la donna del Mossad IIparte
Dopo Asti, il dottore Aurelio La Matina
Calello imboccò una prestigiosa stagione ispettiva; pur con grado gramo fu
capo-missione in quasi tutte le quattro o cinque ispezioni punitive permessesi
dalla Banca Centrale. A volere il Calello era lo scorbutico vice direttore
generale dell’epoca, gran massone ma puritano, inflessibile, napoletano e
calvinista. L’apprezzamento per il giovane ispettore derivava dal fatto che non
si era lasciato infinocchiare in una verifica ad una banca di Terzigno, decotta
ed ammanigliatissima.
Non aveva conclusa l’ispezione ad Asti il
dottore La Matina: sul finire era stato incluso in un viaggio-premio
nell’allora misteriosa Unione Sovietica. Di là degli steccati ideologici, le
banche centrali dialogavano fraternamente fra di loro, anche quella sovietica.
Dall’Italia partì uno stuolo di giovani e rampanti dirigenti. Da Via Nazionale
a Mosca. Da poco introdotta la centrale dei rischi, sembrava un miracolo di
efficienza bancaria. Cicciu Ciciru, volle interrogare il funzionario bancario
russo dai ponti metallici sgangheratamente in risalto tra intartarati denti
propri. «Avete anche voi la centrale dei rischi?» Il funzionario non capì ma
con orientale furbizia aggirò brillantemente l’ostacolo. I colleghi di Ciccio
ne trassero altri spunti per la usuale derisione del Ciciro.
Al ritorno dalla Russia, trovò il capo
missione malconcio a Roma, in via dell’Acqua Bullicante, a casa sua, oltremodo
gessato, il suo giovane collega. Andati a gozzovigliare a Cocconato, dopo
abbondanti libagioni (carne cruda e barolo, insomma, ed altro), rimessisi in
viaggio per il mero rito dei lavori ispettivi del pomeriggio, si addormentarono
sulla pur robusta vettura “Lancia”, sbatterono contro un piliere sul ciglio
della strada. Medicatosi appena, il capo raccolse le carte e tornò a Roma.
L’ispezione fu chiusa. Ma non v’era “FAI” decente, i fogli di analisi ispettivi
avevano sì e no i dati del Mod. 81 Vig. Un disastro. La questura tentò di
indagare sull’incidente. Il direttore generale ricambiò la cortesia ed il caso
fu archiviato, senza denunce alle superiori autorità (la magistratura penale).
Irridevano quelle tre o quattro paginette
di “penna d’oro”. Eppure “Penna d’oro” non volle o seppe vendicarsi:
prese il FAI e vi scrisse sopra, a lungo, doviziosamente, pungentemente. Ne
trasse un ponderoso “rapporto”. Il capo firmò felice e sollevato. Non pensava
che “Penna d’oro” potesse avere tanta proficua fantasia. Quel rapporto passò in
Vigilanza come un modello da imitare. La vicenda dell’intreccio di assegni a
vuoto e la sottesa grande speculazione edilizia dell’ex federale e del
sussiegoso piemontese finì eclissata.
Dopo Asti, un paio di pause di
riflessione: in subordine a Fabriano e Morciano in ispezioni di poco conto. Poi
gli scottanti incarichi che un qualche strascico nella storia dei crack bancari
del dopoguerra l’hanno avuto. Si pensi: echi persino in parlamento ed a S.
Macuto. Sono vicende su cui forse dovrò tornare, al momento vediamo di svelare
il mistero della morte del mio ormai diletto Aurelio. Già, quasi dimenticavo di
dirvi che il povero Aurelio defunse per cianuro, ma un cianuro strano, non in
commercio: pare posseduto solo dai maldestri servizi segreti iracheni.
Impressionante: anche Diodona, il banchiere del crack su cui indagò il mio
ispettore della Banca d’Italia, cessò di vivere alla Pitrusa con l’identico
strano ‘cianuro’. Non pensate a Pisciotta: non c’entra.
Per Diodona si parlò di suicidio: ma
nessuno ormai ci crede, come per Sindona, come per Calvi, come per altri
banchieri, finanzieri …. di moda ora parlare di “faccendieri”, come se poi vi
fosse davvero differenza.
Sia fatta la volontà di Dio: affrontiamo
codesto nodo gordiano. Il rag. Giorgio Diodona era nativo di Barcellona Pozzo
di Gotto, tra Palermo e Messina ossia nell’entroterra della provincia della
città del faro. E non finiscono qui le somiglianze con l’altro celeberrimo
banchiere, l’avvocato Sindona. Anche Giorgio Diodona si trasferì piuttosto
giovane a Milano e riuscì a far fortuna nel mondo delle banche. V’era pur
sempre quel Virgillitto che tra un diadema per la Madonna e qualche brillante
per le madonne dei suoi amici politici determinò il salto di qualità degli
affari di Cosa Nostra d’oltreoceano o dimorante di qua dello stretto. Navigò
con gli inglesi. Amò gli svizzeri. Seppe delle isole Cayman. Non capì gli
americani ma facendo grossi affari con loro credette di coglionarli. Ne fu
coglionato. Con i russi, affari d’oro con la pesca le armi ed il grano
americano. Col Vaticano, preghiere indulgenze opere pie denaro … e sesso per i
vogliosi arcivescovi e si disse anche per qualche cardinale. Con il papa … Dio
ne scansi e liberi … si sghignazzò di un giovanetto molto bello ed aggraziato …
tanto femmineo, fu celebre latin lover del cinema italiano.
Non mi va di proseguire: svilirei i fatti del mio giallo.
Col caso Sindona vi fu un’impressionante
sinergia. Furono due crack alla carta carbone, una sorta di clonazione
anzitempo ed extra moenia. Nel mondo dell’alta finanza può
succedere, ogni umana fantasia è impari. Lo disse anche De Martino a S. Marcuto
e lui fu sommo maestro, anche di storia del diritto romano. Presiedette
indagini parlamentari bancarie, pur ignaro di partite doppie, accrediti, spot,
swap, forward, outright, borsa, mercato parallelo, redditività,
patrimonializzazione dei conti d’ordine, conti bilanciati, gergo dei
ragionieri, quello degli agenti di cambio, quello borsistico.
Va ribadito qui con robusto tono che il
dottor Aurelio La Matina Calello nulla ebbe a che fare con il caso Sindona: le
sue incombenze, i suoi accertamenti, le sue allucinazioni, i suoi successi, il
suo valore e la sua morte riguardano l’analogo e quasi coevo caso Diodona. Se
qualcuno continuerà a confondere, io non ne rispondo. Non mi si potrà
querelare. Distinzione .. distinzione, sia chiaro!
Il pasticcio della confusione s’origina
forse dal fatto che, beffardo ed ironico, il dottore Aurelio La Matina Calello,
sicuramente per invidia, si intromise negli sviluppi del crack Sindona prima
aizzando Lotta Continua nel semestre finale del 1979 e poi cooperando – una
cooperazione quasi integrale, tota ed ampla – nella stesura
del pamphlet anonimo “Goodwill” a firma di un improbabile Colbert.
Detto fra noi, è scritta quasi tutta di
suo pugno, di Aurelio cioè, la parte da pag. 37 a pag. 187. Le pagine di
‘premessa’, e quelle dell’«antefatto», e poi quelle sugli artefici del sacco
immobiliare di Roma sono rimasticature della truculenta letteratura
giornalistica di quei giorni, un giornalismo ruffiano, pronto a traghettare
sulla palude dell’incombente compromesso storico di Berlinguer. Scritte
benissimo quelle pagine spurie – e non originali – risentono della bravura di un
editorialista sommo come Dellacipolla, di un mistico come ci appare l’eterno ed
immacolato parlamentare Beato Minutolo e di un ignoto – ai più – “alto
esponente del mondo bancario”, abile e pungente, rimasto indisturbato dentro
quel mondo, sino ai nostri dì.
Tutti pensano che il caso Sindona narrato
in quel libro abbia travolto come ispettore il nostro Aurelio. Errore. Ma che
vi abbia messo la mano sua beffarda ed ingannatrice è evidente sin dalle (sue)
prime pagine. Leggiamole insieme.
«Racalmuto è il paese di Sciascia, ma –
diversamente da come lo scrittore ama presentarlo – non è avvolto da nessun
velo di onirica malinconia; umidiccio, con case disfatte intonacate di bianco,
esso è disseminato lungo un declivio che si sperde tra calanchi e fiancate di
colli minerari.
«A Michele Sindona questo squallido
scenario apparve, improvvisamente, all’uscita di un’ennesima curva davanti al
muso del suo traballante “dodge”.
«Proveniva da Patti. Affari arditi
spingevano il giovane nell’entroterra agrigentino: approvvigionarsi di frumento
in tempi di proibizionismo granario, compiacente il governo militare alleato,
l’Amgot, per poi rivenderlo, a prezzi lucrosi, alla stessa Amgot. Era il 1944.
«Se nella vita dei santi, i segni
precorritori si colgono in tenera età, i segni precoci della valentia
affaristica del futuro finanziere si hanno evidenti ed avvincenti fino dalla
prima giovinezza. Giunto a Racalmuto, Sindona aveva un personaggio preciso da
incontrare: Baldassare Tinebra. Costui era sindaco imposto nel 1943 dalle
truppe americane, su segnalazione di don Calogero Vizzini.
«Don Calogero Vizzini, di Villalba,
accreditato – fino dal fascismo – come capo carismatico della mafia, ebbe a
ritirarsi a Racalmuto, dopo il 1926. Si associò al Tinebra nella gestione della
miniera di zolfo, la “Gibillini”, al confine con Montedoro, il luogo natale
dell’onorevole Calogero Volpe, altro rispettato “notabile”. Labbro enfiato e
pendulo, sempre seduto al sole con neghittosità e trascuratezza, don Calogero
Vizzini s’industriava ad apparire insignificante – almeno agli occhi dei
racalmutesi.
«In realtà, don Calò godeva di molta
considerazione negli ambienti italo-americani tanto da essere prescelto come interlocutore
privilegiato, i primi giorni del luglio ’43, quando le truppe alleate
iniziarono la loro conquista rapida ed indolore della Sicilia.,
«Dimostrazione affettuosa fu quella
elargita al vecchio socio d’affari, il Tinebra. Il quale, grassoccio, piccolo e
volgaruccio di parola, fu il primo sindaco di Racalmuto, scacciato il
predecessore dell’epoca fascista che medievalmente s’indicava come “podestà”.
«Baldassare Tinebra – insediatosi al
Comune – un compito lo svolse bene: quello di dare protezione agli affaristi
locali e no, che commerciavano al mercato “nero” della principale risorsa del
paese, il grano. Protezione non del tutto disinteressata, a dire dei malevoli.
Vi fu atto di corruzione da parte del Sindona nei confronti del neo-sindaco
degli “alleati”? Non può più chiedersi ad alcuno. Sindona è oggi esule negli
Stati Uniti [eravamo nel gennaio del 1980, ndr.]. Il Tinebra è finito morto
ammazzato, un anno dopo la vicenda che si narra [o forse pochi mesi,
ndr], in pieno centro, fra la gente. Ne fu incolpato un tipo del paese,
conosciuto con la”’ngiuria” (nomignolo) di “Centeddeci”. Indiziariamente, fu
condannato. Il figlio lavorava presso la miniera “Gibillini” [pare però che
solo vi cercasse lavoro, ndr,] che sappiamo essere stata di Tinebra e
Vizzini. Cercò di far luce sul delitto, convinto dell’innocenza del padre. Finì
in un forno “Gill”, liquefatto tra lo zolfo. “Disgrazia grande fu” – si disse
in paese.»
Non possono negarsi efficacia e sintesi. Aurelio non fu scrittore ma cercò
di esserlo. Or non è molto, è uscito un libretto di un giovane narratore che
riesuma quella vicenda, senza, però, la suggestiva venuta di Sindona.
S’intitola: «Il silenzio dei congiurati». Ho dovuto prefazionarlo. Non so se mi
è piaciuto o no. Ho scritto: «queste sono le cose che ho notato e che mi sono
molto piaciute in quella che è la progettazione del romanzo.» Poiché
voler narrare non significa saper narrare, retoricamente mi sono domandato se
il giovane fosse riuscito nell’intento. Non sapendo che rispondere, me la son
cavata da gesuita smaliziato: «”amicu miu ora ti cuntu un fatto”». Il
fatto è stato narrato. Come? Ho parlato del mio leggere ad alta voce i “cunti
mia e chiddi di l’antri”.
Sfogliando, tra sbadigli reiterati, in crescendo, giungo a pagina 67: i
caratteri si rimpiccioliscono; c’è da faticare ancor di più. Ora Aurelio ha
voglia di cuntari lu cuntu: ci mette della fantasia, vediamo un
po’. Non comincia con il classico e racalmutese «s’arraccunta e
s’arrapprisenta». No, vuol fare persino lo sceneggiatore: «Interno di un
palazzo umbertino in Roma» Oh! La presunzione dei dilettanti. Smette però
subito: comincia ad essere accattivante.
«vi si aggira una signora di vetusta avvenenza, amante ormai dismessa del
banchiere. Egli è lì, tra fascicoli e bilanci, ieratico e dai toni ironici ma
nel fondo dello sguardo mediterraneamente malinconico. Trilla il telefono: è
Londra. Dagli Hambro viene l’assenso al prestito per l’acquisto della grande
Immobiliare romana, messa in vendita dall’IOR per timore della cedolare.
V’è, dopo, un moto liberatorio ed il banchiere si concede un attimo di
umana effusione.
Spaccato della vita economica e politica romana.
La corsa in via Nazionale per l’incontro nella sala del San Sebastianino
con il governatore della banca centrale. Penombra schizofrenica attorno
al grand-commis della finanza nazionale che ascolta la
versione del banchiere sull’operazione dell’Immobiliare con barbagli di
raggelante distacco.
Poi d’imperio: “L’estero acquisti dal Vaticano ma con holding controllate
dall’Italia: non voglio stranieri in Roma … in mezzo all’edilizia della
capitale.”
“Ho due banche agenti in Milano che son pure abilitate alle operazioni con
l’estero; potranno svolgere il ruolo da lei indicato nel flusso dei capitali
valutari.”
Ciò è demandato alla fantasia dell’imprenditore privato … Il nostro
indirizzo verte su obiettivi globali e nazionali.”
Sillaba a mo’ di maestoso imporre, il governatore; annuisce senza
umiliazione il banchiere.
L’incontro con il primo ministro – che, gobbo, sarcastico, è partecipe
palese della soddisfazione del banchiere – ha toni distesi, amichevoli come un
socio d’affari, sia pure occulto. Dallo studio del ministro, la chiamata
telefonica oltre Tevere. All’IOR quel grosso prete americano ascolta, rintuzza
… quasi tentenna. Ci si vede alla villa dei Castelli. Il banchiere si rivolge
alla bionda amica per agganciare la valletta televisiva, la minorenne quasi
impubere all’acqua e sapone. Del resto è una stipendiata delle sue banche
proprio per curare le relazioni sociali. Tutti alla villa per accogliere il
grosso prete americano.
All’aeroporto arriva, giovanile ma composto, il delfino dell’ebraica
famiglia di banchieri inglesi.
Nell’occiduo chiarore collinare, tra ulivi e merli dal mellifluo richiamo,
il concitato dialogare tra il prete gigante, il gelido inglese ed il banchiere
del sud. Medie delle quotazioni del titolo, “goodwill” dell’azienda,
redditualità, prezzi, pacchetti azionari di controllo, la holding Idera,
Trinico, Liechtenstein o Nassau: il folklore dell’alta finanza, insomma e la
difficoltà a concludere. Si arriva a tarda sera, infruttuosamente. Il rito
della sontuosa cena a lume di candela. Accanto al prete, tanto scorbutico nelle
trattative, è la valletta in audacissimo décolleté. Ora il prete si ammansisce
e diviene persino galante. La valletta sorride con delizia e adesca l’orco
americano. Nelle grandi terrazze della villa, nella camera riservata di lui,
lei abbozza discorsi sull’esistenza di Dio, sulle sue crisi, sulle sue angosce.
E’ notte!
All’indomani l’orco americano – dopo avere celebrato messa nella cappella
gentilizia – è arrendevole negli affari. Viene ceduto il quaranta per cento
dell’Immobiliare al banchiere del sud o meglio alle sue finanziarie estere a
loro volta sovvenzionate dagli Hambro.
Il nostro banchiere chiede ed ottiene dal monsignore dell’IOR
l’amministrazione dei capitali in dollari conseguiti dalla vendita
dell’immobiliare romana. Unica condizione al perfezionamento dell’investimento
ideato è il consenso all’acquisto di una banca americana che il banchiere sta
trattando da tempo. L’amor patrio del monsignore è quasi solleticato e
l’accordo immediatamente siglato.
Le trattative a New York con padrini di riguardo: alcuni consulenti del
presidente degli Stati Uniti alla cui campagna elettorale l’uomo del sud aveva
contribuito con consistenti elargizioni.
E l’iniziativa ha felice esito.
A Milano, nell’attico a ridotto della Scala, il banchiere è al culmine del
suo successo. Giù, telescriventi intrecciano messaggi in inglese con banche di
mezzo mondo: da New York a Tokio, da Londra a Parigi e a Francoforte. Pacchetti
azionari passano di mano, la borsa impazzisce, gli gnomi della finanza
abbondano. Pavidi speculatori soccombono e le loro piccole immobiliari vengono
fagocitate dal finanziere siculo con strascichi giudiziari che compiacenti
giudici riescono ad archiviare. Lui: quasi triste, ormai brizzolato, persino
mistico.
Fabbriche e palazzi si vendono o si addossano scompostamente con vorticoso
giro di cambiali portate allo sconto nelle sue banche. Idee anche bizzarre
quali l’acquisto di brevetti per la costruzione di macchine capaci di
trasformare miscugli alimentari in gelati! Finanziamenti ai colonnelli greci e
poi a quelli (meglio generali di casa nostra). Fondi alla Nova Scotia,
camuffati da intrecci perdenti di outright, per finanziare il Mossad. Intanto
dalla banca americana prestiti in dollari vengono convogliati in Italia e da
qui all’estero per consentire la fuga dei capitali dei nostri industrialotti.
Abile il banchiere nello sfruttare la loro insipienza. Si fa pagare da loro
dollari del mercato nero a lire 750 e poi glieli acquista sotto forma di
finanziamenti di holding estere a lire 650. Il banchiere si espande: compra
banche in Svizzera, in Germania, in Francia e ne inventa a Nassau o a Cayman
Islands o a Panama City. E’ un impero finanziario con stuoli di brokers e
tecnici dal gergo per iniziati (outright; spot; swap; forward rate; time
deposits, stand-by …)
All’EUR, nel solito palazzo a vetri, si susseguono i consigli di
amministrazione dell’Immobiliare il cui capitale sociale passa da 30 a 40 a 60
a 100 a 120 a 160 miliardi. Le azioni inondano la borsa, il “parco buoi”
abbocca. V’è sempre il banchiere con le sue finanziarie a partecipazione estera
a far quotare oltre le lire 1000 le azioni inflazionate da lire 240 di valore
nominale.
Dalle sue banche il sostegno finanziario, sempre più intenso, sempre più
ambiguo, sempre più illecito. Dagli istituti previdenziali depositi alle
banche. Di conseguenza, interessi neri o provvigioni ai dirigenti “politici”
degli enti previdenziali. Il banchiere è munifico; l’onda della corruzione
monta, senza argini, ammaliante, impetuosa.
Nel consiglio di amministrazione dell’Immobiliare siedono i probi
presidenti delle banche pubbliche del sud. Vi siedono perché favoriscono
l’aggiotaggio del banchiere. Dalle sue banche partono depositi fittizi presso
le banche pubbliche che li destinano, sotto forma di riporto, alle finanziarie
del banchiere detentrici del capitale azionario di controllo dell’Immobiliare.
Una baraonda simboleggiata dall’atmosfera orgiastica delle serate distensive
nella villa dei Castelli, dopo le riunioni del consiglio di amministrazione. I
pingui e frustrati burocrati – assurti a strateghi della finanza per voto
democristiano – si divertono chiassosamente, scompostamente con le ragazze
approntate dal banchiere. In controluce, lui, dignitoso, parco, come in
religiosa estasi.»
- Oddio! … Oddio! …. Oddio, ma ecco qui tutto l’arcano, la vita e la
morte, gli affari e gli intrighi, le connivenze ed i rinvii …. Eccetera,
eccetera.. si sussurrava Meluccio Cavalieri di Giorgenti.
Strano, nessun accenno a fatti di mafia. Compiacente il siciliano e
racalmutese Aurelio La Matina Calello. Si sussurrò una volta ma era panzana.
Aurelio odiava la mafia. Nessuno della sua famiglia aveva avuto mai a che fare
con l’onorata società. Ne provava disgusto. La considerava un’accolta di
imbecilli … ed anche sanguinari. Un mafioso artefice di volpini intrecci
affaristici, era idiozia, per Aurelio da sghignazzarci solo sopra. Le vicende
delle banche siciliane di Milano degli anni sessanta, settanta ed ottanta era
un baluginare di accecante intelligenza: altro che un ragliare di mafia.
“Lu sciccareddu” della dirimpettaia “Vecchia Maniera”, ragliando con la
solita simpatica sconcezza, gli rammentò la succulenta e conviviale “mangiata a
la racarmutisa” cui era invitato. Ebbe voglia di chiudere per quel giorno.
Rimise ordine nelle carte del villino di Aurelio a Bovo. Ma ancora una
sorpresa: sulla foderina color senape del carteggio con Melissa Cohen stava
scritto, a matita,:
la donna
del Mossad
in un miscuglio di rosso e di blu che il suo grave daltonismo non
consentiva di miscelare passabilmente.
- E qui un’altra fottuta! Altro che vendetta della mafia per come si ostinò
a pensare sino alla morte la dottoressa Evelina Adelaide Mangoni Mistretta. Se
ci stanno di mezzo i servizi segreti (oddio! quelli israeliani, no. Sono
sanguinari) sono proprio fottuto. Allora? … scendiamo giù alla Vecchia Maniera.
Vediamo se sono riusciti a capirmi, nelle mie ricette culinarie. In quelle
eccello … sono imbattibile.
Capitolo III
Cavatieddi
cu sucu di cuniggliu sirbaggiu, ficatieddi e sanzizza agliannariata ed antri
cosi bboni
Scinniennu scinniennu Meluzzo
Cavalieri di Giorgenti – consentiteci qui di pigliar noi la penna in mano, ma
per poco: promesso – passò in rassegna i suoi prossimi commensali: era il gotha
dell’intelligenza paesana. Racalmuto, patria di Sciascia, era da tempo che
mancava di cultura elitaria. I suoi prossimi commensali, colti di certo non lo
erano. Arguti, birbanti, scoppiavano d’intelligenza, ma sterile, caustica,
neghittosa, stracolma d’accidia.
Avrebbe troneggiato il sindaco
Pitruottu, ma l’onorevole Lasagne, ripiccatissimo, avrebbe tentato di disarcionarlo.
Non vi sarebbe riuscito: il Pitruotto, beccato alle ultime elezioni, era più
abile: qualche libro almeno in gioventù l’aveva letto. L’onorevole Lasagne, no.
Aveva inventato i caffè letterari, finanziati dall’industriale Illy che pur
doveva essergli avversario politico, ma ignavo nel leggere si faceva
sunteggiare il fatterello del letterario parto dal proprio figliolo.
Introduceva quella variante nel suo dire ormai stereotipato; una qualche
bella figura, invero, riusciva a farla. La voce sensuale ed il petto
latteo in generosa mostra della subrettina avevano già ammansito il rado
pubblico maschile, ancora assatanato di sguardi coitali.
Poi Popò, evanescente in tutto, e
l’aragonese tutto preso di sé e decisamente diafano. Anche l’arciprete, materialone
e loquace. Immancabile il “riddilio di la chiazza”, un ex minatore mai stato in
miniera ma con pensione di invalidità cospicua e irridentemente ostensa. Ed
anche “lu cammaratisi” sempre pronto a vantare l’inesauribilità del suo
attributo, a suo dire debordante ogni umano confine. Era il cuciniere e qui
davvero ci sapeva fare. Poi i suoi amici cacciatori: tutti, da Giacumino
Bedduocchiu a Gnaziu Aviluortu a Chardonnay , a Miserere ed altri. Un bel po’
di gente insomma. Lu Parrinieddu, no: era ‘arrusu ed a
Meluzzo, bando a tutta la sua intelletualitudine, gli invertiti maschi
(per le lesbiche faceva eccezione) risultavano indigesti … specie a tavola.
A tavola, invero, “li ‘arrusii” si
potevano dire, era però preferibile “la futtuta cu li fimmini”. Meluzzo – che
le parrocchie di Regalpetra le sapeva a memoria – rimuginava:
«Le mani si muovono a plasmare
nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere.
Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le
confidenze del giudice di corte d’appello in pensione, il vecchio dottor Presti
racconta a un amico di suo figlio di quando nudo scappò sui tetti, e un marito
gli scaricava dietro due colpi. …»
I suoi commensali si professano grandi
amatori …. Meluzzo sa che non è vero … solo qualche attricetta dopo il variété.
(Ora, però, si sussurra di un prete tenutario e di un napoletano prosseneta e
sedicente regista che spingerebbero giovanissime al sesso compiacente per un
miraggio artistico …. malelingue! … male lingue!). Fa eccezione, di sicuro,
l’onorevole Lasagne. Bell’uomo, suadente, non ha difficoltà a portarsi a letto
giovani donne, moglie ribelli e pare qualche amica delle figlie. A
Montecitorio, a palazzo Marini per la verità, ha trangugiato le grazie di tante
procasissime commesse. Chi le pagava è rimasto però subito deluso per
l’inconsistenza delle rivelazioni che l’onorevole era subdolamente spinto a
confidare e le conquiste romane subito scemarono per il Lasagne.
Con la sua vecchia 131 Fiat giunse sulla
radura della Vecchia Maniera. L’asinello, di taglia piccola ma non sardignola,
riprese a ragliare. Meluzzo vi voltò a guardarlo. Sotto sciabolava sull’addome.
Era spettacolo sconcio eppure non seppe girare lo sguardo. Un lungo fiotto
bianchiccio fu al culmine della foia solitaria. «Che anche lui soffra di
complesso di castrazione?» si disse con celia Meluzzo, in fondo per reprimere
il senso di vergogna di cui si vergognava.
Erano tempi in cui leggeva di
psicanalisi specie per approfondire la sessualità femminile, della cui
conoscenza si sentiva a digiuno e che voleva sondare per non essere
superficiale nel parlare di donne nei suoi romanzi.
Si era sciroppati i testi di Janine
Chasseguet-Smirgel, di Janine Lamp-de-Groot, di Helene Deutsch, di Ruth
McBrunswich, di Marie Bonaparte, di Melanie Klein, di Ernest Jones etc. Nomi
prestigiosi, letture noiose. “Complesso di edipo” nelle donne, “monismo
sessuale”, “invidia del pene”, “pene castrato”, “preedipico”, “fase fallica”,
“femminilità assimilata alla passività, mascolinità all’attività”, “bambino
anale”, “anfimixi delle componenti anali e uretrali”, “mater dolorosa”, e via
di questo passo. Per Meluzzo aveva senso solo l’aforisma: «l’orgasmo è
maschile. La donna femminile non ha un acme orgiastico. La vagina è l’organo
della riproduzione, il clitoride l’organo del piacere. »
Fin lì, la sua esperienza – ed era stata
tanta – non confliggeva. Per il resto? O non aveva capito niente delle donne o
era mistificazione. Forse la donna sino a metà del secolo scorso aveva tutte
quelle turbe sessuali. Ma ora, era il contrario. Erano i maschietti a ritrarsi
nel loro sesso, castrati di vagina. Bah! Meglio le prossime sortite oscene con
i suoi simpatici commensali …- senza problemi erotici … almeno a tavola, alla
“vecchia maniera”.
Il genio mittel-europeo aveva lanciato
una sfida al mondo della cultura: Marx e Freud, in contesa, pensarono a
strutture di base con sovraccarico di complicazioni esistenziali. Il momento
economico per Marx, primigenio rispetto a tutte le sovrastrutture pensabili,
l’eros per Freud e da lì il travagliato vivere moderno (dell’uomo e della
donna, afflitti in diverso modo a seconda della diversa età): chi dei due ha
ragione? Meglio, più ragione. Meluzzo, un tempo, avrebbe detto Marx: ora è in
bilico. Ma Freud – certo non terapeuta, ma filosofo sì - la spunta sempre più
su Marx se si investiga in tante latebre del cuore umano o se si ha
voglia di capire il moderno riconformarsi degli assetti sociali. La spenta
voglia procreativa – ed in contrasto, le irrefrenabili pulsioni (sadico anali,
vaginali, castranti tanto per esemplificare) – devia e deforma
irriconoscibilmente l’umano genere del 2000, tanto più alto, tanto più erculeo,
tanto più mirabile: si rende così flebile il “dacci oggi il nostro pane
quotidiano”, motivo di preghiera per Cristo e demoniaca forza conflittuale fra
le classi per Marx.
Marx morto e sepolto, dunque? Manco per
niente. Va riletto, riconsiderato, aggiornato. Occorre “Marx oltre Marx”. E
fino a quando la sinistra – cessata l’onda idiota, riassunti i valori della
critica – non s’induce in Italia a sdoganare Tony Negri, a rispolverare i suoi
appunti, a vivificarli e ad aggredire gli idiomatismi telematici di una
rincitrullita cultura avversa, blaterata da nicodemi, notturni
amici di un rinnegato cristo socialista, il destino di partiti non più di
massa e neppure di idee è miseramente segnato.
Si diceva di Meluzzo che quando passava
agli argomenti politici diveniva dannunziano, vago, passionale, enunciatore astratto
di incomprensibili principi, vacuo di fatti, contumelioso. Si rifaceva con i
suoi “gialli”, fattuali e leggeri, spesso gassose ghiacciate, gradevolissime
nelle arsure delle estati siciliane.
Sesso e consorzio umano, economia e
società quali interconnessioni? C’era circolazione sanguigna, magari
extra-corporea? Marx e Freud andavano rifusi, interconnessi, sussunti in
amalgama. Dov’era però il genio? Dove il partito? La novella chiesa del 2000?
Non c’era, non c’erano, diamine!
*
* *
Al simposio andava come convitato
d’eccellenza e, soprattutto, quale sommo sacerdote di un rito pagano; andava a
dare sacralità laica ad una crapula di cibi fatti risorgere dagli smarriti usi
del vivere contadino di Racalmuto.
Idea maiuscola, partorita dal genio liso
ma non consunto dei racalmutesi, quelli che si stavano ora adunando per
l’intellettualissima abbuffata alla “Vecchia maniera”. Il primo germe l’aveva
avuto Aurelio, purtroppo assente per misteriosa ammazzatina.
Ricercatore di antiche cose locali, s’imbattè in un rollo della Matrice.
L’arciprete dell’epoca era con lui benevolo e compiacente: quello attuale
faceva il mistico in chiesa, il materialone con qualche beghina ancora elastica
in basso, ed il ciarlatano sui pulpiti e nei banchetti, specie se prodighi di
libagioni. Quanto a cultura e quanto a sensibilità per la storia religiosa
degli antichi padri, il nulla. “Rolli”, registri, pergamene, sediole,
“altaretti”, baldacchini, “sedie gestatorie”, ed anche piviali e cingoli,
amitti e patene, calici ed ostensori, mozzette e balaustre lignee, come gli
smantellati stalli del coro settecentesco per i mansionari voluti
dall’arciprete Lo Brutto, resero molto in euro e figurano mal registrate nelle
denunce di furto presso la caserma dei carabinieri a S. Grigoli.
Aurelio era riuscito a decifrare il
primo volume della «FRABRICA DELLA MATRICE CHIESA DI RACALMUTO», ovverosia: «LIBRO D'INTROITO ED
ESITO di denari per conto della frabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654 et infra» per mano di D. Lucio
Sferrazza» e nel dettaglio Introito di denari per conto della frabrica della
Matrice Chiesa di Racalmuto pervenuti in potere del dr. D. Salvatore
Petrozzella Depositario di detta frabrica conforme alle constituzioni di Mons.
Ill.mo R.mo frà Ferdinando Sancèz de Cuellar vescovo di Giorgenti - Date in
Racalmuto in discorso di visita a
28 novembre 8a Ind. 1654».
Il bel volume, rogato con grafia davvero
bella, finì nel sottoscala della Galleria Colonna, fra i libri vecchi poco
richiesti. Un’inchiesta vi fu; per pronta giustificazione si concluse che
il manoscritto si era smarrito quando l’intera raccolta della matrice era stata
traslata ad Agrigento per il restauro dei BB.CC.AA.
L’Aurelio aveva però trascritto con il
vecchio excel l’intero volume (altri). Il passo che qui ci
incuriosisce recita: «per havere fatto venire dui burduna da Garamoli tt.
20. e più per pani salzizza e vino a vinti homini che uscirno detti burduna
dentro la fiumana» Era il mese di dicembre 1658.
Com’era la salsiccia racalmutese del
1658? Ancora migliore di quella che si gustava dopo la guerra del 1940. Poi
erano venuti i porci del nord, e poi quelli esteri dalla Jugoslavia e poi
quelli con il venefico mangime e poi quelli clonati … il gusto disperso,
smarrito. Ne parlò Aurelio con Giovanni Salvo: dentista per vivere, animalista
e botanico sommo (come dilettante, s’intende). Bisognava riprodurre gli antichi
maiali nel sottobosco degli Agliannari al Castelluccio. Ignari
gliAvareddi vendettero a giusto prezzo. Anni per il ripopolamento
dei lecci e dei verri. Il tentativo riuscì. Aurelio non gustò quella salsiccia:
il veleno fu più sollecito. La degustazione sarebbe avvenuta adesso, al
simposio.
Vini antichi – si sperava simili a
quelli che nelle olle venivano da Racalmuto inviate a Roma per le decumane
delle verrine memorie – si produssero con vitigni che l’accorto padre di Cicciu
Marchisi seppe ricordare: biancugiovanni, ‘nzolia, lacrima di madonna, ed anche
zibbibbo e malvasia. Nucciu Principi - occhialuto latinista e giudice in
pensione – citava Marziale:
- mescesi … il Massico
vino al miele ibleo.
Il miele decantato era invero attico. Ma
Nucciu Principi seguiva la versione di Alberto Gabrieli. Altrove del resto non
si parlava di favi siciliani? «Quando regalerai miel di Sicilia/ stillato sugli
Iblèi, di’ pur che viene/ dalla cecropia Atene». Ne era nata vasta ed
inestinguibile disputa. Tre mirabili parti: un vino che Chandonnay seppe vacare
(ed un po’ manipolare) dalle prime acerbe uve dei vitigni messi su da Cicciu
Marchisi sul pendio dei Romano a Piedi di Zichi dopo l’esproprio per il
pericolo di valanghe da nubifragi.
Non si volle mischiare il vino col
miele: era come profanarlo, violentarlo. Stavolta il mondo romano era da
considerare balzano, non raffinato nel trattare il liquore di Bacco. Miele
speciale però si ottenne con arnie a “li balati” stracolmi di “satareddi”
(“thimus capitatus”, non senza sussiego precisava il dentista-botanico). E con
mandorle “muddisi” – qualità locale – si era fatta una “cubaita” (come quella
insegnata a Federico II dagli arabi) che bene si coniugava con un vinello che
Chandonnay aveva ricavato dal biancogiovanni, ‘nzolia, zibibbo e taluni altri vitigni
che si teneva per sé, «pi nun farisi arrubbari la rizetta».
Tardi si accodò Benny Alaimo Alosa:
appena laureato alla facoltà di agraria di Palermo, ove era pupillo
dell’entomologo di fama mondiale, il racalmutese Giuggiu Liotta. Venne con una
sua idea: coniugare “saperi e sapori” del paese. Peccato che s’intignò nel dare
fattualità al titolo di un epigramma di Marziale sugli “oli odorosi”. Fingendo
di confondere i profumi oleosi dell’epoca con oli odorosi di rosmarino, menta e
citrosella, cercò di sperimentarli ed anche produrli: fu disastro economico:
l’olio sapeva di afrore erbaceo, il selvatico delle piante si caramellava e
dava appiccicaticcio sapore. Ancora un’insistenza e l’avrebbero espulso dalla
combriccola. Si preferiva ed si usava l’olio tratto con macine antiche dalle
olive portate da Di Marco, eccellente produttore e convinto assertore che i
suoi uliveti sulle pendici settentrionali di Villa Petrone andavano
salvaguardati solo con la carta moschicida, appesa agli alberi a tempo debito. Solo
lui conosceva modalità e sistemi: un altro fanatico con la mania dell’omertà
bucolica.
Pitruottu, ricco di esperienze
ereditarie, seppe risuscitare tipi di verdure introdotte dagli arabi.
Pregevolissima, la “bastunaca” di cui si era perso persino il ricordo.
Giacuminu Beddocchiu e compagni venatori rintracciarono – almeno così dicevano
– il coniglio autoctono a li “Pantaneddi”: nella voragine prodotta
dall’insipiente sfruttamento del salgemma poté annidarsi una coppia di leporidi
nostrani, farla franca dagli accoppiamenti dei blenorrogici animaletti che
incauti cacciatori avevano senza difese sanitarie introdotto dalla Jugoslavia
ed avevano figliato a iosa, sani e gustosissimi. Questo dicevano Giacuminu e
compagni e stavolta non erano contraddetti dal solito Miserere. Il cronista
riferisce e non commenta.
E qui mi fermo, altrimenti continuerei
per tomi interi.
Giunsi con qualche ritardo, per quel
dannato caso della morte del dottore Aurelio La Matina Calello: non ne feci
cenno, altrimenti il pranzo andava a male, ché il morbo della curiosità,
intrisa di malignità e sospetto e dispetto, chissà dove ci avrebbe portato.
Trovai l’arciprete sorridente, ma nell’intimo contrariato. Non pensava più alla
gola come uno dei peccati capitali: i ghiotti spettacoli erano tentazione
irresistibile. Non tanto però da non costringere la frotta dei commensali,
farli tutti segnare, recitare il pater, invocare la benedizione
celeste sul cibo che poco parco certo non era, e quindi «gloria patri et
filio et spiritu sancto» (il latino approssimativo era il massimo che
l’arciprete potesse concedersi dopo l’imbarbarimento della riforma
ecclesiastica di Paolo VI». «Et in secula seculorum» non potei fare a meno di
celiare.
Esordimmo con antipasti ‘poveri’. Tutte
le verdurelle commestibili delle contrade racalmutesi trovarono sapiente
miscuglio, saltate in padella con aglio di Castrofilippo ed olio di Alaimo
Alosa (abbiamo dovuto fare qui uno strappo ed accettare gli intrugli di Benny …
e per quell’uso condimentale il rosmarino frammisto a succo di olive smunte
dalle presse in basalto di Cefalù non era poi spregevole). Le focaccette
(memoria di li cudduruna di gnura Annidda) erano
fatte con la “tumminia”. Cipolle e lattughe degli orti di Pitruotto e spizzichi
ditumazzu che Sintini ci aveva dispensato, una volta tanto
senz’astio. Sintini, a vederlo, metteva paura: barba incolta da sempre,
incedere caprigno, capelli irsuti, tarchiato ma non corto, bacino ardimentoso …
ed occhi spaventosamente belli e neri… lupigni. Giacuminu Beddocchio lo
chiamava «l’uomo selvatico», ed era l’unica volta che si concedeva letterari
toscanismi. Aurelio aveva scritto che quelli (i Sintini e gli altricrapara
del paese) erano i racalmutesi prischi, d’intatto DNA. Erano i residui dei
sicani, spintisi fra le montagne con gli armenti, per non subire sudditanze e
sfruttamento che il nuovo barbaro popolo dei geloistava imponendo
nelle lande sotto il Castelluccio già verso la fine del VI secolo a. C.
Il primo piatto impregnò la tavola
dell’odore del sugo del coniglio selvatico. Spettò a Nucciu Principi preparare
“li cavatieddi” come usava una volta, per devozione all’antico mestiere di
pastaro della sua famiglia. E dopo, lo stesso coniglio a sugo e – prelibatezza
delle prelibatezze – i fegatelli di porco indigeno e le salsicce del maiale
allevato tra gli agliannari del Castelluccio ed altre
specialità del luogo (non essendo però questo l’Artusi, le ometto tutte quante.
Il mio apporto è consistito nel dosare sapori, odori, tempi di cottura, scelta
della legna per ogni tipo di pietanza; insomma il tocco dell’intellettuale con
vocazioni culinarie).
Sublime la granita di Parisi a mezzo del
pranzo, per spezzare l’aggravio intestinale. L’abbuffata finale di dolci,
amaretti, alle mandorle, alla ricotta, con liquori, con miele di sataredda,
eccellenti i taralli che non erano di Piuzzu ma ormai la Taibbi li sapeva fare
meglio, e deliziosi gli amaretti di Capitano. Compiacenti robuste
libagioni, ora rideva a squarciagola Bisteccone: pur sempre meno rosso, a
tavola era eccellente commensale. Provammo l’antico rosolio: ma non riuscì. Si
imitarono i “marsala” e si superò il porto ed anche le celsitudini dei
Whitaker . Finì ubriaco persino l’arciprete e così ci risparmiò il Deo
gratias.
*
* *
Appisolato ma con inframmittenze lunghe,
sostenuto, diciamo che ero immerso in una bolsina per affaticamento delle
frattaglie che si annidavano nel mio ventre: sbracato in una poltrona-letto,
quelle da spiaggia per intendersi, venivo piano piano acciuffato da mal di
testa (non dico emicrania per odio alle donne). L’esofago, il fegato e quegli altri
arnesi della digestione chiedevano vendetta per il sovraccarico di lavoro, ed
in cuor mio maledicevo Chandonnay cui davo debito di insolenze chimiche nel
maneggiare i valenti ma scabri vini racalmutesi: non era enologo, era
dilettante ed esagerava.
Mi apostrofò nel peggiore momento di
quel giorno Cicciu Vitacchia, figlio del nostro cuoco «lu cammaratisi».
Lo conosceva, ma in confidenza ero solo con il padre. Il figlio ebbe certezze
di eredità necessitata.
- Sapissi, chiddu chi
sacciu io sull’ammazzatina del dottore Agrelio Matina e la commissaria, nun lu
sapi nuddu.
- Beato te, mi venne di
rintuzzare, indispettito e scocciato.
- Fu la giudea, fu la
giudea.
- Ma quale giudea?
- Chidda ca vinni di
Sraeli.
- Perché è venuta una da
Israele?
- Sissì e ddu voti.
- Andiamo con ordine,
fui pedante ad arte.
- Chidda vinni
orallannu. Cu nn’amicu. Ma li masculi nun ci piacivano. Fici fotografie na
jurnata di ‘nviernu. Duoppu si nni partì. E mi mannà chisti fotografie.
Mi porse un plico con foto veramente
abili. Scattate da un professionista di grande valore. Vitacchia era
confusionario, io era avvinazzato. Optai per un rinvio.
- Senti, vieni domani su
nella “roba” del dottor La Matina a Bovo. Sai dov’è.
- E dda ssusu, dda
‘mpacci.
- Bravo. A domani
dunque.
Non v’era ombra di dubbio, la sicula e
racalmutese fantasia, la voglia di darsi importanza, la lusinga di venire
considerato da me (chi si contenta, gode) spingevano il Vitacchia a quegli
sproloqui là. Quella che indicava come esecutrice di un duplice omicidio (ma la
commissaria era morta per un incidente stradale) era una brava e caruccia
giornalista d’Irsraele. Sì, la conoscete già: Melissa Cohen (sopra
descritta, direbbero i burocrati). Sospettare di lei era peccato sommo.
Giudizio temerario da buscarsi sette inferni in una sola volta. Vitacchia,
paura dell’inferno non ne aveva, però. Sua nonna era stata la celebre Carmena
l’acqualora. Donna bellissima, maliarda nella vita, soave nel canto. Tutta la
mascolinità racalmutese – se capace di andare a puttane – l’aveva posseduta. A
pagamento. Il marito sussiegoso chiedeva «Picciuò, v’addivirtistivu?». Il prezzo
del meretricio doveva essere “scuttatu”. Carmena appagava, valeva, le cinque
lire erano “scuttati”. Poi, mai in disuso ma rarefatte le richieste, ebbe
mistici trasporti, religiosità quasi bigotta. Come cantava lei “Maria passa” il
venerdì santo, nessuno, neppure Mulè. Ora erano le picciutteddi che
sfacciatissime amoreggiavano nelle macchine, quasi alla vista degli occhi.
Carmena guatava, scuoteva la testa, aspettava il passante e segnando a dito
catoneggiava: «E po’ dicunu ca la buttana sugnu iu!»
*
* *
Mi alzai davvero infastidito: Viatazza
mi dava ai nervi. La sua saccenteria mi irritava; con presunzione somma (vizio
racalmutese, si sa) mi veniva a spiattellare una soluzione semplice, semplice
di un mistero tenebroso, intricato ed intrigante. Una valente poliziotta vi
aveva speso tante energie e non è che non fosse arrivata ad una soluzione; vi
era arrivata ma portava lontanissimo dalla bislacca supponenza di Vitacchia.
Era un filone mafioso che vi si snodava. E prove, ed indizi, e riscontri là in
effetti conducevano, indefettibilmente. La morte della poliziotta dava esca a
qualche sospetto, ma il buon senso portava a concludere che si era trattato di
un momento di panico di un frettoloso camionista, che catapultando nel vuoto
una fragile peugeot 305 con la sua motrice si era precipitosamente eclissato.
Cose d’ordinaria amministrazione. Non si era trovata la motrice; qualcuno
diceva che non era targata; Giuggiu Marino sproloquiava. Note di colore
paesano. Il mio notorio buon senso mi dice di smetterla con questo tornare e
ritornare sul recaltritrante dialetto siciliano del Vitacchia: cacciamolo via,
cacciamolo via.
Frattanto guardo le fotografie di
Melissa Cohen (o del suo fotografo di Tel Aviv). La tetraggine a Racalmuto in
un mattino d’inverno stagna in desolazioni immote. Legni secchi, in filari
scheletrici e giù il bianchiccio di nebbia rada solcata da una stradetta
serpentina che si diparte da fiancheggianti eucalipti: il simbolismo della
prima foto isrealitica mi coglie cupo nel mio dispetto. Il casello ferroviario
lo riconosco: la “T” resistente tra lo sbriciolarsi dell’intonaco, il casotto
memore dell’antico mettersi al riparo delle intemperie per scorgere meglio il
treno in arrivo, inceneriti dal gelo gli arbusti ai fianchi della strada
ferrata, file di finestre senza imposte sopra e sotto e due una sull’altra
nella fiancata breve. Il casello ha storia, storia fascista, non credo che i
superflui dell’Olocausto la sapessero nel fotografare quel triste casello. Vi
abitava negli anni trenta una famiglia di casellanti non indigeni, solitari,
prolifici, in eccesso di promiscuità. Una giovane figlia, appena ventenne,
passò al servizio del podestà. Il padre gridò allo scandalo. Il podestà ne
avrebbe senza indugio approfittato. Processo. Manovrava il capo della milizia
volontaria, avvocato e fratello del primo fascista locale e fondatore
unitamente con don Calogero Vizzini del partito di Mussolini. Il podestà aveva
fama di incorruttibile: l’avvocato e la sua famiglia vantavano un padre medico
e benefattore ma non eccelsero in spirito filantropico. Tra il podestà e
l’avvocato la ruggine era palese; l’avvocato colse il destro per disarcionare
l’avversario con un infamante processo. Ebbe a protestare l’imputato la sua
idoneità a sverginare la figlia del casellante, peraltro di quasi ventun’anni;
portò certificati medici di impotenza congenita, ma il montante moralismo
fascista impedì l’assoluzione. Quando vecchio ed ormai sotto il regime democristiano
l’ex podestà degnò delle sue confidenze un giovane procuratore legale,
continuava a ripetergli che la giovane non era vergine, era stato il padre
casellante a consumare la violenza. A sua volta il confidente ebbe vecchiaia
isterica: forniva la piccante versione ma la negava rissosamente se dopo giorni
gli chiedevi conferma. Il fascismo non era stato solo violenza all’esterno,
anche nel suo intimo fu violento. Un podestà onesto soccombette ad un
avvocaticchio immorale, usuraio e maldicente. Il casello come simbolo mi
affascina: «poiché il paese è pieno di adulteri, / a causa della maledizione
tutto il paese è in lutto, / si sono inariditi i pascoli della steppa. Il loro
fine è il male / e la loro forza è l’ingiusizia.» La geremiade mi va
di ripetermela in latino, altro suono, altra atmosfera: «quia adulteris
repleta est terra. Arefacta sunt arva
deserti: factus est cursus eorum malus , et fortitudo eorum dissimilis.» (Ieremias 23, 10).
Altra foto: tetti diruti; miserie
velate. Altra foto: imprigionato il vecchio carcere con il geometrico campanile
del convento francescano che il de Carretto volle nel 1540 e che padre Cipolla
non poté finire nel 1930, imperante il fascismo. La scalinata del Monte sa ora
acquisire satanica minaccia per l’addossarsi del trasandato palazzetto: tetri a
commento i lampioncini di vecchia memoria. Ora è la volta di Vitacchia (assieme
al comico Serpia, inanellato basco cappotto e occhio ceruleo e vivo); in fondo,
la matrice tra nebbiolina come nell’esordio del Giorno della Civetta di
Sciascia. Ed ora il comico a solo, mentre si appoggia all’ombrello, come
se fosse un nobilotto inglese, lui il cui DNA si sperde tra accoppiamenti
spurii ed illegali. Infine, la matrice transennata, le violentate case di
Piazza Castello appena visibili nel grigiore della nebbia e Vitacchia che vuole
l’immagine a solo: manca però di fotogenia.
Ed eccolo che arriva, chiassoso ed
indisponente. Dimenticavo: mi sono trasferito nella villetta del dottore La
Matina messami gentilmente a disposizione dalla famiglia del defunto. Tutto si
può dire dei racalmutesi, ma ospitali lo sono e se ospitano, statene certi,
sono disinteressati. Non esagerate nel ringraziarli; però non fategli capire che
pensiate ad una qualche loro capziosa gentilezza: diventerebbero subito bruschi
ed ostili.
* *
*
- Allura, aieri cci
diciva ca orallannu …
- Sì.sì, me lo ricordo:
l’anno scorso è giunta qui una israeliana … che ha fatto fare le
fotografie da un suo connazionale, ecco, queste fotografie … ed era una brutta
giornata invernale …
- Ma sapi comu si
chiamava?…
- Lo so - in
effetti avevo consultato le carte della poliziotta.
- Melissa, chi bieddu
nnomi…
Ma qui debbo dare un taglio allo stretto
racalmutese del parlare di Vitacchia. Mi prendo la libertà di tradurlo,
possibilmente alla lettera, con qualche concessione al “volgare eloquio”.
- Melissa era …
bedda bedda no … ma a mia mi piaciva assà. Nivuredda, i capelli ricci e neri …
senza minni, insomma picciliddi … ma aviva un culu … un culu pisellante?
- Pise… che?
- Inzumma, duttu, faciva
arrizzari. Addunca, chidda arriva col suo giovanotto. Piccolo, occhialuto, a me
sembrò tanticchedda ‘rricchiuni’ – (oh l’influenza del cinema romanesco, mi
venne di pensare).
- Perché, ti adocchiò?
- Veramente no, si vede
che capì subito ca a mia mi piaci sulu la cucchia!
- Tu sei sboccato,
Vitacchia. Con me parla .. latino – e pensavo al termine come Sciascia lo
cerebralizza.
- Arriva la sera, li
porto nel «trilocale con tre camere da letto e bagno a L. 20.000 a persona per
notte» come dice Inforacalmuto, il sito del paese albergo insomma.
Mi aveva istruito Rosalia Sinibalda con cui questi di Tel Aviv erano in
contatto. Non conosce il sito dottò? Insomma li portai nella vecchia
casetta di Mariano Zuccalà a S. Francesco. Che si presenta bene e per essere casa
d’affitto, è comoda. Non c’era riscaldamento, ma le stufe c’erano, elettriche,
una per ogni stanza. Si stava bene. Io Rosalia Sinibalda non l’amavo tanto
prima, s’immaginassi duoppu chiddu ca vitti. Ma ogni cosa a suo tempo.
- Già, ogni cosa a suo
tempo: non divagare Vità.
- Sissi, duttù. Li
lasciai a dormire. L’indomani andai a prenderli e fecero quelle fotografie che
le ho fatto vedere. Al casello ci andammo con la mia macchina: Scaccia è
luntanu, sapi. E poi era una brutta giornata, friddusa, cu la neglia ca nun si
nni vuliva jiri. Serpia subito si ungì cu nantri. Sapi, chiddu unni vidi ‘scuru
e fudda’ … e non faceva parlare a nessuno .. nun ci faciva arrivari a nuddu,
‘nsumma. Ripeteva sempre la solita storia: che aveva recitato, che era un
grande comico, che i battimani erano tutti per lui. Melissa rideva, il compagno
non comprendeva. Io mi annoiavo.
In preda a noia galoppante veramente ero
io. Non lo seguivo più. Solo a questo punto ebbi un sussulto.
- A mmia mi piaciva.
Accussì cercai di forzare i tempi. Ritornai la sera, era a dire la verità
notte. Si era dimenticata di mettere il lucchetto del portoncino. Era aperto,
entrai, salii, e restai di stucco. Era nuda, abbracciata con Rosalia pure essa
nuda .. e si amavano … come un maschiaccio con una femmina di strada … che
schifo!. Non si erano accorte di me … continuarono. All’improvviso un urlo di
Rosalia: mi aveva visto. Scappò nuda e si nascose nel bagno. Melissa rimase
impassibile, anzi mi sorrise, ma più che un sorriso era un ghigno beffardo.
«Non te lo avevo detto che non c’è trippa per gatti» «Nenti rugnuna pi li gatti
masculazzi». Non disse propriu accussì, ma chiddu era il senso.»
Mi indignai e lo bloccai. Gli offrivo,
liberatorio, uno scifu di caffè e latte, più caffè che latte, però. Gli detti
savoiardi, un sacchetto cellofanato di quelli che vende Campanella. Io il mio
soavissimo caffè, fatto con la napoletana, come mi aveva insegnato Gennariello
al Caffè della Galleria di Napoli, me l’ero già dispensato con il solito rito
mattutino. L’istinto pettegolo regredì, quello famelico imperversò. Vitacchia
si precitò sulla tazza, ingoiava savoiardi interi, a metà intingendoli nella
brodaglia bianconera, a metà divorandoli in un solo boccone. Spruzzava saliva e
briciole intrise di caffellatte, in bestiale ingordigia. E questi si permetteva
di censurare amori sublimi di mirabili donne. Puah!
Mi ritirai nell’altra stanza, quella che
fungeva da studio. Anche per Aurelio. Vitacchia mi aveva ridestato un ricordo
soavissimo. Nella mia vita di sceneggiatore ne avevo viste di cotte e di crude
in materia di sesso. Amanti indomabili, bagasce oscene, pederasti,
invertiti, trans, e naturalmente lesbiche, quelle attive e quelle
passive, omoerotiche e bisex. Una deliziosa fanciulla, candida,
cerbiatto immacolato, armonica nel corpo, dall’occhio terso, incantevole mi
aveva amato ed io l’avevo amata, ma nel più puro dei modi, senza sensi, con
trepido moto dell’animo, dell’anima sua, del cuore mio: ed intelletto e
sentimento e gioia nel rivedersi ed incanto nel sentirsi ed arcano mirarsi
negli occhi e silente trasporto si fusero o tessero l’ordito di una relazione
ineffabile, durata pochi mesi purtroppo. Ella era lesbica, aveva una carissima
amica (né bella né tenera come lei). Mi amò castamente, l’amai teneramente. Ed
ora veniva quel laido di Vitacchia ad imbrattarmi tutto. L’avrei scaraventato
da una finestra, ma da una finestra altissima, sita all’ultimo piano di un
grattacielo newyorchese.
In bell’evidenza stava nella
libreria di Aurelio un testo commentato delle poesie di Saffo (sì, Aurelio era
colto, sapeva anche di greco antico e se lo centellinava anche a tarda età. Non
per nulla era stato in seminario. Ditegli tutto quello che volete ai preti, ma
gli studi classici te li sanno imporre).
- … passi
leggiadri ti guidavano veloci al di sopra della nera terra con fitto battito
d’ali giù dal cielo per gli spazi dell’etere …
- mi piace questa
traduzione di Franco Ferrari. E la donna amata dalla donna?«Infatti anche se
fugge, presto verrà dietro, / e se non accetta doni, anzi ne offrirà, / e se
non ama, ella presto amerà / anche contro il suo volere». Ma io sono greco,
sono agrigentino da immemorabili generazioni. Come li avrei letto quei versi?
Sentiamo – e ad alta voce declamai:
- kai gar feughei
takheos dioksei, / ai de dora de me deket’alla dosei / ai de me filei, takheos
filesi / koiik etheloisa.
- Decisamente
improbabile. Oh grande lingua antica dei nostri primi padri, come ti abbiamo
smarrita! Come? Quando? Ancora ai tempi di Verre le donnette pie e fanatiche in
greco malmenarono gli scherani del vorace esattore, quando di notte si tentò il
furto dell’Ercole bronzeo (ex aere simulacrum .. Herculis». In greco – è certo
– gli agragantini cercarono di scherzarci su «in hac re aiebant in lobores
Herculis non minus hunc immanissimum Verrem quam illum aprum Erymanthium
referri opertere» (dicevano - e la loro lingua veicolare era il greco - che nel
novero delle fatiche d’Ercole occorreva includere questo spietato porco d’un
Verre non meno del famoso cinghiale d’Erimanno.» Greco ancora si parlò per
tutto l’impero romano e greco, dopo, sotto i bizantini. Greco il vescovo
Gregorio del III secolo (non certo l’innografo che quella è baggianata di
eruditi ma non colti canonici agrigentini). In lettere greche la dedica ad
Hermes e ad Eracle nel chiostro di S. Nicola. Gli arabi furono di
passaggio. I berberi erano bravi ma incolti contadini per sopprimere una grande
lingua. Poi Gerlando un bretone pio ma predace. Iniziò il seppellimento del
greco. Ma i testi dell’archivio capitolare di Agrigento dimostrano che non fu
facile. Sopravvive il greco per due o tre secoli ancora. Il buon Aurelio
così scriveva: «Per esser normanno, venne descritto dalla pur tardiva
storiografia secondo il consunto stereotipo di uomo di
nobile prosapia, bello, alto, biondo e di gentile aspetto. Tale
versione risale al secentesco Pirro. Il personaggio non è inventato e
questo è già molto. E il vescovo ebbe subito fama di santità,
come può arguirsi dal Libellus custodito nell’Archivio
Capitolare ove si parla dell'anima benedetta del beato Gerlando
che, discioltasi dalla umana carne, ebbe a riposarsi nel Signore
«beati Gerlandi anima, carne soluta, quievit in Domino». Quello che, invece,
lascia increduli noi laici è quella sua facondia trascinatrice di ebrei e
musulmani. Nell'agrigentino si parlava un dialetto locale, veicolare che aveva
poco di arabo. Forse residuava un uso del greco nei ceppi più
tenaci. Questo vescovo borgognone, che chissà quale lingua parlasse,
dovette disperarsi nel cercare di capire i suoi sudditi e questi, come ancor
oggi si dice, parlavan turco, di certo, per lui, incomprensibilmente. E le sue
prediche inventate dal Pirro, se davvero vi furono, dovettero lasciare di
stucco i 'fedeli' musulmani.
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