare, salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego
Marchica. («Diventa filosofo, a volte,
pensava il giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in
cui la lunga memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di
pensieri e distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo
in un giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano,
la iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli
uomini, i mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo
e i quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli
invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo
aggiungere la coda di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste
carte come un Cristo, lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta non erano cadute
scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose erano venialità
perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima il discorso diventa grifagno, acido, senza
indulgenza, lontano da ogni epos e da
ogni pietas.
Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente intervistato (da uno
intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro sia stato censurato.
Se crediamo a
Michele Porzio, ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia
avrebbe risposto: «non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in
lotta con i rivali che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli
occhi quello che proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto:
sangue, morte, faide, conflitti a fuoco come in certi film western americani. E
muoiono persino estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di
starsene in Piazza Castello, tentando di
vendere qualche cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili
delle sofisticate pistole dei mafiosi della nuova generazione - li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed apportano
morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun codice di
onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro genitori
illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi, addirittura
capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco di lupare
per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don Mariano è
davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure
pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi
filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi
capi-cosca in lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico
Porzio, e Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un
malato terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto
ritiene il giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono
diverse cupole, insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un
accordo tra loro. La cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non
c’erano né cupole né organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a
Canicattì qualcuno ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli
conventicole era stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia
tradizionale. Ne sancì la morte. E la morte venne spietata, disumana, senza
precauzione atta a salvare la vita di innocenti, di donne di bambini, che un
don Mariano non avrebbe giammai consentito. Ma don Mariano era personaggio
letterario; il vecchio col bastone, sporco fetido per i denti putrefatti, che
attorno al feretro in casa del morto ammazzato racalmutese, uomo d’onore di
antica schiatta, tutti scrutò e subito comprese chi, pur presente ora in veste
di amico inconsolabile, aveva deciso lo strappo micidiale, quel vecchio era
invece vivo e reale, nel suo criminale e tragico strapotere. Erano gli affari
della droga che ormai comportavano mari di valute pregiate e la vecchia
organizzazione era palesemente impari: i giovani se ne fregavano dei limiti,
dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano (anche i loro padri
illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava che il capobastone del
nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i politici, fiutando voti,
promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango che si reputavano sapienti
vanificavano condanne appena discrepanti da sottigliezze pandettistiche, s’intende
se annusavano accessi ad incarichi vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi
pare che al morente Sciascia questo nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era
andata ad immergersi) sfuggisse e la sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamene,
anche per gli infortuni in cui i nuovi amici o i vecchi compagni di scuola
elementare l’avevano coinvolto.
Se ci si domanda
com’era la mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere
a Sciascia e soprattutto al suo Il giorno
della civetta. Quel libro un grande merito lo ebbe: costringere la
intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal parlamento alle
iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso siciliano per
contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana – diciamola
tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione della
prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento
alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo,
la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini
locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono
umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza
minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di
pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella,
il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella
miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia della
moneta, “figliu miu semmu consumati:
grana nun nni camminanu”. C’era poco da taglieggiare. Non c’erano lavori
pubblici; non c’erano imprenditori edili; non c’erano ricchi commercianti e non
c’erano possibilità affaristiche. Che mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non
c’era. Solo qualche rito residuo; magari atteggiamenti più boriosi che
criminali. Per il resto, qualche guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana,
non so quale plaga siciliana riguardasse, quale economia di mercato insulare,
quale misterioso organizzarsi a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva
alimentato loschi affari con compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati
locali era divenuto impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame
più o meno allo stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini
avevano lasciato la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari
guadagnavano benino e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai
capimastri di Gibillini. Ma poteva chiamarsi mafia?
Piluccando da
“il giorno della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed
aggiungiamo subito, non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga
lontana, mettiamo Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita
poteva averne?] in questa provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a
Racalmuto non ce n’era nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era
sì e no lo sgangherato autobus dell’esordio del romanzo], i suoi materiali,
nafta, catrame, armature, ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul
posto. Vero è che vicino al materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta
con uno o due operai che vi dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e
c’è gente invece, voi mi capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a
questa gente che non dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi
è stata subito offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche
fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettarla … Si capisce che ci sono i
testardi: quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello
alla gola si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del
Bellodi sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa,
aggirante: «Ci sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione.
Ma sarebbe una associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo,
se dovesse limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate
guardianìa: la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene
per voi, per le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti
a licitazione privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con
asta pubblica; vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si
capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di
consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto
fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo
esempio. E allora bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad
entrare nel giuoco; o ad uscirne per sempre annientandola…»
Quello Sciascia
lì, di sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il
nome, meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito
descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a
Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on.
Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero
delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri
catanesi et similia, abbiamo avuto
modo di appurare che le cose stavano sulla lunghezza d’onda del giorno della
civetta, ed in termini ancora più aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente
perniciosi, in totale evasione di imposte, in concertazioni oltremodo mafiose.
E pare che un morto ci sia scappato, nientemeno quello del generale della
Chiesa. Lo Stato s’industriò con leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di
banche, intercettazioni, prove appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti
trust, discipline degli appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai
ripari. Non credo che oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli
descritti da Sciascia. Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di
prima. Genesi e cause sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente
infestanti.
Per Sciascia il
fenomeno della mafia è inestirpabile. Se
Domenico Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il
prefetto Mori?, la risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle
repressioni notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la
mafia continuò ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel
prefetto. Se Porzio domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato
assassinato? La risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva
il carabiniere, il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo
scrittore qui abbia dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi
nel Giorno della Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio
e Sciascia:
Porzio: Infatti
quando c’era don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò
in vita a lungo.
Sciascia: Allora
la mafia era la mafia.
Porzio: Era una
mafia per bene?
Sciascia: Per
bene no, non lo è mai stata.
Porzio: Ma di
che cosa viveva allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai
commercianti?
Sciascia: Sì,
imponeva le tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i
ricavati delle tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No,
no, no.
Sulla mafia
durante il fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e
con il solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di
Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella
dissertazione. Dicevamo.
La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.
Scrive in Occhio di Capra, Leonardo Sciascia: «Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si
può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola:
l’isola-vallo .. dentro l’isola Sicilia,
l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia,
l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro
l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia locale non si mostrano però
tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità
esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su
Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto è solo uno scisto della storia ma questa
tutta quanta vi si riverbera.» ([1])
Così, quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar proprio ragione più ai
locali ricercatori che a Sciascia.
Leonardo Sciascia, qualche sapida nota sul
fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla
fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il suo rievocare non è
quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo
di verità emerge, e a dire il vero molto di più.
Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi
un aggancio a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a
frequentare con devozione quasi filiale
la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza anche a se stesso e
quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([2]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al
momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è
mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, di un
fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e
giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico
chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe
borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del
travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente
in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva
limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del
lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di
lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal
Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi,
l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i
riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E
perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare
quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva
insorgesse “una strana quanto
benefica mancanza di rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti,
le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il
guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una
condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico),
la solitudine, l’esilio»
Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo
sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi
non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico.
Commentando un lavoro di Christopher
Duggan ([3]) «L’idea, - scrive Sciascia - e il conseguente comportamento, che il primo
fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo:
il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la
mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo.
Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel
fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E
tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva
l’istanza rivoluzionaria degli ex
combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di Federzoni per osmosi
quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo trasmigravano non dismettendo del tutto
vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che,
prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni
settentrionali e nella permissività e
protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di
polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai
vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano
assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e
temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza
agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e,
almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi
“risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò,
infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu
segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e
progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro
ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di
ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero
Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la
caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo
arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di
sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia,
liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli
esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno
l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange
criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella
lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i
campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima
insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento
della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e
l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del
dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato
questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale
non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava
configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è,
nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia
di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica)
nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto
richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più
debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di
una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere
incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente
incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione
all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi
forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo
estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci
racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può
benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito
critico mancando.)» ( [4])
Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriere della Sera),
sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere:
«Respingere quello che con disprezzo
viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto,
alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un
errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato
(e si può anche riconoscere che c’è
riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può
condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi
alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a
vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del
consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in
certe pagine di Brancati ([5]) la rappresentazione
del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.»
([6])
In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica -
che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinearsi
del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandiera”! Questo era lo
stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un
rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non
avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria
anglo-americana. Così americani ed inglesi erano attesi; magari vagamente, che
pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di
Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando
[...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve
diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che
senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse.
S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi
assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e
sciocca, dell’invasore. Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a
Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la
kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad
oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si
liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più
generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventennio di
diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era
giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta
ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’ dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14
luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americani arrivavano. Il
podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La
popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa,
tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i
distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile
abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una
porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si
trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano
finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della
pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale
americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto
di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una
battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La
festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa
come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri
si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla
pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile
intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano
guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano
corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la
bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel prover’uomo che l’aveva
tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in
quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare
alle insegne della casa del fascio.
Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si
trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in
realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo
dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle
famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico
era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che
aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era
ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un
segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri
di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un
inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito
predilessero.» ([7])
A voler adattare la lezione sciasciana del fascismo alla storia locale di
Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa
periodizzazione:
1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni
forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla
“favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al
socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che
pertanto “è già fascismo”;
3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che
trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed
anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese,
l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv.
Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista,
convertendola, però, al fascismo):
5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex
nazionalisti) per più agevolmente
patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la
costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero
Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante
miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi
puri del fascismo, gli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto
Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però
appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il
segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano
e Calogero Vizzini) che ha la peggio.
Risulta vittorioso l’on. Abisso che trasformista lo era stato da tempo e che a
seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli
ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel
liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari
ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete
ed appariscenti”. Questa fase, invero, appare così nebulosa per Racalmuto da
doverla forse rigettare;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incontra il favore
delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia -
un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che
riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche aspetto diverso.
Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto
racalmutese, che in piazza osasse andare
“cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo
con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di
Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua
folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una
sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta
antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per
il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero
letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è
convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per
aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e
fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia, cui la “carta
del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni
di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non
essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva
sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e
spiega.
Ci siamo dilungati nelle citazioni sciasciane perché illustrano e
spiegano un ventennio della storia racalmutese (che inizia un po’ dopo
l’avvento del fascismo e finisce nel luglio del 1943). Poi, Le parrocchie di Regalpetra, La morte
dell’inquisitore, in buona parte il giorno della civetta,
e poi gli scritti minori e poi Occhio di capra e
quindi questo meraviglioso fuoco all’anima
(che la famiglia si intestardisce a censurare) martellano di commenti tristi e
cupi l’evolversi della vita paesana sono alla morte dello scrittore. Noi, qui,
facciamo richiami introduttivi. Diamo i temi. E nella formulazione dei temi v’è
Sciascia e v’è la sua intelligente lettura del nostro essere racalmutesi nel
suo secolo (con qualche riserva che ci deve essere permessa. Questa riserva – e
talora divaricazione – la andremo ad ordire dopo, quando nella successione
temporale degli eventi verrà il turno. Non ci si dica che non amiamo Sciascia,
che lo critichiamo. Apprezzandolo, leggendolo, meditandoci sopra spesso la
pensiamo diversamente. Qualche volta, contraddicendolo, ci contraddiciamo.
Siamo suoi scolari, in fin dei conti.
Pilucchiamo dalle sue contraddizioni di Fuoco
all’anima (secondo il dire di Manuel Vázquez Montalbán e s’intende innocenti). Sciascia
pensa che non si deve aver casa ma lui ce l’ha a Palermo ed a Racalmuto. Vero è
che quella di campagna proviene dal nonno, ma lui l’ha duplicata. In più tiene
vigna. Dice di averla avuta sempre: l’ha comprata suo nonno più di un secolo
fa; non l’ha però ingrandita, ha solo comprato un pezzo di terra di
millecinquecento metri per timore che gli costruissero vicino. Vi ha piantato
degli ulivi e presto hanno fatto i frutti. Ma la terra non arrivava a due
ettari. Possedere la terra fa bene perché è un punto di riferimento e dà un
senso di libertà. La terra però a Racalmuto costa; a coltivarla rappresenta un
dispendio grosso. Il vino ha un costo altissimo. Sciascia lo faceva solo per
tenerlo lì e offrirlo agli amici. Arrivava a cinque seicento bottiglie l’anno.
Era troppo poco per venderlo e troppo per offrirlo agli amici. Per esempio
Fernando Scianna non lo voleva perché lo trovava forte. Un altro suo amico, che
era avvocato, lo voleva quando era giovane, dopo lo trovava troppo forte.
Sono note di
comune vivere e sentire racalmutese, almeno del XX secolo, soprattutto da parte
di chi si era redento dalla classe popolana e assurgeva a maestro elementare,
ad avvocato di paese o presso la vicina Agrigento, diventava medico, farmacista
(allora si considerava ricco, sopra di una spanna sui soci del Circolo Unione),
insegnante delle scuole medie, neppure piccolo borghese, eppure con velleità di
un’appartenenza ad una appagante classe media. Ineluttabilmente si finiva
conservatori, quasi reazionari, più dei coetanei preti.
Fuoco all’anima prosegue:
-
Porzio: e l’olio lo fai?
-
Sciascia: l’olio quando l’annata è buona, ne faccio ma
pochissimo. Una trentina di litri. E poi, siccome è piuttosto forte, è lo
stesso discorso del vino.
-
Porzio: L’ultima volta che ci siamo visti mi hai anche detto
che nella proprietà ci sono una casa vecchia e una nuova.
-
Sciascia: Ci sono due case ma vecchie tutte e due. C’è quella
del nonno, ma ormai si sta sgranando. Si sono aperti i muri. Non si poteva
restaurare, perché è costruita su un punto che frana. Mio nonno fece scavare
sotto la casa una grotta, che usava come cantina. E siccome il terreno è di un
tufo molto friabile, questa grotta ha segnato il destino della casa.
-
Porzio: Cosa faceva tuo nonno?
-
Sciascia: Eh, mio nonno era una persona straordinaria.
-
Porzio: Stai parlando del nonno paterno?
-
Sì. Il nonno paterno era zolfataro. Il padre gli morì quando
aveva nove anni. Allora a nove anni andò alla zolfara, dove non c’era
protezione per il lavoro minorile, niente. A nove anni. Alla sera, quando
tornava a casa, andava a scuola dal prete. Lentamente divenne capomastro, e poi
da capomastro passò all’amministrazione della zolfara.
Una bella carriera questa
del nonno paterno di Sciascia. E siamo nel XIX secolo. Chiaro questo emblema
della redenzione di qualcuno a Racalmuto: da “carusu” ad amministratore di
zolfare. Amato dal padrone. Era, quel padrone, un Matrona (che in spagnolo
abbiamo scoperto di recente significa “mammana”: altro che nobiltà!).
L’esaltazione che farà Sciascia di quel Matrona, della di lui villa di
campagna, della signorilità dell’intera prosapia della crestomazia racalmutese,
scintilla nella pubblicazione degli “Amici della Noce”..
La faccenda dei “carusi”,
dei “carusi” sfruttati dai Matrona diverrà un capitolo di questa nostra
microstoria racalmutese. Le nostre simpatie sono però di segni opposto. Non ci
possiamo ascrivere tra gli amici della Noce.
Riprendiamo il discorso dal
“Fuoco all’anima”:
-
Porzio: E guadagnò tanto da potersi comprare un pezzo di
terra?
-
Sciascia: Sì, una casa e un pezzo di terra.
-
Porzio: E come accadde che anche tuo padre lavorò nell’ambito
delle zolfare?
-
Sciascia: Mio nonno voleva fare di lui un ingegnere, per cui
l’aveva mandato a studiare ad Agrigento. Ma mio padre aveva la fissazione della
caccia. Non si può immaginare che cosa è questa passione.
-
Porzio: Intendi in Sicilia?
-
Sciascia: Sì. Dopo la seconda o terza classe delle scuole
tecniche, lasciò gli studi.
-
Porzio: Per la passione della caccia?
-
Sciascia: per la passione della caccia, della campagna.
Allora mio nonno lo istruì nel mestiere della zolfara e anche mio padre entrò
lì.
Storia racalmutese, questa.
Emblematica. Manie, tendenze, voglia di caccia. Se Porzio chiede: La caccia è
una forma di felicità? Sciascia eccede: Sì, una forma di felicità. Che lui però
non ha provata. Suo fratello invece la provava. Ma lui sparava bene, “eh, sì,
avevo mira”, ammette. E la mania per la caccia ancora persiste a Racalmuto, con
le solite esagerazioni dei cacciatori, con i cacciatori che ora parlano e
parlano di caccia, di conigli fulminati, di conigli in preda a morìe, ma
soprattutto di cani, di cani da caccia che spariscono e ritornano taluni dopo
un giorno tal altro, del gruppo, dopo giorni, con l’unghia scagliata. Poverina
– naturalmente è una cagnuola – era precipitata in una fossa, profonda ma
friabile. Aveva graffiati e graffiato la terra. L’unghia era partita. I cani
del gruppo, tutti di proprietà, l’avevano aspettata, per ore. Poi, per fame,
l’avevano lasciata. Ed erano ritornati al canile dell’angustiato cacciatore.
Dopo, con pazienza, con tenacia, la cagnuola, era riuscita a risalire. Era
potuta rientrare, affamata ma salva. Il padrone è commosso. Ci deve propinare
tutta la sua commozione al Circolo Unione. Anche a noi che non amiamo la
caccia, non crediamo che sia felicità, che non abbiamo mai avuto mira. Sciascia
e il fratello di Sciascia. Morto prematuro il primo, morto suicida, ventenne,
il secondo. Uno non ama la caccia (ma forse a sessant’anni), l’altro l’ama.
Un’evasione, quella venatoria, che può dare felicità. O così si crede ancora a
Racalmuto. E questa non sarà storia memorabile … ma manie da ricordare, sì.
-
Porzio: Ma allora ti piaceva sparare?
-
Sciascia: Mi piaceva tirare al bersaglio. Ho sempre avuto
familiarità con le armi, con il fucile da caccia.
-
Porzio: E il papà faceva le spedizioni da caccia?
-
Sciascia: Sì, finché a un certo punto si è stancato, non ci è
andato più. Mi ricordo di mio zio, il sarto; in quella bottega si parlava solo
di caccia, dalla mattina alla sera. Ci venivano tutti i cacciatori come se
fosse un circolo. E tutti raccontavano storie di caccia, talvolta, esagerando
sulla preda. I cacciatori sono anche bugiardi.
La frotta di quei bugiardi a
dire il vero si è ora assottigliata. Tra licenze, porto d’armi e soprattasse è
“vizio” costoso. Qualcuno è diventato dentista ed animalista. La caccia, ora
l’avversa. I residui dell’arte venatoria a Racalmuto adesso non hanno più né
sartoria né circolo per adunarvisi. Se ne stanno a passeggiare nel marciapiede
ove finge di farlo la iperrealista statua bronzea di Sciascia (deforme in una
gota ed inverosimilmente cresciuto d’altezza.)
Sciascia le
stigmate della violenza mafiosa e quelle – spesso connesse – delle smodate smanie
venatorie le portò nel suo DNA come tanti racalmutesi. E’ paradigmatico quindi
quello che scrive in proposito. “Nero su
nero” anche noi riportiamo questa pagina sciasciana, a chiarimento del vivere
locale, delle demenze della memoria, dell’essere racalmutesi.
«La ragione
lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una
diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di
soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A
casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il
barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane
guardia campestre della cui moglie si era invaghito.
«Nonostante
il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo
fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al
largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il
sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta.
Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova
che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un
racconto minuzioso: ma in segreto, quasi
col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel
che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il
colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e
volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché
data all’ecce homo come scettro, è
simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare,
le ferite da canna).»
Condividiamo
con Sciascia che la caccia, qui a Racalmuto, più che per nutrimento, è stata
uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece
costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui
sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue
terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare
il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don
Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una meschina
guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un
suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di
quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un
fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della
Matrice (ma mani pietose pare l’abbiano trafugato) si poteva leggere il
racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due
bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino,
all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso
sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia
giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della
macelleria. I bravacci seguirono il Martorelli fino alla fontana e là gli
scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, il mandante era
stato il barone; l’organizzatore un famoso campiere
del barone. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma
poi vennero del tutto assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva
la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il
barone Tulumello – anche se poi sindaco e consigliere provinciale - rimase “un reduce dalle patrie galere”,
come può leggersi in missive anonime che
si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia
Parola
d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per
movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira
per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempi
d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia
campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con
insinuazioni maligne. Certo, una guardia comunale a nome Leonardo Sciascia –
omonimia con qualche vincolo di parentela però – riemerge da quelle carte ed è
tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente
al Cadronghi:
«Eccellenza. -
Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole.
Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con
cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano
reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita
di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio
destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di
abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono
inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati.
Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di
circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera
manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la
villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e
Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il
maestro didattico della malavita. Et similia.»
L’abigeato fu piaga che si
protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure
l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi
per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i
soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle
inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi
raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della
Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente
dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
Noi restiamo
impigliati – lo confessiamo – nella aporia o pseudo contraddizione di Sciascia
che nel presentare la storia del Tinebra, prima dice del libro di Eugenio
Napoleone Messana che trattasi di opera “voluminosa, fitta di notizie” e poi –
a conclusione della sapidissima prefazione – vuole il nostro paese povero di
memorie storiche di origine libresca o documentaria, dacché “limitato è il
numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e
manoscritti”. L’insigne scrittore si salva in corner asserendo e dimostrando
che “moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono
estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria”. Ma se anche noi, trovata
venia per gli sporadici spunti sopra estesi, seguissimo (pur con la modestia
dei nostri mezzi espressivi) il sommo racalmutese ci parrebbe di andare a
navigare in una memoria demente, per dirla con qualche ermetico del ‘900.
Sciascia esige
invero notizie “narrabili”, (oppure, in mancanza, notizie fervorose distillate
dalla memoria collettiva del paese). Ci rammenta, in Occhio di
Capra: «la mia infanzia è stata tutta un rondò di zie e zii. Di
parenti e di amicizia. Personaggi indimenticabili: e pochi credo di averne
dimenticati, scrivendo. Col loro nome o dandogliene un altro. Ma la memoria,
che con gli anni si fa lunga ed aguzza a cogliere le cose lontane, oggi me ne
fa riapparire due di cui mi pare di non avere mai scritto …». A sceverare Occhio di Capra o Nero su Nero
o Cruciverba e soprattutto Fuoco
all’anima, abbiamo di che rimembrare con il ricordare di Sciascia su
fatti usi e bizzarrie (ed anche demenze) racalmutesi. Ma la storia, quella non
astringibile in aneddotica di famiglia o di paese? Beh, Sciascia è pessimista.
A Racalmuto è rada, larvatissima la “vita
che Américo Castro direbbe «narrabile», da «descrivibile» che appena e
soltanto era.” E molto ci affligge e ci intimorisce questa lezione contenuta
nella presentazione sciasciana della storica mostra su Pietro d’Asaro, svoltasi
dal novembre 1984 al 13 gennaio 1985 nella Matrice (destinata - pare - per
incuria, insipienza e peggio a crollare) e nel santuario del Monte, acropoli
moderna votata all’ascesi e alle mistiche redenzioni locali.
Castro ci
avvince, in qualche modo lo conosciamo e quindi crediamo di non tradire la sua
teorica addentrandoci in ricostruzioni fattuali racalmutesi che se non proprio
nobilmente (e presuntuosamente) narrabili restano pur sempre rivelatrici di
vicende descrivibili, e per la microstoria locale tanto va perseguito, ascrivendosi
a merito per interessi della cultura o. se non altro, della memoria collettiva
del locale aggregato sociale. Non mancherebbe un ritorno turistico, non scevro
di additive risorse economiche, disprezzabili dalle guglie degli elitari colti
o supponenti tali, necessitanti per la sopravvivenza della collettività. Cose
piccole, non disprezzabili, però.
In tale
riquadro, va riguardata questa nostra fatica. Vogliamo riscrivere la storia di
Racalmuto – narrabile o solo descrivibile, poco ci importa. E ci pare di non
potere essere smentiti se diciamo che tante, tantissime sono le notizie
ricavabili da scritti altrui e soprattutto da documenti, diplomi, “rolli”,
archivi - nazionali, vaticani, esteri e persino parrocchiali. Certo non basta
additarli, quegli archivi, per credersi benemeriti della rievocazione storica
racalmutese. Occorre faticare, respirare polvere – nociva ai polmoni ed agli
occhi – e soprattutto “intelligerli” (alla Sciascia per intendersi). Non
presumiamo di riuscirvi in pieno. Ma qualche risultato ci sembra di averlo
conseguito. Agli altri, però, l’ardua sentenza.
Il più antico
documento, a ben vedere, è la grotta di Fra Diego: non è molto che si chiama
così. Sciascia con la sua Morte dell’Inquisitore
ha contribuito a sancire tale denominazione. Prima, in una visita di William
Galt attorno al 1934, pronubi Pedalino De Rosa ed il notaio Sajeva (dice
Giovanni Di Falco che fu notaio racalmutese per un solo atto) si era insinuato
che il toponimo di Fra Diego che pur circolava si potesse riferire al noto – e
per i clericali, famigerato – fra Diego La Matina, monaco agostiniano del ‘600
dell’ordine centuripino di S. Giuliano.
Vi avrebbe addirittura preso dimora nei periodi della sua fuga. Pensate
che nei rilievi militari dell’esercito effettuati subito dopo l’Unità d’Italia
il toponimo non figura in alcun modo.
Quell’antro,
ubicato a sud-est, poté davvero essere adatta dimora al primo uomo che ebbe il
destro di sistemarsi nelle nostre plaghe. Egli poteva essere benissimo del tipo
di Cro-Magnon, e la sua periodizzazione non osterebbe ad essere collocata verso
una trentina di migliaia di anni fa. La grotta di fra Diego, per noi, è
l’impluvio di acque piovane che discendevano dal monte Castelluccio. Sotto, ad
un certo momento, ebbe a crollare una enorme volta gessosa; vi fu il formarsi
di un esteso zubbio, quello gigantesco ai piedi della
grotta, ai fianchi a ridosso. Che cosa sia uno zubbio
è detto in testi scientifici. Qui basta accennarvi. Così sotto il costone
abbiamo ora ben sette inghiottitoi, a dire del mio amico sig. Palumbo di
Milena. E quegli inghiottitoi vanno investigati, esplorati da squadre di
speleologi professionisti: più della grotta visto che ivi non è stato trovato
granché, almeno sotto il profilo archeologico. Nei sette inghiottitoi a valle
vi saranno di sicuro argille cotte ed altro materiale sicano e d’altre culture,
a testimonianza del vivere che in Gargilata v’è stato con un continuum che sempre il mio amico Palumbo mi
mostrava analizzando i minuscoli cocci che affioravano. Dalla civiltà
pre-sicana (quale noi riteniamo vi sia stata in base ai reperti archeologici
risalenti ad una decina di migliaia di anni fa, come si è dimostrato nella
contermine Milena), a quella delle tombe sicane (coronanti la stessa grotta e
che si sogliono datare agli esordi del secondo millennio avanti Cristo), alla
successiva della Magna Grecia (dipendenza agragantina) e quindi alla civiltà
greco-romana, a quella intermedia del passaggio dei barbari (vandali, goti,
etc.), alla restaurazione bizantina, per giungere a certa ceramica araba che
andrebbe studiata con molta attenzione per i risvolti nella chiarificazione
della dominazione araba (a dire il vero berbera) e del succedersi delle vicende
legate a normanni e svevi, sino al 1271. Questo caleidoscopio storico giace
negletto in terre un tempo vivificate da una sorgiva cui da bambino andavo ad
attingere l’acqua con una minuscola brocca zingata (lanciddruzza);
si trovava nello sprofondo di Gargilata. Ora, per incuria delle autorità
preposte alla vigilanza la sorgiva è stata sotterrata per un po’ di vigna.
Quelli di Agrigento hanno erroneamente invertito le particelle catastali
soggette a vincolo ultraprotettivo. Mera disattenzione o censurabile
compiacenza? E perché, nonostante le mie segnalazioni, non se ne danno per
intesi?
La vita a
Racalmuto parte dunque da Gargilata, tanto propinqua a Milena. E citiamo Milena
giacché decenni di scavi e ricerche, da parte di superprofessori
dell’Università di Catania (indichiamo per tutti: De Rosa) rendono eminente la
cultura pre-greca dei Sicani. Quelli che indugiano su Gardutah, o su
Casalvecchio, o su lo Judì e via discorrendo peccano di erudizione. Faranno
tutto ma non storia o veridica microstoria racalmutese. Se Sciascia incide il
bisturi del suo scrivere alato nella locale microstoria per dirci che
“Racalmuto … [uguale] Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli
abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza”
(Occhio di Capra) ed indulge nella diceria del “paese che esisteva già, un po’
più a valle” (presentazione mostra Pietro d’Asaro), e se giunge persino
all’aforisma di un paese (che «profondamente gli pare di conoscere, nelle cose
e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e
nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice
di Buenos Aires. “ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore
alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”») la cui vita
non si riesce “ad immaginare, a vedere, a sentire… prima che gli arabi vi
arrivassero e lo nominassero”, a noi sia concesso il privilegio del dissenso, o
almeno dello scetticismo. Si pensi, non era solo nelle anagrafi parrocchiali
che si scriveva Xaxa, ma anche nei rolli, nelle carte notarili, negli archivi
laici. Ed il nome nulla diceva; pure le etimologie artatamente arabe sono
ridevoli. Si pensi, oggi qualcuno, con soldi regionali, ci vuole erudire che
tutto ha valenza terminologica araba (anche Montedoro, anche Gallo d’oro, anche
… etc. etc.). Vedremo che di mirabilia in mirabilia, per il più grande arabista
vivente, Racalmuto deve intendersi come il paese del moggio. (E D’Annunzio non
ha fiaccole da nascondervi; a meno che questo non sia pretesto per far
scintillare la rutilante poesia dell’Abruzzese sul palcoscenico del locale
teatro, costosissimo nella erezione, ancor di più nella ricostruzione e adesso
nel mantenimento di nebulose fondazioni.)
Del resto non si
potevano aspettare gli arabi per trasformare plaghe ubertose in dimora vitale,
autoctona. Racalmutesi da trentamila anni ce ne sono stati anche se non si
chiamavano così. E dicevamo che si erano acquartierati a Gargilata, da cui
sciamarono lungo il costone del Castelluccio, lungo le alture quasi dentarie
del Serrone, da est ad ovest, ed anche giù nel vallone a tramontana, là dove
v’era pastura, possibilità di caccia, germogli frumentari, terra atta a vitigni
o ferace d’erbe per pascolo. Le testimonianze sono quelle delle tombe (a forno
prima, a tholos dopo); o gli incavi funerari bizantini. Le nostre modeste ma
irriducibili investigazioni del suolo ci hanno confortato di conferme per
significativi manufatti, per ruderi che certificano, che ancor oggi segnalano
il vivere antico tramite gli onori della tumulazione nella pietra friabile, là
dove era disponibile.
Prima del
Pliocene centinaia di milioni di anni fa, ovvio che l’altipiano racalmutese
fosse tutto un mare. Cominciato il prosciugamento nel versante dal Castelluccio
a tramontana, appena si ebbero a formarsi acquitrini pare – sono sommi
scienziati ad attestarlo – che sciami e sciami di vibrioni (li chiamano col
termine di Desulfovibrio desulfuricans)
pavimentarono il territorio; e si dice vi deposero gli strati solfiferi delle
future miniere. Altri sconvolgimenti
geologici subentrarono e proprio nel Pliocene (circa 25 milioni di anni
addietro) l’intero effigiarsi del Vallone dal Castelluccio fino al
fiumiciattolo ed oltre sino al sistema
collinare della Pernice, da sud a nord, e dalla Montagna giù giù sino allo
“Strittu”, divenne come oggi lo vediamo ed amiamo. Il vulnus minerario del
paesaggio naturalmente fa eccezione.
L’altro
versante, da est a sud e da sud ad ovest, quello che plana sino al mare dalle
punte del Castelluccio e del Serrone suole assegnarsi agli esordi del
Quaternario, al Pleistocene, ad era recente (ma si fa per dire visto che
dobbiamo parlare di sette/otto milioni di anni fa). Qui, da una parte la terra
è pigra; Cugni Luonghi, Mangiauomini ed altre lande
acquitrinose non hanno destato molto attaccamento alla terra; la moderna
costruzione di un autodromo lascia nell’indifferenza i racalmutesi (pur se vi è
da congetturare che verranno assordati); altro discorso invece per il versante
ovest: se vi si progetta un aeroporto tanti arcigni paesani si ribellano. Terre
feraci, humus fertilissimo, terreno intoccabile insomma vogliono
rappresentarcelo. Stanno ordendo una rivolta civica. Manco a farlo apposta, a
mo’ di torre vi è la contrada Noce ove albergava d’estate Sciascia per
scrivervi i suoi non facondi libri. Sapeva raccogliervisi ed ispirarsi e
comporre con la sua prosa non scivolosa, ipotattica disse Pasolini. Il silenzio
si addice ai dintorni della Noce, scrivono persino gli eccentrici organi di
stampa meneghina.
Storia narrabile
dunque anche quella preumana delle ere geologiche. (se non vi era l’uomo, vi
sarà).
La civiltà
sicana che stanziava a Milena, alle Raffe, sotto Mussomeli si irradiò anche
nelle contermini terre di Racalmuto. O, come amiamo pensare, da qui, epicentro
per fertilità del suolo e vicinanza al mare, passò all’interno sino alla Rocca
di Cocalo. Le note del Mauceri, [8] nelle
relazioni al Bullettino romano del 1860, dimostrano un iter sicano che da
Licata si inerpica sino all’interno,
sino a Racalmuto. L’ingegnere delle ferrovie, invero, attribuisce al nostro
territorio Pietralonga (ove le “pruvulate” per avere pietrame da spalmare per
le rotaie della costruenda strada ferrata rivelarono necropoli sicane subito
depredate). Apparteneva invece a Castrofilippo. Nel 1980, nel chiosare un piano
regolatore racalmutese, l’insigne archeologo De Miro segue pedissequamente
l’errore del Mauceri e – qui pro quo – vincola come racalmutese l’estranea
località di Castrofilippo. Quando si dice un ricorso storico secolare. Per
colmo d’ironia, quel De Miro, proprio Noce, Menta e dintorni – vere miniere di
reperti archeologici greco-romani – dimentica di vincolarli. Dimenticanza o
atto di devozione verso un nume letterario? Ora, i racalmutesi interessati,
invocano la negletta archeologia per impedire l’aeroporto. Speriamo che almeno
vi si stendano i vincoli di dovere.
Dal
Castelluccio, l’apice del primo deflusso di acque geologiche, scese in declivio
terra argillosa che i venti subito coprirono di humus fertile e che la
successiva incuria degli uomini affidò alle inclemenze delle piogge capaci di
spogliarla (e dire che siamo in tempi successivi alle cure dei monaci
centuripini di S. Giuliano, abili invece a terrazzarla). Da lassù iniziarono il
loro lento scivolare grandi scisti ed ancora sono in cammino verso il fondo
valle. Prima i sicani e poi i bizantini se ne servirono per le loro
sepolture. Un patrimonio archeologico
che almeno andrebbe inventariato. Del pari, dalla punta del Loggiato scesero
altri massi che scheggiandosi e venendo corrosi dai venti sono ora penduli sui
cigli con sembianze quasi umane, paurose eppure ammalianti. Come lo è l’orrido.
Come nostrana sembianza, un simbolo, il vero stemma racalmutese. L’abbiamo
additato all’attenzione dei nostri concittadini, con i miseri mezzi di una
locale televisione, al suono pertinente, suadente di una stagione di Vivaldi.
La labilità delle immagini, per i rudimentali mezzi della registrazione, si
accentua sempre più e prossima è la fine di quelle immagini. Il Comune non ha
attenzione per simili atti di amore, ha da finanziare estranei (ma potenti) o
queruli soggetti pluridecorati (ma sono gli
“amici”).
La data di
nascita di Racalmuto non è araba; il toponimo lo è ma circolava già da un
secolo; Rahal Kamout si chiamava nel 1161 una località di Petralia (che invero
nulla aveva a che fare con Racalmuto). Il nostro altipiano ovviamente
preesisteva. Non vi era però nessun grosso centro che potesse prefigurare
l’attuale paese con il suo cacofonico nome arabo. Se Laterza chiamò il paese di
Sciascia Regalpetra e ne invocò le sue parrocchie, fu uzzolo letterario.
Regalpetra ci piace ancor meno, e tra il toponimo della letteratura e quello di
nebbiosa origina araba preferiamo il secondo. Come per lo stemma racalmutese,
il pessimo gusto locale esplode. Quant’era bello l’arcigno simbolo: strisce
gialle – tante quante erano le migliaia di abitanti che si andavano man mano
censendo – su campo rosso e tutto sotto una corona nobiliare (pare persino
regale, sicuramente marchionale – vecchia ambizione dei Del Carretto). E’ lo
stemma dipinto in un bruciacchiato quadro dell’Itria. A cominciare da certi
sapientoni palermitani dell’Ottocento lo si dice di Pietro D’Asaro; ma è
infondata arditezza.
Eppure vi era
vita. Se mancava una estesa dimora vitale come oggi siamo abituati a vedere un
paese, non si trattava solo di masserie disseminate qua e là, come si crede che
sia avvenuto dopo il crollo dell’impero romano; come si va dicendo che sia
avvenuto nell’Agrigentino sotto papa Gregorio. Le testimonianze archeologiche
ci fanno pensare ad una sorta di cespugli uno qua uno là. Il più consistente
sotto fra Diego. Non era Mothion, termine che in lingua pre greca poteva pur
significare ‘aiuto’, e che non disdice ad un insediamento di nostri avi. Padre
Salvo è acuto – ma troppo fantasioso: vorrebbe Racalmuto un misto di arabo e di
antichissima lingua (sicana). «Ben si spiegherebbe la composizione del nome
arabo di Racalmuto, che potrebbe risultare dal prefisso arabo Rahal e da Mothion, cioè da Rahal-Mothion corrotto in arabo in Rahal-Maut, ‘Villaggio di Mothion’. In questo caso
gli Arabi avrebbero conservato l’antica denominazione del vecchio villaggio
presso cui si stabilirono in contrada Casalvecchio-Saraceno.» Il prete è
erudito e si vede.
Noi lo stimiamo.
Francamente è andato un po’ troppo nel congetturare. Una storia così può
soddisfare solo chi se la inventa.
Alla fantasia
noi concediamo invece che il primo uomo sapiens sapiens
dell’altipiano possa essersi deciso a stabilirvi stabile dimora una trentina di
migliaia di anni prima degli arabi. Doveva necessariamente essere troglodita:
la grotta di fra Diego, questo inghiottitoio di acque essiccatosi dopo il
crollo del gigantesco zubbio, esposto a sud-ovest dovette essergli propizio,
accogliente per le sue primordiali esigenze abitative. E dopo?
Dopo una ventina
di migliaia di anni, una popolazione autoctona ebbe a diffondersi in tutto il
circondario: da lì sino a Mussomeli, ma
anche da lì sino a Pietralonga; a cespugli più che ad estesi
agglomerati, a grossi insediamenti. Le tombe di fra Diego sono tante: svelano
aggregati umani non spregevoli. Quelle di Ponte Gianfilippo sono anch’esse non
sparute. Ma le altre – dietro, sotto, a fianco del Castelluccio, ad esempio –
se non solitarie, sono circoscritte: due o tre nuclei familiari conviventi vi
trovavano sepoltura se non imperitura, almeno durevole. Anche la pubblicizzata
necropoli di Pietralonga aveva dimensioni plurifamiliari, ma limitate.
Quella
popolazione autoctona la si chiama sicana. Persino Tucidide vi ha messo del suo
per consacrare quel ceppo, quella genia. Risaliva a circa sette cento anni
prima della caduta di Troia, riferiva. Ora, per i vicinissimi reperti
archeologici di Milena, i laboratori di fisica nucleare di Catania non
escludono datazioni risalenti a dieci mila anni fa. La scienza contro la storia
antica. Ma fino ad un certo punto, basta sapere coordinare; smussare le
discrasie più illogiche. Nulla vieta di chiamare sicani gli antenati
racalmutesi che dieci mila anni fa – a Gargilata – sapevano già cuocere
materiale fittile per i loro usi domestici. Non siamo come Sciascia; non
vogliamo essere arabi a tutti i costi (sol perché i preti scrivevano nei loro
registri parrocchiali Xaxa). Ci piacerebbe tanto essere gli eredi di quei
sicani di dieci mila anni fa, con il nostro sicilianissimo – come dire
racalmutese - DNA, con le stigmate del
sopravvivere in un aprico altipiano, con quel sole che sorge sempre da dietro
il Castelluccio e che tramonta dietro la Montagna, con il succedersi di
stagioni bizzarre, eppure composte, che ci hanno forgiato nella mente, nel
cuore, nel nostro peculiare essere blasfemi, violenti eppure generosi, amabili,
sottomessi a leggi, a potenti, a signorie anche straniere con sornioneria,
senza suicidi ribellismi.
Dove abitarono
di solito i ceppi dell’altipiano che più si condensarono dopo nell’attuale
Racalmuto? I reperti archeologici dicono prevalentemente in due posti: in
contrada Fra Diego La Matina ed in
contrada San Bartolomeo-Garamoli.
Noi ci avvaliamo
per dire questo di un singolare personaggio, neppure racalmutese, che se ne
viene ogni autunno a Racalmuto a spiare (e raccogliere) quello che trattori
rivoltano dalle terre bagnate. Ritenendosi archeologo, costui ha collezionato
“trusce” di “giarmaliddri” di pietruzze
di minuscole ossidiane, di selci levigate etc. Si è spinto a farne persino una
classificazione, una elencazione comunque. Il tutto – quello almeno che ci ha
descritto in due fax del febbraio del 2001 – lo ha portato ai BB.CC.AA. di
Agrigento, consegnandolo, unitamente ad un attuale assessore comunale, nelle
mani di una funzionaria dell’epoca, la Maugeri (se non sbagliamo). Dove siano
andati a finire quei reperti, non sappiamo. Dovevano essere fotografati. Di
certo, quando, dopo ne abbiamo chiesto notizia, non se ne sapeva più nulla (o
non si è voluto rivelarlo).
Ecco quello che
dicono a me quelle annotazioni. A Gargilata (sotto la grotta di Fra Diego) il
centro abitativo sepolto fa oggi affiorare macine di pietra che il nostro
dilettante archeologo vorrebbe di cultura Pantalica Nord. Ma anche macine in
basalto. Non manca una accetta litica votiva in basalto nero ed un’altra in
bachelite. Diffuse sono le pietre di selce e quarzite lavorate dalla mano
dell’uomo primitivo: secondo il Nostro, della cultura dell’età del bronzo. E
poi pietre finemente lavorate - a forma
di mandorla o di accetta – che avrebbero valore votivo e riguarderebbero l’uomo
sicano. Numerose le lame in silice grigia, rossa, gialla. Due lame in ossidiana
con taluni reperti del medesimo materiale. Interessante una mazza litica con
traccia identificabile dalle tacche dell’impugnatura per le dita. Sarebbero
della facies Pantalica una decina di pestelli. Bolas caratteristici delle zone
gessose-solfifere e tantissimi reperti litici (nuclei, utensili in pietra,
raschiatoi, bulini). I culti e le arti avrebbero le loro vestigia nella
contrada Gargilata, sotto Fra Diego: rinvenuti tre falli fittili e tre
fuseruole fittili ‘in ottimo stato di conservazione’. Questo materiale – se
ancora sopravvive – non potrebbe essere restituito a Racalmuto e custodito nei
locali blindati (che tanto ci sono costati) della Fondazione Sciascia? Ad
Agrigento, a che servono?.
Passiamo alla
contrada di San Bartolomeo Garamoli. Abbiamo le solite macine in basalto e in
pietra. Anche qui pestelli della cultura Pantalica Nord (a dire almeno del
Nostro) non mancano. Rinvenuto un ciotolo fluviale con marcati segni di
combustione, probabile pietra focolare. Votiva dovrebbe essere un’accetta
litica in talcoscisto. Presente forse la cultura campignana con un’amigdaloide.
Non rare le lame in selce grigia e gialla. Molto lavorati una cinquina di
reperti in selce, frammisti ad altri utensili di identica materia. Spicca un
coltello/pugnale in selce. Uno stadio evolutivo molto accentuato rivelano
taluni reperti sempre in selce. Non meglio classificati ben 101 frammenti di
vario tipo e dimensioni. Di fittile abbiamo: sei fuseruole ben conservate; due
corni o falli; un peso da telaio – e questo starebbe a testimoniare in modo
specifico un insediamento greco -; n. 54 frammenti fittili con decorazioni
tipiche dell’età del bronzo. I sicani, dunque, si sarebbero insediati e
stabilizzati anche in quella contrada, tanto distante da Fra Diego.
Questo nostro
popolo d’antenati, questi sicani si sono dunque diffusi per l’intero territorio
di quello che oggi si chiama Altopiano di Racalmuto. Abbiamo detto che ve ne
furono di quelli che scesero a valle, di fronte alle zone della Pernice, quasi
all’imboccatura dello “Stritto”. Abbiamo tombe a forno in vari punti della
Forestale, sotto “Vriccicu”. Manie mariologiche del Novecento hanno eroso e
corroso queste sopravvivenze funerarie. Abbiamo dileggiato gli antichi e
vilipeso le ultime credenze cristiane. Vi è ora un clero che ama padre Pio, che
vorrebbe santificare padre Elia Lauricella (senza manco conoscerlo). E’ con il
suo misticheggiante vescovo, lontano dal popolo e dalla nuova cultura. Riesce
solo nella profanazione delle tombe sicane.
Quanto va
emergendo dagli studi scientifici dell’insediamento sicano di Raffe o della
riserva di Monte Conca è già tanto (ed al contempo poco) nel far baluginare la
civiltà sicana. Naturalmente, il loro (dei sicani) culto della sopravvivenza
mortuaria, il loro dedicare energie oltre il tollerabile nello scavare tombe
emblematiche, nella pietra, a davvero futura memoria, il sapere cuocere
l’argilla per un vasellame rudimentale ma molto rivelatore di usi, benessere e
tenore di vita ci testimoniano una dimora vitale che si può dire narrabile.
Nella vicina Palma di Montechiaro, studiosi quali Castellana, vogliono dire di
avervi trovato pani di zolfo risalenti a quell’epoca: il che equivale a dover pensare che i sicani sapessero un paio
di millenni prima di Cristo di calcheroni, balate, gavite. Se là vi fu
industria dello zolfo, non poté non esserci eguale sagacia estrattiva a
Racalmuto, dove il nostro vibrione fu più operoso a lasciare ‘gallerie’
solfifere appena sotto la crosta dell’humus ferace.
Tanti pozzetti o
tanti fornetti – così chiamati per le vaghe rassomiglianze – quali ci
incuriosiscono a Fra Diego o al Ponte di Gianfilippo, o negli anfratti sotto il
Castelluccio o a S. Bartolomeo o nella Montagna prima del bel suolo aprico
requisito da assenti padroni panormitani, ci svelano un pauroso culto dei
morti. Nei modesti incavi vi venivano deposti in forma fetale i morti, non
molti in una sola tomba per l’angustia dello scavo. Un richiamo al ventre
materno, uno sceneggiare la morte come l’origine della vita. Un ritornare alla
terra. Senza la teologia di adesso, ben s’intende. Ma quell’uomo, quella donna
ivi sepolti non morivano del tutto. Il loro spirito rimaneva. Ma doveva restare
racchiuso nel piccolo antro gessoso. Una pietra suggellava l’abituro funerario.
E dentro il morto veniva legato nella suo rannicchiamento fetale. Non doveva
uscire. Avrebbe potuto arrecare danno, ai vivi, ai superstiti. Qualche
paleoantropologo alla Tiné non esclude riti di vago sapore cannibalesco. Pare
che i morti venissero messi a bagnomaria, con coltelli di selci – e si è sopra
detto che ne sono stati rinvenuti nei pressi – venivano scorticati. Andava
perduta quella carne? In tempi di penuria, quando ardua era la caccia e pochi
dovettero essere gli animali addomesticati, arduo è credere in schifiltoserie
che la opulenta civiltà moderna ci incute irresistibilmente. La voglia di ristorarsi mentre ci si addolora
per la dipartita di un parente, di un amico è vivida al presente. E’ ardito
cogliervi residui di una tradizione millenaria, sacra e truculenta?
Un aforisma molto racalmutese recita: «lu cuccu cci dissi a li cuccuotti, a lu chiarchiaru nni
vidiemmu tutti.» L’imprendibile senso del detto locale sfugge – a
nostro avviso – anche al grande Sciascia. Ma con lui concordiamo quando scrive:
«al chiarchiaru è come dire agli inferi, ad un luogo
di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la memoria
delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese
se ne trovano.» Il rovello degli spiriti sicani, i sicani nostri antenati che
sono evaporati dalle loro tombe violate, aperte, si ridesta con il lamento del
cucco al chiarchiaro («una collina rocciosa, un sistema di anfratti, di
crepacci, di tane. Pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di
serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta “ ‘mpintu”,
impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che
l’aggroviglia», icasticamente per Occhio di Capra).
La civiltà
sicana racalmutese può periodizzarsi, può tripartirsi. Da una decina di
migliaia di anni fa sino al XVII secolo avanti Cristo, quando tecniche,
utensili, crescita civile, acuirsi del culto dei morti permisero di onorare i
defunti in nicchie ovali, simili al ventre materno. Dopo, sino al XIII secolo,
i passaggi epocali delle varie età metalliche non furono nefasti a quel popolo
autoctono; anzi le fertili terre racalmutesi, la selvaggina che vi aveva sempre
più propizia dimora, l’addomesticamento più folto di accresciute specie e la
sagacia nel modellare ed istoriare materia fittile, il caolino dei calanchi, e
l’abilità nel dare un tetto stabile ai capanni della dolce vallata che le acque
torrentizie non dilavavano venendo con sapienza incanalate in ingegnosi
“gattani” , tanto eccelse per una prospera ulteriore dimora vitale, sparsa in
più o meno estesi addensamenti umani, per l’intero altipiano. E ciò sino all’avvento
dei greci, di quei rodi-cretesi di Gela che dopo essersi attestati ad Agrigento
ebbero a spingersi sino nelle nostre lande.
Caratteristica
di questo periodo fu la tomba a tholos: un’ampia caverna, con sedili a forma di
ferro di cavallo ove depositare i morti, sempre rannicchiati in forma fetale e
sempre legati ma in numero ora cospicuo come imponeva la crescita demografica e
come la più scaltrita tecnologia, anche per l’abilità nel forgiare utensili
metallici, consentiva.
In alto si
praticava un foro, oppure, se la sommità era imperforabile, si scheggiava una
corona circolare, come una moderna insegna per additare alle anime dei defunti
la via del cielo. Ci siamo intestarditi nella ricerca di simili tombe – così
evidenti ed avvincenti a Milena – ma sinora non ne abbiamo trovate. Pensavamo
un tempo che ciò era il segno di una eclissi demografica, di un ritirarsi
nell’interno montagnoso di Milena e Sutera per esigenze difensive verso
aggressori che venivano dal mare. Adesso, pensiamo a cosa diversa: quelle
tombe, appena riadattate, accoglievano d’estate, vi si abitava durante il
raccolto o la fruttificazione estiva ed autunnale; avveniva sino a non molto
tempo fa; era uso ancora durante la mia infanzia e i miei ricordi sono tuttora
trepidi. Certo, durante la trebbiatura si dormiva sulla pula, sotto stelle
vivide, talora filanti, mirabili, annuenti. Non per romanticherie, s’intende,
ma per tutela e guardia del grano prezioso ed amato.
Annusando cose
dì archeologia paesana ci siamo imbattuti in un grande scisto gessoso in
contrada Pian di Botte (sotto il cimitero). E’ zona suggestiva anche se aspra.
Nel raggio di mezzo chilometro abbiamo un mulino ad acqua del Cinquecento (gli
archivi palermitani sono prodighi di notizie), il rosticcio della miniera di
Calogero Casuccio – al tempo oggetto di scontro con i principi di Sant’Elia, e,
stando a nostri rinvenimenti
archivistici romani, località pressoché certa delle “tegulae sulfuris”
mommseniane – ed un avello di forma strana, di cui qui si vuol dire qualcosa.
Stavolta l’incavo, palesemente tombale, è alto e stretto, come se vi si dovesse
deporre un solo uomo, all’in piedi e non in forma fetale, e come se si
trattasse di uomo gigantesco. Ma l’incavo è troppo superficiale per scopi di
seppellimento. Pensiamo dunque ad un inizio di tomba a tholos, abbandonata per
fuga della famiglia interessata o per altri disastri quali terremoto,
epidemia. Oggi, attorno è desolazione,
‘cannedri’ irti, zona inaddentrabile. Terra abbandonata che potrebbe essere
dalla comunità requisita e studiata, archeologicamente. Non molto tempo fa non
era così se sopra la roccia è visibile la piattaforma di un palmento ove
pestare uva che i dintorni dovevano pur fornire in abbondanza.
La nostra tomba
– o quella che crediamo tale – segna, a nostro avviso, lo spartiacque tra i
sicani della tomba a forno e quelli influenzati dal mondo miceneo, da intrusi
che a dire del De Miro ed altri venivano da Creta alla ricerca del sale, lungo
il fiume Platani, sino alla Rocca di Cocalo, sino a S. Angelo Muxaro –
significando così il mito di Minosse in Sicilia – e divaricandosi sino alle
alture di Milena, che ci hanno restituito splendide tombe a tholos con spade ed
anelli del XIII secolo quali ognun dice essere micenei o di tale influenza.
Anche a Racalmuto dobbiamo pensare a similare epigono sicano, durato sino al
VI-VII secolo avanti Cristo.
Finisce qui la
civiltà sicana, inizia quella della Magna Grecia. Non è che sia cessata la
presenza sicana; solo si è sviluppata o inviluppata. Monete greche di varie
età, con impressi granchi agrigentini (ne abbiamo intravisto taluna trovata
sopra i Malati) o cavalli alati (monete
siracusane?) o d’altre forme che qualcuno individua nella circolazione fenicia
(ma trattasi di dati male riferiti dal Tinebra Martorana).
Ed a questo
punto ci accorgiamo di esserci troppo dilungati per un capitolo che dovrebbe
avere valore solo introduttivo. Ondivagando, abbiamo cercato di chiarirci – più
che chiarire – che cosa intendiamo per microstoria e soprattutto per
microstoria racalmutese. Abbiamo dovuto fare i conti con Sciascia. E quando lo
contraddiciamo, in fondo in fondo temiamo che lui abbia ragione e noi no. Resta
pregiudiziale la stroncatura di notizie “non memorabili”. Non sarebbero storia
“narrabile”. Ma l’indulgere a secrezioni di appannate memorie individuali e
peggio collettive non è indulgere ad una memoria demente? Letterariamente
sublime ma storicamente insensa.
Ci ripetiamo, lo
ammetto. Eppure, se la storia è un pensare il vivere antico quale svolgimento
di un valore ideale (la libertà, la giustizia sociale, la democrazia, la storia
ideale eterna, il disegno della divina provvidenza), che cosa può essere la
microstoria se non la ricerca di un principio atavico di sopravvivenza in una
chiusa comunità, piccola per pretese cosmiche, umana per essere obliata?.
Dice Sciascia:
«Ma la vita vi era tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore e alla fame
come erba alle rocce.» L’acuto assioma noi l’abbiamo reiterato tante volte, e
chissà quante altre volte lo ripeteremo. Anche per noi la microstoria di
Racalmuto deve rivolgere l’attenzione a questo”antico paese che esisteva già”
prima degli arabi. Ci pare arbitrario o impreciso o disorientativo aggiungere
che esso stava «un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo
desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-mauth, paese morto. Ma non era
per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal
paese prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano solfifero).» In ogni
caso, fu sempre “dimora vitale”. Ed era vita grama, spesso violenta, più
schiava che libera. Prima dell’ “avvicendarsi dei feudatari che venivano dal
nord predace e dalla non meno predace «avara povertà di Catalogna», col carico
delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni
nuova signoria apportava”, altre angherie epocali erano avvenute, quelle di
sicani forti che conquistano sicani deboli, quelle dei gheloi akragantini che
schiacciano gli indigeni, quelle dei romani, quelle dei barbari, quelle dei
bizantini, quelle degli arabi (cui subentrano miseri e remissivi berberi),
quelle dei normanni, quelle dei vescovi bretoni, quelle fridericiane, quelle
angioine, quelle catalane, quelle chiaramontane. Dopo i Del Carretto. Ma dopo i
Del Carretto ecco le angherie degli Schettini, dei duchi di Valverde (i
Caetani), e quindi un ritorno al ceppo femminile dei Del Carretto con i
Requisenz, e frattanto le angherie dei Savoia, quelle degli Austriaci, quelle
dei Borboni, e poi quelle garibaldine, di Nino Bixio, della Destra, di Crispi,
di Giolitti, della vecchia mafia, della nuova mafia, del fascismo, della
Democrazia Cristiana, degli agrari di Alliata e del bandito Giuliano (qualcuno
ci vorrà mettere Li Causi e trasformare in aguzzini le vittime di Portella delle
Ginestre), del centro sinistra, della mafia dei pentiti, dell’antimafia
aggiungerebbe Sciascia, ed ora quelle dell’era berlusconiana non escludendo i
trasformismi paesani, accondiscendenti all’autodromo e imprecanti contro il
progetto dell’aeroporto. E frattanto Racalmuto muore – forse, bisogna dire,
sembra morire. Certo saprà ancora una volta abbarbicarsi al dolore ed alla fame
‘come erba alle rocce’. Riuscirà di sicuro a sopravvivere. L’usare
intelligenza, il pensare, il ripensare a tale grama eppure esaltante
sopravvivenza è il filo conduttore della nostra microstoria. E passiamo quindi
ad abbozzarla. Schiavi dei nostri giudizi e pregiudizi. Ma con viscerale
attaccamento. Da passionari quali ci sentiamo. Da racalmutesi che qui a
Racalmuto ci siamo nati da mille generazioni, senza soluzioni e nel frattempo
vi risiedevamo, senza fronzoli borgeani.
Il contesto storico di RACALMUTO
Note orientative. Un quadro storico
di estrema sintesi.
Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo
ha lasciato, da quasi dieci millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora
intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico,
quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio
a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a
prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a
tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare
divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana sarebbe del tutto scomparsa
(a meno che non abbia lasciato – come più logico - testimonianze atte a
superare l’onta del tempo).
In Sicilia, a partire dall’VIII
secolo a. C., inizia il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto, questo
nostro paese dell’entroterra agrigentino,
appare completamente estraneo – nelle fasi di esordio – a codesto
processo di colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia ellenica di
Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne
del nostro altipiano. Di documentato, però, non abbiamo nulla e dobbiamo
accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci
fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni».
Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da
Sicilioti.
Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è
solo sporadico l’interesse di coloni, che
solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di
Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie
nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica
romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come
attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di
cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza. Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese,
anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località
siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena
epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del
luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti secondo pur sommi
archeologi all’imperatore Commodo (ma
moderni più ponderati studi dissolvono quella datazione) e che in ogni caso
sono collocabili tra il II al IV secolo d. C. e che stanno a comprovare una
intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a
qualche decennio fa prosperava tale industria estrattiva.
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il
silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei
bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per
razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441
almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio
racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni
dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a
sconfiggere i Vandali ad Agrigento. Del
pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro
ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre.
Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della
Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di
Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono
concentrarsi nelle contrade di Grotticelli, di Casalvecchio e della decentrata
Montagna e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie
sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste,
è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze
delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la
significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino
all’incursione araba, allorché appassì e si disperse. Alcune monete -
rinvenute, però, nella periferica contrada della Montagna - portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas
e Tiberio II. Il primo risale al 641; il
secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso
nel 705 ([9]). Le tante e ricorrenti vestigia
archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti
artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti, etc.) che si rinvengono nella zona che va
dallo Judì al Caliato, dalle Grotticelle
a Casalvecchio e da ultimo, secondo
rinvenimenti recentissimi, nella plaga sotto
fra Diego, attengono alla cultura bizantina prosperata dal sesto secolo
sino all’avvento degli Arabi.
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa
e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata
cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né
rinvenimenti archeologici, né testimonianze scritte, né tradizioni appena
attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel
Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana
pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo il loro paese
non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome
del paese - o l’etimologie saracene dei vari lemmi della parlata locale, resta
da vedere se risalgono ai tempi della dominazione musulmana o non piuttosto,
come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte
popolazioni arabe. A sfogliare una
qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di
storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità,
risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi
di vaneggiamenti, di fole, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né
consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di
2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né
nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi
racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal
nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge
attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista
normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia
trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti
ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo
credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz
ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di
Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria
agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle
imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera
operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a
quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e
994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore
di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per
bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al
suo Padrone Grande a seguito
dell’ordine ricevuta dall’Emir di
Giurgenta ([10]) Ma l’intera faccenda nient’altro è
che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle
memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico
locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera
invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica», non
sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è
falso». Ma ecco che lo stesso Sciascia
confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento
pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» ([11]) E di piacere in piacere, il falso
affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20)
non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo
Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di
Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza storica: «... siamo nella
microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva già, un pò più a valle,
quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo
chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu
riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende oggi il
nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più
attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v.
pagg. 33 e segg.), sull’onda del famigerato abate Vella. E di fantasia in
fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento
confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi
eroi saraceni racalmutesi, Apollofar
e Apocaps ([12]), distintisi nella lotta contro i
Normanni.
Ruggero il Normanno conquistò
Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il
Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che
Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello
e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che
furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe,
Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e
non si è certi della corretta trascrizione di tutti i toponimi. Sia come sia,
Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto
Rahal. Un tempo abbiamo aderito a
tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il
nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun
centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte
è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima
metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a
Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche
modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese. Nel ricco archivio capitolare della
Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il
periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il
primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di
Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto
il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio
delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché
costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese
non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche
presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che
seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero
centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al
1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi annotò - commentando un
diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « .... l'unica e più antica notizia di Racalmuto,
che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche
etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca
originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la
quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind.
XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu
denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra
i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale,
greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ». ([13]) Ma la tesi del Garufi appare poco
credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale
località in quel di Polizzi ([14]). Il Rachal Chammoùt (
xammon) del diploma greco del 1178 nulla ha
dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno
Racalmuto. E ciò destituisce di ogni
fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel
1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale
S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono
stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite
racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei
canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S.
Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc.
Agrig. à Roberto Malconvenant domino
illius agri extructum...” ( [15]) «A tre lanci di pietra da Racalmuto
sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel
1108, su licenza del vescovo di Agrigento,
da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque
l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’Archivio
Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra
località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice.
Svanisce così la credenza di un
dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei
Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli
Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli
scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile;
sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente
una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia
pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino - autentico ed
illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte
le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci
informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si
abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande
famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca
tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di
Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro
Nigrello di Belmonte ([16]). Il Vespro ci mostra un comune
divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è
costretto a nominare dei sindaci fra
le persone più cospicue, chiamati il 22
settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che
equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro
incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di
persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ([17]). Il Bresc ne desume una popolazione
di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([18]). Il 26 gennaio 1283 ind. XI
«scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis
sive aliis armigeris peditibus quatuor»
([19]) cioè Racalmuto viene tassato per 4
soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi
fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni
non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni,
poterono forse starsene in contrada Saracino,
a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come
dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino furono
tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere
prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino
a quando costui non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([20]) Federico II ristabilì l’ordine
confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del
territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. ([21]) Nel 1248 v’è dunque un atto
riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata
spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I
danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami
imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il
vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di
sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli
ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
Fu a seguito dell’assestamento che
Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi
coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere
il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il
personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ([22]) Nel 1282 il Mosca figura, infatti,
come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico
Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e
vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche
che ancor oggi si erge maestoso ed
imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco
«baronorum et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio:
Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse
baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo
pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea
Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un
ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre
ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto,
Costanza Chiaramonte, attorno al terzo decennio del XIV secolo, e solo dopo
tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il
figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro
Antonio, Gerardo e Matteo del Carretto.
([23]).
La narrazione sinora soltanto
abbozzata tende ad additare un punto per noi basilare della
storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il
salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino,
sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di
Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a
divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra
“meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.
Francamente non riusciamo a
concordare con Leonardo Sciascia secondo
il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile”
nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di
Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute
angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e
rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ([24])
Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure
care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il
medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” -
martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack
Smith ([25]) - Diego La Matina, il monaco
agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente
dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo
scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati
nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli, Racalmuto
lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche
e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla
cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati
magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti
nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo
sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta
cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici,
sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a
seconda dei tempi).
Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con
passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti
quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura
degli autori paesani.
E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può
certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503, così come, in buona fede, non può affermarsi
che vi siano state tasse per uzzolo dei
Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola
del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la
presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero
locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento
di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro di lettura: è solo
sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico però una grande
dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per
una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in
definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni
racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se
vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere
di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le
donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e
“gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in
natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a
prezzo calmierato), e via di seguito.
Lo studio cui ci accingiamo ha
l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti e ricerche
sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più che
esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di
auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti
notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561
al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.°
56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche
curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo
atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta
polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di
una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse,
risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e
governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e
religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi
demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto
ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità
degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a
cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare
ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti
non è da tutti - , ad incentivi
economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse
in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una
delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione
dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il
libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così
com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che
aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi
trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti
racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più
intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver bisogno di
frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato
storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?
Francamente credo di no e questo libro - bando
alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua
vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a
Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta
Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper
sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese
volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza
nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il
Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle
tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il
riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle
prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali
questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali,
viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del
Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo,
uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida
ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come
l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo
Covarruvias e quelli latitanti come il
napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo
e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua
colpa.
I falsi del
Tinebra Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e
tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello
quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato
nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da
rendere talora irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla
“carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di
essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero, lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì
con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”.
Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo. In ogni caso l’uomo invita al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti.
Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della
borghesia postunitaria racalmutese. Abbiamo potuto fotografare interessanti
documenti dei primi anni del Settecento ove figura il timbro a secco del Comune
di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma
a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo
io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola
come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni
- sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo
sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche
vezzo omosessuale.
* * *
L’intreccio
del volume che presentiamo utlilizza fra l’altro una fonte, sinora
sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a
Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende,
disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico
racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è
avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del
Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti
fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto
viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà
agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere
un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola
nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale
con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta
letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia
Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di
sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo
.. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo,
l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese,
l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi
si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se
il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità
esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su
Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto
- quella che si dipana dal 1271 sino ad oggi - è solo uno scisto della storia
ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo la magistrale opera di Fernando
Braudel su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel
frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del
Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le
scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o
un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate
note delle sue vicende.
E la
documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile
presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non
parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torino o di quanto trovasi su
Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.
Racalmuto, la
patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica;
potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso
nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile
locale.
Non sappiamo
se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque,
tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli
che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della
sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della
famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della
curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto
civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con
l’invadente ruolo conventuale di
francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori
contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà
terriera, con gli oneri dominicali del conte sulle case e sulle terre, con il
terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro
quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la
gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come
moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi
presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora -
collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda
fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una
faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i
suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna;
imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.
Queste
ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta
l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie)
ai “diritti di quarta” della Curia
vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa
Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare
con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per
battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava
il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.
*
* *
Il lavoro di
ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui
libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e
morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza
distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad
oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici;
quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei
primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in
gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla
Matrice di Racalmuto, no. Solo una mano
sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine
racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di
via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che
attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d.
Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben
guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha
sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare
quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario
Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana il 24 aprile 1879. ([26])
* * *
Quando il
giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana - si mise a scrivere improvvisandosi storico
locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno
ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del
Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio
Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di
una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande
Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato
in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando
crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a
Racalmuto, se vi mise mai piede, ciò
avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo
ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso
Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto
- che secondo l’insinuazione di Sciascia fu fatto trucidare dal monaco – il
conte era poco più che tredicenne.
Non fu, poi,
questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno
ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad
accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in
cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del
“terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte
morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno
con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore
dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea
(e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la
giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era,
costei, una Ventimiglia.
(E tanto grazie a recenti scoperte d’archivio.
Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta
marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti
et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae
defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267
v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo
del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel Cenobio di S. Lorenzo il 28 ottobre 1654).
Anche il pur
meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere
disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una leggenda
di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni]
Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una
inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di
matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di
detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo
borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA
sposa SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA.
Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:
Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo
Superfluo
aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome
e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.
* * *
Se poi
consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni
o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di
Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da
solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una
distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua
impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente
raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in
deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle
spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia:
Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).
E dire che
sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto
sacerdote - atto transattivo che si
conserva in Matrice - per fugare tali
infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”;
la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al
primo ventennio dell’Ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che
non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.
* * *
Mi rincresce
davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro compaesano
sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il grande
scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono dati
sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di suo
nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).
1690 circa - SCIASCIA LEONARDO M.°
29.9.1726 - SCIASCIA GIOVANNI
M.°
7.1.1754 - SCIASCIA LEONARDO
M.°
24.2.1802 - SCIASCIA CALOGERO
26.8.1810 - SCIASCIA PASCALIS
25.10.1884 - SCIASCIA
LEONARDO
27.3.1920 - SCIASCIA PASQUALE
8.1.1921
- SCIASCIA LEONARDO
|
Sciascia è
racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi
dell’Ottocento” come amò credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente
avversione locale verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia
ama inventarsi un bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal
Naduri - cito Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna:
essere dunque zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è
venuto a Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che
era stato, a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure
commerciandole”. Non so dove abbia appreso
queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri
parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero
genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso
Sciascia.
L’invocato
“nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla
“maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo),
apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad
un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina
Vincenza Quagliato.
“Lapsus della
memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può neppure
affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse riferirsi al
“nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo Sciascia. Invero, anche costui era racalmutese, figlio
di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia, professore universitario,
di cui parla il Tinebra ed a cui lo
stesso Leonardo Sciascia teneva particolarmente.
Mi si perdoni
questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il «'lapsus'
della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante occorso - o
cui il grande scrittore amò indulgere - per esigenze dell'intelligenza ai fini
di uno dei suoi raffinati aforismi. Se
voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono
'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o
«un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so
se borgesianamente o
esistenzialisticamente.
Racalmuto non
ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal
altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile
moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo
nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra'
sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia
convinzione.
Non pretendo
certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del grande
Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria di
quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag. 54
), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene atto
a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore racalmutese.
La storia di Racalmuto va
integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo
espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente
esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti,
completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della
storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia.
Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta
fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile,
frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di
inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocri) famiglie, sindaci e
podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e
sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papi neri, di santi e di venute
miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili
e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia
francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai
conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare
tra i miasmi dei calcaroni solfiferi
o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e
apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare
Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del
1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono
nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e
conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato,
acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletora di uomini
illustri (oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi ma quei bambini non potevano scrutare ciò che
sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro ‘sguardo’ si avvale di
ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti
archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e
nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di una rivisitazione della storia (o microstoria,
che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.
BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio
allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso
l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad limina” dei vescovi
agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica
di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto
del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben
250 once annue ([27]). Le ricerche d’archivio vennero,
quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui ai fondi degli
archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli della Curia
Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad abbozzare una
prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col passare degli anni
si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta, riformulata. Una
fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una versione che ci
accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra narrazione
apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale lettore.
La
primordiale presenza umana potrebbe venire
attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi
dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([28]). Ma sono i Sicani quelli che per
primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro altipiano: le
tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di Fra Diego sono
la palpabile testimonianza di quella civiltà preistorica risalente a quattro
mila anni fa.
Nel 1880, nel
corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto Empedocle, si
rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì, altre tombe a
forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C., sufficientemente
investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo, successive indolenze
impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e peculiare archeologia
racalmutese.
Casuali rinvenimenti di monete greche
(con il granchio agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano
presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.L’iscrizione latina
in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio vinario di
quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa spicco una
serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di Racalmuto,
una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi di Santa
Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.), come si avventò a dire il Salinas.
Per Biagio
Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante ritrovamento
di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella contrada
della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli albori
della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente
sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca
ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è rinviato
al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno snodarsi “con
maggiore continuità”.
La pagina più buia della storia di
Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare
completamente oscurata.
Di certo
sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani, quella
che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio
racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa
schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi,
tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua
greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di
religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o
cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso
razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o
a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non
era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere
anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo
sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui,
in modo mascherato e subdolo, si radicano le leggi della economia.
Così poté
esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano
testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul
luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e
vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si
assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed
anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture
d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum
(i cristiani) ignoravano. Dai rum,
l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per
mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse
semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da
noi, introdussero sistemi di
coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori
riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle
come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([29]). I secoli dal Nono all'Undicesimo
sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un documento
greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese, diversamente
da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo che richiama
l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal
Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia
(quella veridica) del paese agrigentino.
Per quanto
buia sia la pagina araba racalmutese,
arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto Fazello
attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva -
dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra
il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo “Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto,
morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due
termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della
morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore
giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle
pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene
difficile per chicchessia procedere ora
alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre
Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il
dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...]
a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud,
pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si
soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Racalmuto!».
Con la sua
indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di Racalmuto
quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in precedenza. Va
detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita dai moderni
storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si è data la
briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale. E ci dà
una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([30]) Per il grande arabista, infatti, il
paese: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd =
uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale’ del Mudd <latino
modium 'Moggio’». "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla
siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione.
L'immagine potrebbe valere per il vicino monte “Formaggio” di Sutera. Del
resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia, almeno niente più accenni
mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un passo avanti.
Dipanata in
qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui si
ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione
berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi
immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio
del 1087), oppure si collega alla
signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano
dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La conquista
da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera del
1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un piccolo
barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo anche noi
ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare Racalmuto in un
toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo
malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra
fu un cronista normanno dell’XI secolo. Il manoscritto malaterrano
che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del
manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne
serve e riduce in Rahl il Racel
che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che
potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In effetti il
Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento conquistati dal
conte Ruggero «.. Platonum, Missar,
Guastaliella, Sutera, Racel ..,
Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa
“Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro
e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio
Racalmuto. Ma il limite di mera
congettura, resta.
Incrostano le
origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un
lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile nome
in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito
nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
L’Assessorato
Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo”
si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce
Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e
dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato
ed è quindi impossibile accertare la correttezza del richiamo letterario. Noi
crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si
parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento,
in arabo chiamata Raqqâdah (Sonnolenta).
Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri in qualche
modo. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani in
quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti attestanti
presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo. L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare
censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione
rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato (appena 136
“fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza,
denominata “lu Cannuni”.
L’altro falso
è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria
di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del tutto
singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata Racalmuto
nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo
che va dal 1092 al 1282. Si suol dire
che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve
ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo
esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e
livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando.
Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il
prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno
istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al
santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto
e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra
delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari
vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia
intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo,
ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei primi
decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal Federico
Musca. Questi tradisce al tempo di Carlo
d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per conferirlo a
Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La signoria di
codesto personaggio della corte napoletana durò però poco e, nel corso del
Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un
contributo di uomini in armi.
I primi cenni
sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308
e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta
dal p. Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla
Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone
(divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina
storica, insieme civile e religiosa, è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto
dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la
capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si
originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
Allora Racalmuto doveva essere un piccolo
centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è
reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel.
Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per
le 'mediocri', 3 per le agiate e cioè
'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([31]). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a
Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il 'sussidio' e scioglieva
l'interdetto ([32]). Dato che per ogni fuoco è
calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione
di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a
soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la
popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra
Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e
mezzo. Nel successivo eguale lasso di
tempo, la crescita si è invece limitata solo al
48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che cosa sia
avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente
Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto
nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di
forestieri.
Abbiamo
motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per
la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato
il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di
numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni
pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o
funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di
xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla
sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha
conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo
Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero. Il 'segreto'
era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al
1296.
Per avere un
nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione
araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili, possiamo calcolare in meno di 150 gli abitanti di
origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del
XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione
o per opportunismo, si sono mimetizzati assumendo cognomi del tutto
latineggianti. Lo stesso dovette
verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della
regina Isabella nel 1492 ([33]) o sparirono del tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi:
nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo
nominativo sospetto (Salamuni, cfr.
atto di matrimonio dell'8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per
giunta proviene da Grotte.
Tra la
borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che
hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né galantuomini come
i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora
quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo
volatizzati: alcuni loro eredi
prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso la fine
del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i loro
discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione.
Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per
fare solo alcuni esempi.
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare,
dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure)
si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo
con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in
capo a quella famiglia proveniente da
Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le
ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici
ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è
nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.
Quel che ci
preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e
tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto
si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S.
Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa
degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei
Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del
Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte.
Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma
ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto
tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il
delegato del Pontefice anche in materia
religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e
donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra
di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare
nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad
elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. ... e pertanto
per l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi
conferiamo] il canonicato di Santa
Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e
i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto
per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al
tempo della secessione contro le nostre
benignità [ ... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali
nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti
quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente
e pienamente la prebenda, i redditi con i
consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano
e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore, VII^ Ind.
1398..... Re Martino - »
Tanti collegano - come già detto - quella
chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina solo dagli intrighi della curia
agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per
accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione
di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
La presenza
di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati
certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome
di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli
Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro
monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella
nel 1492.
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme,
viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era
l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ebreo
facoltoso, dedito certamente all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione
ad Oliverio Raffa di recarsi a
Racalmuto per punire coloro che
uccisero il giudeo Sadia
di Palermo, e di pubblicare un
bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
Quanto alla
questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti
significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o
scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e
legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si
dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da
Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono
mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e
rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non
abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non
glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là
nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un
notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si
abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque
non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo
Sciascia.
La tradizione
colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda
è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica
che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo
nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita
in latino - da tempo immemorabile, un
prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del
Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo
poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico
tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella
antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento.»
Francesco
Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura
Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone
Messana nel 1968, Leonardo Sciascia in
una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi
sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di
Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in
una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una
pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in
versi della Vinuta di la Bedda Matri di
lu Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia
documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero molto
burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la relazione
sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è
chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che
possa far pensare ad un santuario miracoloso. In seconda battuta, come se si
trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso ecclesiastico si limita
ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però
meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo a partire dai primi
decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.
Poco più che
trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto ebbero a dispiegare su Racalmuto: dalla prima
investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona, il
giovane - che il Villabianca colloca
nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande
famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio 1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna,
invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto
(dal 1307, data del matrimonio tra
Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto,
sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua
signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia
sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il primo e
vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo di
Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua
diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il
Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il Crescenzi, il
Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro avevano mostrato interesse alle vicende dei
Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre
attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e
fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato
ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è
stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il
Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina
araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese
e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una
qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San
Martino-Spucches.
Ebbe di certo
tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e vi
razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né
tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del
sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai
Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei
conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre
precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di
quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.
Da ultimi ci
siamo industriati per recuperare alla memoria eventi certi del casato dei Del
Carretto. Dall’8 aprile 1993 è iniziata
l’opera di sandaglio degli archivi di stato di Palermo e la nostra fatica ci
pare premiata dal rinvenimento di molteplici diplomi, privilegi e documenti che
irradiano una vivida luce sulla storia
dei Del Carretto e forse ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo
defluire. Poco o punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di
Villabianca, ma tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli,
imposizioni, condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che
investe l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri
antenati racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani
etc. Tanti di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono invece ricollegabili a figure tipiche del
grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.
Il
diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto.
Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò
Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella
contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28
settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo
il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il
Requisenz, pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di
Racalmuto.
Nell’Ottocento,
ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose
un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature
impietose.
Il Novecento
- prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra, contraddistinto dal
vorticoso gioco delle alternanze democratiche - contrassegna eventi troppo
prossimi per trattarli con il dovuto distacco storico.
GLI EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
(c.a.
25 milioni di anni fa)
|
Una
sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans)
si spande sull’intero altipiano di Racalmuto;
per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo
e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed
attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni
solfifere racalmutesi.
|
(c.a.
7 milioni di anno fa)
|
Si
concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies del territorio di Racalmuto.
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XXX millenio a. C.
|
Se
qualche homo sapiens sapiens (del
tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore
dimora della grotta di Fra Diego.
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II millenio a. C.
|
I
sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano, come
attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate
dal Castelluccio sino a Sud, nei pressi della Stazione ferroviaria di
Castrofilippo.
|
XIII a. C.
|
Decade
la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso
miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe.
|
581 a. C.
|
I
Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa
con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano
racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito
alla colonizzazione ellena.
|
Secc. V, IV e III a. C.
|
La
presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche
rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
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210 a.c.
|
Sotto
il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto
ne segue le sorti.
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70 a.c.
|
Cicerone
fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro
Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo
che vengono riscosse le decime sul
grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra
come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
|
180 d.C.
|
Un
contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si
riferisce al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza
dello sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma
imperiale.
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Sino al IV sec. d.C.
|
Ferve
un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso
Casalvecchio.
|
Dopo il IV sec. d.C.
|
Uno
spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento
abitativo.
|
V e VI sec. d. C.
|
Scarse
sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale
storia della Sicilia. Se l’Isola fu
occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I
Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della
Sicilia e la soggiogano sino all’anno
in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e
modalità sinora del tutto ignote.
La
Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da
parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di
fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il
rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario
riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà
bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non
foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
|
Fine del VI sec.
|
A
Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è
probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
|
829
|
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino
di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se
ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
|
1087
|
Chamuth fu
l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna.
Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si
può anche ipotizzare che a Racalmuto
vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire
in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
|
Secolo XI
|
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristanesimo.
|
Sino al 1271
|
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200.
Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando
ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli
era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la
‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano
in case coperte di paglia, una tassa pesante per liberarsi dell’antico
interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
|
CENNI GEOLOGICI
Nel
succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge
l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca
piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a
ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la
ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra
“geologicamente recente”([36]). Ed anche qui trattasi di risalire,
nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la
fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo
momento, “formazioni calcaree
mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero
ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un
isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una
sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la
regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre
marine.
Secondo una
cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan ([37]) Racalmuto si modella con le forme
che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la
transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla
geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali
(vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella
sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla
trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel
sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([38]) - i terreni che compaiono nella
zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso
argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione
Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie
Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e
Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completa la
geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma
abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna
competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del
Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate
[sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per
protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno
straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([39]). Secondo tale affascinante
teoria, le ricchezze della rampante
borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico
vibrione; il che per qualche verso sa di malefica premonizione.
LA
PREISTORIA
Ma a che
epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso
teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte
domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo
si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per
ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Azzardiamo
una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e
l'altro, in cerca del sale, contiguo
agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande
verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il primo
insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene
definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([40])
Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego,
avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei ([41]). Ancora nel '700 il viaggiatore
inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo
che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri
preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi',
dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia
circolavano ancora.
Il secondo
insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero
scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([42]) I reperti fittili salvati dall’ing.
Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano.
Le tombe a forno, che si trovavano nei pressi della stazione ferroviaria di
Castrofilippo, si sono del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di
pietra.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle
ferrovie ([43]). Apprendiamo, così, che «le
scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano
di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le
tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in
costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla
prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano
tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In
questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella
scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni
ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ...
incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre
precedentemente descritte.» ([44]) Si ha, quindi, la descrizione delle
tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri -
quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei
contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della
tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle
invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata
aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a
pozzo, ma irregolari. [...] La chiusura
della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi
massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare
lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi
vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere
e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([45]) Segue la descrizione di n.° 11
reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di
vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una
specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché
di un “utensile di terracotta a forma di un corno”. Non è questa le sede per riportare
diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si
fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di
quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo
dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e
naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([46]) - conclude l’A. - nei cui contorni
sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di
altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di
ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque
esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo
che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia
antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona,
Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la
descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata
sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa
- presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi ipotesi: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le
affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio,
alla “Turri” sopra il ponte di Gianfilippo,
al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel
XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata
iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo
miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del
Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa
parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri
stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse
alla ricerca della via del salgemma.» ([47]) Il Monte Campanella di Milena, ove
sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di
spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi
tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è
trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è
notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto.
Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII
secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione.
Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal
caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento
che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto
dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza
archeologica pare dimostrare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo alla
forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione
sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a
Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad
ospitarlo per le considerazioni fatte in esordio. Le testimonianze
archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in
piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno » ([48]).
Da quell'era
i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali
dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed
alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale
collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto
cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto
pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo
punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei
Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal
mare, i Sicani di Racalmuto pare preferiscano ritirarsi entro le più sicure
zone montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico
dissolversi.
I moderni
storici si accapigliano per stabilire
tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure
il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono
però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata
dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne
indigene di Sicilia, violandole con nozze
coatte.
Un doppio
dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di
immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi
dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco
le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e
consolidarono la città akragantina. Allora il nostro altipiano cessò di essere
libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide
di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una
devastante denominazione ellena. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e
di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse,
fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci e violenti ma liberi, anarchici e misantropi,
ritrosi ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano
mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo
ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed
il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Racalmuto vi
fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi
delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a
moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi
schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis, senza libertà di movimento, senza
diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla
terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita
comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che
sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli
Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta,
o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta che avventurarci
in malcerti arzigogolamenti.
Nella
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso
Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina
di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo
di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di
Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino
Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una
grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra
Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e
dintorni: la località è dagli studiosi
concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando vi fu
dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non
riguardò queste nostre contrade: per
quei tempi, S. Cataldo era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini.
La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine
del secolo XIX.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto
continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti significativi, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei
giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora
la locale società contadina la nebulosa
vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro
Siculo. La sua cacciata da Akragas, per
il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427
a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge
Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta
sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale
e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e
lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto,
sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.
Atene - con
Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti
di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti,
intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con
l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del
declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel 406 a.C.,
fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò
il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente
- anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe
Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri
combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle
indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però,
la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I
cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere
d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per
quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di
cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono
col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel
nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville,
ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il
giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo che
in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta sonante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre il
Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel
periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa.
I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino,
olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano
oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da
consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al
Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al
282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e
Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di
Siracusa.
Nel 280 a. C.
Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente
corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas e
Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine
e vi restano per quasi un ventennio fino
a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire
espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C.
scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente
a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge
all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus
imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse
bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo -
Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da
dominare e da proteggere solo perché «ornamentum
imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come
schiavi.
Sette anni
dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la
flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la
città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che
la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche
fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo,
Akragas e la vicina Eraclea Minoa appaiono saldamente in mano dei cartaginesi.
Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di
40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine
per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi
si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato
stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il
grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il suo
genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura; invento speculo, naves romanas incendit; eppure i romani finirono per avere la
meglio. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche
volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro
difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora
una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano
bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale ritorno. Per Racalmuto
inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima
Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite le
guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da
parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica
si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quella
estensione avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti
marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per la
città ora già caput mundi.
Ma per uno
dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano
ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace
ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento
contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo
che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e
sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili,
anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella
contrada di S. Anna agli inizi del
secolo scorso furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini degli zubbi del
Loggiato per il timore di espropri o molestie da parte delle autorità.
E' tuttavia
noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel
cui manico [«in manubrio diotae fictilis
erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quella epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro
appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente
nella prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate
sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo
tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn.
Pedanius Fuscus Salinator e via di
seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.
Quello del
vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di
Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di
Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad
anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano
sino a tarda età, come si evince dalle
Verrine di Cicerone.
Per quasi
quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il
dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci
avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di
Augusto, ma di miniere racalmutesi non
si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., pare
sotto Comodo, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto:
le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi
presero piede.
Per oltre un
millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di
talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a
risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento
minerario.
Il primo ad
averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi
trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una
preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei
Monumenti di Girgenti ed il Ministero,
che risale al 3 novembre del 1877. Con stile buroctratico si segna come
“oggetto”: Mattoni antichi con bolli
relativi alle miniere sulfuree. Un alto dirigente, il dott. Donati,
interpella il Picone in termini vaghi quanto insolenti:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi
parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di
prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla
S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’avvocato
agrigentino risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) e fornisce informazioni di
grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei
Romani:
« Furono or sono pochi anni scoverti nel
bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con
bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si
vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al
rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a
rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare
che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si legge Ex officina
Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta
sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai
frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che
possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria
zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo
Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni
che io non saprei. ([49])»
Il Mommsen fu
poco corretto con il Picone: pubblica -
unitamente al Desseau - i dati epigrafici
nei volumi del C.I.L. ([50])
ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con un semplice menzione, il
nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica,
ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza
dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto.
Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di
reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone
di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del
XX secolo, il SALINAS aveva modo di venire in possesso proprio a Racalmuto di
alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a
chiamare «tegulae sulfuris». Al
Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con
iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute,
presumibilmente nei dintorni di Santa
Maria dato che doveva servirsene per la costruzione di un sepolcro
Quell'insigne archeologo procedeva ad
un'analisi storica molto erudita, ma deviante, che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei ([51]) Altre «tegulae» sono state trovate nel 1947 in località Bonomorone di
Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come
ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([52]), si trattava di un deposito di
cocci di una figlina (officina di vasaio):
dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed
in particolare, per quel che ci riguarda,
a Racalmuto.
Biagio Pace,
con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività
mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di
circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi...
Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a
contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a
quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della
miniera, che in tal modo vengono riprodotte in
quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere
di Sicilia ha notato.» ([53]).
Pare,
comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che sembra riguardino un’attività
che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un
salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza
mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi
parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data
del 22 ottobre
1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo
Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una
valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane
minatore veniva sepolto nella Matrice. «In
fovea salinae, ob ruinam salis
repentinam, defunctus est», è la
malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri perdeva, dunque, la
vita nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO
ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas
si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi
datare nel IV secolo d.C. ([54]). In epoca di totale declino
dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina ([55]). Rispetto a quanto si è detto e
scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto della
Guida del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a
Racalmuto ([56]) - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da
Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV,
con la raffigurazione del Ratto di
Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente
suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al
IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che
gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto
appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta (a dire il vero,
però, trattasi di materiale ceramico databile ad epoca proto-normanna). In ogni
caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove
nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento delo zolfo. Si attaglia molto bene
anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in una relazione pubblicata in
Kokalos. Scrive l’insigne archeologo: «Accanto a famiglie di personaggi
politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere
state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la
metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base
delle non poche tegulae sulfuris.
Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi
marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo
d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([57]) Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la
proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([58]).
I dati
archeologici consentono di abbozzare alcune linee evolutive dell’economia
estrattiva racalmutese di quel periodo.
Nei primi decenni del secondo secolo d. C., il territorio a nord di Racalmuto
si presta ad uno sfruttamento solfifero. «Per quanto riguarda la produzione -
annota il De Miro ([59]) - pur essendo nulla rimasto delle antiche miniere, evidentemente
obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di
preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in
un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo
tra proprietà del fundus e attività
mineraria, affida la gestione della miniera e la produzione a “officine”..
Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle
miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata
in cui, unitamente alla proprietà imperiale figura, in posizione evidenziata,
la figura del concessionario titolare dell’officina,
dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.»
Successivamente appare «una nuova figura, il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età
costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la
sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto
l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato
molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che
attendevano all’amministrazione del cursus
publicus e delle stationes. [...]
Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle
miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C.
l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto
contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale
e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che
ormai ignora lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione
dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([60])
In tale
contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti
di tegulae, rinvenuti presso S.
Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV
secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra
Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re
dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani
dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza
alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni
dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra
il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Ma di questo
sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a
venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a
porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire
frettolosamente quello che affiora per caso.
Nei pressi di
Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia
(1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([61]), ma non può dirsi che per il
momento disponiamo di notizie appena sufficienti, specie sotto il profilo
storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi:
non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il
finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha
sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per
quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i
vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto poterono far capo all’importante
insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le
varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Traslando
alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C. le scarse
conoscenze che si hanno per quel periodo in tema della più generale storia
della Sicilia, emergono scarsissimi lumi, qualche indizio e indicazioni di
troppo generica portata.
Se nel 439 la
Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi.
Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il
cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo
difficilmente poteva colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il
profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il
profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero
dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando
Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra
ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio
Apollinare [62], Ricimero con quella vittoria poté
ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, a parte il lontano
sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente
determinavano, dovettero esservi condizioni per regolari raccolti granari e
normali vendemmie, atti a consentire alla rada popolazione un apprezzabile
benessere.
I Vandali
dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto
l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende
queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del
tutto ignote.
La Sicilia
passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di
Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni
di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture
più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure
archeologiche.
Il rivolto
storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a
congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina
racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non
foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
IL TEMPO DEI
BIZANTINI
Attorno al VI
secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà
bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal
Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la
Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là
dei divieti codificati dalle autorità a difesa di una asserita rilevanza
archeologia, in tale contrada nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E
dire che le ricerche dei privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa
pensare che il tesoretto fu nell’antichità nascosto in zona disabitata per
comprensibile cautela. Il centro abitativo era discosto, ad un paio di
chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio
Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini
racalmutesi, ormai decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente
grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in
greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali
abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a
beneficio pare di un giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio
archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre archeologicamente
ricca e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel
periodo di storia racalmutese, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi
locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([63])
retrocede la datazione dellle monete al V secolo: cosa inverosimile se
le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre
un secolo posteriori)
A seguito
della scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie
abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente
a comprovare un più o meno vasto insediamento abitativo in quella zona a
partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire
ai tempi della caduta dell’impero romano.
Biagio Pace,
invero, accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa
postulare il nome di Racalmuto» ([64]) Nostre personali ricerche ci
portano a ritenere che l’importante notizia poggia su questo passo del Tinebra
Martorana: «..alla contrada Grutticeddi
esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato
che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti
di ossa». Da qui - per esser franchi -
all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che
inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni sembrano
comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle
erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie o pertinenze di 'massae' soggette al papa
Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri
della corte di Bisanzio. Sulla scia di
autorevoli storici ([65]) è pur congetturabile una sorta di
continuità tra l'assetto agrario
dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non
invalicabile.
Ma l'ultimo
reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento il cennato
ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in
contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin
dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta
del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità
intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del
minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo
di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([66]), secondo il quale è da collocare
nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi
nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto
costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio II - Héracleonas».. ([67])
Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o
inficiate da errori di datazione ([68]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di
Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne
possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
Che cosa ne
fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti
per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà
dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove.
Nessun reperto attesta il sopravvivere in questa zona della comunità bizantina,
dopo il consolidarsi del dominio arabo. E se diamo credito alla toponomastica,
una località chiamata Saracino è
segnata nelle mappe catastali al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio - ospitante l’antico villaggio greco - vi è indicata
coi nn. 47-48, a testimonianza della non stretta contiguità dei due luoghi
d’insediamento.
E che può dirsi della religione? E’
opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di
moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona
dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi
di credere quel che vogliamo e propendere verso tesi di eclissi della religione
cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra
l’Est del Castelluccio ed i luoghi
del tramonto sul crinale della Montagna.
Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([69]) per non propendere per questa
seconda tesi. Pianse costui con accenti che trafiggono ancora il cuore dei
racalmutesi di sangue arabo:
«Ho il mio
animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale,
fastidiosa.
«Che? Non l'hanno
macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in
chiese,
«dove i frati picchiano
a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi
che foste propugnacolo contro popoli possenti.»
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria
vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro
spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le
tenebre.
«Passeggiano
nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di
incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a
Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini
venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati
che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato
il periodo eroico del gihàd ed il
rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative.
La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e
proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine
etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La
restante popolazione era costituita da dhimmi,
ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un
tributo annuo fisso, avevano salva la vita
e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
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