Industria, l’Italia resta la settima potenza mondiale
5/34
L’Italia resta al settimo posto nella classifica dei paesi più industrializzati del mondo, in Europa è seconda dietro alla Germania (la top ten completa: Cina, Usa, Giappone, Germania, Corea del Sud, India, Italia, Francia, Gran Bretagna e Messico). Il rapporto Scenari Industriali 2017 di Confindustria conferma che l’industria italiana, dovendo rispondere a un mercato interno in contrazione, ha imboccato la strada dell’internazionalizzazione: dal 2010 ad oggi l’export è aumentato del 3,2% medio annuo, un ritmo appena inferiore a quello tedesco (cresciuto del 3,3%).
Il segnale è buono, ma il dato da solo non è sufficiente per compensare i limiti strutturali del sistema Italia. Per esempio quello del costo del lavoro, che negli ultimi dieci anni è cresciuto del 15,2% (contro un calo del 3,1 in Spagna, una crescita del 7,5% in Francia e del 10,8 in Germania. Questo dato aiuta a capire perché, nel decennio (2007-2016) il manifatturiero ha perso 800 mila posti di lavoro e sta recuperando a ritmi da lumaca. La svolta è cominciata nel 2015: da allora è cresciuto (molto) il monte ore lavorate (+5,2%), soprattutto a fronte dell’allungamento degli orari ed è cresciuta (poco) l’occupazione, che oggi conta appena 60 mila addetti più di due anni fa.
Non c’è da meravigliarsi se la crescita - anche questo indicatore è in recupero - resta stentata. Nel secondo trimestre 2017 il Pil è rimasto inferiore (dell’1,8%) ai livelli del secondo trimestre 2011 (preso a paragone perché è il picco precedente) e del 6,4% rispetto al primo trimestre 2008 (il massimo raggiunto prima della crisi). Questi numeri, spiega Confindustria, significano che di questo passo il recupero della crisi sarà raggiunto nel 2021.
Il segnale è buono, ma il dato da solo non è sufficiente per compensare i limiti strutturali del sistema Italia. Per esempio quello del costo del lavoro, che negli ultimi dieci anni è cresciuto del 15,2% (contro un calo del 3,1 in Spagna, una crescita del 7,5% in Francia e del 10,8 in Germania. Questo dato aiuta a capire perché, nel decennio (2007-2016) il manifatturiero ha perso 800 mila posti di lavoro e sta recuperando a ritmi da lumaca. La svolta è cominciata nel 2015: da allora è cresciuto (molto) il monte ore lavorate (+5,2%), soprattutto a fronte dell’allungamento degli orari ed è cresciuta (poco) l’occupazione, che oggi conta appena 60 mila addetti più di due anni fa.
Non c’è da meravigliarsi se la crescita - anche questo indicatore è in recupero - resta stentata. Nel secondo trimestre 2017 il Pil è rimasto inferiore (dell’1,8%) ai livelli del secondo trimestre 2011 (preso a paragone perché è il picco precedente) e del 6,4% rispetto al primo trimestre 2008 (il massimo raggiunto prima della crisi). Questi numeri, spiega Confindustria, significano che di questo passo il recupero della crisi sarà raggiunto nel 2021.
Nell’immediato gli industriali italiani puntano il dito sul credito: «Nel 2017 resta molto depresso - si legge nel rapporto -: nel manifatturiero è cresciuto dello 0,2% in sette mesi, meglio di altri settori». Però «a causa del calo nella fase precedente lo stock resta inferiore del 19% nel manifatturiero rispetto ai massimi del 2011». All’appello mancano 45 miliardi, più del doppio del valore della manovra di finanza pubblica al vaglio del Parlamento in queste settimane.
Il problema non è di poco conto, perché da solo l’export non basta: lo sviluppo dei «mercati alternativi resta tuttora contenuto, nonostante gli indubbi recenti progressi» con il risultato che «la risalita economica è stata finanziata finora in gran parte dal recupero della redditività delle imprese e quindi dall’autofinanziamento». Non bisogna trascurare il rischio che i margini dell’industria vengano erosi da un rialzo dei prezzi delle materie prime: «È cruciale - conclude Confindustria - che avvenga finalmente la ripartenza del credito bancario alle imprese per rendere durevole il rilancio produttivo».
ALTRO SU MSN:
Nessun commento:
Posta un commento