martedì 4 aprile 2017

Introduzione. L’erba e le rocce racalmutesi.

Questa storia di Racalmuto, questa mia microstoria l’ho scritta e riscritta e poi riscritta e quindi di nuovo scritta. Quando un quarto di secolo fa ho trovato tra le carte segrete del Vaticano note e notizie vetuste sul mio paese, ebbi come una folgorazione. Ne nacque una passione direi smodata. Le mie radici che credevo decomposte nelle latebre del mio sotterraneo esistenziale si sono risvegliate come vitigni americani. Da allora ricerche e congetture, vuoti ricolmati con supposizioni magari subito svanite ma anche con scintillii documentari, con transunti, con diplomi con trascrizioni di processi feudali. Di volta in volta una nuova Racalmuto nasceva eppure spesso subito appassiva.
Mi accingo a divulgare una microstoria racalmutese evenienziale, alla francese. So che non ci riuscirò. Per Racalmuto non vi sono molti fatti narrabili, secondo i crismi del Castro, come li avrebbe voluti Leonardo Sciascia: Ed anch’io finirei con l’incappare nella sorniona ironia del grande scrittore. Ricordate? 1982: Mulé assessore ai Beni Culturali; non ricordo chi fosse il sindaco (non si firmò); si riuscì a far stilare all’eminente scrittore una sapidissima prefazione alle memorie e tradizioni racalmutesi scritte da un acerbo ventiduenne alla fine del XIX secolo. Sciascia esordisce con una monca bibliografia: sarebbero stati scritti solo tre libri “sulla storia di Racalmuto”. Per uno di questi tre scritti parla di “una storia … voluminosa, fitta di notizie”. Eppure quel libro non fu prescelto per la riedizione commemorativa dei lustri racalmutesi.   Non contraddittoriamente, ma con la solita arguzia ed in definitiva bonomia però non compiacente, questa l’amara conclusione: «limitato è il numero delle notizie che si possono estrarre da libri e manoscritti» E dire che: «moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria.» Già con le Parrocchie di Regalpetra, e poi con  La morte dell’Inquisitore, e poi, qua e là, con il Mare colore del vino, e soprattutto con Occhio di Capra ed infine, per tacer d’altro, con Fuoco all’Anima, il nostro Compaesano munse quei succhi gastrici della memoria racalmutese.  Avvinto da Américo Castro, dalla sua storiografia,  per Sciascia Racalmuto “emerge [solo] nella prima metà del XVII secolo a una vita ‘narrabile’, da ‘descrivibile’ che appena e soltanto era.» Di solito, tutto si racchiude in una vita, pur sempre “tenace e rigogliosa” ma dimessamente “abbarbicata al dolore ed alla fame come erbe alle rocce”. In quella visione desolata, il vivere locale fu «per secoli vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi dei feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace “avara povertà di Catalogna”; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava» E con empiti ancora più disperati il Genio racalmutese sillabò che il senso di quella vita era una lontananza “dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione”. Una Racalmuto né libera né giusta; una Racalmuto nel grembo della follia, dunque. Altro che paese della ragione; sbagliano certi disattenti quando vorrebbero far credere che Sciascia credesse in una Regalpetra dimora di chissà quale dea loica.

Né ammaliati da sopraffine galassie delle paesane rimembranze e neppure inceppati da voglie campanilistiche di vicenduole congetturate a maggior gloria del paese del sale e dello zolfo abbiamo voglia di cogliere davvero molti di quegli sprazzi di inconsueta intelligenza di cui (lo affermiamo senza tema di smentita) è ricca Racalmuto e non abbiamo pudori nel far riaffiorare le propensioni al crimine, al delitto, all’omicidio, alle perversioni, all’usura, agli illeciti arricchimenti, alla pravità insomma di un paese solfifero, atto a trasformare quella bionda materia prima in micidiale polvere da sparo; perché ciò si addice ad una comunità di uomini né angeli né demoni, ma un po’ dell’una un po’ dell’altra natura; di un popolo che non avendo mai avuto bisogno di eroi (per non avere guai) di guai ne ha avuti tanti per non avere mai avuto bisogno di eroi.

Sciascia, per dirla con Camilleri, non ebbe ‘testa di storico’: celiando con la ‘tentazione alla visionarietà’  dello storico locale Tinebra Martorana (dopo averlo accreditato quale autore di una buona storia del paese) un po’ si assolve ma un po’ si rammarica per non essersi «privato del piacere di riportare [un] documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra». E ci pare – ma forse ci sbagliamo sonoramente – che ancora nel 1985 il preteso documento lo sussume al rango di fonte storica quando, nel presentare una mostra di Pietro d’Asaro, ribatte che Racalmuto era «antico paese che esisteva già, un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese oggi prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano zolfifero).» Non stiamo qui a sottilizzare sulle licenze poetiche d’indole geologica, visto che di zolfo nell’altipiano vero e proprio non ce n’è, non avendo avuto modo il vibrio desulfurecans di sciamarvi in epoca del primo terziario. Saremmo leziosi e supponenti e chissà a quante rampogne andremmo incontro. Ma almeno non può negarsi l’eco delle statistiche propinate dall’abate Vella all’Airoldi – tutte notoriamente false e bugiarde – e delle varie dicerie degli storici secenteschi e settecenteschi, improvvisatisi arabisti.
Purtroppo noi siamo tra quelli piccolissimi di per sé e tutti presi dalle angustie della microstoria che non osiamo indulgere né ai falsi storici né alle fantasiose dicerie. Così, cercheremo di scrivere su una Racalmuto né romantica né angelica e neppure malefica sino ed oltre le soglie dell’inferno. Una Racalmuto umana, speriamo, ove sono vissuti uomini talora liberi e talora servi; spesso vittime della giustizia ma anche artefici di iniquità; in definitiva ragionevoli come è consentito ai consorzi umani cui una più o meno divina provvidenza ha assegnato un territorio a metà insalubre e pieno di calanchi ed a metà ferace come l’humus del Pleistocene sa essere. Ed al di là degli allettanti sofismi di Américo Castro ha tessuto una vicenda umana ‘narrabile’ in misura notevole se si ha l’uzzolo (e l’umiltà) di scovare e sviscerare la sconfinata documentazione che giace (spesso polverosa ed inconsulta) in archivi persino di alto prestigio planetario quali quelli segreti del Vaticano o quelli di Simancas (magari nelle diramazioni di Madrid e Barcellona), per scendere agli altri relativamente meno prestigiosi di Palermo, Vienna, Torino, solo per lata elencazione.


Sfogliamo un bel libro: Manuel Vázquez Montalbán, Lo scriba seduto, Frassinelli 1994. Vi baluginano sprazzi di storia paesana, racalmutese, ma attraverso una duplice e forse triplice lente deformante (Sciascia, Domenico Porzio e forse il figlio di questi). Il Vázquez  traduce alcuni passaggi di un volume controverso che accreditato in un primo tempo a Leonardo Sciascia, per opposizione dei familiari, è persino scomparso dai cataloghi di Mondatori e cioè Fuoco all’anima. A pagina 178 ci viene segnalato, senza velami, che Sciascia avrebbe riferito «che dopo la guerra, quando era impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto, venne chiamato a testimoniare in una causa per una sottrazione di grano commessa da un arciprete e un contadino. Il contadino aveva frodato meno dell’arciprete, ma lui venne condannato a due anni di galera e l’arciprete assolto.». Noi racalmutesi di una certa età conosciamo bene l’incidente, i protagonisti e la vera genesi del processo. Naturalmente non ci ritroviamo in quella letteraria versione. La magia della memoria, ci pare, abbia portato lontano, di sicuro oltre la banalità dell’accadimento storico. L’arciprete, che dopo certe esecrazioni più di riflesso della impopolarità politica ed amministrativa dei parenti che per iniquità sua - ed oggi è sacerdote sempre più rimpianto - subì maliziose perquisizioni di potenti che risorti, dopo l’incubazione per l’intero periodo fascista, erano ostili al prete per propensione massonica, per tacere del sospetto di una loro propinquità alle locali aree mafiose. Quanto al contadino – che vero contadino non era, ma come si diceva allora burgisi, ed era piuttosto benestante – se la volle per bizzarria di carattere. I suoi figlioli, notevoli professionisti fra gli ottimati di Racalmuto, seppero poi rendere pan per focaccia. E, per la precisione, Sciascia non fu allora impiegato di nessun Consorzio agrario – solo di un precario organismo postbellico, l’UCSEA, se non andiamo errati.

Sciascia e la mafia (racalmutese); Sciascia e la liberazione americana di Racalmuto; Sciascia e la locale Democrazia cristiana; Sciascia e comunisti e socialisti; Sciascia che acquista i campi della Noce; Sciascia che vi coltiva viti e ulivi «da cui ricava qualche bottiglia di vino e poche damigiane di olio, in proprio, a guisa di fluidi vitali che lo legano alla patria genetica»; sono noticine del libro, deliziose ma molto incongrue per abbozzi storici o meglio microstorici. Avremmo tanto a che ridire.

Nell’agosto del 1990 Domenico Porzio moriva improvvisamente; “stava lavorando alla stesura definitiva del testo delle sue conversazioni con Leonardo Sciascia”, scrive il figlio Michele Porzio nell’introdurre Fuoco all’anima. Soggiunge di essere stato proprio lui ad “impegnarsi nella revisione definitiva del testo”. Non mancò peraltro di «ringraziare la signora Maria, moglie di Leonardo Sciascia, per il suo interessamento a questo lavoro e per i preziosi consigli e chiarimenti profusi durante la realizzazione». Perché poi quel libro – edito da Mondatori – sia stato ritirato dalle librerie e non più ripubblicato, magari con rettifica dell’autore in autori e con Sciascia in veste di semplice intervistato, resta un dilemma. Il libro è quanto di più bello, semplice, melanconico possa attribuirsi a Sciascia. Racalmuto ne possiede due copie: una sta in biblioteca; l’altra è in dotazione al Circolo Unione.

Da lì traiamo spunti, guizzi e verosimiglianze di una Racalmuto rievocata, nel punto estremo dell’occaso da Sciascia: se quanto Michele Porzio mette in bocca al grande Racalmutese non è vero, è però molto verosimile. E tanto basta al microstorico che qui scrive.

Racalmuto e la mafia

L’eloquio di don Mariano Arena, la sua pentacoli umana – rimasta proverbiale – i contorni persino folclorici delimitano un marchio di origine: Racalmuto, la mafia quale a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 nel paese si raffigurava o la si arzigogolava. Il Giorno della Civetta esordisce, icasticamente, con un brumoso paesaggio racalmutese:  «La piazza era silenziosa nel grigiore dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice», è codesta descrizione familiare del paese natio, uno squarcio d’autunno quale dalla finestra appannata dello zio acquisito Sciascia chissà quante volte vide. Tra lo spiazzo della Matrice e lu Chianucastieddu, appunto. E nel romanzo echeggiano i luoghi comuni del Circolo Unione: «Noi due siciliani, alla mafia non ci crediamo  [voi]… non siete siciliano e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. » Mafia uguale pregiudizio, mafia uguale montatura. Si può anche indulgere alla macchietta. «C’era anche, nel fascicolo, un rapporto relativo a un comizio dell’onorevole Livigni: che circondato dal fiore della mafia locale, alla sua destra il decano don Calogero Guicciardo, alla sua sinistra il Marchica, era apparso al balcone centrale di casa Alvarez; e ad un cero punto del suo discorso aveva testualmente detto “mi si accusa di tenere rapporti coi mafiosi, e quindi con la mafia: ma io vi dico che non sono finora riuscito a capire che cosa è la mafia, e se esiste; e posso in perfetta coscienza di cattolico e di cittadino giurarvi che in vita mia non ho mai conosciuto un mafioso” al che dalla parte di via La Lumia, al limite della piazza, dove di solito i comunisti si addensavano quando i loro avversari tenevano comizio, venne chiarissima la domanda “e questi che stanno con lei che sono, seminaristi?” e una risata serpeggiò tra la folla mentre l’onorevole, come non avesse sentito la domanda, si lanciava a esporre un suo programma per il risanamento dell’agricoltura.» E tanto non è forse la prosecuzione delle Parrocchie di Regalpetra, come dire Racalmuto?
Don Mariano Arena è una silloge di personaggi racalmutesi, specie quelli del primo Novecento (e i figli di costoro non son oggi in gran dispitto presso il gotha anche culturale del paese). Don Mariano è personaggio negativo, fustigato dal moralismo di Sciascia, ma a partire dal Montanelli (ammirato dal Nostro ed anche ricambiato) si è propensi a vedere un fiotto di simpatia da parte del romanziere per il suo personaggio. Giganteggia, se non fosse quello che è sarebbe stimabile. Il suo linguaggio talora è scurrile, ma solo se parla con il picciouttu, feroce e traditore (noi a Racalmuto ne conosciamo tanti): «”Il popolo, la democrazia” disse il vecchio rassettandosi a sedere, un po’ ansante per la dimostrazione che aveva dato del suo saper camminare sulle corna della gente “sono belle invenzioni: cose inventate a tavolino, da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità, con rispetto parlando … Dico con rispetto parlando per l’umanità … Un bosco di corna, l’umanità, più fitto del bosco della Ficuzza quando era bosco davvero. E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo, tienilo bene a mente: i preti, secondo i politici, e tanto più dicono di essere col popolo, di volere il bene del popolo, tanto più gli calpestano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me e come te … E’ vero che c’è il rischio di mettere il piede in fallo e di restare infilzati, tanto per me quanto per i preti e per i politici: ma anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno: e chi lo porta in testa è un cornuto … » Quando lasciai Racalmuto, il mio paese, il 31 gennaio 1960 linguaggi del genere in bocca a rispettabilissimi e rispettati galantuomini erano ricorrenti. Invero, sfrondata la parte mafiosa, quel linguaggio qualunquista spesso lo riodo ed addirittura in circoli bene (di paese s’intende) quando ritorno al dolce suolo natio.

Ma don Mariano, se deve incontrare il capitano, l’intellettuale e l’uomo del Nord – anche se sbirro – reclama il barbiere, un carabiniere gli dà “una passata di rasoio” che è un vero refrigerio; ha voglia ed estro di passarsi “la mano sulla faccia godendo di non trovare la barba che, aspra come carta vetrata, gli aveva dato negli ultimi due giorni più fastidio di quanto gliene dessero i pensieri”. Quando il capitano gli dice “si accomodi” don Mariano si siede “guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spegne in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico.» L’inquisizione del capitano sui suoi rapporti mafiosi non lo sconvolge, può ironizzare, catoneggiare ed infine motteggiare, salomonicamente, da “filosofo” avrebbe detto il “picciuottu” Diego Marchica.  («Diventa filosofo, a volte, pensava il giovane: ritenendo la filosofia una specie di giuoco di specchi in cui la lunga memoria e il breve futuro si rimandassero crepuscolare luce di pensieri e distorte incerte immagini della realtà», e a noi pare sofisma incongruo in un giovane killer della mafia). Ed ecco la pentacoli umana di don Mariano, la iattante ripartizione «L’umanità … la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezzi uomini, gli uominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà» Manca per il gergo mafioso racalmutese la categoria, tra gli invertiti e gli insignificanti, degli scassapagliara.
Dobbiamo aggiungere la coda di don Mariano?: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo.» Certo al tempo in cui Sciascia scriveva Il giorno della civetta non erano cadute scorte e magistrati e quelle sublimazioni di genti mafiose erano venialità perdonabili. Oggi non più.
E nel Fuoco all’anima  il discorso diventa grifagno, acido, senza indulgenza, lontano da ogni epos e da ogni  pietas. Ma non è più il romanziere che parla, ora è un morente intervistato (da uno intelligente, uno della sua razza); peccato che il libro sia stato censurato.

Se crediamo a Michele Porzio, ad una domanda del padre sulla disciplina mafiosa , Sciascia avrebbe risposto: «non esiste più. Il mafioso ha una vita insicura perché è in lotta con i rivali che lo vogliono sovrastare». Lo Scrittore ha ora sotto gli occhi quello che proprio a Racalmuto l’evolversi delle cosche ha prodotto: sangue, morte, faide, conflitti a fuoco come in certi film western americani. E muoiono persino estranei ed innocenti negretti la cui unica colpa è quella di starsene in  Piazza Castello, tentando di vendere qualche cianfrusaglia ai racalmutesi. Le traiettorie incontrollabili delle sofisticate pistole dei mafiosi della nuova generazione  - li chiamano stiddara – sibilano tra codesti modesti mercanti ed apportano morte. La mafia è ora crudeltà, è presente ovunque, non ha più alcun codice di onore; i figli naturali eseguono condanne a morte verso i loro genitori illegittimi, che pur li adorano; anche codesti padri sono mafiosi, addirittura capi-mafia; finiscono stecchiti nelle loro campagne sotto il fuoco di lupare per commissione di altri sedicenti capi-mafia concorrenti. Don Mariano è davvero patetica invenzione letteraria: non esiste più; non è neppure pensabile. I suoi sofismi nessun Diego Marchica li ascolterebbe più; i suoi filosofemi ridevoli affabulazioni di vecchi senza ascolto.
«Ma tra questi capi-cosca in lotta non potrà avvenire mai una pacificazione?» chiede Domenico Porzio, e Sciascia – pensiamo annoiato e ripiccato, con la flebile voce di un malato terminale – rintuzza: «Non avviene perché, contrariamente a quanto ritiene il giudice Falcone, non è una organizzazione centralizzata. Sono diverse cupole, insomma che si fronteggiano. E’ difficile che trovino un accordo tra loro. La cupola delle cupole non esiste.» Ma a Racalmuto non c’erano né cupole né organizzazione e neppure quindi cupole di cupole. Eppure a Canicattì qualcuno ancora soprintendeva. Intuì chi in certe segrete e ribelli conventicole era stato il mandante dell’esecuzione di un capomafia tradizionale. Ne sancì la morte. E la morte venne spietata, disumana, senza precauzione atta a salvare la vita di innocenti, di donne di bambini, che un don Mariano non avrebbe giammai consentito. Ma don Mariano era personaggio letterario; il vecchio col bastone, sporco fetido per i denti putrefatti, che attorno al feretro in casa del morto ammazzato racalmutese, uomo d’onore di antica schiatta, tutti scrutò e subito comprese chi, pur presente ora in veste di amico inconsolabile, aveva deciso lo strappo micidiale, quel vecchio era invece vivo e reale, nel suo criminale e tragico strapotere. Erano gli affari della droga che ormai comportavano mari di valute pregiate e la vecchia organizzazione era palesemente impari: i giovani se ne fregavano dei limiti, dei canoni, delle regole dei vecchi: ammazzavano (anche i loro padri illegittimi) se occorreva, se erano di impaccio; bastava che il capobastone del nuovo flusso affaristico l’avesse ordinato. Ed i politici, fiutando voti, promettevano assoluzioni (e magistrati d’alto rango che si reputavano sapienti vanificavano condanne appena discrepanti da sottigliezze pandettistiche, s’intende se annusavano accessi ad incarichi vieppiù prestigiosi e vantaggiosi). A noi pare che al morente Sciascia questo nuovo scenario (in cui anche Racalmuto era andata ad immergersi) sfuggisse e la sua ‘intelligenza’ vedesse annebbiatamene, anche per gli infortuni in cui i nuovi amici o i vecchi compagni di scuola elementare l’avevano coinvolto.

Se ci si domanda com’era la mafia a Racalmuto nei primi anni ’60, è certo che bisogna ricorrere a Sciascia e soprattutto al suo Il giorno della civetta. Quel libro un grande merito lo ebbe: costringere la intellighenzia di sinistra – dal cinema al teatro, dal parlamento alle iniziative governative – ad interessarsi del fenomeno mafioso siciliano per contrastarlo, reprimerlo o almeno indagarlo. La visione sciasciana – diciamola tutta – non è che poi fosse denuncia impegnata; mancava la lezione della prassi, difettava la conoscenza diretta; in una parola era atteggiamento alquanto libresco, se non addirittura giornalistico. A Racalmuto, a quel tempo, la mafia era in quiescenza. Un omicidio efferato aveva coinvolto i padrini locali in un’accusa di favoreggiamento, invero molto indiretto. Subirono umiliante carcerazione. Si eclissarono e sopravvisse solo una delinquenza minore, ladresca, con qualche punta di piccola estorsione nei confronti di pavidi commercianti. Del resto, la politica monetaria di Einaudi e Menichella, il rastrellamento delle am-lire, avevano gettato il piccolo paese nella miseria. Mio padre si lamentava, a ragione pur non sapendo nulla della magia della moneta, “figliu miu semmu consumati: grana nun nni camminanu”. C’era poco da taglieggiare. Non c’erano lavori pubblici; non c’erano imprenditori edili; non c’erano ricchi commercianti e non c’erano possibilità affaristiche. Che mafia poteva mai spuntare? Ed infatti non c’era. Solo qualche rito residuo; magari atteggiamenti più boriosi che criminali. Per il resto, qualche guerricciola tra poveri. L’enfasi sciasciana, non so quale plaga siciliana riguardasse, quale economia di mercato insulare, quale misterioso organizzarsi a scopo di rapina. L’abigeato che un tempo aveva alimentato loschi affari con compiacenze – e cointeressenze – degli ottimati locali era divenuto impraticabile per mancanza della materia prima, il bestiame più o meno allo stato brado, e il mercato presso fiere affollate. I contadini avevano lasciato la terra incolta dei padroni ed erano emigrati. I solfatari guadagnavano benino e quelli, sì, qualche soperchieria la subivano dai capimastri di Gibillini. Ma poteva chiamarsi mafia?

Piluccando da “il giorno della civetta” abbiamo: «Ammettiamo che in questa zona [ed aggiungiamo subito, non poteva essere Racalmuto; poteva essere qualche plaga lontana, mettiamo Palermo. Ma allora Sciascia quale conoscenza approfondita poteva averne?] in questa provincia, operino dieci ditte appaltatrici [a Racalmuto non ce n’era nessuna!]: ogni ditta ha le sue macchine [in paese c’era sì e no lo sgangherato autobus dell’esordio del romanzo], i suoi materiali, nafta, catrame, armature, ci vuole poco a farli sparire o a bruciarli sul posto. Vero è che vicino al materiale e alle macchine spesso c’è la baracchetta con uno o due operai che vi dormono: ma gli operai, per l’appunto, dormono; e c’è gente invece, voi mi capite, che non dorme mai. Non è naturale rivolgersi a questa gente che non dorme per avere protezione? Tanto più che la protezione vi è stata subito offerta; e se avete commesso l’imprudenza di rifiutarla, qualche fatto è accaduto che vi ha persuaso ad accettarla … Si capisce che ci sono i testardi: quelli che dicono no, che non la vogliono, e nemmeno con il coltello alla gola si rassegnerebbero ad accettarla.»
Il preambolo del Bellodi sfocia in una definizione esemplare, come dire esemplificativa, aggirante: «Ci sono dunque dieci ditte: e nove accettano o chiedono protezione. Ma sarebbe una associazione ben misera, voi capite di quale associazione parlo, se dovesse limitarsi solo al compito e al guadagno di quella che voi chiamate guardianìa: la protezione che l’associazione offre è molto più vasta. Ottiene per voi, per le ditte che accettano protezione e regolamentazione, gli appalti a licitazione privata; vi dà informazioni preziose per concorrere a quelli con asta pubblica; vi aiuta al momento del collaudo; vi tiene buoni gli operai … Si capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le buone o con le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscirne per sempre annientandola…»
Quello Sciascia lì, di sicuro, aveva spirito profetico. Se siamo di ingenua cervice, persino il nome, meglio il cognome, aveva azzeccato: Brusca. Eppure, all’epoca, l’ordito descrittivo trascendeva la prassi, l’effettivo svolgersi degli affari, almeno a Racalmuto. Noi vi abitavamo ed in coscienza avremmo ripetuto le parole dell’on. Livigni, e credeteci odiamo profondamente la mafia. Avendo poi, al ministero delle finanze, dovuto interessarci di consorzi e di aste truccate, di cavalieri catanesi et similia, abbiamo avuto modo di appurare che le cose stavano sulla lunghezza d’onda del giorno della civetta, ed in termini ancora più aggrovigliati, più sofisticati, maggiormente perniciosi, in totale evasione di imposte, in concertazioni oltremodo mafiose. E pare che un morto ci sia scappato, nientemeno quello del generale della Chiesa. Lo Stato s’industriò con leggi, provvedimenti, fallimenti, chiusure di banche, intercettazioni, prove appena fruibili, schedari anti mafia, leggi anti trust, discipline degli appalti, divieti dei subappalti ed altro, a correre ai ripari. Non credo che oggi siano possibili gli intrecci mafiosi come quelli descritti da Sciascia. Sennonché la mafia c’è e come; non come prima, peggio di prima. Genesi e cause sono dunque altre; devastanti, incoercibili, laidamente infestanti.

Per Sciascia il fenomeno della mafia è inestirpabile. Se  Domenico Porzio in Fuoco all’Anima gli chiede: Ma non vi riuscì il prefetto Mori?, la risposta è secca: non ci è riuscito. Ha messo in atto delle repressioni notevoli, ma non ci è riuscito. E quindi durante il fascismo la mafia continuò ad esistere ma con limitato potere. E ciò per merito di quel prefetto. Se Porzio domanda: Ma non è strano che il prefetto Mori non sia stato assassinato? La risposta è: Allora c’erano delle regole. Il carabiniere faceva il carabiniere, il giudice il giudice, il mafioso il mafioso. Sembra che lo scrittore qui abbia dei ripensamenti rispetto alla celebre pagina del Bellodi nel Giorno della Civetta. Questa la cantilena delle botte e risposte tra Porzio e Sciascia:
Porzio: Infatti quando c’era don Calogero Vizzini, il capo di una delle cosche, quello sì restò in vita a lungo.
Sciascia: Allora la mafia era la mafia.
Porzio: Era una mafia per bene?
Sciascia: Per bene no, non lo è mai stata.
Porzio: Ma di che cosa viveva allora il mafioso? Faceva pagare le tangenti ai contadini e ai commercianti?
Sciascia: Sì, imponeva le tangenti sull’agricoltura.
Porzio: Ma i ricavati delle tangenti li versava anche ai poveri?
Sciascia: No, no, no.

Sulla mafia durante il fascismo Sciascia aveva già dissertato e con il solito suo acume e con il solito suo disincanto. Vi sono spunti che attengono anche alla vita di Racalmuto. Un tempo abbiamo avuto modo di dissertare sopra quella dissertazione. Dicevamo.


La lezione di Leonardo Sciascia e la storia del fascismo racalmutese.

Scrive in Occhio di Capra,  Leonardo Sciascia: «Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». I ricercatori di storia locale non si mostrano però tutti d’accordo. Annota, ad esempio, uno di loro: «Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile. Racalmuto  è solo uno scisto della storia ma questa tutta quanta vi si riverbera.» ([1]) Così, quanto a storia fascista, ci pare che bisogna dar proprio ragione più ai locali ricercatori che a Sciascia.
 Leonardo Sciascia, qualche sapida nota sul fascismo racalmutese, qua e là, ce la fornisce. Affermatosi come scrittore alla fine degli anni cinquanta, si professa antifascista ed il suo rievocare non è quindi contrassegnato da obiettività. Bisogna depurare, ma alla fine un nucleo di verità emerge, e a dire il vero molto di più.
Qualche volta accenna al consenso delle masse al fascismo e può cogliersi un aggancio a Racalmuto, ove trascorse infanzia e giovinezza ed ebbe a frequentare  con devozione quasi filiale la famiglia di una sua zia materna, famiglia di spicco nel fascismo locale.
Si riferisce a Brancati ventenne, ma in sostanza anche a se stesso e quindi a Racalmuto, in questo passo molto efficace ([2]): «Nato nel 1907 ... aveva dodici anni al momento in cui Mussolini fondava i fasci (di combattimento: parola che è mancata, negli anni nostri, alla pur possibile resurrezione del fascismo, di un fascismo) e quindici quando i fasci marciavano su Roma; tra adolescenza e giovinezza visse, come noi tra infanzia e adolescenza, quello che lo storico chiama “gli anni del consenso”: un consenso che, pieno e fervido nella classe borghese (e specialmente nella piccola ed infima, poiché mai lo stipendio del travet, del questurino, del maestro di scuola, è stato come allora sufficiente in rapporto al bisogno e a quel tanto di superfluo - pochissimo - cui si poteva limitatamente accedere), arrivava alla classe operaia , cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto. E c’erano le parole, che dal Poeta erano passate al regime: eroiche, solenni, vibranti. E l’adunarsi, l’aggregarsi: insopprimibile istanza giovanile oggi d’altro squallore. E i riti. Tutto era allora fascismo, insomma, intorno ad un uomo di vent’anni. E perché un uomo di vent’anni cominciasse a non sentirsi fascista, a detestare quelle parole, quei riti, quella violenza, quella unanimità, occorreva insorgesseuna strana quanto benefica mancanza di  rispetto”: verso i padri, le madri, i parenti tutti, le autorità tutte, la scuola, il Poeta, la Chiesa. Sicché, paradossalmente, il guadagnare buona salute d’intelligenza, di giudizio, finiva col riscuotere una condizione di malattia: l’isolamento (alla mercé dei delatori, anche fisico), la solitudine, l’esilio»

Sui rapporti tra fascismo e mafia, pubblicava, in quei tempi, un articolo sul Corriere della Sera, destinato a suscitare un vespaio polemico, ancora oggi non sopito. Vi riecheggiano i precedenti moralismi a sfondo storico. Commentando un lavoro  di Christopher Duggan ([3]) «L’idea, - scrive Sciascia - e  il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole; in Sicilia la mafia ha impedito che il socialismo prendesse forza: la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. E tra le altre cose che il fascismo era, un corso di un certo vigore aveva l’istanza  rivoluzionaria degli ex combattenti , dei giovani che dal partito nazionalista di Federzoni per osmosi quasi naturale passavano al fascismo o al fascismo  trasmigravano non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici: sparute minoranze, in Sicilia; ma che, prima facilmente conculcate, nell’invigorirsi del fascismo nelle regioni settentrionali  e nella permissività e protezione di cui godeva da parte dei prefetti, dei questori, dei commissari di polizia e di quasi tutte le autorità dello stato; nella paura che incuteva ai vecchi rappresentanti dell’ordine (a quel punto disordine) democratico, avevano assunto un ruolo del tutto sproporzionato al loro numero , un ruolo invadente e temibile. Temibile anche dal fascismo stesso che - nato nel Nord in rispondenza agli interessi degli agrari, industriali e imprenditori di quelle regioni e, almeno in questo, ponendosi in precisa continuità agli interessi “risorgimentali” - volentieri avrebbe fatto a meno di loro per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia. E se ne liberò, infatti, appena dopo il delitto Matteotti, consolidatosi nel potere: e ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco [arresto mai avvenuto, n.d.r.] (figura del fascismo isolano, di linea radical-borghese e progressista, per come Duggan e Mack Smith lo definiscono, che da questo libro ottiene, credo giustamente, quella rivalutazione che vanamente sperò di ottenere dal fascismo, che soltanto durante la repubblica di Salò lo riprese [invero Cucco fu riabilitato nel 1939 divenendo vicesegretario del PNF, subito dopo la caduta in disgrazia di Starace, n.d.r.] e promosse nei suoi ranghi. Nel fascismo arrivato al potere, ormai sicuro e spavaldo, non è che quella specie di sillogismo svanisse del tutto: ma come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfare, costoro dovevano - a garantire al fascismo almeno l’immagine di restauratore dell’ordine pubblico - liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti. E non è senza significato che nella lotta condotta da Mori, contro la mafia assumessero ruolo determinante i campieri [...]: che erano, i campieri, le guardie del feudo, prima insostituibili mediatori tra la proprietà fondiaria e la mafia e, al momento della repressione Mori, insostituibile elemento a consentire l’efficienza e l’efficacia del patto. [...] Rimasto inalterato il suo [di Mori] senso del dovere nei riguardi dello stato, che era ormai lo stato fascista, e alimentato questo suo senso del dovere da una simpatia che un conservatore non liberale non poteva non sentire per il conservatorismo, in cui il fascismo andava configurandosi, l’innegabile successo delle sue operazioni repressive (non c’è, nei miei ricordi, un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione nell’opinione pubblica) nascondeva anche il gioco di una fazione fascista conservatrice e di vasto richiamo contro altra che approssimativamente si può dire progressista, e più debole. Sicché se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso”. Morale che possiamo estrarre, per così dire, dalla favola (documentatissima) che Duggan ci racconta. E da tener presente: l’antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando.)» ( [4])
Qualche giorno dopo (il 26 gennaio 1987, sempre sul Corriere della Sera), sull’onda della polemica con Scalfari e Pansa, Sciascia ha modo di aggiungere: «Respingere quello che con disprezzo viene chiamato “garantismo” - e che è poi un richiamo alle regole, al diritto, alla Costituzione - come elemento debilitante nella lotta alla mafia, è un errore di incalcolate conseguenze. Non c’è dubbio che il fascismo poteva nell’immediato (e si può anche riconoscere che c’è riuscito) condurre una lotta alla mafia molto più efficace di quella che può condurre la democrazia: ma era appunto il fascismo, al cui potere - se messi alla stretta - alcuni italiani avrebbero preferito che la mafia continuasse a vivere. Dico alcuni: poiché non soltanto per aver letto De Felice so del consenso dei più, ma per preciso e indelebile ricordo. Da ciò è venuta, in certe pagine di Brancati ([5]) la rappresentazione del mafioso buono, del mafioso di ragione - e cioè del mafioso antifascista.» ([6])
In altri tempi e con più serenità, con una sintassi meno labirintica - che stranamente emerge nei passi citati, segno forse del tormentato delinearsi del pensiero - Sciascia ragguagliava sull’epilogo del fascismo, scrivendo: «”avanti che cambia bandiera”! Questo era lo stato d’animo dei siciliani: l’attesa che “cambiasse bandiera”, nel senso di un rovesciamento della situazione interna. Tale rovesciamento era impensabile non avvenisse per il non delinearsi o per il realizzarsi di una vittoria anglo-americana. Così americani ed inglesi erano attesi; magari vagamente, che pur nutrendo la più grande fiducia per il colonnello Stevans, la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto. [ ... ] Quando [...] sirene e campane a martello annunciarono l’emergenza, la cosa apparve diversa. Dalla proclamazione dello stato di emergenza ha inizio quella che senza ironia e senza risentimento, ha tutti i caratteri di una kermesse. S’intende che cadenze tragiche non mancarono; che città e paesi interi assunsero un pietoso volto di morte sotto la violenza, spesso inutile e sciocca, dell’invasore. Ma un’aria di festa popolare accompagnò da Gela a Messina il cammino delle armate anglo-americane. Ci auguravamo allora fosse la kermesse della libertà. Forse lo era. Ma quel che dopo è accaduto, fino ad oggi, ci fa diversamente credere. Era la kermesse dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido. Era la festa che degnamente terminava un ventennio di diseducazione, di adorazione alla forza, di culto al proprio stomaco. Era giusto che la più balorda e cieca primogenitura che un capo abbia mai offerta ad un popolo, venisse dal popolo cambiata per una scatola di ‘ragione K’  dell’esercito nemico. [...] Eravamo al 14 luglio. Nel pomeriggio si diffuse la notizia che gli americani arrivavano. Il podestà, l’arciprete e un interprete si avviarono ad incontrarli. La popolazione, in attesa, si preoccupò di bruciare, ciascuno nella propria casa, tessere, ritratti di Mussolini, opuscoli di propaganda. Dagli occhielli i distintivi scivolarono nelle fogne. [....] cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza ancora capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolavano nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale. La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come, ‘cannate’ di vino passate di mano in mano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa e podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel prover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di pensare alle insegne della casa del  fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. [...] Il segretario politico, il podestà, il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie, qualche mese dopo da Orano. In fondo nemmeno il segretario politico era quel che agli americani fu riferito su tutti e tre. Si può dire anzi che aveva una qualità che, in un gerarca, potrà sembrar strana al lettore: non era ladro. Ma qualcuno bisognava proprio mandarlo in galera, almeno per dare un segno dei tempi nuovi. Il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolarne un inventario, dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero.» ([7])
A voler adattare la lezione sciasciana del fascismo alla storia locale di Racalmuto, potremmo rimarcare i seguenti aforismi e la relativa periodizzazione:
1°) l’inconsistente forza del socialismo racalmutese aveva svilito ogni forma di fascismo nel paese per quella “specie di sillogismo” mutuabile dalla “favola (documentatissima)” del giovane studioso di Oxford, Duggan;
2°) in loco l’antidoto al socialismo era costituito dalla mafia legata agli agrari del luogo, mafia che pertanto “è già fascismo”;
3°) ma il fascismo, come la mafia, “era .. anche altre cose”;
4)° “era l’istanza rivoluzionaria degli ex combattenti”... che trasmigrano al fascismo “non dismettendo del tutto vagheggiamenti socialisti ed anarchici”. (Si dà il caso che uno dei fondatori del fascismo racalmutese, l’avv. Salvatore Burruano, fosse un ex ardito e che l’altro fondatore, l’avv. Agostino Puma, s’interessasse alla lega zolfatai d’ispirazione socialista, convertendola, però, al fascismo):
5°) ma il fascismo “volentieri avrebbe fatto a meno di loro (gli ex nazionalisti)  per più agevolmente patteggiare con gli agrari siciliani, e quindi con la mafia”. Qui invero la costruzione sciasciana stride con l’evolversi degli eventi locali. Calogero Vizzini, che se ne stava a Racalmuto per essere gabellotto dell’importante miniera di Gibillini, figura in consorteria, piuttosto ambigua, con i pretesi puri del fascismo, gli ex-nazionalisti;
6°) degli ex-nazionalisti il fascismo “se ne liberò .. dopo il delitto Matteotti”; “ne fu segno definitivo l’arresto di Alfredo Cucco”. Questa però appare lettura affrettata (e poco documentata). Ad Agrigento (e provincia) è il segretario della federazione fascista Galatioto (e con lui Puma, Burruano e  Calogero Vizzini) che ha la peggio. Risulta vittorioso l’on. Abisso che trasformista lo era stato da tempo e che a seconda dei casi può considerarsi legato alla mafia o appartenente agli ex-combattenti;
7°) giunto il fascismo al potere, “ormai sicuro e spavaldo”, nel liberarsi delle sue frange “rivoluzionarie” chiede in contropartita agli agrari ed agli esercenti le zolfare di “liberarsi delle frange criminali più inquiete ed appariscenti”. Questa fase, invero, appare così nebulosa per Racalmuto da doverla forse rigettare;
8°) inizia la repressione Mori contro la mafia che incontra il favore delle masse nell’agrigentino (“non c’è, nei miei ricordi, - scrive Sciascia - un solo arresto effettuato dalle squadre di Mori in provincia di Agrigento che riscuotesse dubbio o disapprovazione”). A noi risulta qualche aspetto diverso. Si racconta ancor oggi che se i militi di Mori incontravano qualche quieto racalmutese, che in piazza osasse andare  “cu lu tascu tuortu” (berretto storto), procedevano a raddrizzarglielo con sputi di scherno. Sciascia limita la lotta alla mafia alla sola azione di Mori - piuttosto inconsistente in provincia di Agrigento - ed alla sua folkloristica politica dei campieri (che a Racalmuto potevano ridursi ad una sola unità e riguardante il feudo di Villanova degli “ex-clericali” Nalbone);
9°) l’azione di Mori sarebbe equivalsa alla moderna antimafia; siffatta antimafia sarebbe stata “strumento di una fazione all’interno del fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato ed incontrastabile”. Tesi invero letterariamente suasiva; storicamente dubbia;
10°) vengono quindi “gli anni del consenso dei più”: Sciascia ne è convinto sia perchè l’afferma “lo storico” sia perché lo sa “non soltanto per aver letto De Felice [....], ma per preciso e indelebile ricordo”;
11°) è un consenso che ben si attaglia a Racalmuto: esso è «pieno e fervido nella classe borghese ... [e arriva] alla classe operaia, cui la “carta del lavoro” aveva dato, un po' in concreto un po’ d’illusione, quel che decenni di lotte sindacali e socialiste non avevano ottenuto»; e qui non si può non essere d’accordo con lo scrittore racalmutese;
12) è un consenso che a Racalmuto si protrae sino al 1943, in definitiva sino al luglio di quell’anno, come la splendida pagina di Kermesse illustra e spiega.

Ci siamo dilungati nelle citazioni sciasciane perché illustrano e spiegano un ventennio della storia racalmutese (che inizia un po’ dopo l’avvento del fascismo e finisce nel luglio del 1943). Poi, Le parrocchie di Regalpetra,   La morte dell’inquisitore, in buona parte il giorno della civetta, e poi gli scritti minori e poi Occhio di capra e quindi questo meraviglioso fuoco all’anima (che la famiglia si intestardisce a censurare) martellano di commenti tristi e cupi l’evolversi della vita paesana sono alla morte dello scrittore. Noi, qui, facciamo richiami introduttivi. Diamo i temi. E nella formulazione dei temi v’è Sciascia e v’è la sua intelligente lettura del nostro essere racalmutesi nel suo secolo (con qualche riserva che ci deve essere permessa. Questa riserva – e talora divaricazione – la andremo ad ordire dopo, quando nella successione temporale degli eventi verrà il turno. Non ci si dica che non amiamo Sciascia, che lo critichiamo. Apprezzandolo, leggendolo, meditandoci sopra spesso la pensiamo diversamente. Qualche volta, contraddicendolo, ci contraddiciamo. Siamo suoi scolari, in fin dei conti.
Pilucchiamo dalle sue contraddizioni di Fuoco all’anima (secondo il dire di Manuel Vázquez Montalbán e s’intende innocenti). Sciascia pensa che non si deve aver casa ma lui ce l’ha a Palermo ed a Racalmuto. Vero è che quella di campagna proviene dal nonno, ma lui l’ha duplicata. In più tiene vigna. Dice di averla avuta sempre: l’ha comprata suo nonno più di un secolo fa; non l’ha però ingrandita, ha solo comprato un pezzo di terra di millecinquecento metri per timore che gli costruissero vicino. Vi ha piantato degli ulivi e presto hanno fatto i frutti. Ma la terra non arrivava a due ettari. Possedere la terra fa bene perché è un punto di riferimento e dà un senso di libertà. La terra però a Racalmuto costa; a coltivarla rappresenta un dispendio grosso. Il vino ha un costo altissimo. Sciascia lo faceva solo per tenerlo lì e offrirlo agli amici. Arrivava a cinque seicento bottiglie l’anno. Era troppo poco per venderlo e troppo per offrirlo agli amici. Per esempio Fernando Scianna non lo voleva perché lo trovava forte. Un altro suo amico, che era avvocato, lo voleva quando era giovane, dopo lo trovava troppo forte.
Sono note di comune vivere e sentire racalmutese, almeno del XX secolo, soprattutto da parte di chi si era redento dalla classe popolana e assurgeva a maestro elementare, ad avvocato di paese o presso la vicina Agrigento, diventava medico, farmacista (allora si considerava ricco, sopra di una spanna sui soci del Circolo Unione), insegnante delle scuole medie, neppure piccolo borghese, eppure con velleità di un’appartenenza ad una appagante classe media. Ineluttabilmente si finiva conservatori, quasi reazionari, più dei coetanei preti.
Fuoco all’anima prosegue: 
-          Porzio: e l’olio lo fai?
-          Sciascia: l’olio quando l’annata è buona, ne faccio ma pochissimo. Una trentina di litri. E poi, siccome è piuttosto forte, è lo stesso discorso del vino.
-          Porzio: L’ultima volta che ci siamo visti mi hai anche detto che nella proprietà ci sono una casa vecchia e una nuova.
-          Sciascia: Ci sono due case ma vecchie tutte e due. C’è quella del nonno, ma ormai si sta sgranando. Si sono aperti i muri. Non si poteva restaurare, perché è costruita su un punto che frana. Mio nonno fece scavare sotto la casa una grotta, che usava come cantina. E siccome il terreno è di un tufo molto friabile, questa grotta ha segnato il destino della casa.
-          Porzio: Cosa faceva tuo nonno?
-          Sciascia: Eh, mio nonno era una persona straordinaria.
-          Porzio: Stai parlando del nonno paterno?
-          Sì. Il nonno paterno era zolfataro. Il padre gli morì quando aveva nove anni. Allora a nove anni andò alla zolfara, dove non c’era protezione per il lavoro minorile, niente. A nove anni. Alla sera, quando tornava a casa, andava a scuola dal prete. Lentamente divenne capomastro, e poi da capomastro passò all’amministrazione della zolfara.

Una bella carriera questa del nonno paterno di Sciascia. E siamo nel XIX secolo. Chiaro questo emblema della redenzione di qualcuno a Racalmuto: da “carusu” ad amministratore di zolfare. Amato dal padrone. Era, quel padrone, un Matrona (che in spagnolo abbiamo scoperto di recente significa “mammana”: altro che nobiltà!). L’esaltazione che farà Sciascia di quel Matrona, della di lui villa di campagna, della signorilità dell’intera prosapia della crestomazia racalmutese, scintilla nella pubblicazione degli “Amici della Noce”..
La faccenda dei “carusi”, dei “carusi” sfruttati dai Matrona diverrà un capitolo di questa nostra microstoria racalmutese. Le nostre simpatie sono però di segni opposto. Non ci possiamo ascrivere tra gli amici della Noce.
Riprendiamo il discorso dal “Fuoco all’anima”:
-          Porzio: E guadagnò tanto da potersi comprare un pezzo di terra?
-          Sciascia: Sì, una casa e un pezzo di terra.
-          Porzio: E come accadde che anche tuo padre lavorò nell’ambito delle zolfare?
-          Sciascia: Mio nonno voleva fare di lui un ingegnere, per cui l’aveva mandato a studiare ad Agrigento. Ma mio padre aveva la fissazione della caccia. Non si può immaginare che cosa è questa passione.
-          Porzio: Intendi in Sicilia?
-          Sciascia: Sì. Dopo la seconda o terza classe delle scuole tecniche, lasciò gli studi.
-          Porzio: Per la passione della caccia?
-          Sciascia: per la passione della caccia, della campagna. Allora mio nonno lo istruì nel mestiere della zolfara e anche mio padre entrò lì.

Storia racalmutese, questa. Emblematica. Manie, tendenze, voglia di caccia. Se Porzio chiede: La caccia è una forma di felicità? Sciascia eccede: Sì, una forma di felicità. Che lui però non ha provata. Suo fratello invece la provava. Ma lui sparava bene, “eh, sì, avevo mira”, ammette. E la mania per la caccia ancora persiste a Racalmuto, con le solite esagerazioni dei cacciatori, con i cacciatori che ora parlano e parlano di caccia, di conigli fulminati, di conigli in preda a morìe, ma soprattutto di cani, di cani da caccia che spariscono e ritornano taluni dopo un giorno tal altro, del gruppo, dopo giorni, con l’unghia scagliata. Poverina – naturalmente è una cagnuola – era precipitata in una fossa, profonda ma friabile. Aveva graffiati e graffiato la terra. L’unghia era partita. I cani del gruppo, tutti di proprietà, l’avevano aspettata, per ore. Poi, per fame, l’avevano lasciata. Ed erano ritornati al canile dell’angustiato cacciatore. Dopo, con pazienza, con tenacia, la cagnuola, era riuscita a risalire. Era potuta rientrare, affamata ma salva. Il padrone è commosso. Ci deve propinare tutta la sua commozione al Circolo Unione. Anche a noi che non amiamo la caccia, non crediamo che sia felicità, che non abbiamo mai avuto mira. Sciascia e il fratello di Sciascia. Morto prematuro il primo, morto suicida, ventenne, il secondo. Uno non ama la caccia (ma forse a sessant’anni), l’altro l’ama. Un’evasione, quella venatoria, che può dare felicità. O così si crede ancora a Racalmuto. E questa non sarà storia memorabile … ma manie da ricordare, sì.

-          Porzio: Ma allora ti piaceva sparare?
-          Sciascia: Mi piaceva tirare al bersaglio. Ho sempre avuto familiarità con le armi, con il fucile da caccia.
-          Porzio: E il papà faceva le spedizioni da caccia?
-          Sciascia: Sì, finché a un certo punto si è stancato, non ci è andato più. Mi ricordo di mio zio, il sarto; in quella bottega si parlava solo di caccia, dalla mattina alla sera. Ci venivano tutti i cacciatori come se fosse un circolo. E tutti raccontavano storie di caccia, talvolta, esagerando sulla preda. I cacciatori sono anche bugiardi.

La frotta di quei bugiardi a dire il vero si è ora assottigliata. Tra licenze, porto d’armi e soprattasse è “vizio” costoso. Qualcuno è diventato dentista ed animalista. La caccia, ora l’avversa. I residui dell’arte venatoria a Racalmuto adesso non hanno più né sartoria né circolo per adunarvisi. Se ne stanno a passeggiare nel marciapiede ove finge di farlo la iperrealista statua bronzea di Sciascia (deforme in una gota ed inverosimilmente cresciuto d’altezza.)





Sciascia le stigmate della violenza mafiosa e quelle – spesso connesse – delle smodate smanie venatorie le portò nel suo DNA come tanti racalmutesi. E’ paradigmatico quindi quello che scrive in proposito.  “Nero su nero” anche noi riportiamo questa pagina sciasciana, a chiarimento del vivere locale, delle demenze della memoria, dell’essere racalmutesi.

«La ragione lontana di questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi, l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito.
«Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso:  ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna).» 

Condividiamo con Sciascia che la caccia, qui a Racalmuto, più che per nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si permetteva una meschina guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? – nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose pare l’abbiano trafugato) si poteva leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli, baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno della macelleria. I bravacci seguirono il Martorelli fino alla fontana e là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, il mandante era stato il barone; l’organizzatore un famoso campiere del barone. Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero del tutto assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone Tulumello – anche se poi sindaco e consigliere provinciale  - rimase “un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in  missive anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per Sciascia
Parola d’onore: nelle carte processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempi d’abigeato e la lettera anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, una guardia comunale a nome Leonardo Sciascia – omonimia con qualche vincolo di parentela però – riemerge da quelle carte ed è tutta per il barone Tulumello: in data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:
 «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.»

L’abigeato fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale, come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi), cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.


Noi restiamo impigliati – lo confessiamo – nella aporia o pseudo contraddizione di Sciascia che nel presentare la storia del Tinebra, prima dice del libro di Eugenio Napoleone Messana che trattasi di opera “voluminosa, fitta di notizie” e poi – a conclusione della sapidissima prefazione – vuole il nostro paese povero di memorie storiche di origine libresca o documentaria, dacché “limitato è il numero delle notizie che su Racalmuto si possono estrarre da libri e manoscritti”. L’insigne scrittore si salva in corner asserendo e dimostrando che “moltissime e di sottili e lunghi tentacoli sono quelle che si possono estrarre dalla memoria. Dalla galassia della memoria”. Ma se anche noi, trovata venia per gli sporadici spunti sopra estesi, seguissimo (pur con la modestia dei nostri mezzi espressivi) il sommo racalmutese ci parrebbe di andare a navigare in una memoria demente, per dirla con qualche ermetico del ‘900.
Sciascia esige invero notizie “narrabili”, (oppure, in mancanza, notizie fervorose distillate dalla memoria collettiva del paese). Ci rammenta, in Occhio di Capra: «la mia infanzia è stata tutta un rondò di zie e zii. Di parenti e di amicizia. Personaggi indimenticabili: e pochi credo di averne dimenticati, scrivendo. Col loro nome o dandogliene un altro. Ma la memoria, che con gli anni si fa lunga ed aguzza a cogliere le cose lontane, oggi me ne fa riapparire due di cui mi pare di non avere mai scritto …». A sceverare Occhio di Capra o Nero su Nero o Cruciverba e soprattutto Fuoco all’anima, abbiamo di che rimembrare con il ricordare di Sciascia su fatti usi e bizzarrie (ed anche demenze) racalmutesi. Ma la storia, quella non astringibile in aneddotica di famiglia o di paese? Beh, Sciascia è pessimista. A Racalmuto è rada, larvatissima la “vita  che Américo Castro direbbe «narrabile», da «descrivibile» che appena e soltanto era.” E molto ci affligge e ci intimorisce questa lezione contenuta nella presentazione sciasciana della storica mostra su Pietro d’Asaro, svoltasi dal novembre 1984 al 13 gennaio 1985 nella Matrice (destinata - pare - per incuria, insipienza e peggio a crollare) e nel santuario del Monte, acropoli moderna votata all’ascesi e alle mistiche redenzioni locali.
Castro ci avvince, in qualche modo lo conosciamo e quindi crediamo di non tradire la sua teorica addentrandoci in ricostruzioni fattuali racalmutesi che se non proprio nobilmente (e presuntuosamente) narrabili restano pur sempre rivelatrici di vicende descrivibili, e per la microstoria locale tanto va perseguito, ascrivendosi a merito per interessi della cultura o. se non altro, della memoria collettiva del locale aggregato sociale. Non mancherebbe un ritorno turistico, non scevro di additive risorse economiche, disprezzabili dalle guglie degli elitari colti o supponenti tali, necessitanti per la sopravvivenza della collettività. Cose piccole, non disprezzabili, però.

In tale riquadro, va riguardata questa nostra fatica. Vogliamo riscrivere la storia di Racalmuto – narrabile o solo descrivibile, poco ci importa. E ci pare di non potere essere smentiti se diciamo che tante, tantissime sono le notizie ricavabili da scritti altrui e soprattutto da documenti, diplomi, “rolli”, archivi - nazionali, vaticani, esteri e persino parrocchiali. Certo non basta additarli, quegli archivi, per credersi benemeriti della rievocazione storica racalmutese. Occorre faticare, respirare polvere – nociva ai polmoni ed agli occhi – e soprattutto “intelligerli” (alla Sciascia per intendersi). Non presumiamo di riuscirvi in pieno. Ma qualche risultato ci sembra di averlo conseguito. Agli altri, però, l’ardua sentenza.

Il più antico documento, a ben vedere, è la grotta di Fra Diego: non è molto che si chiama così. Sciascia con la sua Morte dell’Inquisitore ha contribuito a sancire tale denominazione. Prima, in una visita di William Galt attorno al 1934, pronubi Pedalino De Rosa ed il notaio Sajeva (dice Giovanni Di Falco che fu notaio racalmutese per un solo atto) si era insinuato che il toponimo di Fra Diego che pur circolava si potesse riferire al noto – e per i clericali, famigerato – fra Diego La Matina, monaco agostiniano del ‘600 dell’ordine centuripino di S. Giuliano.  Vi avrebbe addirittura preso dimora nei periodi della sua fuga. Pensate che nei rilievi militari dell’esercito effettuati subito dopo l’Unità d’Italia il  toponimo non figura in alcun modo.

Quell’antro, ubicato a sud-est, poté davvero essere adatta dimora al primo uomo che ebbe il destro di sistemarsi nelle nostre plaghe. Egli poteva essere benissimo del tipo di Cro-Magnon, e la sua periodizzazione non osterebbe ad essere collocata verso una trentina di migliaia di anni fa. La grotta di fra Diego, per noi, è l’impluvio di acque piovane che discendevano dal monte Castelluccio. Sotto, ad un certo momento, ebbe a crollare una enorme volta gessosa; vi fu il formarsi di un esteso zubbio, quello gigantesco ai piedi della grotta, ai fianchi a ridosso. Che cosa sia uno zubbio è detto in testi scientifici. Qui basta accennarvi. Così sotto il costone abbiamo ora ben sette inghiottitoi, a dire del mio amico sig. Palumbo di Milena. E quegli inghiottitoi vanno investigati, esplorati da squadre di speleologi professionisti: più della grotta visto che ivi non è stato trovato granché, almeno sotto il profilo archeologico. Nei sette inghiottitoi a valle vi saranno di sicuro argille cotte ed altro materiale sicano e d’altre culture, a testimonianza del vivere che in Gargilata v’è stato con un continuum che sempre il mio amico Palumbo mi mostrava analizzando i minuscoli cocci che affioravano. Dalla civiltà pre-sicana (quale noi riteniamo vi sia stata in base ai reperti archeologici risalenti ad una decina di migliaia di anni fa, come si è dimostrato nella contermine Milena), a quella delle tombe sicane (coronanti la stessa grotta e che si sogliono datare agli esordi del secondo millennio avanti Cristo), alla successiva della Magna Grecia (dipendenza agragantina) e quindi alla civiltà greco-romana, a quella intermedia del passaggio dei barbari (vandali, goti, etc.), alla restaurazione bizantina, per giungere a certa ceramica araba che andrebbe studiata con molta attenzione per i risvolti nella chiarificazione della dominazione araba (a dire il vero berbera) e del succedersi delle vicende legate a normanni e svevi, sino al 1271. Questo caleidoscopio storico giace negletto in terre un tempo vivificate da una sorgiva cui da bambino andavo ad attingere l’acqua con una minuscola brocca zingata (lanciddruzza); si trovava nello sprofondo di Gargilata. Ora, per incuria delle autorità preposte alla vigilanza la sorgiva è stata sotterrata per un po’ di vigna. Quelli di Agrigento hanno erroneamente invertito le particelle catastali soggette a vincolo ultraprotettivo. Mera disattenzione o censurabile compiacenza? E perché, nonostante le mie segnalazioni, non se ne danno per intesi?

La vita a Racalmuto parte dunque da Gargilata, tanto propinqua a Milena. E citiamo Milena giacché decenni di scavi e ricerche, da parte di superprofessori dell’Università di Catania (indichiamo per tutti: De Rosa) rendono eminente la cultura pre-greca dei Sicani. Quelli che indugiano su Gardutah, o su Casalvecchio, o su lo Judì e via discorrendo peccano di erudizione. Faranno tutto ma non storia o veridica microstoria racalmutese. Se Sciascia incide il bisturi del suo scrivere alato nella locale microstoria per dirci che “Racalmuto … [uguale] Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi: e pare gli abbiano dato questo nome perché lo trovarono desolato da una pestilenza” (Occhio di Capra) ed indulge nella diceria del “paese che esisteva già, un po’ più a valle” (presentazione mostra Pietro d’Asaro), e se giunge persino all’aforisma di un paese (che «profondamente gli pare di conoscere, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires. “ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”») la cui vita non si riesce “ad immaginare, a vedere, a sentire… prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero”, a noi sia concesso il privilegio del dissenso, o almeno dello scetticismo. Si pensi, non era solo nelle anagrafi parrocchiali che si scriveva Xaxa, ma anche nei rolli, nelle carte notarili, negli archivi laici. Ed il nome nulla diceva; pure le etimologie artatamente arabe sono ridevoli. Si pensi, oggi qualcuno, con soldi regionali, ci vuole erudire che tutto ha valenza terminologica araba (anche Montedoro, anche Gallo d’oro, anche … etc. etc.). Vedremo che di mirabilia in mirabilia, per il più grande arabista vivente, Racalmuto deve intendersi come il paese del moggio. (E D’Annunzio non ha fiaccole da nascondervi; a meno che questo non sia pretesto per far scintillare la rutilante poesia dell’Abruzzese sul palcoscenico del locale teatro, costosissimo nella erezione, ancor di più nella ricostruzione e adesso nel mantenimento di nebulose fondazioni.)
Del resto non si potevano aspettare gli arabi per trasformare plaghe ubertose in dimora vitale, autoctona. Racalmutesi da trentamila anni ce ne sono stati anche se non si chiamavano così. E dicevamo che si erano acquartierati a Gargilata, da cui sciamarono lungo il costone del Castelluccio, lungo le alture quasi dentarie del Serrone, da est ad ovest, ed anche giù nel vallone a tramontana, là dove v’era pastura, possibilità di caccia, germogli frumentari, terra atta a vitigni o ferace d’erbe per pascolo. Le testimonianze sono quelle delle tombe (a forno prima, a tholos dopo); o gli incavi funerari bizantini. Le nostre modeste ma irriducibili investigazioni del suolo ci hanno confortato di conferme per significativi manufatti, per ruderi che certificano, che ancor oggi segnalano il vivere antico tramite gli onori della tumulazione nella pietra friabile, là dove era disponibile.

Prima del Pliocene centinaia di milioni di anni fa, ovvio che l’altipiano racalmutese fosse tutto un mare. Cominciato il prosciugamento nel versante dal Castelluccio a tramontana, appena si ebbero a formarsi acquitrini pare – sono sommi scienziati ad attestarlo – che sciami e sciami di vibrioni (li chiamano col termine di Desulfovibrio desulfuricans) pavimentarono il territorio; e si dice vi deposero gli strati solfiferi delle future miniere.  Altri sconvolgimenti geologici subentrarono e proprio nel Pliocene (circa 25 milioni di anni addietro) l’intero effigiarsi del Vallone dal Castelluccio fino al fiumiciattolo  ed oltre sino al sistema collinare della Pernice, da sud a nord, e dalla Montagna giù giù sino allo “Strittu”, divenne come oggi lo vediamo ed amiamo. Il vulnus minerario del paesaggio naturalmente fa eccezione.
L’altro versante, da est a sud e da sud ad ovest, quello che plana sino al mare dalle punte del Castelluccio e del Serrone suole assegnarsi agli esordi del Quaternario, al Pleistocene, ad era recente (ma si fa per dire visto che dobbiamo parlare di sette/otto milioni di anni fa). Qui, da una parte la terra è pigra; Cugni Luonghi, Mangiauomini ed altre lande acquitrinose non hanno destato molto attaccamento alla terra; la moderna costruzione di un autodromo lascia nell’indifferenza i racalmutesi (pur se vi è da congetturare che verranno assordati); altro discorso invece per il versante ovest: se vi si progetta un aeroporto tanti arcigni paesani si ribellano. Terre feraci, humus fertilissimo, terreno intoccabile insomma vogliono rappresentarcelo. Stanno ordendo una rivolta civica. Manco a farlo apposta, a mo’ di torre vi è la contrada Noce ove albergava d’estate Sciascia per scrivervi i suoi non facondi libri. Sapeva raccogliervisi ed ispirarsi e comporre con la sua prosa non scivolosa, ipotattica disse Pasolini. Il silenzio si addice ai dintorni della Noce, scrivono persino gli eccentrici organi di stampa meneghina.

Storia narrabile dunque anche quella preumana delle ere geologiche. (se non vi era l’uomo, vi sarà).

La civiltà sicana che stanziava a Milena, alle Raffe, sotto Mussomeli si irradiò anche nelle contermini terre di Racalmuto. O, come amiamo pensare, da qui, epicentro per fertilità del suolo e vicinanza al mare, passò all’interno sino alla Rocca di Cocalo.  Le note del Mauceri, [8] nelle relazioni al Bullettino romano del 1860, dimostrano un iter sicano che da Licata  si inerpica sino all’interno, sino a Racalmuto. L’ingegnere delle ferrovie, invero, attribuisce al nostro territorio Pietralonga (ove le “pruvulate” per avere pietrame da spalmare per le rotaie della costruenda strada ferrata rivelarono necropoli sicane subito depredate). Apparteneva invece a Castrofilippo. Nel 1980, nel chiosare un piano regolatore racalmutese, l’insigne archeologo De Miro segue pedissequamente l’errore del Mauceri e – qui pro quo – vincola come racalmutese l’estranea località di Castrofilippo. Quando si dice un ricorso storico secolare. Per colmo d’ironia, quel De Miro, proprio Noce, Menta e dintorni – vere miniere di reperti archeologici greco-romani – dimentica di vincolarli. Dimenticanza o atto di devozione verso un nume letterario? Ora, i racalmutesi interessati, invocano la negletta archeologia per impedire l’aeroporto. Speriamo che almeno vi si stendano i vincoli di dovere.

Dal Castelluccio, l’apice del primo deflusso di acque geologiche, scese in declivio terra argillosa che i venti subito coprirono di humus fertile e che la successiva incuria degli uomini affidò alle inclemenze delle piogge capaci di spogliarla (e dire che siamo in tempi successivi alle cure dei monaci centuripini di S. Giuliano, abili invece a terrazzarla). Da lassù iniziarono il loro lento scivolare grandi scisti ed ancora sono in cammino verso il fondo valle. Prima i sicani e poi i bizantini se ne servirono per le loro sepolture.  Un patrimonio archeologico che almeno andrebbe inventariato. Del pari, dalla punta del Loggiato scesero altri massi che scheggiandosi e venendo corrosi dai venti sono ora penduli sui cigli con sembianze quasi umane, paurose eppure ammalianti. Come lo è l’orrido. Come nostrana sembianza, un simbolo, il vero stemma racalmutese. L’abbiamo additato all’attenzione dei nostri concittadini, con i miseri mezzi di una locale televisione, al suono pertinente, suadente di una stagione di Vivaldi. La labilità delle immagini, per i rudimentali mezzi della registrazione, si accentua sempre più e prossima è la fine di quelle immagini. Il Comune non ha attenzione per simili atti di amore, ha da finanziare estranei (ma potenti) o queruli soggetti pluridecorati (ma sono gli  “amici”).


La data di nascita di Racalmuto non è araba; il toponimo lo è ma circolava già da un secolo; Rahal Kamout si chiamava nel 1161 una località di Petralia (che invero nulla aveva a che fare con Racalmuto). Il nostro altipiano ovviamente preesisteva. Non vi era però nessun grosso centro che potesse prefigurare l’attuale paese con il suo cacofonico nome arabo. Se Laterza chiamò il paese di Sciascia Regalpetra e ne invocò le sue parrocchie, fu uzzolo letterario. Regalpetra ci piace ancor meno, e tra il toponimo della letteratura e quello di nebbiosa origina araba preferiamo il secondo. Come per lo stemma racalmutese, il pessimo gusto locale esplode. Quant’era bello l’arcigno simbolo: strisce gialle – tante quante erano le migliaia di abitanti che si andavano man mano censendo – su campo rosso e tutto sotto una corona nobiliare (pare persino regale, sicuramente marchionale – vecchia ambizione dei Del Carretto). E’ lo stemma dipinto in un bruciacchiato quadro dell’Itria. A cominciare da certi sapientoni palermitani dell’Ottocento lo si dice di Pietro D’Asaro; ma è infondata arditezza.

Eppure vi era vita. Se mancava una estesa dimora vitale come oggi siamo abituati a vedere un paese, non si trattava solo di masserie disseminate qua e là, come si crede che sia avvenuto dopo il crollo dell’impero romano; come si va dicendo che sia avvenuto nell’Agrigentino sotto papa Gregorio. Le testimonianze archeologiche ci fanno pensare ad una sorta di cespugli uno qua uno là. Il più consistente sotto fra Diego. Non era Mothion, termine che in lingua pre greca poteva pur significare ‘aiuto’, e che non disdice ad un insediamento di nostri avi. Padre Salvo è acuto – ma troppo fantasioso: vorrebbe Racalmuto un misto di arabo e di antichissima lingua (sicana). «Ben si spiegherebbe la composizione del nome arabo di Racalmuto, che potrebbe risultare dal prefisso arabo Rahal e da Mothion, cioè da Rahal-Mothion corrotto in arabo in Rahal-Maut, ‘Villaggio di Mothion’. In questo caso gli Arabi avrebbero conservato l’antica denominazione del vecchio villaggio presso cui si stabilirono in contrada Casalvecchio-Saraceno.» Il prete è erudito e si vede.
Noi lo stimiamo. Francamente è andato un po’ troppo nel congetturare. Una storia così può soddisfare solo chi se la inventa.

Alla fantasia noi concediamo invece che il primo uomo sapiens sapiens dell’altipiano possa essersi deciso a stabilirvi stabile dimora una trentina di migliaia di anni prima degli arabi. Doveva necessariamente essere troglodita: la grotta di fra Diego, questo inghiottitoio di acque essiccatosi dopo il crollo del gigantesco zubbio, esposto a sud-ovest dovette essergli propizio, accogliente per le sue primordiali esigenze abitative. E dopo?

Dopo una ventina di migliaia di anni, una popolazione autoctona ebbe a diffondersi in tutto il circondario: da lì sino a Mussomeli, ma  anche da lì sino a Pietralonga; a cespugli più che ad estesi agglomerati, a grossi insediamenti. Le tombe di fra Diego sono tante: svelano aggregati umani non spregevoli. Quelle di Ponte Gianfilippo sono anch’esse non sparute. Ma le altre – dietro, sotto, a fianco del Castelluccio, ad esempio – se non solitarie, sono circoscritte: due o tre nuclei familiari conviventi vi trovavano sepoltura se non imperitura, almeno durevole. Anche la pubblicizzata necropoli di Pietralonga aveva dimensioni plurifamiliari, ma limitate.

Quella popolazione autoctona la si chiama sicana. Persino Tucidide vi ha messo del suo per consacrare quel ceppo, quella genia. Risaliva a circa sette cento anni prima della caduta di Troia, riferiva. Ora, per i vicinissimi reperti archeologici di Milena, i laboratori di fisica nucleare di Catania non escludono datazioni risalenti a dieci mila anni fa. La scienza contro la storia antica. Ma fino ad un certo punto, basta sapere coordinare; smussare le discrasie più illogiche. Nulla vieta di chiamare sicani gli antenati racalmutesi che dieci mila anni fa – a Gargilata – sapevano già cuocere materiale fittile per i loro usi domestici. Non siamo come Sciascia; non vogliamo essere arabi a tutti i costi (sol perché i preti scrivevano nei loro registri parrocchiali Xaxa). Ci piacerebbe tanto essere gli eredi di quei sicani di dieci mila anni fa, con il nostro sicilianissimo – come dire racalmutese -  DNA, con le stigmate del sopravvivere in un aprico altipiano, con quel sole che sorge sempre da dietro il Castelluccio e che tramonta dietro la Montagna, con il succedersi di stagioni bizzarre, eppure composte, che ci hanno forgiato nella mente, nel cuore, nel nostro peculiare essere blasfemi, violenti eppure generosi, amabili, sottomessi a leggi, a potenti, a signorie anche straniere con sornioneria, senza suicidi ribellismi.

Dove abitarono di solito i ceppi dell’altipiano che più si condensarono dopo nell’attuale Racalmuto? I reperti archeologici dicono prevalentemente in due posti: in contrada Fra Diego La Matina  ed in contrada San Bartolomeo-Garamoli.
Noi ci avvaliamo per dire questo di un singolare personaggio, neppure racalmutese, che se ne viene ogni autunno a Racalmuto a spiare (e raccogliere) quello che trattori rivoltano dalle terre bagnate. Ritenendosi archeologo, costui ha collezionato “trusce”  di “giarmaliddri” di pietruzze di minuscole ossidiane, di selci levigate etc. Si è spinto a farne persino una classificazione, una elencazione comunque. Il tutto – quello almeno che ci ha descritto in due fax del febbraio del 2001 – lo ha portato ai BB.CC.AA. di Agrigento, consegnandolo, unitamente ad un attuale assessore comunale, nelle mani di una funzionaria dell’epoca, la Maugeri (se non sbagliamo). Dove siano andati a finire quei reperti, non sappiamo. Dovevano essere fotografati. Di certo, quando, dopo ne abbiamo chiesto notizia, non se ne sapeva più nulla (o non si è voluto rivelarlo).

Ecco quello che dicono a me quelle annotazioni. A Gargilata (sotto la grotta di Fra Diego) il centro abitativo sepolto fa oggi affiorare macine di pietra che il nostro dilettante archeologo vorrebbe di cultura Pantalica Nord. Ma anche macine in basalto. Non manca una accetta litica votiva in basalto nero ed un’altra in bachelite. Diffuse sono le pietre di selce e quarzite lavorate dalla mano dell’uomo primitivo: secondo il Nostro, della cultura dell’età del bronzo. E poi pietre finemente lavorate  - a forma di mandorla o di accetta – che avrebbero valore votivo e riguarderebbero l’uomo sicano. Numerose le lame in silice grigia, rossa, gialla. Due lame in ossidiana con taluni reperti del medesimo materiale. Interessante una mazza litica con traccia identificabile dalle tacche dell’impugnatura per le dita. Sarebbero della facies Pantalica una decina di pestelli. Bolas caratteristici delle zone gessose-solfifere e tantissimi reperti litici (nuclei, utensili in pietra, raschiatoi, bulini). I culti e le arti avrebbero le loro vestigia nella contrada Gargilata, sotto Fra Diego: rinvenuti tre falli fittili e tre fuseruole fittili ‘in ottimo stato di conservazione’. Questo materiale – se ancora sopravvive – non potrebbe essere restituito a Racalmuto e custodito nei locali blindati (che tanto ci sono costati) della Fondazione Sciascia? Ad Agrigento, a che servono?.

Passiamo alla contrada di San Bartolomeo Garamoli. Abbiamo le solite macine in basalto e in pietra. Anche qui pestelli della cultura Pantalica Nord (a dire almeno del Nostro) non mancano. Rinvenuto un ciotolo fluviale con marcati segni di combustione, probabile pietra focolare. Votiva dovrebbe essere un’accetta litica in talcoscisto. Presente forse la cultura campignana con un’amigdaloide. Non rare le lame in selce grigia e gialla. Molto lavorati una cinquina di reperti in selce, frammisti ad altri utensili di identica materia. Spicca un coltello/pugnale in selce. Uno stadio evolutivo molto accentuato rivelano taluni reperti sempre in selce. Non meglio classificati ben 101 frammenti di vario tipo e dimensioni. Di fittile abbiamo: sei fuseruole ben conservate; due corni o falli; un peso da telaio – e questo starebbe a testimoniare in modo specifico un insediamento greco -; n. 54 frammenti fittili con decorazioni tipiche dell’età del bronzo. I sicani, dunque, si sarebbero insediati e stabilizzati anche in quella contrada, tanto distante da Fra Diego.

Questo nostro popolo d’antenati, questi sicani si sono dunque diffusi per l’intero territorio di quello che oggi si chiama Altopiano di Racalmuto. Abbiamo detto che ve ne furono di quelli che scesero a valle, di fronte alle zone della Pernice, quasi all’imboccatura dello “Stritto”. Abbiamo tombe a forno in vari punti della Forestale, sotto “Vriccicu”. Manie mariologiche del Novecento hanno eroso e corroso queste sopravvivenze funerarie. Abbiamo dileggiato gli antichi e vilipeso le ultime credenze cristiane. Vi è ora un clero che ama padre Pio, che vorrebbe santificare padre Elia Lauricella (senza manco conoscerlo). E’ con il suo misticheggiante vescovo, lontano dal popolo e dalla nuova cultura. Riesce solo nella profanazione delle tombe sicane.

Quanto va emergendo dagli studi scientifici dell’insediamento sicano di Raffe o della riserva di Monte Conca è già tanto (ed al contempo poco) nel far baluginare la civiltà sicana. Naturalmente, il loro (dei sicani) culto della sopravvivenza mortuaria, il loro dedicare energie oltre il tollerabile nello scavare tombe emblematiche, nella pietra, a davvero futura memoria, il sapere cuocere l’argilla per un vasellame rudimentale ma molto rivelatore di usi, benessere e tenore di vita ci testimoniano una dimora vitale che si può dire narrabile. Nella vicina Palma di Montechiaro, studiosi quali Castellana, vogliono dire di avervi trovato pani di zolfo risalenti a quell’epoca: il che equivale a  dover pensare che i sicani sapessero un paio di millenni prima di Cristo di calcheroni, balate, gavite. Se là vi fu industria dello zolfo, non poté non esserci eguale sagacia estrattiva a Racalmuto, dove il nostro vibrione fu più operoso a lasciare ‘gallerie’ solfifere appena sotto la crosta dell’humus ferace.

Tanti pozzetti o tanti fornetti – così chiamati per le vaghe rassomiglianze – quali ci incuriosiscono a Fra Diego o al Ponte di Gianfilippo, o negli anfratti sotto il Castelluccio o a S. Bartolomeo o nella Montagna prima del bel suolo aprico requisito da assenti padroni panormitani, ci svelano un pauroso culto dei morti. Nei modesti incavi vi venivano deposti in forma fetale i morti, non molti in una sola tomba per l’angustia dello scavo. Un richiamo al ventre materno, uno sceneggiare la morte come l’origine della vita. Un ritornare alla terra. Senza la teologia di adesso, ben s’intende. Ma quell’uomo, quella donna ivi sepolti non morivano del tutto. Il loro spirito rimaneva. Ma doveva restare racchiuso nel piccolo antro gessoso. Una pietra suggellava l’abituro funerario. E dentro il morto veniva legato nella suo rannicchiamento fetale. Non doveva uscire. Avrebbe potuto arrecare danno, ai vivi, ai superstiti. Qualche paleoantropologo alla Tiné non esclude riti di vago sapore cannibalesco. Pare che i morti venissero messi a bagnomaria, con coltelli di selci – e si è sopra detto che ne sono stati rinvenuti nei pressi – venivano scorticati. Andava perduta quella carne? In tempi di penuria, quando ardua era la caccia e pochi dovettero essere gli animali addomesticati, arduo è credere in schifiltoserie che la opulenta civiltà moderna ci incute irresistibilmente.  La voglia di ristorarsi mentre ci si addolora per la dipartita di un parente, di un amico è vivida al presente. E’ ardito cogliervi residui di una tradizione millenaria, sacra e truculenta?

 Un aforisma molto racalmutese recita: «lu cuccu cci dissi a li cuccuotti, a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti.» L’imprendibile senso del detto locale sfugge – a nostro avviso – anche al grande Sciascia. Ma con lui concordiamo quando scrive: «al chiarchiaru è come dire agli inferi, ad un luogo di morte in cui tutti ci incontreremo. E senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano.» Il rovello degli spiriti sicani, i sicani nostri antenati che sono evaporati dalle loro tombe violate, aperte, si ridesta con il lamento del cucco al chiarchiaro («una collina rocciosa, un sistema di anfratti, di crepacci, di tane. Pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni, di serpi; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta “ ‘mpintu”, impigliato, quasi il labirinto dei cunicoli fosse matassa che l’aggroviglia»,  icasticamente per Occhio di Capra).

La civiltà sicana racalmutese può periodizzarsi, può tripartirsi. Da una decina di migliaia di anni fa sino al XVII secolo avanti Cristo, quando tecniche, utensili, crescita civile, acuirsi del culto dei morti permisero di onorare i defunti in nicchie ovali, simili al ventre materno. Dopo, sino al XIII secolo, i passaggi epocali delle varie età metalliche non furono nefasti a quel popolo autoctono; anzi le fertili terre racalmutesi, la selvaggina che vi aveva sempre più propizia dimora, l’addomesticamento più folto di accresciute specie e la sagacia nel modellare ed istoriare materia fittile, il caolino dei calanchi, e l’abilità nel dare un tetto stabile ai capanni della dolce vallata che le acque torrentizie non dilavavano venendo con sapienza incanalate in ingegnosi “gattani” , tanto eccelse per una prospera ulteriore dimora vitale, sparsa in più o meno estesi addensamenti umani, per l’intero altipiano. E ciò sino all’avvento dei greci, di quei rodi-cretesi di Gela che dopo essersi attestati ad Agrigento ebbero a spingersi sino nelle nostre lande.

Caratteristica di questo periodo fu la tomba a tholos: un’ampia caverna, con sedili a forma di ferro di cavallo ove depositare i morti, sempre rannicchiati in forma fetale e sempre legati ma in numero ora cospicuo come imponeva la crescita demografica e come la più scaltrita tecnologia, anche per l’abilità nel forgiare utensili metallici, consentiva.

In alto si praticava un foro, oppure, se la sommità era imperforabile, si scheggiava una corona circolare, come una moderna insegna per additare alle anime dei defunti la via del cielo. Ci siamo intestarditi nella ricerca di simili tombe – così evidenti ed avvincenti a Milena – ma sinora non ne abbiamo trovate. Pensavamo un tempo che ciò era il segno di una eclissi demografica, di un ritirarsi nell’interno montagnoso di Milena e Sutera per esigenze difensive verso aggressori che venivano dal mare. Adesso, pensiamo a cosa diversa: quelle tombe, appena riadattate, accoglievano d’estate, vi si abitava durante il raccolto o la fruttificazione estiva ed autunnale; avveniva sino a non molto tempo fa; era uso ancora durante la mia infanzia e i miei ricordi sono tuttora trepidi. Certo, durante la trebbiatura si dormiva sulla pula, sotto stelle vivide, talora filanti, mirabili, annuenti. Non per romanticherie, s’intende, ma per tutela e guardia del grano prezioso ed amato.

Annusando cose dì archeologia paesana ci siamo imbattuti in un grande scisto gessoso in contrada Pian di Botte (sotto il cimitero). E’ zona suggestiva anche se aspra. Nel raggio di mezzo chilometro abbiamo un mulino ad acqua del Cinquecento (gli archivi palermitani sono prodighi di notizie), il rosticcio della miniera di Calogero Casuccio – al tempo oggetto di scontro con i principi di Sant’Elia, e, stando a  nostri rinvenimenti archivistici romani, località pressoché certa delle “tegulae sulfuris” mommseniane – ed un avello di forma strana, di cui qui si vuol dire qualcosa. Stavolta l’incavo, palesemente tombale, è alto e stretto, come se vi si dovesse deporre un solo uomo, all’in piedi e non in forma fetale, e come se si trattasse di uomo gigantesco. Ma l’incavo è troppo superficiale per scopi di seppellimento. Pensiamo dunque ad un inizio di tomba a tholos, abbandonata per fuga della famiglia interessata o per altri disastri quali terremoto, epidemia.  Oggi, attorno è desolazione, ‘cannedri’ irti, zona inaddentrabile. Terra abbandonata che potrebbe essere dalla comunità requisita e studiata, archeologicamente. Non molto tempo fa non era così se sopra la roccia è visibile la piattaforma di un palmento ove pestare uva che i dintorni dovevano pur fornire in abbondanza.
La nostra tomba – o quella che crediamo tale – segna, a nostro avviso, lo spartiacque tra i sicani della tomba a forno e quelli influenzati dal mondo miceneo, da intrusi che a dire del De Miro ed altri venivano da Creta alla ricerca del sale, lungo il fiume Platani, sino alla Rocca di Cocalo, sino a S. Angelo Muxaro – significando così il mito di Minosse in Sicilia – e divaricandosi sino alle alture di Milena, che ci hanno restituito splendide tombe a tholos con spade ed anelli del XIII secolo quali ognun dice essere micenei o di tale influenza. Anche a Racalmuto dobbiamo pensare a similare epigono sicano, durato sino al VI-VII secolo avanti Cristo.
Finisce qui la civiltà sicana, inizia quella della Magna Grecia. Non è che sia cessata la presenza sicana; solo si è sviluppata o inviluppata. Monete greche di varie età, con impressi granchi agrigentini (ne abbiamo intravisto taluna trovata sopra i Malati) o cavalli alati (monete siracusane?) o d’altre forme che qualcuno individua nella circolazione fenicia (ma trattasi di dati male riferiti dal Tinebra Martorana).

Ed a questo punto ci accorgiamo di esserci troppo dilungati per un capitolo che dovrebbe avere valore solo introduttivo. Ondivagando, abbiamo cercato di chiarirci – più che chiarire – che cosa intendiamo per microstoria e soprattutto per microstoria racalmutese. Abbiamo dovuto fare i conti con Sciascia. E quando lo contraddiciamo, in fondo in fondo temiamo che lui abbia ragione e noi no. Resta pregiudiziale la stroncatura di notizie “non memorabili”. Non sarebbero storia “narrabile”. Ma l’indulgere a secrezioni di appannate memorie individuali e peggio collettive non è indulgere ad una memoria demente? Letterariamente sublime ma storicamente insensa.

Ci ripetiamo, lo ammetto. Eppure, se la storia è un pensare il vivere antico quale svolgimento di un valore ideale (la libertà, la giustizia sociale, la democrazia, la storia ideale eterna, il disegno della divina provvidenza), che cosa può essere la microstoria se non la ricerca di un principio atavico di sopravvivenza in una chiusa comunità, piccola per pretese cosmiche, umana per essere obliata?.
Dice Sciascia: «Ma la vita vi era tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore e alla fame come erba alle rocce.» L’acuto assioma noi l’abbiamo reiterato tante volte, e chissà quante altre volte lo ripeteremo. Anche per noi la microstoria di Racalmuto deve rivolgere l’attenzione a questo”antico paese che esisteva già” prima degli arabi. Ci pare arbitrario o impreciso o disorientativo aggiungere che esso stava «un po’ più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-mauth, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende nome (l’altipiano di Racalmuto, l’altipiano solfifero).» In ogni caso, fu sempre “dimora vitale”. Ed era vita grama, spesso violenta, più schiava che libera. Prima dell’ “avvicendarsi dei feudatari che venivano dal nord predace e dalla non meno predace «avara povertà di Catalogna», col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava”, altre angherie epocali erano avvenute, quelle di sicani forti che conquistano sicani deboli, quelle dei gheloi akragantini che schiacciano gli indigeni, quelle dei romani, quelle dei barbari, quelle dei bizantini, quelle degli arabi (cui subentrano miseri e remissivi berberi), quelle dei normanni, quelle dei vescovi bretoni, quelle fridericiane, quelle angioine, quelle catalane, quelle chiaramontane. Dopo i Del Carretto. Ma dopo i Del Carretto ecco le angherie degli Schettini, dei duchi di Valverde (i Caetani), e quindi un ritorno al ceppo femminile dei Del Carretto con i Requisenz, e frattanto le angherie dei Savoia, quelle degli Austriaci, quelle dei Borboni, e poi quelle garibaldine, di Nino Bixio, della Destra, di Crispi, di Giolitti, della vecchia mafia, della nuova mafia, del fascismo, della Democrazia Cristiana, degli agrari di Alliata e del bandito Giuliano (qualcuno ci vorrà mettere Li Causi e trasformare in aguzzini le vittime di Portella delle Ginestre), del centro sinistra, della mafia dei pentiti, dell’antimafia aggiungerebbe Sciascia, ed ora quelle dell’era berlusconiana non escludendo i trasformismi paesani, accondiscendenti all’autodromo e imprecanti contro il progetto dell’aeroporto. E frattanto Racalmuto muore – forse, bisogna dire, sembra morire. Certo saprà ancora una volta abbarbicarsi al dolore ed alla fame ‘come erba alle rocce’. Riuscirà di sicuro a sopravvivere. L’usare intelligenza, il pensare, il ripensare a tale grama eppure esaltante sopravvivenza è il filo conduttore della nostra microstoria. E passiamo quindi ad abbozzarla. Schiavi dei nostri giudizi e pregiudizi. Ma con viscerale attaccamento. Da passionari quali ci sentiamo. Da racalmutesi che qui a Racalmuto ci siamo nati da mille generazioni, senza soluzioni e nel frattempo vi risiedevamo, senza fronzoli borgeani.



 









Il contesto storico di RACALMUTO
Note orientative. Un quadro storico di estrema sintesi.

Sull’altipiano di Racalmuto - che, a ben vedere, altipiano non è - l’uomo ha lasciato, da quasi dieci millenni, tracce del suo dimorarvi ora rado, ora intenso, qualche volta prospero, ma di solito stentato. Un popolo preistorico, quello cosiddetto sicano, fu presente per oltre sei secoli nel secondo millennio a. C. Ma a partire dal XIV sec. a.C., mentre nella vicina Milena ebbe a prosperare una popolazione che, come attestano le ancor visibili tombe a tholos, seppe avvalersi degli influssi micenei, il territorio di Racalmuto pare divenuto del tutto inospitale e la civiltà sicana sarebbe del tutto scomparsa (a meno che non abbia lasciato – come più logico - testimonianze atte a superare l’onta del tempo).
  In Sicilia, a partire dall’VIII secolo a. C., inizia il periodo delle immigrazioni greche. Racalmuto, questo nostro paese dell’entroterra agrigentino,  appare completamente estraneo – nelle fasi di esordio – a codesto processo di colonizzazione: solo, quando si consolida l’egemonia ellenica di Agrigento, qualche colono ebbe l’ardire di addentrarsi nelle parti più interne del nostro altipiano. Di documentato, però, non abbiamo nulla e dobbiamo accontentarci delle acritiche descrizioni di ritrovamenti archeologici che ci fornisce Nicolò Tinebra Martorana nella sua «Racalmuto, memorie e tradizioni». Non solo le contrade di Cometi e Culmitella ma anche quelle del Ferraro sarebbero state frequentate da Sicilioti.
Nel terzo secolo a.C., con la conquista romana, non cambia molto ed è solo sporadico l’interesse di coloni, che solitari ebbero voglia di coltivare qua e là alcune delle plaghe più fertili di Racalmuto; si può forse congetturare che più frequente fosse, specie nell’interno, la pastorizia.
Contadini grecofoni non mancarono comunque ai tempi della repubblica romana ed essi furono tassati specie per le loro produzioni vinarie, come attesta un’epigrafe rinvenuta nel territorio di Racalmuto nel XVIII secolo, di cui ebbe a fornire preziosi ragguagli il Torremuzza.  Un tal Fusco - sicuramente non racalmutese, anche se non può affermarsi che fosse un romano - deteneva in questa località siciliana “diote” per il trasporto a Roma di vino, presumibilmente in piena epoca repubblicana ed a titolo di decime sulla locale vinificazione.
Ma quel che di rimarchevole ci forniscono i reperti archeologici del luogo sono certe “ tabulae” o “tegulae” ‘sulfuris’ risalenti secondo pur sommi archeologi all’imperatore  Commodo (ma moderni più ponderati studi dissolvono quella datazione) e che in ogni caso sono collocabili tra il II al IV secolo d. C. e che stanno a comprovare una intensa attività mineraria solfifera nelle medesime zone del nord ove sino a qualche decennio fa prosperava tale industria estrattiva.
Dopo, con la caduta dell’impero romano e l’avvento dei barbari, il silenzio archeologico - oltreché documentale - è totale sino al tempo dei bizantini. Di certo, incursioni di barbari dovettero esservi specie per razziare i pregiati raccolti cerealicoli. Forse Genserico, se non nel 441 almeno nel 445, portò i suoi Vandali a devastare anche il territorio racalmutese. Possiamo congetturare che vi fu un sostegno da parte dei coloni dell’epoca all’azione militare del patrizio svevo Racimero che nel 456 riuscì a sconfiggere i Vandali ad Agrigento.  Del pari non sono da escludere presenze vandale a Racalmuto nel periodo del loro ritorno in Sicilia che si protrae sino alla cessione dell’isola ad Odoacre. Quel che avvenne, poi, sotto i Goti che dal 491 ebbero il possesso della Sicilia ci è del tutto ignoto. Si parla o si favoleggia del ‘buon governo’ di Teodorico. Probabilmente risale a questo periodo se tanti coloni poterono concentrarsi nelle contrade di Grotticelli, di Casalvecchio e della decentrata Montagna e costituirvi un consistente agglomerato che poté prosperare specie sotto i Bizantini.
Casalvecchio, il toponimo che ancor oggi persiste, è zona piuttosto ricca di testimonianze archeologiche: purtroppo riluttanze delle autorità agrigentine impediscono tuttora di studiarne in loco la portata, le valenze e la significatività. Sappiamo solo che fu fiorente la civiltà bizantina, che durò sino all’incursione araba, allorché appassì e si disperse. Alcune monete - rinvenute, però, nella periferica contrada della Montagna - portano in effigie gli imperatori bizantini Héracleonas e Tiberio  II. Il primo risale al 641; il secondo, appoggiato dal partito dei verdi, salì al trono nel 698 e venne ucciso nel 705 ([9]). Le tante e ricorrenti vestigia archeologiche (lucerne, condutture d’acqua, resti di fondamenta, ingrottamenti artificiali ad arcosolio, strutture murarie abitative affioranti,  etc.) che si rinvengono nella zona che va dallo Judì al Caliato, dalle Grotticelle a Casalvecchio e da ultimo, secondo rinvenimenti recentissimi, nella plaga sotto fra Diego, attengono alla cultura bizantina prosperata dal sesto secolo sino all’avvento degli Arabi.
Con gli Arabi l’antica civiltà racalmutese si eclissa e non può fondatamente affermarsi che sia subentrata la tanto favoleggiata cultura saracena. Il tempo degli arabi a Racalmuto è totalmente buio: né rinvenimenti archeologici, né testimonianze scritte, né tradizioni appena attendibili, né indizi in qualche modo illuminanti. L’abate Vella nel Settecento fabbricò un falso su Racalmuto che è, appunto, inventato di sana pianta. Certo, per i racalmutesi è ostico pensare che di arabo il loro paese non abbia nulla: già, perché i tanto conclamati toponimi - a partire dal nome del paese - o l’etimologie saracene dei vari lemmi della parlata locale, resta da vedere se risalgono ai tempi della dominazione musulmana o non piuttosto, come pare, a quelli posteriori della signoria normanno-sveva sulle sconfitte popolazioni  arabe. A sfogliare una qualsiasi delle pubblicazioni degli eruditi locali che si sono dilettati di storia racalmutese, la vicenda araba è ben condita di fatti, dati, curiosità, risvolti sociali, politici, demografici, religiosi. Vai a dir loro che trattasi di vaneggiamenti, di fole, di ingenue credenze. Racalmuto non ebbe moschee, né consistente intensità demografica tanto da raggiungere nel 998 ‘il numero di 2000 abitanti’ (frutto questo dell’irrefrenabile fantasia dell’abate Vella), né nobiltà terriera, né ‘usi e costumi che assieme ad una presenza genetica’ noi racalmutesi ci trascineremmo sino ai nostri dì. E’ certo che un paese di tal nome non esistette per nulla durante tutta l’epoca araba: Racalmuto sorge attorno alla metà del XIII secolo, quasi duecento anni dopo la conquista normanna dell’agrigentino. E il suo toponimo (indubbiamente arabo) lascia trasparire l’assesto voluto da Federico II, dopo la repressione dei moti ribellistici dei sudditi arabi dell’intero territorio agrigentino. Non possiamo credere, con il Tinebra Martorana, che «... Moezz ordinò l’inurbamento di queste popolazioni rurali, fra le quali era quella di Rahal Maut, e per suo ordine l’Emir di Palermo, a rendere più tranquilla l’industria agraria e più sicura la proprietà, creò ufficiali addetti alla esazione delle imposte. Spento così per opera di Moezz l’abuso delle esazioni, la libera operosità dell’agricoltore dovette svolgersi notevolissimamente. Rahal Maut a quest’epoca è uno dei popolosi casali.» Così, nel 998 «.. il nostro villaggio conteneva 1101 adulti e 994 di un’età inferiore ai 15 anni.» Tanto secondo quel che «il governatore di Rahal-Almut, Aabd-Aluhar, per bontà di Dio servo dell’Emir Elihir di Sicilia» era in grado di rapportare al suo Padrone Grande a seguito dell’ordine ricevuta dall’Emir di Giurgenta ([10]) Ma l’intera faccenda nient’altro è che il solito imbroglio storico dell’abate Vella. Nell’introduzione alle memorie del Tinebra, Leonardo Sciascia non manca di cicchettare lo storico locale per avere contrabbandato come storia quella che era stata una mera invenzione del “famoso Giuseppe Vella” e ciò per la «tentazione  dell’accensione visionaria, fantastica», non sapendo «resistere al piacere di riportare un documento falso pur sapendo che è falso». Ma ecco che  lo stesso Sciascia confessa: «anch’io non mi sono privato del piacere di riportare quel documento pur conoscendone la falsità, e precisamente nelle Parrocchie di Regalpetra.» ([11]) E di piacere in piacere, il falso affascina tuttora i racalmutesi. Anche il compianto p. Salvo  (v. Ecco tua Madre, Racalmuto 1994, p. 20) non resiste al fascino di quella falsità. Ed a ben vedere, neppure Leonardo Sciascia mostra totale resipiscenza se nel 1984, nel presentare la mostra di Pietro d’Asaro, si lascia andare a questa arditezza storica: «... siamo nella microstoria di Racalmuto: antico paese che esisteva già, un pò più a valle, quando gli arabi vi arrivarono e, trovandolo desolato da una pestilenza, lo chiamarono Rahal-maut, paese morto. Ma non era per nulla morto, se fu riedificato arrampicandolo verso l’altipiano che dal paese prende oggi il nome....». Non sembra che la fonte di cui si serve Sciascia sia altra o più attendibile rispetto a quanto va asserendo il solito Tinebra Martorana (v. pagg. 33 e segg.), sull’onda del famigerato abate Vella. E di fantasia in fantasia, trova ancora credibilità la favoletta che a metà dell’Ottocento confezionò il peraltro meritevole Serafino Messana quando racconta di due baldi eroi saraceni racalmutesi, Apollofar e Apocaps ([12]), distintisi nella lotta contro i Normanni.

Ruggero il Normanno conquistò Agrigento il 25 luglio del 1087 (se seguiamo l’Amari, o l’anno prima secondo il Maurolico ed altri). Racconta il Malaterra, nelle sue cronache coeve, che Ruggero il Normanno, una volta conquistata Agrigento e munitala di un castello e di altre fortificazioni, si accinse a conquistare i castelli dei dintorni che furono undici e cioè Platani, Missaro, Guastanella, Sutera, Rahal ..., Bifar, Muclofe, Naro, Caltanissetta, Licata e Ravanusa. Il testo del Malaterra è inquinato e non si è certi della corretta trascrizione di tutti i toponimi. Sia come sia, Racalmuto non vi figura - salvo a fantasticare su quell’impreciso ed incompleto Rahal. Un tempo abbiamo aderito a tale tesi, dando credito al Fazello che a dire il vero include nell’elenco il nostro casale in modo esplicito. Oggi siamo convinti che a quell’epoca nessun centro dell’agrigentino portasse quel nome. Il silenzio di tutte le fonti scritte è significativo. Neppure nella celeberrima geografia dell’Edrisi della prima metà del XII secolo è rintracciabile un qualche toponimo che assomigli a Racalmuto. Là, tutt’al più, incontriamo Gardutah o al-Minsar che in qualche modo possono essere collocati nei pressi dell’attuale centro racalmutese.  Nel ricco archivio capitolare della Cattedrale di Agrigento, Racalmuto non figura mai menzionato per tutto il periodo che va dagli esordi della diocesi normanna sino ai tempi del Vespro. Il primo documento storico che parla di questo casale nelle pertinenze di Agrigento è del 1271 ed era custodito negli archivi angioini di Napoli   Mi si obietterà che l’argomento ex silentio non ha molto rilievo sotto il profilo storico. Certamente, ma tutto quello che si afferma nel silenzio delle fonti è mera congettura, che nel caso di Racalmuto trascende pressoché costantemente persino l’area della verosimiglianza. Il territorio racalmutese non ha sinora restituito neppure una testimonianza archeologica di una qualche presenza umana per tutto il tempo degli arabi, dei normanni e degli eventi che seguono sino alle repressioni saracene di Federico II. Pensare ad un prospero centro abitato, dalla conquista araba (immediatamente dopo l’anno 827) sino al 1240-1250, è francamente avventatezza storica.
Il Garufi annotò - commentando un diploma pubblicato nell’Ottocento dal Cusa - che « ....  l'unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d'indagarne l'origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tut­tavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l'atto di compra-vendita, dell'a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i  g a i t i  testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell'a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».  ([13]) Ma la tesi del Garufi appare poco credibile se si considerano le ricerche del Di Giovanni che colloca tale località in quel di Polizzi ([14]). Il Rachal Chammoùt (  xammon) del diploma greco del 1178 nulla ha dunque a che vedere con il casale agrigentino che corrisponde all’odierno Racalmuto.  E ciò destituisce di ogni fondamento la notizia, che pur trovasi nel Pirri, di una chiesa fondata nel 1108 dal Malconvenant in onore di Santa Margherita e corrispondente all’attuale S. Maria di Gesù. Trattasi di un altro plateale falso, i cui artefici sono stati i canonici agrigentini, protesi a legittimare l’accaparramento di rendite racalmutesi avvenuto dopo il XIV secolo. Su interessate segnalazioni dei canonici dell’epoca, il Pirri ebbe invero a scrivere, attorno al 1641: “antiquissimum est templum olim majus S. Margaritae V. ab oppido ad 3. lapidis jactum, anno 1108, de licentia Episc. Agrig. à Roberto Malconvenant  domino illius agri extructum...” ( [15]) «A tre lanci di pietra da Racalmuto sorge un’antichissima chiesa che un tempo era quella maggiore, fabbricata nel 1108, su licenza del vescovo di Agrigento,  da Roberto Malconvenant, signore di quel territorio » attesta dunque l’abate netino. Solo che la notizia si basa su documenti dell’Archivio Capitolare di Agrigento, che, stando a studi del 1961, si riferiscono ad altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice.
Svanisce così la credenza di un dominio dei Malconvenant, così come è infondato ogni possesso baronale dei Barresi; ed è del pari infondato quello che si vorrebbe attribuire agli Abrignano. Il Tinebra Martorana, che di queste signorie parla, si appoggiò agli scritti del Villabianca sulla Sicilia Nobile; sennonché il settecentesco principe aveva in un caso interpretato liberamente una notizia del Fazello e nell’altro concessa una qualche credibilità - sia pure con espressa riserva - al Minutolo.
Un diploma angioino - autentico ed illuminante - fa giustizia di tali attribuzioni baronali e, sovvertendo tutte le congetture araldiche su Racalmuto prima della signoria dei Del Carretto, ci informa che il primo feudatario di Racalmuto (o per lo meno il primo di cui si abbia notizia storica) fu tal Federico Musca, forse appartenente alla grande famiglia dei Musca titolare della contea di Modica. Sennonché Federico Musca tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e questi lo priva, nel 1271, del dominio di Racalmuto, casale nelle pertinenze di Agrigento, per conferirlo a Pietro Nigrello di Belmonte ([16]). Il Vespro ci mostra un comune divenuto demaniale. Sotto Pietro re di Sicilia e d’Aragona, il casale è costretto a nominare dei sindaci fra le persone  più cospicue, chiamati il 22 settembre 1282 a prestare il debito giuramento al nuovo re in Randazzo. Il che equivale a sottoporsi a tassazione piuttosto pesante. Il 20 gennaio 1283 Pietro incarica i suoi esattori di recarsi al di là del Salso per riscuotere di persona le tasse gravanti sulle singole terre: Racalmuto deve versare 15 once ([17]). Il Bresc ne desume una popolazione di 75 fuochi pari a circa 300 abitanti ([18]). Il 26 gennaio 1283 ind. XI «scriptum est bajulo judicibus et universis hominibus Rakalmuti pro archeriis sive aliis armigeris peditibus quatuor»  ([19]) cioè Racalmuto viene tassato per 4 soldati a piedi ed ha una struttura comunale con un baiulo e due giudici. Chi fossero costoro non sappiamo: crediamo che si trattasse di latini. I saraceni non potevano avere incarichi ufficiali. Ridotti probabilmente a pochi coloni, poterono forse starsene in contrada Saracino, a coltivare verdure con perizia di antica tradizione. Non erano più villani dato che il villanaggio - come dimostra il Peri - era già tramontato.
I Saraceni dell’agrigentino furono tumultuosi sotto Federico II. Nel 1235 essi furono in grado di prendere prigioniero il vescovo Ursone e di trattenerlo nel castello di Guastanella fino a quando costui non ebbe pagato un riscatto di 5000 tarì d’oro.([20]) Federico II ristabilì l’ordine confinando a Lucera quei sudditi ribelli. Il risultato fu una desolazione del territorio agrigentino che si ritrovò a corto di manodopera contadina. ([21]) Nel 1248 v’è dunque un atto riparatorio da parte di Federico II verso la chiesa agrigentina che era stata spogliata dei villani saraceni, deportati in Puglia per le loro turbolenze. I danni sulla chiesa agrigentina per questa azione di polizia e per altri gravami imposti da Federico e dai suoi ufficiali furono così pesanti da ridurre il vescovo e la sua chiesa in condizioni tali da non avere più mezzi di sostentamento. Per risarcimento l’imperatore avrebbe concesso i proventi sugli ebrei e quelli della tintoria di Agrigento.
Fu a seguito dell’assestamento che Federico Mosca (o un suo diretto antenato) poté fondare Racalmuto portandovi coloni suoi propri o accogliendo saraceni sbandati. Nel 1271 egli però deve cedere il casale a Pietro Nigrello - come già detto - avendo tradito l’angioino. Il personaggio riemerge sotto Pietro d’Aragona. ([22]) Nel 1282 il Mosca figura, infatti, come conte di Modica, ma non rientra in possesso di Racalmuto. Sarà Federico Chiaramonte - se crediamo al Fazello - che prenderà possesso di questo casale e vi costruirà, nel primo decennio del XIV secolo, il castello con due torri cilindriche che ancor oggi si erge  maestoso ed imponente entro la cinta del paese. E’ falso quel che appare nell’elenco «baronorum et feudatariorum» dello pseudo Muscia (pubblicato dal Gregorio: Bibliotheca, II, pp. 464-70), laddove si pretende che nel 1296 Racalmuto fosse baronia di Aurea Brancaleone (l’elenco recita testualmente a pag 20 del ruolo pubblicato nel 1692 da Bartolomeo Musca: «Aurea Brancaleone, eredi, per Calabiano e Rachalmuto; reddito onze 400»). Se un ulteriore elemento si vuole per dimostrare la falsità di quel pur celebre ruolo, eccolo qui: Brancaleone Doria sposa la vedova di Antonio del Carretto, Costanza Chiaramonte, attorno al terzo decennio del XIV secolo, e solo dopo tale data poté avere qualche pretesa su Racalmuto. Sappiamo infatti che il figlio - Matteo Doria - nominò propri eredi i figli del fratellastro Antonio,  Gerardo e Matteo del Carretto. ([23]).
La narrazione sinora soltanto abbozzata  tende  ad additare un punto per noi basilare della storia di Racalmuto: l’anno 1271, con il cennato documento angioino, segna il salto tra preistoria e storia locale. Il paese dal nome arabo dell’Agrigentino, sorto come casale ad opera di Federico Musca (sia o non sia il conte di Modica), lascia dietro le spalle il mistero del suo esistere e si accinge a divenire un’umana, fervida, sofferente, tenace, talora rigogliosa tal altra “meschinella”«dimora vitale», come la definirebbe Américo Castro.
Francamente non riusciamo a concordare con Leonardo Sciascia  secondo il quale Racalmuto «ebbe per secoli ... vita appena “descrivibile” nell’avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia, venivano dal nord predace o dalla non meno predace ‘avara povertà di Catalogna’; col carico delle speranze deluse e delle rinnovate e a volte accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava. Ma la vita vi era sempre tenace e rigogliosa, si abbarbicava al dolore ed alla fame come erba alle rocce.» ([24])  Quell’abbarbicarsi al dolore ed alla fame produsse storia narrabile e non solo descrivibile ben al di là delle figure care a Sciascia: il prete ‘alumbrado’ Santo d’Agrò; il teologo Pietro Curto; il medico ‘specialista’ Marco Antonio Alaimo; l’ “uomo di tenace concetto” - martire per lo scrittore e niente più che un ‘insano di mente’ per Denis Mack Smith ([25]) - Diego La Matina, il monaco agostiniano di “Morte dell’inquisitore”; il pittore, forse confidente dell’Inquisizione, Pietro d’Asaro. Sono i protagonisti celebrati dallo scrittore racalmutese, e per taluni versi falsati o disinvoltamente aureolati nelle sue icastiche pagine.
Da oltre sette secoli, Racalmuto lascia tracce di vita e di morte negli archivi, nei diari, nelle opere storiche e si palesa popolo fervido di inventiva, coeso, dai costumi peculiari, dalla cultura inconfondibile, capace di azioni reprobe, narrabili, contraddistintosi in eventi rimarchevoli, con connotati magari di vigliaccheria o di perversione, però non privi talora di empiti nobili, senza - a dire il vero - nessuna propensione all’eroismo, ma rifuggendo sempre dalle abiezioni collettive. Nessun episodio di guerra, nessuna rivolta cruenta, nessuna carneficina, nessun sovvertimento sociale. Obbedienti e critici, sottomessi ma mugugnanti, specie nelle varie congreghe (religiose o civili, a seconda dei tempi).
Le vicende di Racalmuto possono venire ricostruite con amore, con passione, con interesse ma criticamente, spregiudicatamente spazzando via tutti quegli “idola” della ingenua tradizione locale o della mistificante letteratura degli autori paesani. 
E’ una Racalmuto che va vista con occhi critici e razionali. Non può certo avvalorarsi la saga della venuta della Madonna del Monte del 1503,  così come, in buona fede, non può affermarsi che vi siano state tasse  per uzzolo dei Del Carretto con buona pace del “terraggio e terraggiolo” secondo la parabola del pur sommo Leonardo Sciascia. Noi valutiamo piuttosto positivamente la presenza del Del Carretto a Racalmuto. Reputiamo fucina di cultura clero locale, organizzazione parrocchiale, atteggiamenti della fede nel sorgere e nell’abbellimento di chiese, negli insediamenti di conventi, nel diffondersi di confraternite.
Questo non è un libro di lettura: è solo  sostanzialmente materiale di consultazione cui rivendico però una grande dignità, un modo inconsueto di far storia, un soffermarsi sul particolare per una visione non eroica - e deformante - di quel lieve stormire di foglie che in definitiva è la microstoria locale. A tanti non interesserà - ma ad alcuni racalmutesi sì - sapere chi erano nei passati secoli i “mastri” ed  i “magnifici”; quanti erano “jurnatara”; se vi erano “facchini” (e ce n’erano); come erano pagati; chi si poteva permettere di mangiare “salsizzi” e chi doveva accontentarsi dei residui del porco; se le donnette (come ai miei tempi del resto) potevano tenere per strada “gaddrini” e “gaddruzzi” ed apprendere che vi era l’imposizione del conte di una “tassa in natura” su quest’uso (l’offerta di una gallina e di un galletto al castello a prezzo calmierato), e via di seguito.
Lo studio cui ci accingiamo  ha l’ambizione di costituire una base per successivi approfondimenti e ricerche sulla storia locale. Esso è problematico come lo è ogni ricerca. Più che esaurire - pretesa che sarebbe risibile - traccia alcuni percorsi di auspicabili ulteriori investigazioni.
L’Archivio di Stato di Agrigento custodisce ben n° 69 Rolli di atti notarili che minuziosamente scandiscono la vita paesana di Racalmuto dal 1561 al 1608; n.° 71 per il periodo 1600-1707, n.° 195 per il tempo 1700-1816; n.° 56 per il tratto 1801-1860.
Quel materiale archivistico è praticamente ignoto. Tolta qualche curiosità di padre Alessi che ebbe a cercarvi con l’ausilio di un paleografo atti per il suo Pietro d’Asaro, la cronaca diuturna di Racalmuto vi si sta polverizzando.
La vendita di un mulo, la cessione di una “jnizza”, la soggiogazione di una casa, il “pitazzu” di un “inguaggiu”, vita, morte, sposalizio, tasse, risse, organizzazioni sociali, ruolo di preti monaci e chierici, rettori e governatori di confraternite, il pulsare della vita economica, sociale e religiosa di ogni giorno della Racalmuto del tempo, il suo espandersi demografico ed il suo drammatico falcidiarsi per l’esplodere di pesti, tutto ciò è il vivido quadro che i polverosi registri notarili non rivelano per la neghittosità degli storici racalmutesi. Ed i politici potrebbero ovviarvi: penso a cooperative di giovani, a sovvenzioni pubbliche comunali volte a finanziare ricerche d’archivio, a scuole di paleografia - giacché leggere quei documenti non è da tutti  - , ad incentivi economici; a borse di studio etc.
Sciascia redarguisce compiacentemente Tinebra Martorana che si produsse in una smaccata falsità a proposito della Racalmuto araba; egli spreca una delle sue splendide metafore elevando il falso del Tinebra ad una «tentazione dell’accensione visionaria, fantastica». E ciò nonostante, per Sciascia il libro del Martorana che degna di una sua alata presentazione, «va bene così com’è: col gusto e il sentimento degli anni in cui fu scritto e degli anni che aveva l’autore, con l’aura romantica e un tantino melodrammatica che vi trascorre. Certo manca di metodo, e tante cose vi mancano: ma credo che molti racalmutesi debbano a questo piccolo libro l’acquisizione di un rapporto più intrinseco e profondo col luogo in cui sono nati, nel riverbero  del passato sulle cose presenti.»
Ma davvero il popolo di Racalmuto è così sprovveduto da aver bisogno di frottole e scempiaggini per percepire ed amare il riverbero del suo passato storico, il richiamo ancestrale della sua memoria più vera e più pulsante?
 Francamente credo di no e questo libro - bando alle ipocrisie - ha un suo codice genetico, una sua cifra culturale ed una sua vocazione storica di segno opposto non solo rispetto a Sciascia ma anche a Tinebra Martorana, a Serafino Messana, ad Eugenio Napoleone Messana, al poeta Pedalino, ai tanti esimi sacerdoti che semper sacerdotes secundum ordinem Melchisedech hanno scritto di storia racalmutese volti alle cose di Dio ed al forzoso rinvenimento dell’onnipotente presenza nelle misere cose dell’umano dissolversi racalmutese.
Il Cinquecento racalmutese che troverete descritto in questa silloge irride alle tante credenze locali, e cerca di documentare l’espandersi, il flettersi ed il riprendersi del popolo di Racalmuto nel primo secolo dell’era moderna, alle prese sicuramente con la protervia dei Del Carretto - invero in poche marginali questioni - ma principalmente con le varie curie agrigentine e parrocchiali, viceregie e spagnole, inquisitoriali ed episcopali; con il governatore del Castello, con i familiari dei Del Carretto, con un suo genero di nome Russo, uno scalcinato nobilotto che fa fortuna sposando la figlia spuria dell’omicida ed assassinato Giovanni del Carretto; con gli arcipreti - quelli buoni come l’indigeno arciprete Romano al cui spoglio aspira l’ingordo vescovo Horoczo Covarruvias  e quelli latitanti come il napoletano Capoccio; con il chierico Vella, un religioso assassino che vescovo e conte si contendono per fargli espiare nelle proprie carceri il fio della sua colpa.
I falsi del Tinebra Martorana - che nel 1886 tornarono a gravare sulle casse del Comune e tornarono davvero visto che per l’amicizia con i famigerati Tulumello quell’autore studiava a spese del Comune come attesta un anonimo conservato nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma - sono talmente tanti e perniciosi da rendere talora irritante la lettura di quel volumetto. Altro che spingere alla “carità del natìo loco”. E purtroppo sono stati falsi fortunati. Per colpa di essi abbiamo uno sconcio, improbabile stemma comunale. Tinebra, invero,  lo voleva pudico “con un uomo non nudo, bensì con una gonnellina dentellata ai margini, come l’antico guerriero romano”. Altri volle o rispolverò lo stemmo con l’uomo nudo.  In ogni caso l’uomo invita  al silenzio: obmutui et silui; come dire: star muto, subire e starsene zitti. Lo stemma di Racalmuto scandisce manie, prevenzioni e visionarietà della borghesia postunitaria racalmutese. Abbiamo potuto fotografare interessanti documenti dei primi anni del Settecento ove figura il timbro a secco del Comune di Racalmuto. Ebbene, lì non vi è nulla di tutto questo. Trattasi di uno stemma a bande e chiomato, totalmente austero, dignitoso, nobile. Non vorrò di certo io, con il mio laico scetticismo, riaccendere una guerra di religione su una bazzecola come è uno stemma. Ma francamente, a me racalmutese da almeno dieci generazioni - sia pure per tre quarti, visto che l’altro quarto è narese - dà fastidio lo sguaiato stemma comunale che sembra ammiccare al silenzio omertoso ed a qualche vezzo omosessuale.

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L’intreccio del volume che presentiamo utlilizza fra l’altro una fonte, sinora sostanzialmente ignota, la “numerazione delle anime” che si è svolta a Racalmuto nel 1593. Essa offre spunti per descrivere usi, costumi, vicende, disavventure e, principalmente, sviluppo ed assestamento demografico racalmutese. Il segmento del secolo XVI verrà raffrontato con quello che è avvenuto prima e con quanto si è svolto dopo. Dalla tassazione dei tempi del Vespro, alle grassazioni ecclesiastiche dei papi avignonesi, ai censimenti fiscali dell’intero corso di quel primo secolo dell’era moderna, Racalmuto viene inquadrato nel suo essere un consorzio civile collegato con la realtà agrigentina, palermitana, romana e persino avignonese. Altro che essere un’isola nell’isola, nel cui ambito la famiglia era un’isola nell’isola nell’isola. Racalmuto non è certo l’ombelico del mondo ma un cordone ombelicale con il mondo ce l’ha avuto di sicuro.
Fa alta letterura di certo Sciascia quando scrive in Occhio di Capra:
«Isola nell’isola, ...la mia terra, la mia Sicilia, è Racalmuto.. E si può fare un lungo discorso su questa specie di sistema di isole nell’isola: l’isola-vallo  .. dentro l’isola Sicilia, l’isola-provincia dentro l’isola-vallo, l’isola paese, dentro l’isola-provincia, l’isola-famiglia dentro l’isola-paese, l’isola-individuo dentro l’isola-famiglia ...». Un discorso questo che oggi si può leggere persino nelle banali riviste patinate del tipo “Meridiani”. Se il passo ha un valore metafisico, filosofico, di incomunicabilità esistenzialistica, non oso addentrarmici, ma se vuol essere nota storica su Racalmuto, ebbene mi pare proprio inattendibile.
La Racalmuto - quella che si dipana dal 1271 sino ad oggi - è solo uno scisto della storia ma tutta quanta vi si riverbera. Se leggo la magistrale opera di Fernando Braudel  su “Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” e nel frattempo trascrivo carte, diplomi, atti notarili, ‘riveli’ e simili del Cinquecento racalmutese, scatta un’assonanza sorprendente: le linee e le scansioni della storia mediterranea trovano eco, conferma, oppure una riprova o un completamento o una specificazione proprio nel nostro paese, nelle appannate note delle sue vicende.
E la documentazione da me esaminata è solo una minima parte di quanto è disponibile presso gli archivi: da quelli parrocchiali a quelli agrigentini, per non parlare di quelli di Palermo o di Roma o di Torino o di quanto trovasi su Racalmuto in Spagna, a Barcellona o a Simancas o a Madrid e persino a Vienna.
Racalmuto, la patria di Sciascia, potrebbe essere davvero un laboratorio di ricerca storica; potrebbero attuarsi iniziative culturali per approcci originali e mirati verso nuove forme di microstoria. Con positivi riflessi sull’occupazione giovanile locale.
Non sappiamo se siamo riusciti a superare le secche dell’eruditismo municipale. Abbiamo, comunque, tentato di abbozzare un contesto storico in cui Racalmuto è studiato per quelli che ci sembrano i suoi connotati: una terra baronale con gli alti e bassi della sua popolazione, con le sue “tande” da ripartire, con le traversie della famiglia del Carretto che si riverberavano sui paesani, con le pretese della curia vescovile che sovrastava sul clero locale e debordava nell’assetto civile, con il sorgere e l’affermarsi di confraternite laiche, con l’invadente  ruolo conventuale di francescani e carmelitani, con i rapporti tra il feudo maggiore e quelli minori contermini di Gibillini, Bigini, Gructi e Cometi, con l’assetto della proprietà terriera, con gli oneri dominicali del conte sulle case e sulle terre, con il terraggio ed il terraggiolo, con la tematica della finanza locale.
Quattro quartieri: Santa Margaritella, S. Giuliano, Fontana e Monte, con al centro la gloriosa chiesetta di Santa Rosalia, quadripartivano l’abitato comitale, come moderne circoscrizioni. Funzionari di quartieri con i loro cognomi ancor oggi presenti a Racalmuto censivano, vigilavano, tassavano. I preti - allora - collaboravano, anche nello stanare evasori e falsi “miserabili”. La faccenda fiscale era allora, come oggi, faccenda seria, ficcante, perturbativa. Era una faccenda fiscale quadripartita: tasse per il barone prima e conte poi per i suoi diritti “dominicali”; “tande” per l’estranea e sfruttatrice Spagna; imposte comunali e, poi, tasse - e tante - di natura religiosa.
Queste ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie) ai “diritti di quarta”  della Curia vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.


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Il lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese, senza distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici; quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma alla Matrice di Racalmuto, no.  Solo una mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello che attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d. Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a ben guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana  il 24 aprile 1879. ([26])

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Quando il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana  - si mise a scrivere improvvisandosi storico locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e che a Racalmuto, se vi mise mai piede,  ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali, limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano. In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo del Carretto - che secondo l’insinuazione di Sciascia fu fatto trucidare dal monaco – il conte era poco più che tredicenne.
Non fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo “grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre nefandezze che sono l’humus storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore. Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel 1650 - e Dorotea (e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si conosce bene il cognome. Era, costei,  una Ventimiglia.
(E tanto grazie a recenti scoperte d’archivio. Siffatte carte ci forniscono anche notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi domini racalmutesi con diploma emesso nel  Cenobio di S. Lorenzo il   28 ottobre 1654).

Anche il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e storicizzò una leggenda di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui - i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea Petrina Saguna:
12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA sposa  SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA. Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:  Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo

Superfluo aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.

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Se poi consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia: Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).  
E dire che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di detto sacerdote  - atto transattivo che si conserva in Matrice -  per fugare tali infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo, sino al primo ventennio dell’Ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi dell’altro ieri.

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Mi rincresce davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro compaesano sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il grande scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono dati sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di suo nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).

  1690 circa  -   SCIASCIA             LEONARDO M.°
  29.9.1726   -  SCIASCIA          GIOVANNI M.°
  7.1.1754                   -  SCIASCIA    LEONARDO M.°
  24.2.1802                 -  SCIASCIA    CALOGERO
  26.8.1810                 -  SCIASCIA    PASCALIS
  25.10.1884 -  SCIASCIA              LEONARDO
  27.3.1920                  -  SCIASCIA   PASQUALE
  8.1.1921   -    SCIASCIA            LEONARDO

Sciascia è racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi dell’Ottocento” come amò credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente avversione locale verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia ama inventarsi un bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal Naduri - cito Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è venuto a Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che era stato, a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure commerciandole”. Non so dove abbia appreso  queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso Sciascia.
L’invocato “nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla “maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo), apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina Vincenza Quagliato.
“Lapsus della memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può neppure affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse riferirsi al “nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo Sciascia.  Invero, anche costui era racalmutese, figlio di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia, professore universitario, di cui parla il Tinebra ed a cui  lo stesso Leonardo Sciascia teneva particolarmente.
Mi si perdoni questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il «'lapsus' della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante occorso - o cui il grande scrittore amò indulgere - per esigenze dell'intelligenza ai fini di uno dei suoi raffinati aforismi. Se voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono 'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o «un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so se borgesianamente o esistenzialisticamente.

Racalmuto non ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra' sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia convinzione.
Non pretendo certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del grande Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria di quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag. 54 ), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene atto a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore racalmutese.
La storia di Racalmuto va integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti, completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia. Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile, frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocri) famiglie, sindaci e podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papi neri, di santi e di venute miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare tra i miasmi dei calcaroni solfiferi o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del 1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato, acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletora di uomini illustri (oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi  ma quei bambini non potevano scrutare ciò che sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro ‘sguardo’ si avvale di ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di  una rivisitazione della storia (o microstoria, che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.



BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA

Il nostro interesse per la storia di Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad limina” dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([27]). Le ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta, riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale lettore.

La primordiale presenza umana potrebbe venire  attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([28]). Ma sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel 1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì, altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C., sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo, successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e peculiare archeologia racalmutese.
Casuali rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.L’iscrizione latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.),  come si avventò a dire il Salinas.
Per Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno snodarsi “con maggiore continuità”.
La pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani, quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi, tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua greca? Noi pensiamo di no.
Pochi, di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’ (romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella ‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo - per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico su cui, in modo mascherato e subdolo, si radicano le leggi della economia.
Così poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum (i cristiani) ignoravano. Dai rum, l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da noi,  introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([29]). I secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba sull’intero altipiano di  Racalmuto.
Un documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese, diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per quanto buia  sia la pagina araba racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo “Lexicon topographicum siculum”  rivestiva purtroppo di patina scientifica la funerea etimologia di paese “diruto, morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene difficile  per chicchessia procedere ora alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...]  a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud, pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Racalmuto!».
Con la sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale. E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([30]) Per il grande arabista, infatti, il paese: «deriva dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta, casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte “Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia, almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un passo avanti.
Dipanata in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio del 1087),  oppure si collega alla signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra fu un cronista normanno dell’XI secolo.  Il manoscritto malaterrano che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu  pubblicato a Saragozza nel 1578. Del manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne serve e riduce in Rahl il Racel che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum, Missar, Guastaliella, Sutera, Racel .., Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa “Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio Racalmuto. Ma il  limite di mera congettura, resta.
Incrostano le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal 1108.
L’Assessorato Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39  del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo” si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato ed è quindi impossibile accertare la correttezza del richiamo letterario. Noi crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento, in arabo chiamata Raqqâdah (Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri in qualche modo. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo. L’arcidiacono  Bertrando Du Mazel, che ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato (appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia)  che appaiono sparse nei dintorni della fortezza, denominata  “lu Cannuni”.
L’altro falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il periodo che va dal 1092  al 1282. Si suol dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando. Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato  suscettibile di imposizione.
Entriamo, ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal Federico Musca.  Questi tradisce al tempo di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La signoria di codesto personaggio della corte napoletana durò però poco e, nel corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un contributo di uomini in armi.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal  p. Angelo di Montecaveoso,  e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica, insieme civile e religiosa, è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
 Allora Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel. Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le 'mediocri', 3 per le agiate  e cioè 'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([31]). Il 29 marzo del 1375, il pio  collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il 'sussidio' e scioglieva l'interdetto  ([32]). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale  lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al  48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.         
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata  sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi. 
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.                             
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero. Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296. 
Per avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili, possiamo  calcolare in meno di 150 gli abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per opportunismo, si sono mimetizzati assumendo cognomi del tutto latineggianti. Lo stesso dovette  verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della regina Isabella nel 1492 ([33]) o sparirono del  tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.                                     
Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né galantuomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo volatizzati: alcuni loro eredi  prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì. 
Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi.
Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia  proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è nelle sue più antiche fonti,  difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.
Quel che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il delegato  del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. ... e pertanto per l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre  benignità [ ... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente  la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore, VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »
 Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina solo dagli intrighi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente  Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492.
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ebreo facoltoso, dedito certamente all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio Raffa  di recarsi  a  Racalmuto per punire coloro che  uccisero  il  giudeo Sadia  di  Palermo, e di pubblicare un bando a  Girgenti  per  la protezione di quei giudei.»
Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.
La tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento
Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968,  Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa far pensare ad un santuario miracoloso. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.

Poco più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto ebbero  a dispiegare su Racalmuto: dalla prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona, il giovane   - che il Villabianca colloca nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio  1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna, invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto (dal  1307, data del matrimonio tra Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto, sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il  Crescenzi, il  Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro  avevano mostrato interesse alle vicende dei Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San Martino-Spucches.
Ebbe di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.
Da ultimi ci siamo industriati per recuperare alla memoria eventi certi del casato dei Del Carretto. Dall’8 aprile 1993  è iniziata l’opera di sandaglio degli archivi di stato di Palermo e la nostra fatica ci pare premiata dal rinvenimento di molteplici diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida  luce sulla storia dei Del Carretto e forse ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni, condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono  invece ricollegabili a figure tipiche del grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.
Il diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto. Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28 settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz, pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.
Nell’Ottocento, ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature impietose.
Il Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra, contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche - contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco storico.


GLI   EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
Miocene [34]
(c.a. 25 milioni di anni fa)

Una sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans) si spande sull’intero altipiano di Racalmuto; per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni solfifere racalmutesi.
Pliocene[35]
(c.a. 7 milioni di anno fa)
Si concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies  del territorio di Racalmuto.
XXX millenio a. C.
Se qualche homo sapiens sapiens (del tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore dimora della grotta di Fra Diego.
II millenio a. C.
I sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano, come attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate dal Castelluccio sino a Sud, nei pressi della Stazione ferroviaria di Castrofilippo.
XIII a. C.
Decade la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe. 
581 a. C.
I Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito alla colonizzazione ellena.
Secc. V, IV e III a. C.
La presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
210 a.c.
Sotto il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto ne segue le sorti.
70 a.c.
Cicerone fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo che vengono  riscosse le decime sul grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
180 d.C.
Un contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.
Sino al IV sec.  d.C.
Ferve un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio.

Dopo il IV sec. d.C.
Uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.

V e VI sec. d. C.
Scarse sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale storia della Sicilia.  Se l’Isola fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia  e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).


Fine del VI sec.
A Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
829
Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.

1087
Chamuth fu l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna. Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si può anche ipotizzare  che a Racalmuto vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluc­cio, vuoi  'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette -  era sotto il domi­nio di Chamuth.
Secolo XI
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna. Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio dell’islamica sudditanza, durata quasi  due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al cristanesimo.

Sino al 1271
I saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200. Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva  con spirito predatorio nel regno che gli era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la ‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375 abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante per liberarsi dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’ distruttrice di uomini e cose.




CENNI GEOLOGICI
Nel succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra “geologicamente recente”([36]). Ed anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno formativo dell’isola. In un primo momento,  “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia dovuta al Trevisan ([37]) Racalmuto si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno Pliocene.
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([38]) - i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese. 
4) una formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completa la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»

Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo» ([39]). Secondo tale affascinante teoria,  le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque, a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica premonizione.

LA  PREISTORIA

Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e l'altro,  in cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([40])
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso  si effigiano uomini e dei ([41]). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Il secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C.  Le pertinenti solite tombe a forno vennero scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([42]) I reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono del tutto disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle ferrovie ([43]). Apprendiamo, così, che «le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([44]) Si ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia; abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.  [...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([45]) Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una “coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”, di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un corno”.  Non è questa le sede per riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([46]) - conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione, con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo avanzarsi ipotesi: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio, alla “Turri” sopra il ponte di Gianfilippo,  al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani, risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([47]) Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.



VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo per le considerazioni fatte in esordio. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe  del tipo a forno » ([48]).
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono  a sormontare gli sconvolgimenti epocali dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare, l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti dal mare, i Sicani di Racalmuto pare preferiscano ritirarsi entro le più sicure zone montagnose di Milena.
Successivamente, quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,  si insediarono nella valle agrigentina,  per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico dissolversi.
I moderni storici  si accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con  nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile) ritorno in patria.  I rodiesi ed i cretesi  di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono la città akragantina. Allora il nostro altipiano cessò di essere libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una devastante denominazione ellena. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi reperti numismatici con la  riconoscibile effigie del granchio akragantino  non attestano  solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali valloni  siti a tramontana. E divennero pastori randagi e rudi, feroci e violenti ma liberi, anarchici e  misantropi,  ritrosi ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e  ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.


IL PERIODO GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci di quel periodo.
Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro territorio sono i soli indici della loro presenza.
E' certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta che avventurarci in malcerti arzigogolamenti.
Nella campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet'  (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta)  l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e dintorni:  la località è dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel  451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non riguardò  queste nostre contrade: per quei tempi, S. Cataldo era a distanza ragguardevole: quei nostri antenati dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da quella della fine del secolo XIX.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti significativi, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della lontana Grecia.  Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
 A Racalmuto, sulla cui economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile all'alta poesia.: «certo per i mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze greche.
Sfiora la  locale società contadina la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro Siculo.  La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita.  Non sapremo però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi, ma attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride. Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono.  E' comunque un ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi. Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta sonante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre il Tinebra Martorana  ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione  o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi,  ....  si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa, resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto sopra.


LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di  breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa. Akragas  ed il suo territorio -  ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di Cartagine e  vi restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire  espansionistiche della repubblica romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati:  25.000 dei suoi abitanti furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati nella vicina polis; distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del secolo, Akragas  e la vicina Eraclea Minoa  appaiono saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura; invento speculo, naves romanas incendit; eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma  fa il suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.



IL PERIODO ROMANO

Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia  al suo secolare sfruttamento agricolo da parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quella estensione avviene con  la  lex Rupilia del 132. E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per la città ora già caput mundi.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna  agli inizi del secolo scorso furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire nelle voragini degli zubbi del Loggiato per il timore di espropri o molestie da parte delle autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato  da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237  il principe archeologo c'informa che l'anfora fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel cui manico [«in manubrio diotae fictilis erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:

C* PP. ILI* F* FUSCI
      RMUS. FEC.

Il  Mommsen diede credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quella epigrafe nei suoi ponderosi volumi  (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola del riferimento alla diota  ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente nella prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale  ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn. Pedanius Fuscus Salinator e via di seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età,  come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di Augusto,  ma di miniere racalmutesi non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., pare sotto Comodo, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il primo ad averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei Monumenti di Girgenti  ed il Ministero, che risale al 3 novembre del 1877. Con stile buroctratico si segna come “oggetto”: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un alto dirigente, il dott. Donati, interpella il Picone in termini vaghi quanto insolenti:

Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con ricordi di prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.

L’avvocato agrigentino risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) e fornisce informazioni di grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei Romani:
« Furono or sono pochi anni scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge (totalmente a rovescio, n.d.r.) :

MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL

Messa questa in rapporto alle altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea

EX. OF. (ex officina)

come si rileva in talune, ove si legge Ex officina Gellii ec. ec.

Dallo stile uniforme e dalla paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più dotte illustrazioni che io non saprei. ([49]


Il Mommsen fu poco corretto con il Picone: pubblica  - unitamente al Desseau  - i dati epigrafici nei  volumi del C.I.L. ([50])  ma si guarda bene dal ricompensare, neppure con un semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La Mantia all'avv. Giuseppe Picone di Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio del XX secolo, il SALINAS aveva modo di venire in possesso proprio a Racalmuto di alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute, presumibilmente  nei dintorni di Santa Maria dato che doveva servirsene per la costruzione di un sepolcro
 Quell'insigne archeologo procedeva ad un'analisi storica molto erudita, ma deviante, che pubblicava sul  bollettino dell'Accademia dei Lincei ([51]) Altre «tegulae» sono state trovate nel 1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([52]), si trattava di un deposito di cocci di una figlina (officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la produzione era altrove ed in  particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte in  quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([53]).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che sembra riguardino un’attività che partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data del  22 ottobre 1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob  ruinam salis repentinam, defunctus est»,  è la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri perdeva, dunque, la vita nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.



I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO ROMANO (Secc. II-IV d.c.)

Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi datare nel IV secolo d.C. ([54]). In epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto sarcofago del Ratto di Proserpina ([55]). Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta ancor valido l’appunto della Guida  del T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è detto relativamente a Racalmuto ([56]) - fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e quella della tegula studiata dal Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta (a dire il vero, però, trattasi di materiale ceramico databile ad epoca proto-normanna). In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento delo zolfo. Si attaglia molto bene anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota in una relazione pubblicata in Kokalos. Scrive l’insigne archeologo: «Accanto a famiglie di personaggi politici di rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche tegulae sulfuris. Questo periodo di ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei [...] La produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi, subentra] il silenzio dei documenti». ([57]) Sempre secondo il De Miro, la tegula rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo, data la formula Ex praedis M. AURELI ([58]).
I dati archeologici consentono di abbozzare alcune linee evolutive dell’economia estrattiva racalmutese  di quel periodo. Nei primi decenni del secondo secolo d. C., il territorio a nord di Racalmuto si presta ad uno sfruttamento solfifero. «Per quanto riguarda la produzione - annota il De Miro ([59]) - pur essendo nulla rimasto  delle antiche miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio Pace  aveva indicato come non dovesse differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che, «distinguendo tra proprietà del fundus e attività mineraria, affida la gestione della miniera e la produzione a “officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale figura, in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e in posizione subordinata [..], quella del conductor della miniera.» Successivamente appare «una nuova figura, il manceps, figura che assume sempre maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione dell’imperatore. [..] Il manceps tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo, indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes. [...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignora lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([60])
In tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là dove, poi,  per secoli è rimasto. I resti di tegulae, rinvenuti presso S. Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.


I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA

Tinebra Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Ma di questo sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire frettolosamente quello che affiora per caso.
Nei pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([61]), ma non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie appena sufficienti, specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche, sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di Racalmuto poterono far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non reggono al vaglio critico.
Traslando alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C. le scarse conoscenze che si hanno per quel periodo in tema della più generale storia della Sicilia, emergono scarsissimi lumi, qualche indizio e indicazioni di troppo generica portata.
Se nel 439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo difficilmente poteva colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino  - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se crediamo a Sidonio Apollinare [62], Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e qui, a Racalmuto, a parte il lontano sbandamento che le scorrerie di Genserico e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, dovettero esservi condizioni per regolari raccolti granari e normali vendemmie, atti a consentire alla rada popolazione un apprezzabile benessere.
I Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della Sicilia  e la soggiogano sino all’anno in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità sinora del tutto ignote.
La Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo dell’insediamento berbero).


IL TEMPO DEI BIZANTINI

Attorno al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là dei divieti codificati dalle autorità a difesa di una asserita rilevanza archeologia, in tale contrada nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E dire che le ricerche dei privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa pensare che il tesoretto fu nell’antichità nascosto in zona disabitata per comprensibile cautela. Il centro abitativo era discosto, ad un paio di chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini racalmutesi, ormai decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a beneficio pare di un giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio archeologico d’incommensurabile portata storica.  Ma la zona resta pur sempre archeologicamente ricca e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel periodo di storia racalmutese, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([63])  retrocede la datazione dellle monete al V secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)
A seguito della scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale, costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a comprovare un più o meno vasto insediamento abitativo in quella zona a partire da un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi della caduta dell’impero romano.
Biagio Pace, invero, accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa postulare il nome di Racalmuto»  ([64]) Nostre personali ricerche ci portano a ritenere che l’importante notizia poggia su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati nel masso con resti di ossa». Da qui  - per esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque essere fattorie  o pertinenze di 'massae'  soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure costituire beni propri della corte di Bisanzio.  Sulla scia di autorevoli storici  ([65]) è pur congetturabile una sorta di continuità  tra l'assetto agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura saracena  a Racalmuto, come altrove, fu profonda ma non invalicabile.
Ma l'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento il cennato ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto,  ho sentito varie versioni pittoresche sin dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([66]), secondo il quale è da collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ... dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio  II - Héracleonas».. ([67])  Quelle monete sono oggi custodite in una sala sempre chiusa del  Museo Agrigento,  quasi a simbolo del pubblico oscuramento della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou, le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o inficiate da errori di datazione ([68]).


RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO

Caduta Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
Che cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi altrove. Nessun reperto attesta il sopravvivere in questa zona della comunità bizantina, dopo il consolidarsi del dominio arabo. E se diamo credito alla toponomastica, una località chiamata Saracino è segnata nelle mappe catastali al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio - ospitante l’antico villaggio greco - vi è indicata coi nn. 47-48, a testimonianza della non stretta contiguità dei due luoghi d’insediamento.
E che può dirsi della religione? E’ opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi di credere quel che vogliamo e propendere verso tesi di eclissi della religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto islamico tra l’Est del Castelluccio ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna. Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([69]) per non propendere per questa seconda tesi. Pianse costui con accenti che trafiggono ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:

«Ho   il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale, fastidiosa.
«Che? Non l'hanno macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in chiese,
«dove i frati picchiano a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi che foste propugnacolo contro popoli possenti.»
 «Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le tenebre.
«Passeggiano nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di incontrarvi quei pugnaci leoni.»

Consolidatasi la conquista araba, a Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato il periodo eroico del gihàd ed il rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative. La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La restante popolazione era costituita da dhimmi, ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un tributo annuo fisso, avevano salva la vita  e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.

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