GREGORIO, Rosario
di Giuseppe Giarrizzo - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)
GREGORIO, Rosario. - Nacque il 23 ott. 1753 nel quartiere palermitano dell'Olivuzza, primogenito di Francesco e di Benedetta Balestrini. Fu battezzato coi nomi di Gaspare Rosario Giovanni. Perdette il padre (27 apr. 1761) e, destinato dalla madre allo stato ecclesiastico, fu ammesso nel 1762 nelle scuole gesuitiche. Dopo l'espulsione dei gesuiti nel 1767 il G. fu accolto nel seminario dei chierici, ove ricevette la tonsura e gli ordini minori il 23 sett. 1768.
Dal 1769 nei Regi Studi di Palermo ebbe a maestri G. Nicchia in filosofia, il newtoniano N. Cento in matematica, F. Carì in teologia e F.S. Romano nella lingua greca; a loro D. Scinà, allievo del G., avrebbe riconosciuto il merito d'aver reso comuni "e la diritta maniera di filosofare, e la critica e la sodezza nelle sacre discipline, e lo studio delle lingue, e il gusto e i buoni studi".
Nel 1776 il G. fu ordinato diacono e sacerdote nel monastero delle Stimmate. L'anno dopo l'arcivescovo F. Sanseverino lo chiamò a insegnare teologia nel seminario dei chierici, dove fu fino al 1783 ed ebbe a discepolo Scinà, cui "pose in mano i saggi di David Hume sullo intelletto umano, ché accomodato gli avessero in miglior modo la mente e sviluppato presidii sani di quella filosofia, che non si apprende già nelle scuole, ma che si fabbrica nei segreti penetrali del nostro intelletto".
Il G. era già socio dell'Accademia del Buon Gusto, dove lesse dissertazioni "sopra l'origine e le ragioni della letteratura siciliana nell'epoca greca" (13 sett. 1777), "sopra i fondamenti della letteratura in Sicilia avanti l'epoca greca" (15 nov. 1777) e "sopra la letteratura di Sicilia alla prima epoca" (settembre e novembre 1778, marzo 1779).
Il 23 febbr. 1778 l'arcivescovo conferì al G. il beneficio dell'Arciconfraternita dell'Unione dei Miseremini della chiesa di S. Matteo del Cassero, che ne comportava la rettoria e in passato era stato unito alla dignità di cappellano maggiore, ora tenuta dall'arcivescovo di Eraclea in partibus, Alfonso Airoldi, che nell'aprile 1778 rientrò a Palermo come giudice del Tribunale di R. Monarchia. Questi divenne protettore del G., fu suo tramite con l'antiquaria napoletana e lo chiamò a illustrare i sepolcri dei sovrani normanni, riaperti nel corso dei lavori di restauro della cattedrale.
Sono di questi anni tre volumi manoscritti (conservati presso la Biblioteca comunale di Palermo) di Institutiones theologicae: sui "luoghi teologici" (1779), la Trinità e la creazione degli angeli e dell'uomo (1780), il peccato originale, l'Incarnazione, il culto dei santi e la grazia di Cristo (1781). Il primo lavoro a stampa del G. fu un contributo al volume di F. Daniele, I regali sepolcri del duomo di Palermo riconosciuti e illustrati, Napoli 1784.
Frattanto, dall'ottobre 1781, era giunto in Sicilia come viceré D. Caracciolo, che nel dicembre 1783 fece eleggere il G. canonico della cattedrale di Palermo e lo spinse verso la storia araba, "utile per sapere quale incremento e quale progresso ebbero le scienze nelle mani degli Arabi, i quali le sostennero nel X secolo, mentre esisteva fra noi la massima oscurità".
Il compito era chiaro e urgente: "il genere degli studi, ai quali mi sono applicato, mi fa disperare di una felice riuscita, volendo io esaminare i principii e i progressi del giuspubblico siculo; ed è questa una materia intatta […]. La nostra diplomatica è tutt'ora allo stato d'infanzia. Non tutti gli archivi mi sono aperti: mi converrebbe di visitare quelli del Regno: e le forze di un particolare non sono da tanto […]. Se non si fa un'accurata raccolta di diplomi d'ogni sorta […] non potrà mai essere illustrata la siciliana polizia" (il G. a F. Daniele, 22 febbr. 1785). Il 26 luglio 1785 Airoldi fu autorizzato a concedere sussidi al G., "applicatosi alla storia di Sicilia, ed alla illustrazione dell'epoca oscurissima dei Saraceni".
Il G. aveva iniziato questi studi compilando "una raccolta delle iscrizioni saraceniche esistenti in Sicilia" per una nuova edizione (Palermo 1784) delle Iscrizioni di Sicilia di G.L. Castelli e Giglio, principe di Torremuzza; poiché non conosceva ancora l'arabo, furono C.G. von Murr e O.G. Tychsen a leggere i caratteri arabi ricamati nelle maniche del "camice" che aveva vestito il cadavere di Federico II.
Il 7 ag. 1785 un dispaccio istituì la cattedra di lingua araba nell'Accademia, assegnandola all'abate maltese G. Vella, che stava componendo la fantasiosa traduzione di un codice arabo conservato nel convento benedettino di S. Martino gabellandolo per un carteggio degli emiri di Sicilia con i principi arabi dell'Africa settentrionale.
Nel novembre 1786 il G. illustrava a J.-J. Barthélemy i propri dubbi sull'autenticità della "traduzione" dell'abate maltese: "Io vi trovavo altri mesi, altra cronologia, altra geografia, uno stile monotono e informe e gli Arabi che vi si vedon dentro sono senza religione, senza costumi e dettagli morali, insomma senza quei caratteri nazionali che distinguono un popolo dall'altro […]. Intanto io mi trovavo avere raccolte alcune iscrizioni, osservate le monete pubblicate dall'Adler ed altri diplomi io aveva veduti e tradotti. E non ci trovavo alcuna uniformità. Non ho lasciato di tempo in tempo di presentare le mie difficoltà: ma esse furono apprese come nate dalla mia poca perizia nella lingua araba". Così senza maestri, "unis tantum ducibus libris" (quelli di Th. Erpenius e J. Golius), il G. apprese l'arabo quanto bastava ad affrontare un argomento di diplomatica che avrebbe contribuito a distruggere il laborioso e grossolano falso di Vella, e pubblicò la dissertazione De supputandis apud Arabes Siculos temporibus (Palermo 1786). Contemporaneamente, forte degli appoggi politici, attaccò la Storia civile della Sicilia di G.E. Di Blasi, regio storiografo, che reagì con una apologia contro l'attacco a Vella.
Nel 1787, fino al settembre, il G. fu a Napoli "a dissotterrare monumenti per rischiarare e commentare molti manoscritti arabi, li quali si trovano da lui [Gregorio] acquistati o pure a lui consegnati" (così Caracciolo a F.M.V. d'Aquino principe di Caramanico).
L'ambiente politico napoletano era agitato dal dibattito aperto da una "rimostranza" di S. Simonetti (20 luglio 1786) sulla natura dei feudi in Sicilia. L'autonomia "nazionale" della Sicilia in fatto di diritto pubblico e persino privato sotto la monarchia normanno-sveva, e la peculiarità del diritto feudale siculo esaltata dalla legislazione aragonese erano i pilastri della barriera che baroni e magistrati isolani opponevano da decenni alla politica antifeudale della monarchia. Al centro stava l'interpretazione dei capitoli Si aliquem di Giacomo d'Aragona e Volentes di Federico III. Contro "le non vere asserzioni" degli scrittori siciliani, C. Pecchia aveva provato che il "Guiscardo con introdurre il servizio feudale tutti generalmente, senza neppure eccettuare il fratello, "suae subdidit dominationi", e che lo stesso praticò nell'isola il conte Ruggieri: […] che lo stesso sistema tennero non meno i successori Normanni che gli Svevi, con essersi l'imperador Federigo spiegato apertamente". La rottura sarebbe venuta col Vespro e i capitoli Si aliquem e Volentes; "non perciò i feudi della Sicilia han cambiato natura, sicché, usciti dall'ordine politico dello Stato, siensi convertiti in allodi, siccome si è voluto dare ad intendere". Per il G., invece, da una "piana, e letterale interpretazione" del capitolo Volentes "si argomenta assai manifestamente che, se prima di una tal legge i feudi erano inalienabili, da indi in poi hanno i feudatari acquistato la facoltà di alienarli". Per il dettato della legge e "l'uniforme consenso dei comentatori […] egli è incontrastabile che per dritto feudale siciliano la natura de' feudi si è mutata, che i feudi per la loro alienabilità si debbono considerare come allodi, e che la parola di eredi comprende ancora gli estranei. Cose tutte ripugnanti al comune ed antico dritto feudale, ed ora convenienti ai feudi siciliani per lo capitolo Volentes". La scelta del G. interpretava il passaggio dalla linea dura di Caracciolo al "compromesso" del principe di Caramanico.
Nel 1789, per scelta del viceré, divenne professore di diritto pubblico siciliano nell'Accademia e chiuse la stagione "arabica" pubblicando a Palermo nel 1790 la Rerum Arabicarum quae ad historiam Siculam spectant ampla collectio e, nel 1791-92, i due tomi in folio della Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere. Con l'insegnamento preparò la sua storia della Sicilia dal "conquisto" normanno a Filippo II.
La Rivoluzione francese impose un'accelerazione improvvisa al conflitto interno: per un verso si stemperò "l'amaro della feudalità", per l'altro incombette lo spettro del "giacobinismo". Il G. lavorò con furia alla sua storia di Sicilia: lesse e rilesse i suoi "autori", Hume e G. de Mably; ma più urgente gli parve stabilire, mentre dilagava la polemica sui falsi di Vella e il "modello feudale" attribuito a Ruggero, il fondamento storico della monarchia meridionale che aveva avuto a Palermo la prima sede. Agli alunni del corso di diritto pubblico lesse prima il percorso della storiografia moderna sulla Sicilia, ne saggiò le fonti e dispose sull'ideale scansia i grandi tomi dell'antiquaria e dell'erudizione europea; infine disegnò il piano della sua Storia, pubblicando a Palermo nel 1794 la sobria e orgogliosa Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (rist. anastatica, a cura di M. Bellomo, Reggio Calabria 1994). Aveva già scritto gran parte del lavoro maggiore, il cui titolo ricalcò quello delle Observations sur l'histoire de France dell'ammirato Mably: Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino a' presenti.
Tra 1790 e 1805 egli aveva trascritto dagli archivi delle chiese di Patti, Agrigento, Cefalù diplomi e diplomi, pur tenendo con puntualità i corsi. Per dieci anni tempestosi restò ai margini della vita pubblica per dedicarsi interamente alla stesura della sua opera, con la quale la Sicilia da Ruggero a Filippo II entrava nella grande storia dell'Europa moderna.
Dalla fine del 1805 il G. fu afflitto da una malattia neurologica, che evolveva verso una paralisi progressiva; morì a Palermo il 13 giugno 1809.
Le Considerazioni sopra la storia di Sicilia uscirono in varie riprese: lo stesso G. pubblicò a Palermo dal 1805 al 1807 i primi quattro volumi; alla sua morte le bozze corrette del quinto volume giacevano sul suo tavolo; il quinto e il sesto volume apparvero postumi (ibid. 1810-16). Quel che restava del settimo fu edito, prima a puntate, da G.B. Nicolosi nel Giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia, quindi in volume (Palermo 1826).
Il G. si propose di "illustrare le origini, i progressi, le mutazioni, le riforme avvenute nella nostra composizione politica, la quale tiene come a suo principio alle leggi dettate dai conquistatori normanni"; ma "nella volubilità dei secoli sono state tanto varie e sì molte le consuetudini, gli usi, le invenzioni e le scoverte, che è stato forza introdursi nuove maniere di vivere". Va così evitato l'errore di credere che "li modi presenti sieno gli stessi che hanno avuto luogo per lunghissimi secoli innanzi di noi", che fa mal comprendere i modi "secondo i quali al presente ci viviamo". Tema difficile e importante la considerazione del nesso presente/passato; non meno importante l'altro dell'unità del Regno: con la ritrovata unione "questi due beatissimi regni, i cui destini sono naturalmente comuni e reciproci gli interessi, ritornarono per sistema alla felice costituzione di avere un proprio monarca, e di sentire immediatamente gli effetti della potenza e beneficenza di quello". Il soggetto delle Considerazioni rimane però la "nazione siciliana". Il concetto e il termine prendono rilievo quando il G. considera la conquista mussulmana: il popolo siciliano, dai mussulmani vinto, ne aveva adottato le forme civili. Così, "sebbene avesse prima sotto i Saracini ritenuta la sua religione, il suo dritto privato, pure essendo stato sotto il dominio di una nazione, che avea diversa e detestata religione, ed altre usanze ed altro dritto, usciva dirò così da uno stato di contorcimento e di compressione". L'impresa normanna aveva oscillato fra conquista e "crociata". Nella prefazione, dopo aver notato però che i vinti serbavano senza un proprio diritto pubblico "la qualità di nazione" e aspiravano a uscire "da uno stato di contorcimento e di compressione", il G. trovava che "non desiderava il popolo siciliano di essere restituito alle forme del governo bizantino, […] se non dimenticato, certamente non caro"; "i Normanni non avevano ragione alcuna di rispettare e di ritenere né anche in menoma parte una costituzione politica, che fosse stata in Sicilia; ed essi realmente non ve ne trovarono alcuna: a dire il vero, poteano essi trattare i Siciliani come un popolo nuovo e senza alcun dritto pubblico, e pronti in conseguenza e disposti a ricevere quello che avrianvi i loro liberatori adattato, come sopra un'ignuda e vota superficie un nuovo edifizio".
In ciò essi agirono diversamente dal normanno Guglielmo, che in Inghilterra "non tenendo conto delle introduzioni anglo-sassoni, vi adottò lo stesso dritto pubblico di Normandia […] e pose ancora ogni sua opera a far prevalere in quel regno i costumi e sino il linguaggio dei Franchi", dando così occasione a non brevi conflitti. Non così Ruggero: aveva introdotto il sistema feudale, ma mantenendo "ai naturali la proprietà loro" e abilitandoli persino "a una certa specie di magistratura" locale. Ma la feudalizzazione introdotta aveva riguardato le terre tolte ai mussulmani: "era conveniente che, spento l'antico governo, e fatta dominante la religion cristiana, le proprietà degl'isolani fossero liberate dal tributo, che a poter quella pria esercitare pagavano agli Arabi […]. Fu quindi mestieri che, mentre introduceansi i feudi in Sicilia nelle concessioni che faceansi delle conquiste sopra i musulmani, i beni dei naturali prendessero la natura di allodi, e grandissima copia di beni allodiali suppongono le nostre usanze e le nostre leggi". Alle popolazioni soggette i Normanni imposero tributi e servizi. I primi "contribuzione ordinaria e annuale"; il servizio invece si prestava "in diverse maniere, e in certi casi straordinari, e secondo che giudicava il principe esser richiesto ai bisogni pubblici e alle circostanze". Il cap. 7 del libro II tratta "la condizione e la relazion vicendevole delle parti che componeanla, e la relazione della nazion tutta all'ordine pubblico". "Le condizioni civili formano lo stato di ogni individuo: e sebbene a determinar quelle concorrano in modo particolare le leggi e le disposizioni del governo, pure le costumanze e gli usi dei tempi più che le leggi politiche aveano allora impressa una certa e special forma agli individui, onde non solo i dritti e le relazioni di quelli, ma anche le diverse classi in cui venia distribuita la nazion tutta ne risultavano".
Per il G. l'intento politico di Ruggero, "il più sapiente dei legislatori di quel tempo", si coglie nel rapporto istituito fra quell'ordine civile e l'ordine pubblico (politico): un grande intervallo fu posto tra ordine nobiliare (i possessori di feudo) e popolare (borghesi e rustici). Se questi ultimi vennero, i borghesi almeno, abilitati a "una certa rappresentanza nella interna amministrazione loro", non lo furono tuttavia a una politica. Le autentiche memorie del tempo chiamano "le corti generali" corti di grandi, prelati e nobili. Peraltro, "essendo allora i parlamenti di costituzione feudale, siccome le popolazioni feudali erano contenute nel barone, così le demaniali nel principe: onde se ne inferia, che se ciascun barone rappresentava in parlamento il suo vassallaggio, nel modo istesso vi rappresentava tutto il demanio il sovrano". Infine, "sebbene le nostre popolazioni fossero già innalzate sotto i Normanni quasi a uno stato di corporazione, e i borgesi avessero in ciascun luogo una civil rappresentanza, non aveano pure quella consistenza e quella forma, che dopo lor diè l'imperador Federigo". Ma "essendo già stato tutto il dritto politico fondato e costituito in Sicilia dal re Ruggieri, da ora innanzi non debbonsi aspettare che correzioni, riforme, o altri cangiamenti fatti agli antichi sistemi".
A quel capitolo il G. aveva dato inizio col grave annunzio: "Ei fu cosa veramente maravigliosa e lagrimevole come tante leggi ordinate sì saviamente, e tanto vigor di governo, e sì grande potenza al di fuori" venissero meno in Sicilia dopo i Normanni; "e dopo l'acerba e dolorosa perdita del buon Guglielmo I dì lieti in tristi lutti tornarono". Toccò a Federico II constatare la "dissoluzione dello stato politico", proporsi di ristabilire le leggi normanne andate in disuso e dettarne altre, incaricando il cancelliere Pier delle Vigne di compilare un codice che comprendesse "non solo le costituzioni da lui ordinate, ma quelle ancora dei re normanni, che ei volle autorizzare espressamente". Si era nel 1806, e Napoli francese affrontava il tema della ricezione dei codici. Il G. canta l'elogio del codice di Federico: "Fu veramente questo codice opera superiore a quel secolo, e degna del grandissimo ingegno di Federigo"; in tempi in cui nessuno Stato aveva un codice pubblico e bene ordinato di legislazione, "ma forse ancora gli editti i capitolari le assise di altre nazioni giacevansi incognite e negli archivi sepolte, e da per tutto viveasi di costumanze", e in Sicilia le costituzioni dei re normanni erano quasi dimenticate, "seppe il primo l'imperador Federigo immaginare un corpo di Dritto, e comprenderlo in un codice, il quale contenesse leggi a stabilire il sistema politico, ed a regolare le azioni e i giudizj". Risorto il diritto romano, "disegnò Federigo e seppe recare ad effetto una compilazione di leggi ad esempio dei Teodosj e dei Giustiniani".
Il cap. V del libro III, sulla riforma federiciana del potere locale, appare importante già nell'avvio. Tornano l'Europa e il "secolo" (e il rinvio d'obbligo è all'Introduzione di W. Robertson alla Storia di Carlo V): "Pure il maggior grado di rappresentanza fu quello di essere stati ammessi nei parlamenti. Vedea Federigo, che da per tutto in Europa davasi ai comuni importanza e vigore, e già alcuni tra i Sovrani chiamavanli alle corti generali della nazione ad opporre i suffragj e la unione di quelli al corpo feudale". Federico, tra i primi ad ammettere i Comuni nei Parlamenti, fu però consapevole che questa istituzione potea degenerare in abusi e "che poteano quei corpi attribuirsi in processo di tempo dritti e facoltà da procurarsi una ingerenza diretta e preponderante nelle cose politiche; e certo dovea renderlo assai cauto e sollecito l'esempio pericoloso e vicino delle città italiane". La storia di Corrado e di Manfredi conferma timori e saggezza dell'imperatore: "è […] indubitato, che i tre ordini, da cui sono costituite in Sicilia le adunanze generali, non sono stati presso noi sin da tempi antichissimi altrimenti chiamati che bracci, siccome nel regno di Aragona chiamavansi: ma non havvi alcuna memoria a dimostrare, che davasi in quest'epoca ai nostri tre ordini questa denominazione. […] è però incontrastabile che le più antiche nostre memorie sin da quest'epoca ci rappresentano il parlamento siciliano assai simigliante alle corti generali del regno di Aragona". Nella logica politica del grande racconto i Vespri sono quasi un incidente di percorso. Eppure "i tempi che seguirono dopo la espulsione degli Angioini alterarono di mano in mano gli uffici di giurisdizione e gli antichi ordini di amministrazion di giustizia", perché da allora "avea acquistata la nazion tutta una forza nuova, e rappresentanza tale cui nei precedenti governi non avea osato né anche di aspirare", anche se "di tutta la nazione quelli che vennero allora a più alto stato, e innalzaronsi a nuova importanza, furono i baroni ed i nobili". Né vennero correzioni dal potere locale: sebbene tra la cessazione del dominio angioino e l'inizio dell'aragonese fosse annunziato solennemente "che l'Isola si governava a Comune, pure questo governo era in mano dei soli baroni e dei militi: ed ei certamente dee recar maraviglia, come non molto tempo innanzi, ossia alla morte di Corrado, e nel baliato di Manfredi, avendo osato le principali città siciliane, e tra queste Palermo e Messina, crearsi un proprio lor podestà, e costituirsi alla stessa maniera delle repubbliche italiane, poi quelle stesse popolazioni, dimentiche affatto di ciò che avevano in tempi meno propizj osato, e attaccate alle antiche loro abitudini, altro non fecero nell'interregno, che prestare le armi e il furor loro ai grandi", mostrandosi soddisfatte delle immunità loro concesse senza immaginare di poter procurarsi "forme più stabili e più significanti di corporazione". Questa possibilità fu invece compresa e attuata da Federico III, per bisogni finanziari che solo le Comunità potevano soddisfare e perché scontento "dei principali tra i magistrati, per li quali aveva ordinate continue e gravi riforme".
Federico III è dunque il terzo eroe della Storia, dopo Ruggero e Federico II: "Che se niuno storico siciliano contemporaneo si è veduto sinora, che avesse descritti i grandi avvenimenti sotto i Normanni e gli Svevi, abbondò nell'epoca aragonese la Sicilia di scrittori e di storie, quasiché da grandissimo studio per le cose patrie infiammati i siciliani, non avessero potuto contenersi di pubblicare per l'Europa tutte quelle magnanime imprese, e di tramandarle ai posteri coi loro scritti". Gli Aragonesi sapevano di non poter reggere il potere senza "uno straordinario sforzo dei nuovi lor sudditi", che si manifestò specialmente con Federico: "Se i siciliani si videro allora abilitati a tante speranze, aveano insieme acquistato tale e sì straordinario grado di forza pubblica, qual facea mestieri a superare tanti ostacoli, ed a resistere con successo agli sforzi continui di tanti nimici e sì possenti. La nazion tutta da gran tempo volontariamente e con entusiasmo armata, e fatta per emulazione e per uso bellicosa, avea non solo nelle imprese di terra, ma acquistata ancora grande perizia e possanza nei fatti di mare". L'abitudine alle armi era necessaria in stato di guerra, ma pericolosa in pace, e nella nazione assunsero particolare importanza i nobili.
Col Vespro fu "la macchina tutta del governo scossa violentemente, e in tutte le sue parti d'allora in poi rilassatasi, non si poté per lunghissimo tempo mai più ricomporre"; gli antichi ordini politici non poterono sussistere nella forma originaria e tesero a dissolversi, tanto più quanto le ragioni di questo "erano riputate a buon dritto, nei primi tempi massimamente, degne di laude e di premio". Lo storico osservava "vizj interni, e i principj di decadenza, e di scioglimento, e i rimedj applicativi; i quali, mentre alteravano le istituzioni normanne e sveve, non serviano che a provvedere al momento, sinché si manifestò dissoluta tutta la costituzione, quando non fu più sostenuta dalla virtù personale del principe". Il male era nella radice; nondimeno Federico vi avrebbe posto rimedio "se fosse stato possibile di subordinare alle leggi le circostanze e i costumi", perché non fu solo abile guerriero e buon restauratore del potere regio, ma soprattutto, non meno di Federico II, politico lungimirante. "Ei fu sin da quei tempi considerata come una saggia operazione politica […] la disposizione di potersi tra i privati alienare i feudi, come un mezzo efficacissimo a diminuire gli ampj e preponderanti corpi feudali: ed a quei principi, che aveanla immaginata e promossa, sin d'allora attribuivasi senno e fortezza, imperciocchè mentre aveano con tal mezzo saputo ingrandire la potenza politica del Monarca […] favoriano nel tempo istesso un più libero commercio delle terre e dei feudi, onde si impiccolivano e si moltiplicavano le proprietà, ed insieme più ugualmente tra i sudditi distribuivansi". Federico "dichiarò adunque […], che ogni conte e barone e feudatario, e chiunque dalla corte immediatamente tenesse feudo, o parte di esso, potesse liberamente venderlo, pegnorarlo, donarlo, permutarlo, e legarlo e disporne nelle ultime sue volontà […] sì veramente che volle preferita la Real Corte […] Egli è chiaro, che mentre con questa legge serbavansi i dritti del fisco, rientravano a così dire nel tempo istesso nella massa comune delle proprietà i feudi, abilitandone i possessori a un libero e perpetuo commercio".
La difesa della legislazione "siciliana" poteva così diventare il punto di equilibrio dell'intera storia. Mentre i costumi pubblici "nudrivano le sette e i partiti, il Principe con le leggi cercava di spegnerli inutilmente. Egli è pur certo, che se furono di ordinario raffrenati dal re Federigo i nobili e i grandi, non si videro giammai riformati e corretti". Dopo il debole governo di Pietro e il buon governo del principe Giovanni le fazioni riesplosero. Il libro V, che il G. vide solo in bozze, narrava dell'anarchia e della "potenza e virtù" con cui Martino aveva proceduto alla "restaurazione" del diritto pubblico siciliano. Una parabola cui il G. dava suggello con in vista la sottomissione della Sicilia alla Spagna: "Veramente d'allora in poi cominciò ad essere la massima dominante di un governo lontano di temer sempre e riguardar quindi e accarezzare in Sicilia i grandi e i potenti". Constatava al tempo stesso la decadenza della vita e delle istituzioni ecclesiastiche, identificando però una vasta zona intermedia che interpretava il desiderio di ordine e di pace ma che non seppe darsi un centro, oscillando fra l'una e l'altra fazione e contribuendo così a frustrare ogni progetto costruttivo. Il cap. 2 del libro V descrive "la contorsion forzata e violenta" subita allora: "È così per natura composta ogni bene ordinata autorità politica che l'autorità sovrana e l'unità del governo, quasi l'anima general dello stato, per tutte le parti di quello si spande, e tienle unite, e formane un corpo ben connesso e robusto. Era maravigliosa questa unità ed espansion generale di potenza politica nel sistema normanno e svevo, in cui il regno tutto diviso in provincie, e queste in territorj separati, le giurisdizioni locali dipendeano dalle provinciali, e le une e le altre dipendevano dalla Real Magna Curia […]. All'incontro l'anarchia è così fatta, che tira naturalmente alla dissoluzione politica, ribolle di fazioni e di sette, esclude ogni sistema, non sa assoggettarsi a regola di ben ordinato corpo, né ammettere unità".
La restaurazione di Martino poté quindi essere una liberazione del popolo (libro V, cap. 3): "Se a comprendere il dritto pubblico di una nazione è necessario investigar da principio le sue prime origini, e i suoi incominciamenti, e ricercare come di tempo in tempo siesi formato e seguirne la mossa, e notarne le alterazioni successive e i dicadimenti, e infine saper le cagioni della sua total dissoluzione, non è meno importante di conoscere l'ordine preso e i mezzi adoperati nella sua restaurazione. […] Parve al primo giunger nell'isola del principe aragonese scosso dal suo lungo letargo il popolo siciliano, e sollevato a migliori speranze, e delle sue fortune occupatosi, mostrò cupidissimamente di volersi liberare dal dominio dei grandi". Ma, in una Sicilia corrotta dall'anarchia, i Comuni non risposero alla sollecitazione: "l'anarchia avea già spenta nei siciliani ogni ricordanza degli articoli più importanti del lor dritto pubblico, e fatta già perdere la tradizione delle loro antiche usanze. […] E il popolo, che non sa contenersi giammai ne' debiti limiti, dalla servitù, che venia di soffrir sotto i grandi, appena restituito in libertà, trascorse immantinenti sotto un principe buono quasi in una certa licenza: poiché si videro appena chiamati con la più leal confidenza i Comuni a cooperarsi con lui ad una riforma, invece di applicarsi a ripigliare gli antichi e legali sistemi, pretesero riformare, e il governo, e la corte".
La morte del re chiuse tragicamente una storia e un'epoca. I Siciliani, usi da secoli ad avere re propri e ricordando che l'isola era stata centro di una monarchia vasta, "isdegnarono apertamente di vedersi ridurre sotto il dominio di un re ignoto e di un governo straniero. Né poteva essere più generale e più costante questo voto della nazion siciliana […]. Pur questa volontà salda e generale riuscì sempre in isforzi mal concertati e impotenti". Il G. contrastò la Sicilia delle fazioni con la Spagna del congresso di Caspe. Ma da qui venne la speranza che da Ferdinando la Sicilia avesse un re proprio: l'illusione che accompagnò la presenza dell'infante Giovanni. Nonostante un'apparenza di forza e autorità il governo era intimamente debole; per lunga abitudine i Siciliani guardavano nobili e grandi come arbitri supremi delle cose pubbliche; "così fatta dipendenza della nazione dai baroni rendeva ancora di necessità dipendente dai baroni il governo. Dee ricordarsi a questo luogo, che erasi introdotto generalmente l'abuso, che non solo gli ufficiali delle terre e città del Demanio, ma i baroni ancora nei lor vassallaggi faceano divieto, e impedivano di fatto i borgesi dei lor territorj, a potere indi estrarre grani, biade, vittuaglie, ed ogni maniera di merci e di derrate proprie degli stessi borgesi, il che certamente faceano non solamente per monopolio, e perché ne potesse incettar solo la vendita l'ufficiale o il barone, ma anche per fissare ed esiger nuovi dritti d'estrazione". Divenne massima dominante di un governo lontano il temere sempre e trattare con riguardo in Sicilia i più grandi e potenti. "Da che passò quest'Isola per sistema sotto la dominazione di re lontani […], sebbene avesse mantenuta la propria sua dignità, e tutte conservate le prerogative di regno, pure non lasciò di essere involta nelle vicende di quelli, e di partecipare negli interessi, e di risentire i movimenti di una più vasta, e potente monarchia: e ne furono sperimentati gli effetti sin dai tempi di Alfonso per le imprese che ei tolse a sostenere principalmente in Italia; onde nacque e fu poi propagato quel moto, che sconvolse in prima la stessa Italia, e in fine l'Europa intera, mutandone il sistema politico, e nuovi usi e nuovi modi inducendovi". Così, dalla fine del secolo XV, popoli e governi, prima "quasi separati e presso che senza niuna comunicazione tra loro", ebbero nuovi interessi e cominciarono a gareggiare in potenza; "nel tempo istesso nuova luce sopra tutte le scienze successivamente spargendosi, ed arti nuove introdottesi dopo nuove invenzioni e scoverte; assalita nel medesimo tempo la religione da nimici possenti", si delineò "una mutazione grandissima nei sistemi politici, nelle forme civili, nelle leggi e nelle usanze degli stati e dei popoli". In questo processo anche la forma politica della Sicilia "fondata già dai re normanni, e poi caduta nei tempi dell'anarchia, né ristabilita appieno sotto Martino" subì alterazioni e ne adottò le novità cui "veniano di mano in mano gli stati tutti di Europa piegandosi insensibilmente".
Nel libro VI, il secondo postumo (1816), la lezione di Robertson poté dispiegarsi. Riassunta la "rivoluzione generale nei governi, negli interessi, nelle leggi, e nelle usanze degli stati, e dei popoli", il G. poté studiarne l'influenza in Sicilia. Priva di re proprio, la Sicilia rimase comunque lontana dal centro europeo; "sebbene nel corso dei tempi sinora descritti sia stata l'Europa tutta agitata da grandi e straordinarj avvenimenti", l'isola ne risentì indirettamente e nel modo in cui "influir poteano in uno stato subalterno, e dipendente da una più ampia e lontana monarchia, nella stessa guisa che gli sconvolgimenti che avvengono nel centro di un corpo grande colpiscono assai debolmente le picciole ed estreme parti di quello". Divenne però necessario "per la grande e generale mutazione delle forme politiche di Europa di adattare in Sicilia alcune nuove introduzioni al sistema antico". Nel Parlamento entrò la "legge pazionata": "Era certo per se stessa indecente una tal formola ed assurda quella maniera di impetrare con danaro per le leggi che si voleano stabilite, la sovrana approvazione; imperciocché sebbene alcuni capitoli non contenessero che semplici grazie, in altri pure veniasi a costituire una legge". Ancor più emblematica sembrò al G. la graduale scomparsa dei giustizieri provinciali e l'usurpazione baronale della giurisdizione civile e penale: "i baroni, ai quali peraltro aveano sempre recata noia i giustizieri provinciali, lusingavansi di ridur le cose a termini tali, che fosse riconosciuto necessario di doversi ad essi tutti per sistema illimitatamente e generalmente accordare il mero e misto impero, il che pretesero sempre in questi tempi".
Ma "l'oggetto principale e continuo" che allora occupò il governo fu l'elezione degli ufficiali municipali. "Assai prima che Alfonso si applicasse a pubblicare l'anzidetto corpo di leggi per ricomporre lo stato degli ufficj municipali, ossia prima dell'anno 1433 desideravano molte popolazioni, che potessero per via di squittino eleggere i loro ufficiali. […] Pure quando lo stesso Alfonso riordinò poi con un sistema generale l'ufficio dei giurati, non fece parola alcuna della maniera di eleggerli, né di cedole, né di squittini"; in molti luoghi, anzi, gli ufficiali municipali erano di nomina governativa, e "tanta e sì immediata ingerenza del governo in tali elezioni, disortaché o non faceasi in alcuni luoghi celebrare il consiglio, o celebratosi, dei suffragi ivi raccolti non teneasi dopo alcun conto, derivava perché erano torbide le ragunanze, e tumultuosi i consigli, e agitati e divisi i comuni da fazioni e partiti". I nobili volevano occupare l'amministrazione, mentre i popolari non volevano essere esclusi; dunque da Alfonso a Carlo V i Comuni siciliani furono sconvolti "da sì continui e torbidi movimenti nell'interno reggimento loro, che propagaronsi quei disordini sino a tempi di appresso, e sino oltra alla metà del secolo decimosettimo". E sebbene "ad eleggere gli ufficiali municipali siasi da principio prescritto per sistema generale che doveasi cominciare dallo squittino, ed estrarne poi a sorte dal bussolo i nominati nelle cedole", tuttavia essendo queste modalità di elezione talora proibite o sospese, avvenne che si iniziò "a tenere come consuetudine locale quella, che era in prima e nella sua origine una istituzione generale. Per questa ragione fu introdotto di allora in poi di chiamarsi volgarmente questa forma di elezione privilegio del bussolo".
I baroni da parte loro ottennero maggiori privilegi, quanto a diritti di possesso e ordine di successione, e minori gravami, mentre l'acquisto di nuovi diritti e l'estendersi delle giurisdizioni feudali si tradusse anche in nuove rendite nei vassallaggi. In migliore stato i baroni, in peggior condizione col Demanio il Fisco regio. "Ma assai più ben composte […] passarono dopo le cose in Sicilia. Veramente Ferdinando il Cattolico sino al 1502 non riscosse dai siciliani straordinarie contribuzioni, che sole tre volte e per ben lunghi intervalli"; dal 1502 si cominciò a convocare regolarmente i Parlamenti ogni tre anni, e ogni volta si stabiliva di pagare per tre anni 300.000 fiorini. In sintesi, eventi e novità politiche fecero comprendere che le costumanze feudali non si accordavano con le grandi necessità dello Stato; "fu compreso ad evidenza che la forza e il nerbo principal dello stato dovea consistere nel danaro da versarsi nell'Erario annualmente, e da impiegarsi dal principe in quel modo che i nuovi sistemi e le introduzioni nuove esigeano. I siciliani ne furono sì fattamente persuasi, che non citarono più da Ferdinando il Cattolico in poi i capitoli di Giacomo, convinti pienamente che le collette non poteano più regolarsi a norma dei casi feudali; e che nella nuova composizione delle cose politiche era necessaria una continua ed ordinaria assegnazione di danaro".
Il bilancio vuol essere positivo: qui, più nettamente che in precedenza, il G. trae dall'attualità le grandi questioni cui una lettura storica del passato può dare risposta articolata. Mentre la domanda di un re proprio negli anni siciliani della monarchia prendeva toni apertamente antinapoletani, egli e gli allievi non ebbero parte nelle rivolte separatiste; fino alla morte il G. rimase fedele al processo di unificazione istituzionale dei Regni di Sicilia e di Napoli. La polemica degli anni Ottanta rivendicava il carattere proprio della legislazione siciliana, ma per farne il fulcro del riformismo moderato: la questione feudale pareva già allora al G. superata dalle provvidenze di Giacomo e di Federico III, che, al pari di Enrico VII, avevano eroso la proprietà baronale, rendendo possibile entro l'involucro feudale la formazione di nuova proprietà libera. Ma ora aveva chiarito i termini della "rivoluzione" europea che aveva investito la Sicilia fra Quattro e Cinquecento: i baroni, non più obbligati al servizio, non avevano diritto a intrattenere i privilegi che quelle prestazioni giustificavano; e il sistema dei donativi e della nuova fiscalità restituiva alla monarchia, in una concezione nuova della cittadinanza e del pubblico interesse, quei tratti della costituzione normanna cui il G. affidava, fin dalla dedica al sovrano, presente e futuro della Sicilia.
Opere: Oltre a quelle citate vanno ricordate Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere (due volumi in folio, Palermo 1791-92) e Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (ibid. 1794; rist. anastatica, a cura di M. Bellomo, Reggio Calabria 1994). Nel 1821 furono raccolti e stampati col titolo Discorsi riguardanti la Sicilia alcuni scritti minori, editi (per lo più nel Notiziario di corte) e inediti; più ampia e corretta la seconda edizione (ibid. 1831). Nel 1831-39 a Palermo furono ristampate, in 4 voll., le Considerazioni. L'Introduzione, le Considerazioni e i Discorsi furono riuniti in un volume di Opere scelte del can. Rosario Gregorio (ibid. 1845). Dal 1852, a cura di V. Mortillaro, fu pubblicata una ristampa corretta, più volte replicata nel corso dell'Ottocento. Anche per le Considerazioni essa resta meglio affidabile della ristampa 1972 (in tre voll., s.l., ma Palermo) con introduzione di A. Saitta. Nel 1899 G. La Mantia pubblicò, sempre a Palermo, una memoria inedita Dei reali archivi di Sicilia. È in preparazione l'edizione critica di Introduzione e Considerazioni a cura di G. Giarrizzo.
Fonti e Bibl.: Il G. non ha avuto nella storia della moderna storiografia il posto che gli spetta. Assai modesta la biografia di V. Di Giovanni, R. di G. e le sue opere, Palermo 1871; utili i due quaderni di N. Rapisarda, Studi su R. G., Catania 1909-10 e la recente biografia di P. De Gregorio, Vita di R. G., Palermo 1996. Restano incisive le pagine dedicate al G. da D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, III, Palermo 1827, pp. 164-190. Vedi infine: G. Giarrizzo, Nota introduttiva all'antologia di scritti del G. in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 1135-1155; e la citata introduzione di A. Saitta alla ristampa 1972 delle Considerazioni (I, pp. 7-28).
Dal 1769 nei Regi Studi di Palermo ebbe a maestri G. Nicchia in filosofia, il newtoniano N. Cento in matematica, F. Carì in teologia e F.S. Romano nella lingua greca; a loro D. Scinà, allievo del G., avrebbe riconosciuto il merito d'aver reso comuni "e la diritta maniera di filosofare, e la critica e la sodezza nelle sacre discipline, e lo studio delle lingue, e il gusto e i buoni studi".
Nel 1776 il G. fu ordinato diacono e sacerdote nel monastero delle Stimmate. L'anno dopo l'arcivescovo F. Sanseverino lo chiamò a insegnare teologia nel seminario dei chierici, dove fu fino al 1783 ed ebbe a discepolo Scinà, cui "pose in mano i saggi di David Hume sullo intelletto umano, ché accomodato gli avessero in miglior modo la mente e sviluppato presidii sani di quella filosofia, che non si apprende già nelle scuole, ma che si fabbrica nei segreti penetrali del nostro intelletto".
Il 23 febbr. 1778 l'arcivescovo conferì al G. il beneficio dell'Arciconfraternita dell'Unione dei Miseremini della chiesa di S. Matteo del Cassero, che ne comportava la rettoria e in passato era stato unito alla dignità di cappellano maggiore, ora tenuta dall'arcivescovo di Eraclea in partibus, Alfonso Airoldi, che nell'aprile 1778 rientrò a Palermo come giudice del Tribunale di R. Monarchia. Questi divenne protettore del G., fu suo tramite con l'antiquaria napoletana e lo chiamò a illustrare i sepolcri dei sovrani normanni, riaperti nel corso dei lavori di restauro della cattedrale.
Sono di questi anni tre volumi manoscritti (conservati presso la Biblioteca comunale di Palermo) di Institutiones theologicae: sui "luoghi teologici" (1779), la Trinità e la creazione degli angeli e dell'uomo (1780), il peccato originale, l'Incarnazione, il culto dei santi e la grazia di Cristo (1781). Il primo lavoro a stampa del G. fu un contributo al volume di F. Daniele, I regali sepolcri del duomo di Palermo riconosciuti e illustrati, Napoli 1784.
Frattanto, dall'ottobre 1781, era giunto in Sicilia come viceré D. Caracciolo, che nel dicembre 1783 fece eleggere il G. canonico della cattedrale di Palermo e lo spinse verso la storia araba, "utile per sapere quale incremento e quale progresso ebbero le scienze nelle mani degli Arabi, i quali le sostennero nel X secolo, mentre esisteva fra noi la massima oscurità".
Il compito era chiaro e urgente: "il genere degli studi, ai quali mi sono applicato, mi fa disperare di una felice riuscita, volendo io esaminare i principii e i progressi del giuspubblico siculo; ed è questa una materia intatta […]. La nostra diplomatica è tutt'ora allo stato d'infanzia. Non tutti gli archivi mi sono aperti: mi converrebbe di visitare quelli del Regno: e le forze di un particolare non sono da tanto […]. Se non si fa un'accurata raccolta di diplomi d'ogni sorta […] non potrà mai essere illustrata la siciliana polizia" (il G. a F. Daniele, 22 febbr. 1785). Il 26 luglio 1785 Airoldi fu autorizzato a concedere sussidi al G., "applicatosi alla storia di Sicilia, ed alla illustrazione dell'epoca oscurissima dei Saraceni".
Il G. aveva iniziato questi studi compilando "una raccolta delle iscrizioni saraceniche esistenti in Sicilia" per una nuova edizione (Palermo 1784) delle Iscrizioni di Sicilia di G.L. Castelli e Giglio, principe di Torremuzza; poiché non conosceva ancora l'arabo, furono C.G. von Murr e O.G. Tychsen a leggere i caratteri arabi ricamati nelle maniche del "camice" che aveva vestito il cadavere di Federico II.
Il 7 ag. 1785 un dispaccio istituì la cattedra di lingua araba nell'Accademia, assegnandola all'abate maltese G. Vella, che stava componendo la fantasiosa traduzione di un codice arabo conservato nel convento benedettino di S. Martino gabellandolo per un carteggio degli emiri di Sicilia con i principi arabi dell'Africa settentrionale.
Nel novembre 1786 il G. illustrava a J.-J. Barthélemy i propri dubbi sull'autenticità della "traduzione" dell'abate maltese: "Io vi trovavo altri mesi, altra cronologia, altra geografia, uno stile monotono e informe e gli Arabi che vi si vedon dentro sono senza religione, senza costumi e dettagli morali, insomma senza quei caratteri nazionali che distinguono un popolo dall'altro […]. Intanto io mi trovavo avere raccolte alcune iscrizioni, osservate le monete pubblicate dall'Adler ed altri diplomi io aveva veduti e tradotti. E non ci trovavo alcuna uniformità. Non ho lasciato di tempo in tempo di presentare le mie difficoltà: ma esse furono apprese come nate dalla mia poca perizia nella lingua araba". Così senza maestri, "unis tantum ducibus libris" (quelli di Th. Erpenius e J. Golius), il G. apprese l'arabo quanto bastava ad affrontare un argomento di diplomatica che avrebbe contribuito a distruggere il laborioso e grossolano falso di Vella, e pubblicò la dissertazione De supputandis apud Arabes Siculos temporibus (Palermo 1786). Contemporaneamente, forte degli appoggi politici, attaccò la Storia civile della Sicilia di G.E. Di Blasi, regio storiografo, che reagì con una apologia contro l'attacco a Vella.
Nel 1787, fino al settembre, il G. fu a Napoli "a dissotterrare monumenti per rischiarare e commentare molti manoscritti arabi, li quali si trovano da lui [Gregorio] acquistati o pure a lui consegnati" (così Caracciolo a F.M.V. d'Aquino principe di Caramanico).
L'ambiente politico napoletano era agitato dal dibattito aperto da una "rimostranza" di S. Simonetti (20 luglio 1786) sulla natura dei feudi in Sicilia. L'autonomia "nazionale" della Sicilia in fatto di diritto pubblico e persino privato sotto la monarchia normanno-sveva, e la peculiarità del diritto feudale siculo esaltata dalla legislazione aragonese erano i pilastri della barriera che baroni e magistrati isolani opponevano da decenni alla politica antifeudale della monarchia. Al centro stava l'interpretazione dei capitoli Si aliquem di Giacomo d'Aragona e Volentes di Federico III. Contro "le non vere asserzioni" degli scrittori siciliani, C. Pecchia aveva provato che il "Guiscardo con introdurre il servizio feudale tutti generalmente, senza neppure eccettuare il fratello, "suae subdidit dominationi", e che lo stesso praticò nell'isola il conte Ruggieri: […] che lo stesso sistema tennero non meno i successori Normanni che gli Svevi, con essersi l'imperador Federigo spiegato apertamente". La rottura sarebbe venuta col Vespro e i capitoli Si aliquem e Volentes; "non perciò i feudi della Sicilia han cambiato natura, sicché, usciti dall'ordine politico dello Stato, siensi convertiti in allodi, siccome si è voluto dare ad intendere". Per il G., invece, da una "piana, e letterale interpretazione" del capitolo Volentes "si argomenta assai manifestamente che, se prima di una tal legge i feudi erano inalienabili, da indi in poi hanno i feudatari acquistato la facoltà di alienarli". Per il dettato della legge e "l'uniforme consenso dei comentatori […] egli è incontrastabile che per dritto feudale siciliano la natura de' feudi si è mutata, che i feudi per la loro alienabilità si debbono considerare come allodi, e che la parola di eredi comprende ancora gli estranei. Cose tutte ripugnanti al comune ed antico dritto feudale, ed ora convenienti ai feudi siciliani per lo capitolo Volentes". La scelta del G. interpretava il passaggio dalla linea dura di Caracciolo al "compromesso" del principe di Caramanico.
Nel 1789, per scelta del viceré, divenne professore di diritto pubblico siciliano nell'Accademia e chiuse la stagione "arabica" pubblicando a Palermo nel 1790 la Rerum Arabicarum quae ad historiam Siculam spectant ampla collectio e, nel 1791-92, i due tomi in folio della Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere. Con l'insegnamento preparò la sua storia della Sicilia dal "conquisto" normanno a Filippo II.
La Rivoluzione francese impose un'accelerazione improvvisa al conflitto interno: per un verso si stemperò "l'amaro della feudalità", per l'altro incombette lo spettro del "giacobinismo". Il G. lavorò con furia alla sua storia di Sicilia: lesse e rilesse i suoi "autori", Hume e G. de Mably; ma più urgente gli parve stabilire, mentre dilagava la polemica sui falsi di Vella e il "modello feudale" attribuito a Ruggero, il fondamento storico della monarchia meridionale che aveva avuto a Palermo la prima sede. Agli alunni del corso di diritto pubblico lesse prima il percorso della storiografia moderna sulla Sicilia, ne saggiò le fonti e dispose sull'ideale scansia i grandi tomi dell'antiquaria e dell'erudizione europea; infine disegnò il piano della sua Storia, pubblicando a Palermo nel 1794 la sobria e orgogliosa Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (rist. anastatica, a cura di M. Bellomo, Reggio Calabria 1994). Aveva già scritto gran parte del lavoro maggiore, il cui titolo ricalcò quello delle Observations sur l'histoire de France dell'ammirato Mably: Considerazioni sopra la storia di Sicilia dai tempi normanni sino a' presenti.
Tra 1790 e 1805 egli aveva trascritto dagli archivi delle chiese di Patti, Agrigento, Cefalù diplomi e diplomi, pur tenendo con puntualità i corsi. Per dieci anni tempestosi restò ai margini della vita pubblica per dedicarsi interamente alla stesura della sua opera, con la quale la Sicilia da Ruggero a Filippo II entrava nella grande storia dell'Europa moderna.
Dalla fine del 1805 il G. fu afflitto da una malattia neurologica, che evolveva verso una paralisi progressiva; morì a Palermo il 13 giugno 1809.
Le Considerazioni sopra la storia di Sicilia uscirono in varie riprese: lo stesso G. pubblicò a Palermo dal 1805 al 1807 i primi quattro volumi; alla sua morte le bozze corrette del quinto volume giacevano sul suo tavolo; il quinto e il sesto volume apparvero postumi (ibid. 1810-16). Quel che restava del settimo fu edito, prima a puntate, da G.B. Nicolosi nel Giornale di scienze, lettere ed arti per la Sicilia, quindi in volume (Palermo 1826).
Il G. si propose di "illustrare le origini, i progressi, le mutazioni, le riforme avvenute nella nostra composizione politica, la quale tiene come a suo principio alle leggi dettate dai conquistatori normanni"; ma "nella volubilità dei secoli sono state tanto varie e sì molte le consuetudini, gli usi, le invenzioni e le scoverte, che è stato forza introdursi nuove maniere di vivere". Va così evitato l'errore di credere che "li modi presenti sieno gli stessi che hanno avuto luogo per lunghissimi secoli innanzi di noi", che fa mal comprendere i modi "secondo i quali al presente ci viviamo". Tema difficile e importante la considerazione del nesso presente/passato; non meno importante l'altro dell'unità del Regno: con la ritrovata unione "questi due beatissimi regni, i cui destini sono naturalmente comuni e reciproci gli interessi, ritornarono per sistema alla felice costituzione di avere un proprio monarca, e di sentire immediatamente gli effetti della potenza e beneficenza di quello". Il soggetto delle Considerazioni rimane però la "nazione siciliana". Il concetto e il termine prendono rilievo quando il G. considera la conquista mussulmana: il popolo siciliano, dai mussulmani vinto, ne aveva adottato le forme civili. Così, "sebbene avesse prima sotto i Saracini ritenuta la sua religione, il suo dritto privato, pure essendo stato sotto il dominio di una nazione, che avea diversa e detestata religione, ed altre usanze ed altro dritto, usciva dirò così da uno stato di contorcimento e di compressione". L'impresa normanna aveva oscillato fra conquista e "crociata". Nella prefazione, dopo aver notato però che i vinti serbavano senza un proprio diritto pubblico "la qualità di nazione" e aspiravano a uscire "da uno stato di contorcimento e di compressione", il G. trovava che "non desiderava il popolo siciliano di essere restituito alle forme del governo bizantino, […] se non dimenticato, certamente non caro"; "i Normanni non avevano ragione alcuna di rispettare e di ritenere né anche in menoma parte una costituzione politica, che fosse stata in Sicilia; ed essi realmente non ve ne trovarono alcuna: a dire il vero, poteano essi trattare i Siciliani come un popolo nuovo e senza alcun dritto pubblico, e pronti in conseguenza e disposti a ricevere quello che avrianvi i loro liberatori adattato, come sopra un'ignuda e vota superficie un nuovo edifizio".
In ciò essi agirono diversamente dal normanno Guglielmo, che in Inghilterra "non tenendo conto delle introduzioni anglo-sassoni, vi adottò lo stesso dritto pubblico di Normandia […] e pose ancora ogni sua opera a far prevalere in quel regno i costumi e sino il linguaggio dei Franchi", dando così occasione a non brevi conflitti. Non così Ruggero: aveva introdotto il sistema feudale, ma mantenendo "ai naturali la proprietà loro" e abilitandoli persino "a una certa specie di magistratura" locale. Ma la feudalizzazione introdotta aveva riguardato le terre tolte ai mussulmani: "era conveniente che, spento l'antico governo, e fatta dominante la religion cristiana, le proprietà degl'isolani fossero liberate dal tributo, che a poter quella pria esercitare pagavano agli Arabi […]. Fu quindi mestieri che, mentre introduceansi i feudi in Sicilia nelle concessioni che faceansi delle conquiste sopra i musulmani, i beni dei naturali prendessero la natura di allodi, e grandissima copia di beni allodiali suppongono le nostre usanze e le nostre leggi". Alle popolazioni soggette i Normanni imposero tributi e servizi. I primi "contribuzione ordinaria e annuale"; il servizio invece si prestava "in diverse maniere, e in certi casi straordinari, e secondo che giudicava il principe esser richiesto ai bisogni pubblici e alle circostanze". Il cap. 7 del libro II tratta "la condizione e la relazion vicendevole delle parti che componeanla, e la relazione della nazion tutta all'ordine pubblico". "Le condizioni civili formano lo stato di ogni individuo: e sebbene a determinar quelle concorrano in modo particolare le leggi e le disposizioni del governo, pure le costumanze e gli usi dei tempi più che le leggi politiche aveano allora impressa una certa e special forma agli individui, onde non solo i dritti e le relazioni di quelli, ma anche le diverse classi in cui venia distribuita la nazion tutta ne risultavano".
Per il G. l'intento politico di Ruggero, "il più sapiente dei legislatori di quel tempo", si coglie nel rapporto istituito fra quell'ordine civile e l'ordine pubblico (politico): un grande intervallo fu posto tra ordine nobiliare (i possessori di feudo) e popolare (borghesi e rustici). Se questi ultimi vennero, i borghesi almeno, abilitati a "una certa rappresentanza nella interna amministrazione loro", non lo furono tuttavia a una politica. Le autentiche memorie del tempo chiamano "le corti generali" corti di grandi, prelati e nobili. Peraltro, "essendo allora i parlamenti di costituzione feudale, siccome le popolazioni feudali erano contenute nel barone, così le demaniali nel principe: onde se ne inferia, che se ciascun barone rappresentava in parlamento il suo vassallaggio, nel modo istesso vi rappresentava tutto il demanio il sovrano". Infine, "sebbene le nostre popolazioni fossero già innalzate sotto i Normanni quasi a uno stato di corporazione, e i borgesi avessero in ciascun luogo una civil rappresentanza, non aveano pure quella consistenza e quella forma, che dopo lor diè l'imperador Federigo". Ma "essendo già stato tutto il dritto politico fondato e costituito in Sicilia dal re Ruggieri, da ora innanzi non debbonsi aspettare che correzioni, riforme, o altri cangiamenti fatti agli antichi sistemi".
A quel capitolo il G. aveva dato inizio col grave annunzio: "Ei fu cosa veramente maravigliosa e lagrimevole come tante leggi ordinate sì saviamente, e tanto vigor di governo, e sì grande potenza al di fuori" venissero meno in Sicilia dopo i Normanni; "e dopo l'acerba e dolorosa perdita del buon Guglielmo I dì lieti in tristi lutti tornarono". Toccò a Federico II constatare la "dissoluzione dello stato politico", proporsi di ristabilire le leggi normanne andate in disuso e dettarne altre, incaricando il cancelliere Pier delle Vigne di compilare un codice che comprendesse "non solo le costituzioni da lui ordinate, ma quelle ancora dei re normanni, che ei volle autorizzare espressamente". Si era nel 1806, e Napoli francese affrontava il tema della ricezione dei codici. Il G. canta l'elogio del codice di Federico: "Fu veramente questo codice opera superiore a quel secolo, e degna del grandissimo ingegno di Federigo"; in tempi in cui nessuno Stato aveva un codice pubblico e bene ordinato di legislazione, "ma forse ancora gli editti i capitolari le assise di altre nazioni giacevansi incognite e negli archivi sepolte, e da per tutto viveasi di costumanze", e in Sicilia le costituzioni dei re normanni erano quasi dimenticate, "seppe il primo l'imperador Federigo immaginare un corpo di Dritto, e comprenderlo in un codice, il quale contenesse leggi a stabilire il sistema politico, ed a regolare le azioni e i giudizj". Risorto il diritto romano, "disegnò Federigo e seppe recare ad effetto una compilazione di leggi ad esempio dei Teodosj e dei Giustiniani".
Il cap. V del libro III, sulla riforma federiciana del potere locale, appare importante già nell'avvio. Tornano l'Europa e il "secolo" (e il rinvio d'obbligo è all'Introduzione di W. Robertson alla Storia di Carlo V): "Pure il maggior grado di rappresentanza fu quello di essere stati ammessi nei parlamenti. Vedea Federigo, che da per tutto in Europa davasi ai comuni importanza e vigore, e già alcuni tra i Sovrani chiamavanli alle corti generali della nazione ad opporre i suffragj e la unione di quelli al corpo feudale". Federico, tra i primi ad ammettere i Comuni nei Parlamenti, fu però consapevole che questa istituzione potea degenerare in abusi e "che poteano quei corpi attribuirsi in processo di tempo dritti e facoltà da procurarsi una ingerenza diretta e preponderante nelle cose politiche; e certo dovea renderlo assai cauto e sollecito l'esempio pericoloso e vicino delle città italiane". La storia di Corrado e di Manfredi conferma timori e saggezza dell'imperatore: "è […] indubitato, che i tre ordini, da cui sono costituite in Sicilia le adunanze generali, non sono stati presso noi sin da tempi antichissimi altrimenti chiamati che bracci, siccome nel regno di Aragona chiamavansi: ma non havvi alcuna memoria a dimostrare, che davasi in quest'epoca ai nostri tre ordini questa denominazione. […] è però incontrastabile che le più antiche nostre memorie sin da quest'epoca ci rappresentano il parlamento siciliano assai simigliante alle corti generali del regno di Aragona". Nella logica politica del grande racconto i Vespri sono quasi un incidente di percorso. Eppure "i tempi che seguirono dopo la espulsione degli Angioini alterarono di mano in mano gli uffici di giurisdizione e gli antichi ordini di amministrazion di giustizia", perché da allora "avea acquistata la nazion tutta una forza nuova, e rappresentanza tale cui nei precedenti governi non avea osato né anche di aspirare", anche se "di tutta la nazione quelli che vennero allora a più alto stato, e innalzaronsi a nuova importanza, furono i baroni ed i nobili". Né vennero correzioni dal potere locale: sebbene tra la cessazione del dominio angioino e l'inizio dell'aragonese fosse annunziato solennemente "che l'Isola si governava a Comune, pure questo governo era in mano dei soli baroni e dei militi: ed ei certamente dee recar maraviglia, come non molto tempo innanzi, ossia alla morte di Corrado, e nel baliato di Manfredi, avendo osato le principali città siciliane, e tra queste Palermo e Messina, crearsi un proprio lor podestà, e costituirsi alla stessa maniera delle repubbliche italiane, poi quelle stesse popolazioni, dimentiche affatto di ciò che avevano in tempi meno propizj osato, e attaccate alle antiche loro abitudini, altro non fecero nell'interregno, che prestare le armi e il furor loro ai grandi", mostrandosi soddisfatte delle immunità loro concesse senza immaginare di poter procurarsi "forme più stabili e più significanti di corporazione". Questa possibilità fu invece compresa e attuata da Federico III, per bisogni finanziari che solo le Comunità potevano soddisfare e perché scontento "dei principali tra i magistrati, per li quali aveva ordinate continue e gravi riforme".
Federico III è dunque il terzo eroe della Storia, dopo Ruggero e Federico II: "Che se niuno storico siciliano contemporaneo si è veduto sinora, che avesse descritti i grandi avvenimenti sotto i Normanni e gli Svevi, abbondò nell'epoca aragonese la Sicilia di scrittori e di storie, quasiché da grandissimo studio per le cose patrie infiammati i siciliani, non avessero potuto contenersi di pubblicare per l'Europa tutte quelle magnanime imprese, e di tramandarle ai posteri coi loro scritti". Gli Aragonesi sapevano di non poter reggere il potere senza "uno straordinario sforzo dei nuovi lor sudditi", che si manifestò specialmente con Federico: "Se i siciliani si videro allora abilitati a tante speranze, aveano insieme acquistato tale e sì straordinario grado di forza pubblica, qual facea mestieri a superare tanti ostacoli, ed a resistere con successo agli sforzi continui di tanti nimici e sì possenti. La nazion tutta da gran tempo volontariamente e con entusiasmo armata, e fatta per emulazione e per uso bellicosa, avea non solo nelle imprese di terra, ma acquistata ancora grande perizia e possanza nei fatti di mare". L'abitudine alle armi era necessaria in stato di guerra, ma pericolosa in pace, e nella nazione assunsero particolare importanza i nobili.
Col Vespro fu "la macchina tutta del governo scossa violentemente, e in tutte le sue parti d'allora in poi rilassatasi, non si poté per lunghissimo tempo mai più ricomporre"; gli antichi ordini politici non poterono sussistere nella forma originaria e tesero a dissolversi, tanto più quanto le ragioni di questo "erano riputate a buon dritto, nei primi tempi massimamente, degne di laude e di premio". Lo storico osservava "vizj interni, e i principj di decadenza, e di scioglimento, e i rimedj applicativi; i quali, mentre alteravano le istituzioni normanne e sveve, non serviano che a provvedere al momento, sinché si manifestò dissoluta tutta la costituzione, quando non fu più sostenuta dalla virtù personale del principe". Il male era nella radice; nondimeno Federico vi avrebbe posto rimedio "se fosse stato possibile di subordinare alle leggi le circostanze e i costumi", perché non fu solo abile guerriero e buon restauratore del potere regio, ma soprattutto, non meno di Federico II, politico lungimirante. "Ei fu sin da quei tempi considerata come una saggia operazione politica […] la disposizione di potersi tra i privati alienare i feudi, come un mezzo efficacissimo a diminuire gli ampj e preponderanti corpi feudali: ed a quei principi, che aveanla immaginata e promossa, sin d'allora attribuivasi senno e fortezza, imperciocchè mentre aveano con tal mezzo saputo ingrandire la potenza politica del Monarca […] favoriano nel tempo istesso un più libero commercio delle terre e dei feudi, onde si impiccolivano e si moltiplicavano le proprietà, ed insieme più ugualmente tra i sudditi distribuivansi". Federico "dichiarò adunque […], che ogni conte e barone e feudatario, e chiunque dalla corte immediatamente tenesse feudo, o parte di esso, potesse liberamente venderlo, pegnorarlo, donarlo, permutarlo, e legarlo e disporne nelle ultime sue volontà […] sì veramente che volle preferita la Real Corte […] Egli è chiaro, che mentre con questa legge serbavansi i dritti del fisco, rientravano a così dire nel tempo istesso nella massa comune delle proprietà i feudi, abilitandone i possessori a un libero e perpetuo commercio".
La difesa della legislazione "siciliana" poteva così diventare il punto di equilibrio dell'intera storia. Mentre i costumi pubblici "nudrivano le sette e i partiti, il Principe con le leggi cercava di spegnerli inutilmente. Egli è pur certo, che se furono di ordinario raffrenati dal re Federigo i nobili e i grandi, non si videro giammai riformati e corretti". Dopo il debole governo di Pietro e il buon governo del principe Giovanni le fazioni riesplosero. Il libro V, che il G. vide solo in bozze, narrava dell'anarchia e della "potenza e virtù" con cui Martino aveva proceduto alla "restaurazione" del diritto pubblico siciliano. Una parabola cui il G. dava suggello con in vista la sottomissione della Sicilia alla Spagna: "Veramente d'allora in poi cominciò ad essere la massima dominante di un governo lontano di temer sempre e riguardar quindi e accarezzare in Sicilia i grandi e i potenti". Constatava al tempo stesso la decadenza della vita e delle istituzioni ecclesiastiche, identificando però una vasta zona intermedia che interpretava il desiderio di ordine e di pace ma che non seppe darsi un centro, oscillando fra l'una e l'altra fazione e contribuendo così a frustrare ogni progetto costruttivo. Il cap. 2 del libro V descrive "la contorsion forzata e violenta" subita allora: "È così per natura composta ogni bene ordinata autorità politica che l'autorità sovrana e l'unità del governo, quasi l'anima general dello stato, per tutte le parti di quello si spande, e tienle unite, e formane un corpo ben connesso e robusto. Era maravigliosa questa unità ed espansion generale di potenza politica nel sistema normanno e svevo, in cui il regno tutto diviso in provincie, e queste in territorj separati, le giurisdizioni locali dipendeano dalle provinciali, e le une e le altre dipendevano dalla Real Magna Curia […]. All'incontro l'anarchia è così fatta, che tira naturalmente alla dissoluzione politica, ribolle di fazioni e di sette, esclude ogni sistema, non sa assoggettarsi a regola di ben ordinato corpo, né ammettere unità".
La restaurazione di Martino poté quindi essere una liberazione del popolo (libro V, cap. 3): "Se a comprendere il dritto pubblico di una nazione è necessario investigar da principio le sue prime origini, e i suoi incominciamenti, e ricercare come di tempo in tempo siesi formato e seguirne la mossa, e notarne le alterazioni successive e i dicadimenti, e infine saper le cagioni della sua total dissoluzione, non è meno importante di conoscere l'ordine preso e i mezzi adoperati nella sua restaurazione. […] Parve al primo giunger nell'isola del principe aragonese scosso dal suo lungo letargo il popolo siciliano, e sollevato a migliori speranze, e delle sue fortune occupatosi, mostrò cupidissimamente di volersi liberare dal dominio dei grandi". Ma, in una Sicilia corrotta dall'anarchia, i Comuni non risposero alla sollecitazione: "l'anarchia avea già spenta nei siciliani ogni ricordanza degli articoli più importanti del lor dritto pubblico, e fatta già perdere la tradizione delle loro antiche usanze. […] E il popolo, che non sa contenersi giammai ne' debiti limiti, dalla servitù, che venia di soffrir sotto i grandi, appena restituito in libertà, trascorse immantinenti sotto un principe buono quasi in una certa licenza: poiché si videro appena chiamati con la più leal confidenza i Comuni a cooperarsi con lui ad una riforma, invece di applicarsi a ripigliare gli antichi e legali sistemi, pretesero riformare, e il governo, e la corte".
La morte del re chiuse tragicamente una storia e un'epoca. I Siciliani, usi da secoli ad avere re propri e ricordando che l'isola era stata centro di una monarchia vasta, "isdegnarono apertamente di vedersi ridurre sotto il dominio di un re ignoto e di un governo straniero. Né poteva essere più generale e più costante questo voto della nazion siciliana […]. Pur questa volontà salda e generale riuscì sempre in isforzi mal concertati e impotenti". Il G. contrastò la Sicilia delle fazioni con la Spagna del congresso di Caspe. Ma da qui venne la speranza che da Ferdinando la Sicilia avesse un re proprio: l'illusione che accompagnò la presenza dell'infante Giovanni. Nonostante un'apparenza di forza e autorità il governo era intimamente debole; per lunga abitudine i Siciliani guardavano nobili e grandi come arbitri supremi delle cose pubbliche; "così fatta dipendenza della nazione dai baroni rendeva ancora di necessità dipendente dai baroni il governo. Dee ricordarsi a questo luogo, che erasi introdotto generalmente l'abuso, che non solo gli ufficiali delle terre e città del Demanio, ma i baroni ancora nei lor vassallaggi faceano divieto, e impedivano di fatto i borgesi dei lor territorj, a potere indi estrarre grani, biade, vittuaglie, ed ogni maniera di merci e di derrate proprie degli stessi borgesi, il che certamente faceano non solamente per monopolio, e perché ne potesse incettar solo la vendita l'ufficiale o il barone, ma anche per fissare ed esiger nuovi dritti d'estrazione". Divenne massima dominante di un governo lontano il temere sempre e trattare con riguardo in Sicilia i più grandi e potenti. "Da che passò quest'Isola per sistema sotto la dominazione di re lontani […], sebbene avesse mantenuta la propria sua dignità, e tutte conservate le prerogative di regno, pure non lasciò di essere involta nelle vicende di quelli, e di partecipare negli interessi, e di risentire i movimenti di una più vasta, e potente monarchia: e ne furono sperimentati gli effetti sin dai tempi di Alfonso per le imprese che ei tolse a sostenere principalmente in Italia; onde nacque e fu poi propagato quel moto, che sconvolse in prima la stessa Italia, e in fine l'Europa intera, mutandone il sistema politico, e nuovi usi e nuovi modi inducendovi". Così, dalla fine del secolo XV, popoli e governi, prima "quasi separati e presso che senza niuna comunicazione tra loro", ebbero nuovi interessi e cominciarono a gareggiare in potenza; "nel tempo istesso nuova luce sopra tutte le scienze successivamente spargendosi, ed arti nuove introdottesi dopo nuove invenzioni e scoverte; assalita nel medesimo tempo la religione da nimici possenti", si delineò "una mutazione grandissima nei sistemi politici, nelle forme civili, nelle leggi e nelle usanze degli stati e dei popoli". In questo processo anche la forma politica della Sicilia "fondata già dai re normanni, e poi caduta nei tempi dell'anarchia, né ristabilita appieno sotto Martino" subì alterazioni e ne adottò le novità cui "veniano di mano in mano gli stati tutti di Europa piegandosi insensibilmente".
Nel libro VI, il secondo postumo (1816), la lezione di Robertson poté dispiegarsi. Riassunta la "rivoluzione generale nei governi, negli interessi, nelle leggi, e nelle usanze degli stati, e dei popoli", il G. poté studiarne l'influenza in Sicilia. Priva di re proprio, la Sicilia rimase comunque lontana dal centro europeo; "sebbene nel corso dei tempi sinora descritti sia stata l'Europa tutta agitata da grandi e straordinarj avvenimenti", l'isola ne risentì indirettamente e nel modo in cui "influir poteano in uno stato subalterno, e dipendente da una più ampia e lontana monarchia, nella stessa guisa che gli sconvolgimenti che avvengono nel centro di un corpo grande colpiscono assai debolmente le picciole ed estreme parti di quello". Divenne però necessario "per la grande e generale mutazione delle forme politiche di Europa di adattare in Sicilia alcune nuove introduzioni al sistema antico". Nel Parlamento entrò la "legge pazionata": "Era certo per se stessa indecente una tal formola ed assurda quella maniera di impetrare con danaro per le leggi che si voleano stabilite, la sovrana approvazione; imperciocché sebbene alcuni capitoli non contenessero che semplici grazie, in altri pure veniasi a costituire una legge". Ancor più emblematica sembrò al G. la graduale scomparsa dei giustizieri provinciali e l'usurpazione baronale della giurisdizione civile e penale: "i baroni, ai quali peraltro aveano sempre recata noia i giustizieri provinciali, lusingavansi di ridur le cose a termini tali, che fosse riconosciuto necessario di doversi ad essi tutti per sistema illimitatamente e generalmente accordare il mero e misto impero, il che pretesero sempre in questi tempi".
Ma "l'oggetto principale e continuo" che allora occupò il governo fu l'elezione degli ufficiali municipali. "Assai prima che Alfonso si applicasse a pubblicare l'anzidetto corpo di leggi per ricomporre lo stato degli ufficj municipali, ossia prima dell'anno 1433 desideravano molte popolazioni, che potessero per via di squittino eleggere i loro ufficiali. […] Pure quando lo stesso Alfonso riordinò poi con un sistema generale l'ufficio dei giurati, non fece parola alcuna della maniera di eleggerli, né di cedole, né di squittini"; in molti luoghi, anzi, gli ufficiali municipali erano di nomina governativa, e "tanta e sì immediata ingerenza del governo in tali elezioni, disortaché o non faceasi in alcuni luoghi celebrare il consiglio, o celebratosi, dei suffragi ivi raccolti non teneasi dopo alcun conto, derivava perché erano torbide le ragunanze, e tumultuosi i consigli, e agitati e divisi i comuni da fazioni e partiti". I nobili volevano occupare l'amministrazione, mentre i popolari non volevano essere esclusi; dunque da Alfonso a Carlo V i Comuni siciliani furono sconvolti "da sì continui e torbidi movimenti nell'interno reggimento loro, che propagaronsi quei disordini sino a tempi di appresso, e sino oltra alla metà del secolo decimosettimo". E sebbene "ad eleggere gli ufficiali municipali siasi da principio prescritto per sistema generale che doveasi cominciare dallo squittino, ed estrarne poi a sorte dal bussolo i nominati nelle cedole", tuttavia essendo queste modalità di elezione talora proibite o sospese, avvenne che si iniziò "a tenere come consuetudine locale quella, che era in prima e nella sua origine una istituzione generale. Per questa ragione fu introdotto di allora in poi di chiamarsi volgarmente questa forma di elezione privilegio del bussolo".
I baroni da parte loro ottennero maggiori privilegi, quanto a diritti di possesso e ordine di successione, e minori gravami, mentre l'acquisto di nuovi diritti e l'estendersi delle giurisdizioni feudali si tradusse anche in nuove rendite nei vassallaggi. In migliore stato i baroni, in peggior condizione col Demanio il Fisco regio. "Ma assai più ben composte […] passarono dopo le cose in Sicilia. Veramente Ferdinando il Cattolico sino al 1502 non riscosse dai siciliani straordinarie contribuzioni, che sole tre volte e per ben lunghi intervalli"; dal 1502 si cominciò a convocare regolarmente i Parlamenti ogni tre anni, e ogni volta si stabiliva di pagare per tre anni 300.000 fiorini. In sintesi, eventi e novità politiche fecero comprendere che le costumanze feudali non si accordavano con le grandi necessità dello Stato; "fu compreso ad evidenza che la forza e il nerbo principal dello stato dovea consistere nel danaro da versarsi nell'Erario annualmente, e da impiegarsi dal principe in quel modo che i nuovi sistemi e le introduzioni nuove esigeano. I siciliani ne furono sì fattamente persuasi, che non citarono più da Ferdinando il Cattolico in poi i capitoli di Giacomo, convinti pienamente che le collette non poteano più regolarsi a norma dei casi feudali; e che nella nuova composizione delle cose politiche era necessaria una continua ed ordinaria assegnazione di danaro".
Il bilancio vuol essere positivo: qui, più nettamente che in precedenza, il G. trae dall'attualità le grandi questioni cui una lettura storica del passato può dare risposta articolata. Mentre la domanda di un re proprio negli anni siciliani della monarchia prendeva toni apertamente antinapoletani, egli e gli allievi non ebbero parte nelle rivolte separatiste; fino alla morte il G. rimase fedele al processo di unificazione istituzionale dei Regni di Sicilia e di Napoli. La polemica degli anni Ottanta rivendicava il carattere proprio della legislazione siciliana, ma per farne il fulcro del riformismo moderato: la questione feudale pareva già allora al G. superata dalle provvidenze di Giacomo e di Federico III, che, al pari di Enrico VII, avevano eroso la proprietà baronale, rendendo possibile entro l'involucro feudale la formazione di nuova proprietà libera. Ma ora aveva chiarito i termini della "rivoluzione" europea che aveva investito la Sicilia fra Quattro e Cinquecento: i baroni, non più obbligati al servizio, non avevano diritto a intrattenere i privilegi che quelle prestazioni giustificavano; e il sistema dei donativi e della nuova fiscalità restituiva alla monarchia, in una concezione nuova della cittadinanza e del pubblico interesse, quei tratti della costituzione normanna cui il G. affidava, fin dalla dedica al sovrano, presente e futuro della Sicilia.
Opere: Oltre a quelle citate vanno ricordate Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere (due volumi in folio, Palermo 1791-92) e Introduzione allo studio del dritto pubblico siciliano (ibid. 1794; rist. anastatica, a cura di M. Bellomo, Reggio Calabria 1994). Nel 1821 furono raccolti e stampati col titolo Discorsi riguardanti la Sicilia alcuni scritti minori, editi (per lo più nel Notiziario di corte) e inediti; più ampia e corretta la seconda edizione (ibid. 1831). Nel 1831-39 a Palermo furono ristampate, in 4 voll., le Considerazioni. L'Introduzione, le Considerazioni e i Discorsi furono riuniti in un volume di Opere scelte del can. Rosario Gregorio (ibid. 1845). Dal 1852, a cura di V. Mortillaro, fu pubblicata una ristampa corretta, più volte replicata nel corso dell'Ottocento. Anche per le Considerazioni essa resta meglio affidabile della ristampa 1972 (in tre voll., s.l., ma Palermo) con introduzione di A. Saitta. Nel 1899 G. La Mantia pubblicò, sempre a Palermo, una memoria inedita Dei reali archivi di Sicilia. È in preparazione l'edizione critica di Introduzione e Considerazioni a cura di G. Giarrizzo.
Fonti e Bibl.: Il G. non ha avuto nella storia della moderna storiografia il posto che gli spetta. Assai modesta la biografia di V. Di Giovanni, R. di G. e le sue opere, Palermo 1871; utili i due quaderni di N. Rapisarda, Studi su R. G., Catania 1909-10 e la recente biografia di P. De Gregorio, Vita di R. G., Palermo 1996. Restano incisive le pagine dedicate al G. da D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, III, Palermo 1827, pp. 164-190. Vedi infine: G. Giarrizzo, Nota introduttiva all'antologia di scritti del G. in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche Repubbliche, dei Ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 1135-1155; e la citata introduzione di A. Saitta alla ristampa 1972 delle Considerazioni (I, pp. 7-28).
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