Se poi
consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni
o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di
Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da
solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una
distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua
impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente
raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in
deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle
spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia:
Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).
E dire
che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di
detto sacerdote - atto transattivo che
si conserva in Matrice - per fugare tali
infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della
Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo,
sino al primo ventennio dell’ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate
ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi
dell’altro ieri.
* * *
Mi
rincresce davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro
compaesano sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il
grande scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono
dati sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di
suo nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).
1690 circa
- SCIASCIA
LEONARDO M.°
29.9.1726
- SCIASCIA GIOVANNI
M.°
7.1.1754 - SCIASCIA LEONARDO
M.°
24.2.1802 - SCIASCIA CALOGERO
26.8.1810 - SCIASCIA PASCALIS
25.10.1884 - SCIASCIA
LEONARDO
27.3.1920 - SCIASCIA PASQUALE
8.1.1921 -
SCIASCIA LEONARDO
|
Sciascia
è racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi dell’Ottocento” come amò
credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente avversione locale
verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia ama inventarsi un
bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal Naduri - cito
Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque
zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è venuto a
Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che era stato,
a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure
commerciandole”. Non so dove abbia appreso
queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri
parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero
genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso
Sciascia.
L’invocato
“nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla
“maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo),
apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad
un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina
Vincenza Quagliato.
“Lapsus
della memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può
neppure affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse
riferirsi al “nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo
Sciascia. Invero, anche costui era
racalmutese, figlio di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia,
professore universitario, di cui parla il Tinebra ed a cui lo stesso Leonardo Sciascia teneva
particolarmente.
Mi si
perdoni questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il
«'lapsus' della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante
occorso - o cui il grande scrittore ha indulto - per esigenze dell'intelligenza
ai fini di uno dei suoi raffinati aforismi. Se
voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono
'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o
«un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so se
borgesianamente o
esistenzialisticamente.
Racalmuto
non ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal
altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile
moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo
nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra'
sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia
convinzione.
Non
pretendo certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del
grande Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria
di quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag.
54 ), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene
atto a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore
racalmutese.
La storia di Racalmuto va
integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo
espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente
esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti,
completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della
storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia.
Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta
fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile,
frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di
inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocri) famiglie, sindaci e
podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e
sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papa neri, di santi e di venute
miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili
e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia
francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai
conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare
tra i miasmi dei calcaroni solfiferi
o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e
apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare
Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del
1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono
nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e
conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato,
acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletora di uomini
illustri (oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi ma quei bambini non potevano scrutare ciò che
sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro ‘sguardo’ si avvale di
ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti
archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e
nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di una rivisitazione della storia (o microstoria,
che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.
BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di
Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune
ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina”
dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della
tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco
Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato
racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([1]). Le
ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e
da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a
quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato
ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col
passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta,
riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una
versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra
narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale
lettore.
La
primordiale presenza umana potrebbe venire
attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi
dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([2]). Ma
sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe
del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla
grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà
preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel
1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto
Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì,
altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C.,
sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo,
successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e
peculiare archeologia racalmutese.
Casuali
rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato
siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione
latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio
vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa
spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di
Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi
di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.), come si avventò a dire il Salinas.
Per
Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante
ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella
contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli
albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente
sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca
ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è
rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno
snodarsi “con maggiore continuità”.
La
pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi
una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di
certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani,
quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio
racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa
schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi,
tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua
greca? Noi pensiamo di no.
Pochi,
di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’
(romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo
senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra
landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella
‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non
poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo
- per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico
su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così
poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano
testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul
luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e
vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si
assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed
anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture
d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum
(i cristiani) ignoravano. Dai rum,
l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per
mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse
semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da
noi, introdussero sistemi di
coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e
zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([3]). I
secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba
sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un
documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese,
diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo
che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile
alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per
quanto buia sia la pagina araba
racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto
Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo
definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non
andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo
“Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto,
morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due
termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della
morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore
giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle
pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene
difficile per chicchessia procedere ora
alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre
Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il
dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...]
a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud,
pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si
soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!».
Con la
sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di
Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in
precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita
dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si
è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale.
E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([4]) Per
il grande arabista, infatti, il paese: «deriva
dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta,
casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu
Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non
ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte
“Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che
suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia,
almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un
passo avanti.
Dipanata
in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui
si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione
berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi
immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio
del 1087), oppure si collega alla
signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano
dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La
conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera
del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un
piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo
anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare
Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del
testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra
fu un cronista normanno dell’XI secolo. Il manoscritto malaterrano
che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del
manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne
serve e riduce in Rahl il Racel
che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che
potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In
effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento
conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum,
Missar, Guastaliella, Sutera, Racel ..,
Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa
“Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro
e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio
Racalmuto. Ma il limite di mera
congettura, resta.
Incrostano
le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da
un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile
nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro
sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal
1108.
L’Assessorato
Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo”
si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce
Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e
dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato
ed è quindi impossibile accertarne la correttezza del richiamo letterario. Noi
crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si
parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento,
in arabo chiamata Raqqâdah
(Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri
proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani
in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti
attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo.
L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che
ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella
documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato
(appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza,
denominata “lu Cannuni”.
L’altro
falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa
Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del
tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata
Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il
periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol
dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si
deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo
esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e
livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando.
Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il
prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno
istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al
santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto
e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra
delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari
vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia
intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo,
ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei
primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal
Federico Musca. Questi tradisce al tempo
di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per
conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La
signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel corso del
Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo, retto da sindaci e chiamato ad un
contributo di uomini in armi.
I
primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime
avignonesi del 1308 e 1310. Nell'abitato vi erano almeno due chiese: quella
parrocchiale retta dal p. Angelo di
Montecaveoso, e quella forse conventuale
dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal
Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra
pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi
avignonesi dell'Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto
dell'arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la
capacità contributiva e raccoglierne l'imposta per togliere l'interdetto che si
originava dalla rivolta del Vespro. Era l'anno 1375.
Allora Racalmuto doveva essere un piccolo
centro agricolo con non più di 800 abitanti. Nell'archivio vaticano è
reperibile il resoconto delle collette redatto dall'arcidiacono du Mazel.
Trattavasi di un sussidio che andava ripartito in ciascun abitato per case, in
rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per
le 'mediocri', 3 per le agiate e cioè
'qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà' ([5]). Il
29 marzo del 1375, il pio collettore (o
suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il
'sussidio' e scioglieva l'interdetto ([6]).
Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone,
ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se
pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548,
la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra
Martorana vengono accettati - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e
mezzo. Nel successivo eguale lasso di
tempo, la crescita si è invece limitata solo al
48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che
cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del
potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto
nell'intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di
forestieri.
Abbiamo
motivo di ritenere che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per
la paura dei pirati. L'improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato
il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I
molti cognomi di paesi e terre del
circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei
feudi racalmutesi.
Tanti
immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche,
acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta.
I non pochi Xortino denunciano l'antica carica di maestri di xurta. I maestri
xurteri erano al tempo di Carlo d'Angiò i sopraintendenti alla sicurezza
notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel
1282-1283 sotto Pietro d'Aragona.
Non è racalmutese il 'segreto' addetto alle gabelle, il
magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l'incarico - lo denunciano straniero.
Il 'segreto' era l'esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che
risaliva al 1296.
Per
avere un nome saraceno, Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con
nome di derivazione araba. Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo e simili,
possiamo calcolare in meno di 150 gli
abitanti di origine forse musulmana (su 2215 desunti dai registri della seconda
metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per
convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo
latineggianti. Lo stesso dovette
verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata da parte della
regina Isabella nel 1492 ([7]) o
sparirono del tutto a Racalmuto o
seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell'8
gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da
Grotte.
Tra la
borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che
hanno dominato nell'ottocento. Né baroni come i Tulumello, né gentiluomini come
i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora
quali i D'Amella, i La Lomia, gli Ugo, i Piamontisi ed altri si sono dopo
volatizzati: alcuni loro eredi
prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso
la fine del 500, giungono a Racalmuto 'mastri' che vi attecchiranno ed oggi i
loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione.
Savatteri, Buscemi, Schillaci, Rizzo, Bongiorno, Chiazza, sono fra questi, per
fare solo alcuni esempi.
Il
quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare,
dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure)
si sia impadronita di tale casale con castello, facendone un personale feudo
con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del
figlio di Matteo del Carretto - all'inizio del secolo XV - una necessità
difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in
parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza
Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in
capo a quella famiglia proveniente da
Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 - abbiamo le
ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale. Lasciamo qui agli araldici
ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com'è
nelle sue più antiche fonti,
difficilmente potrà essere ora del tutto chiarita.
Quel
che ci preme è sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e
tramandata un'importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto
si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S.
Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa
degli aragonesi. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei
Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del
Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte.
Il re aragonese, tra l'altro, cominciò a metter mano alla riforma
ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto
tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione
dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di
Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il
delegato del Pontefice anche in materia
religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e
donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche
Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo
aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che
qui riportiamo in una nostra traduzione dal latino: «Martino etc. Al reverendo padre Gerardo de Fino arciprete della terra
di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare
nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù
ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. ... e pertanto per
l'autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, [vi conferiamo] il
canonicato di Santa Margherita di
Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti
e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando
tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della
secessione contro le nostre benignità [
... ]
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo
mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali
nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti
quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente
e pienamente la prebenda, i redditi con
i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se
desiderano e vogliono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l'anno del Signore,
VII^ Ind. 1398..... Re Martino - »
Tanti collegano - come già detto - quella
chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della
curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo
per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola
concessione di quest'ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col
Papa.
La
presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità
sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il
singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i
due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento),
nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da
parte di Isabella nel 1492.
Raccapricciante
lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme,
viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era
l'anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco
ebreo, dedito certamente all'usura.
«Il Vicere' Lop Ximen Durrea dà commissione
ad Oliverio Raffa di recarsi a
Racalmuto per punire coloro che
uccisero il giudeo Sadia
di Palermo, e di pubblicare un
bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei.»
Quanto
alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano assetti
significativamente organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero sinagoghe o
scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e
legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si
dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da
Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono
mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e
rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non
abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l'Inquisizione. Quel non
glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là
nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un
notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si
abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque
non collimanti con quelle della blasfema canonizzazione celebrata da Leonardo
Sciascia.
La
tradizione colloca nell'anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte.
La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni
ricerca storica che suonerebbe falsa ed irriguardosa. Noi quindi ce ne
asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell'Officio sulla nostra
miracolosa Madonna: «a Racalmuto, in
Sicilia, - vi si recita in latino -
da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio
dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione,
la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una
sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino
per essere condotta nella antica città di Castronuovo. E questo fu un mero
portento.»
Francesco
Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura
Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone
Messana nel 1968, Leonardo Sciascia in
una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull'evento, quasi
sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di
Racalmuto. Una mia personale ricerca tra vecchie carte che si custodivano in
una stanza della casa che fu del canonico Mantione mi ha fatto imbattere in una
pubblicazione del ‘700 cui assegnare la palma della più antica narrazione in
versi della Vinuta di la Bedda Matri di lu Munti.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia
notizia documentata - la gloriosa statua viene repertoriata con stile invero
molto burocratico. Nell'Archivio vescovile di Agrigento si rinviene la
relazione sulla visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del
Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge
però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso. In seconda
battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l'irriguardoso
ecclesiastico si limita ad inventariare il venerabile simulacro come «una figura di nostra donna di marmaro».
Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode solo
a partire dai primi decenni del '700, dopo l'opera del p. Signorino.
Poco
più che trisecolare risulta la vera signoria feudale che i Del Carretto
ebbero a dispiegare su Racalmuto: dalla
prima investitura baronale di Matteo del Carretto da parte di Martino d’Aragona,
il giovane - che il Villabianca colloca
nel 1392, il giorno 4 di giugno - sino alla malinconica scomparsa della grande
famiglia dei conti di Racalmuto, databile 10 Luglio 1716, corrono infatti 324 anni.
Bisogna,
invero, aggiungere un preludio quasi secolare di presenza dei Del Carretto
(dal 1307, data del matrimonio tra
Costanza Chiaramonte ed il marchese di Savona e Finale, Antonio del Carretto,
sino all’investitura baronale di Matteo del Carretto), ma trattasi di ambigua
signoria, malcerta e di sicuro intermittente, emergendo una egemonia
sovraordinata della potente famiglia agrigentina dei Chiaramonte.
Il
primo e vero storico della famiglia dei Del Carretto, baroni prima e conti dopo
di Racalmuto, riteniamo essere l’arcigno Marchese di Villabianca con la sua
diligente opera del 1759: prima di lui il Fazello, il Pirri, l’Inveges, il
Mugnos, il Di Giovanni, il c.d. Muscia, il Barberi, il Ciacconio, il Crescenzi, il
Barone, il Savasta ed il Sansovini, tutti costoro avevano mostrato interesse alle vicende dei
Del Carretto, ma erano stati accenni qualche volta infelici, non sempre
attendibili, in ogni caso incompleti. Quel signore settecentesco, reazionario e
fieramente aristocratico e feudale, ci fornisce un quadro lucido, documentato
ed appassionante - anche se lo stile è ovviamente arcaico - di quella che è
stata la vicenda feudale della baronia e contea del nostro paese. Dopo il
Villabianca, tanti si sono cimentati nella ricostruzione storica della pagina
araldica dei Del Carretto, ma ci appaiono tutti tributari del nostro marchese
e, sostanzialmente nulla aggiungono a quanto saputo, ove si eccettui una
qualche nota critica. Così è sicuramente per la ponderosa opera del San
Martino-Spucches.
Ebbe
di certo tra le mani l’opera del Villabianca il racalmutese Tinebra-Martorana e
vi razziò ingordamente: era, però, appena ventenne e non aveva né voglia né
tendenza ad analisi critiche: qualche documento locale, come quello del
sarcofago di Girolamo del Carretto o come quelli fornitigli maliziosamente dai
Tulumello sul terraggio e terraggiolo da corrispondere a quei
conti di Racalmuto, gli fu sufficiente per imbastire una storia non sempre
precisa sulla signoria dei Del Carretto, la quale storia ebbe, a distanza di
quasi un secolo, il non corrodibile avallo del grande Leonardo Sciascia.
Chi,
da ultimo, si è industriato per recuperare alla memoria eventi certi del casato
dei Del Carretto è stato il prof. Giuseppe Nalbone. Dall’8 aprile 1993 egli ha scandagliato gli archivi di stato di
Palermo e la sua fatica è stata premiata con il rinvenimento di molteplici
diplomi, privilegi e documenti che irradiano una vivida luce sulla storia dei Del Carretto e
finalmente ce la restituiscono nel suo intenso ed obiettivo defluire. Poco o
punto è il risultato rettificativo dell’opera del marchese di Villabianca, ma
tanta è la portata esplicativa di istituti, interventi, ruoli, imposizioni,
condizionamenti ed altro di una vicenda feudale trisecolare che investe
l’essere ed il forgiarsi della vita civile e sociale dei nostri antenati
racalmutesi. Riaffiorano nomi e cognomi di
segreti, castellani, giurati, maestri notari, fiscali, capitani etc. Tanti
di loro non hanno più eredi a Racalmuto, ma taluni sono invece ricollegabili a figure tipiche del
grande teatro che tuttora persiste tra la gente del nostro altipiano.
Il
diciottesimo secolo vede Racalmuto alla prese con gli eredi dei Del Carretto.
Si ebbero varie controversie. Quella più celebre fu mossa prima dal Sac. Nicolò
Figliola (luglio 1787) e successivamente dall’arciprete d. Stefano Campanella
contro il “terraggio” ed il “terraggiolo”. La vertenza si chiuse il 28
settembre 1787 con sentenza liberatoria per i racalmutesi. Cadeva al contempo
il “diritto del mero e misto impero” che l’erede dei del Carretto, il Requisenz,
pretendeva ancora a danno degli abitanti della decaduta contea di Racalmuto.
Nell’Ottocento,
ebbe l’abbrivo lo sfruttamento delle miniere di zolfo e del salgemma ed esplose
un risvolto borghese che ancor oggi suscita consensi entusiastici o stroncature
impietose.
Il
Novecento - prima giolittiano, poi fascista e quindi, nel dopoguerra,
contraddistinto dal vorticoso gioco delle alternanze democratiche -
contrassegna eventi troppo prossimi per trattarli con il dovuto distacco
storico.
GLI EVENTI RACALMUTESI PRIMA DEL 1271
Miocene [8]
(c.a. 25 milioni di
anni fa)
|
Una
sconfinata invasione di un particolare vibrione (il desulfovibrio desulsuricans)
si spande sull’intero altipiano di Racalmuto;
per un singolare processo chimico (nutrendosi il vibrione di petrolio grezzo
e rubando ossigeno al solfato di calcio dà luogo ad idrogeno solforato ed
attraverso una normale ossidazione si trasforma in zolfo) si hanno le sedimentazioni
solfifere racalmutesi.
|
(c.a. 7 milioni di anno
fa)
|
Si
concludono le regressioni di acqua marina e si definisce l’attuale facies del territorio di Racalmuto.
|
XXX millenio a. C.
|
Se
qualche homo sapiens sapiens (del
tipo di Cro-Magnon) ebbe a stanziarsi a Racalmuto, non poté trovare migliore
dimora della grotta di Fra Diego.
|
II millenio a. C.
|
I
sicani si stabiliscono e prosperano in varie plaghe dell’Altipiano. come
attestano le tombe a forno attorno alla cennata grotta o quelle disseminate
dal Castelluccio sin ad Est, nei pressi della Stazione ferroviaria di
Castrofilippo.
|
XIII a. C.
|
Decade
la civiltà sicana nelle nostre terre, mentre prospera quella d’influsso
miceneo di Milena e S. Angelo Muxaro e zone limitrofe.
|
581 a. C.
|
I
Geloi vanno a fondare Agrigento, ma percorrendo un itinerario del lungo costa
con centro Licata ed evitando le impervie zone dell’interno. L’Altipiano
racalmutese, desertico ed impraticabile, non viene per vario tempo acquisito
alla colonizzazione ellena.
|
Secc. V, IV e III a. C.
|
La
presenza greca è variamente avvertita, ma non è tale da far pensare a qualche
rilevante centro. Abbiamo solo sporadiche testimonianze numismatiche.
|
210 a.c.
|
Sotto
il console Levino, Agrigento cade definitivamente sotto il dominio di Roma: Racalmuto
ne segue le sorti.
|
70 a.c.
|
Cicerone
fa un viaggio in Sicilia per preparare la sua celeberrima accusa contro
Verre: il territorio di Racalmuto non figura visitato. Qui, però, è da tempo
che vengono riscosse le decime sul
grano, sul vino e su quant’altro. Una diota , rinvenuta nel XVIII secolo, dimostra
come un tal Fusco praticasse l’incetta del vino destinato a Roma.
|
180 d.C.
|
Un
contadino rinviene a S. Maria una “gavita” che secondo il Salinas si riferisce
al 180 d.C., al tempo di Commodo: è un’importante testimonianza dello
sfruttamento delle miniere solfifere di Racalmuto da parte di Roma imperiale.
|
Sino al IV sec. d.C
|
Ferve
un’operosa presenza di officinae, conductores e, quindi, di mancipes in quel di Racalmuto, con
centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che verso
Casalvecchio.
|
Dopo il IV sec. d.C.
|
Uno
spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi attestato. La fine dell’industria
estrattiva e la desolazione che ebbe a determinare il terremoto che devastò
l’Isola nel 365 d. C. spinsero, probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
|
V e VI sec. d. C.
|
Scarse
sono le conoscenze che si hanno per questo periodo in tema della più generale
storia della Sicilia. Se l’Isola fu
occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad aversi. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. I
Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della
Sicilia e la soggiogano sino all’anno
in cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e
modalità sinora del tutto ignote.
La
Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da
parte di Teodorico. Per i coloni di Racalmuto che cosa potesse significare
tutto ciò va affidato a congetture più o meno fantasiose, in mancanza di
fonti, non solo documentali, ma neppure archeologiche.
Il
rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario
riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà
bizantina racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe,
non foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
|
Fine del VI sec.
|
A
Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà bizantina: ne è
probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal Guillou.
|
829
|
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino
di Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se
ne possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
|
1087
|
Chamuth fu
l'ultimo emiro della dominazione araba del territorio tra Agrigento ed Enna.
Egli venne vinto, ma non umiliato, dal conte Ruggero il normanno nel 1087. Si
può anche ipotizzare che a Racalmuto
vi fosse una fortezza, se non due, vuoi al Castelluccio, vuoi 'a lu Cannuni'. E 'Rahal' vuol anche dire
in arabo fortezza, castello, stazione. Quella fortezza - se esistette - era sotto il dominio di Chamuth.
|
Secolo XI
|
Conquistata Agrigento nel 1087, i lancieri di Ruggero
d’Altavilla si impadroniscono di tutto il terrirorio limitrofo sino ad Enna.
Racalmuto viene dunque liberata - si suol dire - dalla schiavitù islamica per
divenire pia terra agli ordini dei vescovi di Agrigento. Dopo l’obbrobrio
dell’islamica sudditanza, durata quasi
due secoli e mezzo, si ha la normanna restituzione alla veridica
religione del Cristo. I normanni giungono a Racalmuto per un ritorno al
cristanesimo.
|
Sino al 1271
|
I
saraceni si ribellarono in modo devastante negli anni venti del 1200.
Federico II li represse, deportandoli in Puglia. Racalmuto diventa deserta. Tocca a Federico Musca farvi fiorire un nuovo casale. Nel 1271 le
testimonianze sulla vita e le vicende del risorto centro urbano cominciano ad
avere dignità di fonti documentali. Sotto i Vespri, la terra è Universitas così bene organizzata che il nuovo padrone
aragonese Pietro può esigere tasse ed armamenti, demandando
ai locali sindaci l’ingrato compito esattoriale, persino con la vessatoria
condizione di doverne rispondere con il proprio patrimonio in caso di
insolvenza. Una sorta di ‘solve et repete’ ante litteram. La cattolicissima Spagna esordiva con spirito predatorio nel regno che gli
era stato regalato da taluni maggiorenti siciliani. E così anche la
‘meschinella’ Racalmuto iniziava a pagarne lo scotto. Roma, il papato, dissentiva. Sarà
questa una scusa buona per esigere dai fedeli di Racalmuto, che nel 1375
abitano in case coperte di paglia, una tassa pesante onde liberarsi
dell’antico interdetto, che secondo il nuovo padrone feudale Manfredi
Chiaramonte era la causa della ‘mala epitimia’
distruttrice di uomini e cose.
|
CENNI GEOLOGICI
Nel
succedersi degli sconvolgimenti geologici, il territorio di Racalmuto raggiunge
l’attuale sua conformazione nelle fasi finali dell’era terziaria, cioè in epoca
piuttosto recente. Concetto in ogni caso relativo, visto che bisogna andare a
ritroso nel tempo per almeno sette milioni di anni. Del resto, ciò riflette la
ricorrente teoria scientifica secondo la quale l’intera Sicilia sarebbe terra
“geologicamente recente”([10]). Ed
anche qui trattasi di risalire, nella notte dei tempi, per un centinaio di
milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso fenomeno
formativo dell’isola. In un primo momento,
“formazioni calcaree mesozoiche, e cioè dell’èra dalle forme intermedie
di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare un cosiddetto “scheletro” tra
Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo avente l’epicentro a Ragusa. In
una seconda fase, si formò una sorta di tessuto connettivo per il progressivo
emergere di terre durante la regressione pliocenica. Infine, in epoca
quaternaria, affiorarono le terre marine.
Secondo
una cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan ([11]) Racalmuto
si modella con le forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo
intermedio e cioè durante la transizione dal terziario al quaternario, in pieno
Pliocene.
Studi
sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A. Diana (1968). Geologi locali
(vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di recente dato i loro apporti. Nella
sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei dati sperimentali desunti dalla
trivellazione di una quarantina di pozzi, distingue quattro strati nel
sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - ci ragguaglia l’A.([12]) - i
terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1)
complesso argilloso caotico di base, di età pre-tortoniana;
2)
formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da sabbie, conglomerati e
argille;
3)
serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido costituito da vari elementi del
Saheliano e Messinese.
4) una
formazione di copertura di età Pliocenica inferiore, costituita da marne e
calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma
abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali non abbiamo alcuna
competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali minerali racalmutesi.
Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del
Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie progressivamente evaporate
[sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per
protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma
addirittura uno straordinario
microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([13]).
Secondo tale affascinante teoria, le
ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque,
a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di malefica
premonizione.
LA
PREISTORIA
Ma a
che epoca risale il primo insediamento umano nel territorio di Racalmuto? Fu
esso teatro di qualche fase evolutiva della specie umana? Come vissero i primi
nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e culture?
Sono
tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali conoscenze scientifiche.
Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana nella grotta di Fra Diego,
che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea ad ospitare il primitivo homo sapiens sapiens dei dintorni
racalmutesi.
Dobbiamo
saltare al secondo millennio a.C. per essere certi di consistenti nuclei
abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una pagina di Tucidide, sicani. Due testimonianze ce l’attestano
in modo indubbio: le tombe a forno
scavate nella parete della medesima grotta di Fra Diego e presenti anche lungo
il crinale che da lì arriva, passando per il Castelluccio, sino alle porte del
paese; ed un ritrovamento casuale a dieci chilometri da Canicattì, lungo la
strada ferrata.
Azzardiamo
una nostra ipotesi: trattasi di due flussi migratori diversi: uno a sfondo
agricolo che da Licata tocca le falde del versante sud del Serrone e
l'altro, in cerca del sale, contiguo
agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra di Cocalo? - si espande
verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il
primo insediamento è quello che persino nelle cartoline illustrate locali viene
definito 'sicano'. In mancanza di campagne di scavi ufficiali dobbiamo
accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che
dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra
l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma
fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura
di una vendicatrice resurrezione che pare angosciasse i nostri antenati. ([14])
Quei
cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego,
avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca
probabilmente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo
strambo passo di Solino che secondo il Tinebra Martorana - a nostro avviso
fondatamente - è da riferire al territorio di Racalmuto. Solino scrive che il
sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei ([15]).
Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei
fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo,
entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si
foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di
'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.
Il
secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo a.C. Le pertinenti solite tombe a forno vennero
scoperte durante i lavori della ferrovia nel 1879. ([16]) I
reperti fittili salvati dall’ing. Luigi Mauceri finirono dispersi nei
sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano
nei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo, si sono te del tutto
disperse per lo sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla
primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto, non sappiamo null’altro se
non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione da dilettante, ebbe a
riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel solerte ingegnere delle
ferrovie ([17]). Apprendiamo, così, che
«le scoperte di tombe antichissime hanno un importantissimo riscontro
nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e Racalmuto, ove ebbi la fortuna di
esaminare le tracce di un gruppo di tombe scoperte casualmente. La strada
ferrata in costruzione, che va da Canicattì a Caldare, ... a circa dieci
chilometri dalla prima città passa in una terrazza che si protende a sud-ovest
di un altipiano tortuoso, costituito da un gran banco di roccia calcare non
ancora denudato. In questa altura e su vari speroni rocciosi che in vari sensi
si diramano, nella scorsa estate [1879] furono aperte parecchie cave di pietra
per le costruzioni ferroviarie. Quivi i cavatori avanzando le loro cave in vari
punti, ... incontrarono molte tombe che hanno una perfetta somiglianza con le
altre precedentemente descritte.» ([18]) Si
ha, quindi, la descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versanti di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di alcuna
particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno scheletro e
parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra grassa mista
a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di metallo.» ([19])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La
conclusione di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore
sviluppo dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani
rocciosi e naturalmente muniti di Passarello, Pietrarossa, Fundarò e
Pietralonga, ([20]) - conclude l’A. - nei
cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi sembrano indicare il
sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più che ho osservato alle
falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie a Pietralonga,
chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di una città;
ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa avvantaggiarsene la
topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare qualcuna delle città
sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora incerta la giacitura.»
Dopo
la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna campagna di scavi è stata
sinora portata avanti nel territorio racalmutese. Quell’antichissima - ma certa
- presenza umana resta dunque per ogni altro verso oggi del tutto oscura. Si
trattò di un popolo sicano, ma come quel popolo visse, con quale evoluzione,
con quali strutture socio-economiche, si ignora del tutto. Possono solo
avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel
che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano con certezza è un
policentrico insediamento sicano che può farsi risalire all’Età del Bronzo
(1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la strada ferrata, nei pressi di
Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri, il maggior nucleo è quello
sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe rade, ma pur presenti, emergono
vicino al Castelluccio, su un avvallamento del Serrone ed in altre contrade
racalmutesi. Molto manomesse, ma non irriconoscibili, sono le tumulazioni
sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti la contrada di Casalvecchio o al
confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa
che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media Valle del Platani
un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo dei primi
contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono tombe a
tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare «ad una
miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([21]) Il
Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con frammenti
di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile cipriota del
XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra Diego; eppure
a Racalmuto nulla si è trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Né vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Forse è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora?
Possiamo solo affermare con qualche fondamento che al tempo della
colonizzazione interna dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché
disabitato, come l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.
VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo
alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione
sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a
Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad
ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi
fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità
troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga
posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le
caratteristiche «tombe del tipo a forno »
([22]).
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali
dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed
alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale
collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura
e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A
questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie
dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti
dal mare, i Sicani di Racalmuto preferirono ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico
dissolversi.
I
moderni storici si accapigliano per
stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe
neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza
ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza
della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un
doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima
ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona
era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre
in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e
consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere
libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide
di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una
devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e
di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse,
fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi,
irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi
sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo
ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il
570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Racalmuto
vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi
delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a
moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi
schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento,
senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati
dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria
vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E'
certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e
gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture.
Nella
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi,
in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a
Racalmuto e dintorni: la località è
dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando
vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non
riguardò queste nostre contrade: per
quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti
agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da
quella della fine del secolo XX.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto
continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora
la locale società contadina la nebulosa
vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro
Siculo. La sua cacciata da Akragas, per
il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo
il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa
coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua
volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene
neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti
contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a
goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi,
ma attendibili.
Atene
- con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra.
Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura
e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla
tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso,
Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel
406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa,
Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano
numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000
uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento.
Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi,
nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per
Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu
abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle
tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride.
Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un
afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine
finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano
sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e
ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio
il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre
il Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel
periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa.
I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino,
olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano
oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da
consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al
Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno
al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e
Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di
Siracusa.
Nel
280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa.
Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas
e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di
Cartagine e vi restano per quasi un
ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel
264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma.
La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum
esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai
Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un
secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani
nient'altro che «extera gens»
[gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come
schiavi.
Sette
anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto
la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta
la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le
antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del
secolo, Akragas e la vicina Eraclea
Minoa appaiono saldamente in mano dei
cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati -
si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da
Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il
suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura;
invento speculo, naves romanas incendit;
eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano
l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora
una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui
mercati del mondo. Levino a Roma fa il
suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni
di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO ROMANO
Finite
le guerre puniche, il console Levino avvia la Sicilia al suo secolare sfruttamento agricolo da
parte di Roma. Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge Ieronica
si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi dell'Urbe: quella estensione
avviene con la lex Rupilia del 132. E così sotto il
cielo di Roma una società di pubblicani appaltava la riscossione
delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui trasporti marittimi
(portorium).
Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i legumi di Sicilia che,
assoggettati a decima, prendevano la via del mare per la città ora già caput mundi.
Ma per
uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in quel regime coloniale romano
ebbe occasione e modo di sviluppo economico e demografico: il suo suolo ferace
ed anche la sua vocazione alla viticoltura furono di sprone all'insediamento
contadino. Niente grandi opere e neppure edifici; non si ebbe manco un toponimo
che resistesse all'oblio dei tempi. Eppure, i segni di quel consorzio umano e
sociale nel territorio di Racalmuto sono giunti sino a noi: resti fittili,
anfore, monete romane ed altre testimonianze archeologiche.
Nella
contrada di S. Anna agli inizi del
secolo scorso furono rinvenute anfore in gran numero - forse proprio quelle che
servivano agli esattori romani per trasportare il grano o l'orzo a Roma - e mi
si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si affrettarono a farle sparire
nelle voragini degli zubbi sotto il monte Castelluccio per il timore di espropri o
molestie da parte delle Autorità.
E'
tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782: esso ci
attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a Racalmuto da
parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel 1784 da
Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel
cui manico [«in manubrio diotae fictilis
erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede credito al Torremuzza e
pubblicò tale e quale quella epigrafe nei suoi ponderosi volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma amputandola
del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro
appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di nome FUSCO, del tutto ignoto alla storia di Sicilia ma ben presente nella
prosopografia romana. Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo
tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn.
Pedanius Fuscus Salinator e via di
seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.
Quello
del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in ogni caso un cittadino
di Roma: un probabile esattore dunque e forse un esattore delle decime sul vino
di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando accenna a diote fittili e cioè
ad anfore per il trasporto a Roma del vino, prelevato in natura dal fisco
romano sino a tarda età, come si evince
dalle Verrine di Cicerone.
Per
quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei dintorni di Racalmuto,
sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare traccia alcuna. Gli studiosi
ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano divenne proprietà privata di
Augusto, ma di miniere racalmutesi non
si ha notizia per quel periodo. Solo, sul finire del secondo secolo d.C., pare sotto
Comodo, si registra una svolta economica di grande risalto in Racalmuto: le
miniere di zolfo, impiantate come alcuni vecchi ancor oggi ricordano, vi
presero piede.
Per
oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché nell'Ottocento si rinvennero i
cocci di talune forme romane, simili alle 'gàvite', recanti sul fondo i caratteri
a risalto, e con scrittura alla rovescia, indicativi dello stabilimento
minerario.
Il
primo ad averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi
trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva una
preziosa corrispondenza tra il Picone, all’epoca ispettore degli scavi e dei
Monumenti di Girgenti ed il Ministero,
che risale al 3 novembre del 1877. Si ha per oggetto: Mattoni antichi con bolli relativi alle miniere sulfuree. Un alto
dirigente, il dott. Donati, interpella il Picone in termini imprecisi quanto
misconoscenti:
Il dr. Mommsen reduce dal suo viaggio
in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli fittili con
ricordi di prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli dell'e.c. - Sarò
grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i maggiori ragguagli.
L’avvocato
agrigentino risponde in data 28 dicembre 1877 (Repertorio al protocollo 1878 n.° 16) e fornisce informazioni di
grosso risalto per la storia delle miniere di zolfo racalmutesi al tempo dei
Romani:
« Furono or sono pochi anni scoverti nel
bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni antichi, con
bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale. In essi si
vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano rilevate al
rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le scritture
orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle altre
iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla
paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di
altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli
imperatori, sì che possa concludersi, senza tema di errare, che in quella
stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di sua
presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei. ([23])»
Il
Mommsen fu poco corretto con il Picone: pubblica - unitamente al Desseau - i dati epigrafici nei volumi del C.I.L. ([24]) ma si guarda bene dal ricompensare, neppure
con un semplice menzione, il nostro avv. Picone. Sulle ‘gavite’ romane è ormai
consistente la pubblicistica, ma in essa non si riviene il minimo accenno a chi
per primo ebbe consapevolezza dell’importanza dei reperti solfiferi di epoca
romana, rinvenuti a Racalmuto. Successivamente vi è un’eco nel nostro Tinebra
Martorana che racconta di reperti della specie regalati dalla famiglia La
Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di
Agrigento e finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
All'inizio
del XX secolo, il SALINAS aveva modo di venire in possesso proprio a Racalmuto di
alcuni reperti di quelle che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a
chiamare «tegulae sulfuris». Al
Salinas, invero, furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con
iscrizioni da un contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella
costruzione di un sepolcro, presumibilmente
nei dintorni di Santa Maria.
Quell'insigne archeologo procedeva ad
un'analisi storica molto erudita, ma deviante, che pubblicava sul bollettino dell'Accademia dei Lincei ([25])
Altre «tegulae» sono state trovate nel
1947 in località Bonomorone di Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di
miniere di zolfo perché, come ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([26]), si
trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in
particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio
Pace, con taglio più letterario che scientifico, così sintetizza quell'attività
mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole quadrate di terracotta, di
circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo, rovesciate, delle epigrafi...
Tegole evidentemente poste, come illustrò il Salinas, nei cassoni destinati a
contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo immaginare del tutto identici a
quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome di gàvite, nel fondo dei quali sono parimenti incise le lettere della
miniera, che in tal modo vengono riprodotte in
quelle caratteristiche forme falcate di zolfo, le balate, che ognuno che abbia transitato per le stazioni zolfifere
di Sicilia ha notato.» ([27]).
Pare,
comunque, che l'attività mineraria solfifera a Racalmuto si sia presto estinta
nell'antichità. Dopo quelle testimonianze (che pare riguardino un’attività che
partendo dall'anno 180 d.C. si protrae sino al IV secolo d.C.) si fa un salto
di oltre quindici secoli per avere notizie certe su una presenza mineraria
racalmutese: risale all'inizio del Settecento una nota negli archivi
parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le miniere. Sotto la data
del 22 ottobre
1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro: Giacomo
Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva sotto una
valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il giovane
minatore veniva sepolto nella Matrice. «In
fovea salinae, ob ruinam salis
repentinam, defunctus est», è la
malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri perdeva, dunque, la
vita nella caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
I TEMPI DELLA DECADENZA DELL’IMPERO
ROMANO (Secc. II-IV d.c.)
Se la tegula rinvenuta e studiata dal Salinas
si colloca nel II secolo d.C., quella di cui riferisce il Picone sembra doversi
datare nel IV secolo d.C. ([28]). In
epoca di totale declino dell’impero romano, andrebbe pure collocato il noto
sarcofago del Ratto di Proserpina ([29]).
Rispetto a quanto si è detto e scritto su tale testimonianza, per noi resta
ancor valido l’appunto della Guida del
T.C.I. del 1968: «Il Castello, - è
detto relativamente a Racalmuto ([30]) -
fondato tra il ‘200 e il ‘300 da Federico Chiaramonte, nell’interno conserva un
sarcofago romano del sec. IV, con la raffigurazione del Ratto di Proserpina.» La concidenza tra la data del sarcofago e
quella della tegula studiata dal
Picone consente suggestive ipotesi storiche. Le miniere di zolfo erano dunque
attive dal II al IV secolo d.C. in Racalmuto e l‘insediamento umano è molto
probabile che gravitasse attorno alla zona in cui ora sorge il Castello. Noi
abbiamo potuto appurare che sotto la costruzione vi è materiale di risulta (a
dire il vero, però, trattasi di materiale ceramico databile ad epoca proto-normanna).
In ogni caso, nei secoli del tardo Impero, ferveva l’attività mineraria là dove
nell’Ottocento greve è stato lo sfruttamento delo zolfo. Si attaglia molto bene
anche a Racalmuto ciò che il De Miro annota nella citata relazione in Kokalos.
Scrive l’insigne archeologo: «Accanto a famiglie di personaggi politici di
rango, la prosperità e l’ambizione di classi medie possono essere state legate
alla produzione e al commercio di zolfo per cui, proprio dopo la metà del II
secolo d.C., si rilevano segni di una attività proficua sulla base delle non poche
tegulae sulfuris. Questo periodo di
ricchezza continua anche nel III sec. d. C. con i sarcofagi marmorei[...] La
produzione era ancora attiva nei primi decenni del IV secolo d. C.; [quindi,
subentra] il silenzio dei documenti». ([31])
Sempre secondo il De Miro, la tegula
rinvenuta dal Salinas attesta la proprietà imperiale della miniera di zolfo,
data la formula Ex praedis M. AURELI
([32]).
I dati
archeologici consentono di abbozzare alcune linee evolutive dell’economia
estrattiva racalmutese di quel periodo.
Nei primi decenni del secondo secolo d. C., il territorio a nord di Racalmuto
si presta ad uno sfruttamento solfifero. «Per quanto riguarda la produzione -
annota il De Miro ([33]) -
pur essendo nulla rimasto delle antiche
miniere, evidentemente obliterate da quelle di età moderna, il processo di
estrazione e di preparazione dei pani di zolfo da commerciare già Biagio
Pace aveva indicato come non dovesse
differenziarsi dai sistemi in uso ad Agrigento nel XIX secolo.»
Pare
che in un primo momento ci fosse una organizzazione specialistica che,
«distinguendo tra proprietà del fundus
e attività mineraria, affida la gestione della miniera e la produzione a
“officine”.. Questa tendenza nel III sec. d.C. e oltre porta al monopolio
imperiale delle miniere di zolfo in Sicilia, con una organizzazione
razionalizzata e articolata in cui, unitamente alla proprietà imperiale figura,
in posizione evidenziata, la figura del concessionario titolare dell’officina, dell’attività industriale, e
in posizione subordinata [..], quella del conductor
della miniera.» Successivamente appare «una nuova figura, il manceps, figura che assume sempre
maggior rilievo, sicché in età costantiniana, sparita l’indicazione
dell’officina e del conductor, essa è la sola registrata dopo l’indicazione
dell’imperatore. [..] Il manceps
tende ad assumere per appalto l’intera amministrazione delle miniere di zolfo
imperiali, con un significato molto vicino a quello che, nello stesso periodo,
indicava coloro che attendevano all’amministrazione del cursus publicus e delle stationes.
[...] Quale sia stato l’evolversi ulteriore della organizzazione industriale
delle miniere di zolfo in Sicilia non è dato sapere. Certo è che dopo il IV
sec. d.C. l’attività si affievolì e si spense. E ciò può essere avvenuto contemporaneamente
al passaggio della proprietà terriera assenteista imperiale e più tardi
ecclesiastica in gestione privata, nel quadro di un’economia che ormai ignora
lo sfruttamento delle miniere. La destinazione della produzione dovette
superare l’ambito isolano, e in particolare dall’Emporium di Agrigento doveva partire il commercio diretto con
l’Africa. [..] Si ha quindi l’impressione che, caduta in disuso l’industria
dello zolfo, gli interessi economici e gli investimenti si concentrino
esclusivamente sulla campagna [..] Nel IV sec. il tessuto sociale agrigentino
si attiva, nell’ambito religioso, dell’apporto del Cristianesimo, conservando
il suo baricentro verso l’Africa: ceramica sigillata tarda africana e lucerne
sono comune corredo delle sepolture ipogeiche.» ([34])
In
tale contesto, pensiamo ad un’operosa presenza di officinae, conductores e,
quindi, di mancipes in quel di
Racalmuto, con centro abitato gravitante più verso l’area del Castello che
verso Casalvecchio. Ove ora si ergono le torri potrebbe esservi stata una
necropoli, se il noto sarcofago fosse stato utilizzato fin dal IV sec. d. C. là
dove, poi, per secoli è rimasto. I resti
di tegulae, rinvenuti presso S.
Maria, rafforzano ipotesi della specie.
Dopo
il IV secolo, uno spostamento del centro abitativo in contrada Grotticelli, è per tanti versi
attestato. La fine dell’industria estrattiva e la desolazione che ebbe a
determinare il terremoto che devastò l’Isola nel 365 d. C. spinsero,
probabilmente, a questo cambiamento abitativo.
I TEMPI DELL’OCCUPAZIONE BARARICA
Tinebra
Martorana fa un fugace accenno a Genserico ed ai suoi Vandali ed a Totila re
dei Goti solo per un richiamo storico dei più generali eventi siciliani
dell’epoca, non sapendo che altro dire per quel che ha più stretta attinenza
alle vicende locali. Come abbiamo visto, una qualche eco di quelle dominazioni
dovette esservi per i coloni abbarbicatisi ai fascinosi costoni snodantisi tra
il Caliato, Anime Sante, Grotticelle, Giudeo e Casalvecchio. Ma di questo
sinora non abbiamo alcuna testimonianza né scritta né archeologica. Il tempo a
venire non sarà avaro di reperti esplicativi, specie quando ci si deciderà a
porre in atto scientifiche campagne di scavi nella zona, invece di ricoprire
frettolosamente quello che affiora per caso.
Nei
pressi di Racalmuto sorgono le rovine di Vito Soldano: ne hanno scritto M.R. La
Lomia (1961) ed E. De Miro (1966 e 1972-73) ([35]), ma
non può dirsi che per il momento disponiamo di notizie appena sufficienti,
specie sotto il profilo storico. Tombe riccamente corredate sono state
rinvenute in contrada Cometi: non è da escludere che lì vi fosse una qualche
necropoli riguardante il finitimo centro di Vito Soldano. Purtroppo l’avida
ingordigia dei tombaroli ha sinora impedito seri e chiarificatori studi. Per
tutto il periodo romano, e per quello successivo delle scorrerie barbariche,
sino all’avvento dei Bizantini, i vari coloni sparsi nel territorio di
Racalmuto poterono far capo all’importante insediamento di Vito Soldano, di cui
si ignora il nome antico e per il quale le varie ipotesi degli archeologi non
reggono al vaglio critico.
Traslando
alle vicende del rado colonato racalmutese del V e VI secolo d.C. le scarse
conoscenze che si hanno per quel periodo in tema della più generale storia
della Sicilia, emergono scarsissimi lumi, qualche indizio e indicazioni di
troppo generica portata.
Se nel
439 la Sicilia fu occupata dai Vandali, a Racalmuto un qualche sentore ebbe ad
aversi. Non certo in fatto di religione, giacché l’ostilità di Genserico verso
il cattolicesimo e la sua propensione alle conversioni di massa all’arianesimo
difficilmente poteva colpire la nostra plaga, per nulla organizzata sotto il
profilo civile e, per quello che mostra l’archeologia, men che meno sotto il
profilo religioso. Ma se il vescovo cattolico agrigentino - se vi fosse, chi questi fosse e che rilievo
avesse, non si sa - ebbe a subirne una qualche conseguenza, un qualche
riverbero dovette esservi sull’eventuale comunità cristiana racalmutese. Di
certo, quando Genserico fu sconfitto ad Agrigento da Ricimero, conseguenze di
quella guerra ebbero a ricadere sull’economia agricola di Racalmuto. Se
crediamo a Sidonio Apollinare [36],
Ricimero con quella vittoria poté ripristinare la coltivazione dei campi, e
qui, a Racalmuto, a parte il lontano sbandamento che le scorrerie di Genserico
e dei suoi Vandali ciclicamente determinavano, dovettero esservi condizioni per
regolari raccolti granari e normali vendemmie, atti a consentire alla rada
popolazione un apprezzabile benessere.
I
Vandali dopo il 463 riescono, in qualche modo, a prendere possesso della
Sicilia e la soggiogano sino all’anno in
cui, caduto l’impero romano d’Occidente (476), Genserico la restituisce ad
Odoacre: vicende queste riflessesi sulla plaga racalmutese con incidenze e modalità
sinora del tutto ignote.
La
Sicilia passa quindi, nel 491, ai Goti. Si è certi di un buon governo da parte
di Teodorico. Vi sono, però, persecuzioni ariane contro i cattolici. Per i
coloni di Racalmuto che cosa potesse significare tutto ciò va affidato a
congetture più o meno fantasiose, in mancanza di fonti, non solo documentali,
ma neppure archeologiche.
Il
rivolto storico dei Goti a Racalmuto persiste sino al 535, allorché Belisario
riesce a congiungere l’isola all’Impero d’Oriente: inizia la civiltà bizantina
racalmutese che ebbe incidenze ben più rilevanti di quelle arabe, non
foss’altro perché durò di più (quasi tre secoli contro i due e mezzo
dell’insediamento berbero).
IL
TEMPO DEI BIZANTINI
Attorno
al VI secolo d.C. a Racalmuto si ebbe un discreto diffondersi della civiltà
bizantina: ne è probante testimonianza il tesoretto di monete studiato dal
Guillou. Aspetto singolare è il luogo del ritrovamento delle monete, dietro la
Stazione Ferroviaria, in contrada Montagna. Si dà infatti il caso che, al di là
dei divieti codificati dalle Autorità a difesa di una asserita rilevanza
archeologia, in tale contrada nessun altro reperto antico è sinora affiorato. E
dire che le ricerche dei privati proprietari sono state frenetiche. Ciò fa
pensare che il tesoretto fu nell’antichità nascosto in zona disabitata per
comprensibile cautela. Il centro abitativo era discosto, ad un paio di
chilometri circa, attorno alle Grotticelle.
Per
Biagio Pace le Grotticelle erano - come si è detto - un ipogeo cristiano. I Bizantini
racalmutesi, ormai decisamente convertiti al cristianesimo e sicuramente
grecofoni (il fondo di lucerne del tempo colà rinvenute portano marchi in
greco), curavano la loro cristiana sepoltura ed è un peccato che vandali locali
abbiano frugato all’interno di quelle tombe, distruggendo e trafugando - a
beneficio pare di un giudice che intendevano ingraziarsi - un patrimonio
archeologico d’incommensurabile portata storica. Ma la zona resta pur sempre archeologicamente
ricca e saranno gli scavi futuri a fornire materiale esplicativo di quel
periodo di storia racalmutese, oggi affidato solo alle fantasie degli eruditi
locali. (Invero neppure il Guillou è esaustivo ed il competente Griffo ([37]) retrocede la datazione dellle monete al V
secolo: cosa inverosimile se le effigie degli imperatori bizantini sono di
Tiberio II ed Eracleone, di oltre un secolo posteriori)
A
seguito della scoperta archeologica del 1990 in contrada Grotticelli le pubbliche autorità si sono per il momento limitate
ad imporre un vincolo sul territorio interessato. Nel decreto della Regione
Siciliana del 10 luglio 1991 viene sottolineata «la notevole importanza
archeologica della zona denominata Grotticelle nel territorio di Racalmuto
interessata da stanziamenti umani di epoca ellenistica-romano-imperiale,
costituita da ingrottamenti artificiali ad arcosolio e da strutture murarie abitative
affioranti». Non viene precisato altro. Tanto comunque è sufficiente a
comprovare un più o meno vasto insediamento abitativo in quella zona a partire da
un’epoca che per quello che abbiamo detto prima può farsi risalire ai tempi
della caduta dell’impero romano.
Biagio
Pace, invero, accenna ad un ipogeo cristiano in «quell'abitato prearabo che fa
postulare il nome di Racalmuto» ([38])
Nostre personali ricerche ci portano a ritenere che l’importante notizia poggia
su questo passo del Tinebra Martorana: «..alla contrada Grutticeddi esiste un poggetto di masso scavato in una grotta; da
molti mi fu assicurato che in quella grotta furono rinvenuti dei sepolcri scavati
nel masso con resti di ossa». Da qui - per
esser franchi - all'ipogeo cristiano ce ne corre. Una ipotesi dunque, ma
tutt'altro che inattendibile come i recenti ritrovamenti archeologici nei
dintorni sembrano comprovare. Di certo sappiamo che le Grotticelle erano una plaga abitata anche al tempo dei bizantini. Grotticelle e dintorni poterono dunque
essere fattorie o pertinenze di 'massae'
soggette al papa Gregorio nel VI secolo o alla chiesa di Ravenna oppure
costituire beni propri della corte di Bisanzio.
Sulla scia di autorevoli storici
([39]) è pur congetturabile una
sorta di continuità tra l'assetto
agrario dell'epoca bizantina e quella della Sicilia post-araba. La frattura
saracena a Racalmuto, come altrove, fu profonda
ma non invalicabile.
Ma
l'ultimo reperto relativo a Racalmuto pre-arabo resta per il momento il cennato
ripostiglio di aurei imperiali (oltre duecento) rinvenuto casualmente in
contrada Montagna. Sul ritrovamento delle monete a Racalmuto, ho sentito varie versioni pittoresche sin
dalla prima infanzia: lavori di scasso per l'impianto di una vigna; scoperta
del tesoro da parte di operai, tra i quali un contadino di non eccelse capacità
intellettuali; rapacità del padrone del fondo; imprevista denuncia del
minorato; intervento dei carabinieri e sequestro delle monete finite al Museo
di Agrigento. A quel ripostiglio si riferisce André Guillou ([40]), secondo il quale è da
collocare nei secoli VII-VIII il «numero notevole di tesori di monete ...
dispersi nell'isola», tra i quali le monete di Racalmuto costituite da «205 pezzi, riferentisi a Tiberio
II - Héracleonas».. ([41]) Quelle monete sono oggi custodite in una sala
sempre chiusa del Museo Agrigento, quasi a simbolo del pubblico oscuramento
della nostra antica storia locale. Se non fosse stato per il francese Guillou,
le ultime vicende bizantine di Racalmuto sarebbero finite nell'oblio o
inficiate da errori di datazione ([42]).
RACALMUTO, VILLAGGIO ARABO
Caduta
Agrigento sotto gli Arabi (829), il più o meno fiorente villaggio bizantino di
Casalvecchio viene inglobato nell’oscuro dominio berbero. Di congetture se ne
possono formulare tante, di verità storiche solo deludenti barlumi.
Che
cosa ne fu di quelle abitazioni? Le attuali conoscenze archeologiche sono
insufficienti per teorizzare alcunché. Sembra però probabile che i coloni un
tempo colà dimoranti abbiano finito con l’abbandonare le loro case e spostarsi
altrove. Nessuna reperto attesta il sopravvivere in questa zona della comunità
bizantina, dopo il consolidarsi del dominio arabo. E se diamo credito alla
toponomastica, una località chiamata Saracino
è segnata nelle mappe catastali al n.° 21, mentre quella di Casalvecchio - ospitante l’antico
villaggio greco - vi è indicata coi nn. 47-48, a testimonianza della non
stretta contiguità dei due luoghi d’insediamento.
E che può dirsi della religione? E’
opinione diffusa che gli Arabi fossero tolleranti, ma noi non sappiamo né di
moschee né di chiese cristiane aperte al culto in quel tempo nella zona
dell’intero altipiano. Ed in mancanza di documentazione siamo lasciati liberi
di credere a quel che vogliamo e propendere verso tesi di eclissi della
religione cattolica o di una sua sopravvivenza, come di un fiorire del culto
islamico tra l’Est del Castelluccio
ed i luoghi del tramonto sul crinale della Montagna.
Siamo troppo affascinati dai versi di Ibn HAMDIS ([43]) per
non propendere per questa seconda tesi. Pianse costui con accenti che
trafiggono ancora il cuore dei racalmutesi di sangue arabo:
«Ho riacquietato
il mio animo quando ho visto la mia patria assuefarsi alla malattia mortale,
fastidiosa.
«Che? Non l'hanno
macchiata d'ignominia? Non hanno, mani cristiane, mutate le sue moschee in
chiese,
«dove i frati picchiano
a loro voglia, e fanno chiacchierare le campane mattina e sera?
«O Sicilia, o nobili città, vi ha tradite la sorte, voi
che foste propugnacolo contro popoli possenti.»
«Quanti occhi tra voi vegliano paventando, i
quali un dì, sicuri dai Cristiani, traevano dolci sonni?
«Vedo la mia patria
vilipesa dai Rùm [cristiani]; essa che in mano dei miei fu sì gloriosa e fiera.
«Aprirono con le loro
spade i serrami di quel paese: splendeva esso di luce, e vi lasciarono le
tenebre.
«Passeggiano
nei paesi i cui cittadini giacciono sotterra: oh no, non hanno più paura di
incontrarvi quei pugnaci leoni.»
Consolidatasi la conquista araba, a
Racalmuto si stabiliscono i berberi, che per la maggior parte erano contadini
venuti in cerca di terra, mentre gli invasori arabi erano soprattutto soldati
che preferivano lasciar lavorare i cristiani per loro. Si era, dunque, superato
il periodo eroico del gihàd ed il
rappresentante dell’emiro in Sicilia assunse anche le funzioni amministrative.
La sua autorità si estese su tutti gli abitanti dell’isola e cioè su un vero e
proprio mosaico di razze e di religioni. Anche i musulmani erano di origine
etnica la più disparata: arabi, berberi, spagnoli, locali convertiti. La
restante popolazione era costituita da dhimmi,
ossia locali non convertitisi all’Islam i quali, in cambio del pagamento di un
tributo annuo fisso, avevano salva la vita
e le proprietà, conservando libertà di religione e di culto.
Quanti erano i berberi e quanti i dhimmi a Racalmuto? E quesito per lo
stato delle conoscenze senza risposta. Gli infedeli (i dhimmi) che per avventura avessero deciso di restarsene nei
territori conquistati dovevano corrispondere la gizya ed il kharàj - imposta
personale (o di capitazione) questa, fondiaria quella - inizialmente non
distinte; ne erano esclusi gli indigenti, gli schiavi, le donne, i vecchi ed i
bambini.
Dopo neppure un quarantennio dalla
conquista, scoppiò una contestazione che sicuramente coinvolse l’altipiano di
Racalmuto. Lasciamo la parola ad un arabista del calibro di Rizzitano ([44]) per
tratteggiare questa congiuntura storica di grande risalto anche per le vicende
arabe locali.
«In entrambe .. le classi sociali -
in cui era divisa orizzontalmente la comunità dei sudditi dell’emiro - erano
ben presto insorti malcontenti, rivalità e ribellioni anche violente. Le forti
personalità e le doti eccezionali di Ibrahìm ibn Allàh e di Al-Abbàs ibn
al-Fadl - ma soprattutto i ricchi bottini che questi due energici condottieri
erano riusciti a conquistare - avevano temporaneamente appagato e tenute quiete
le truppe. Tuttavia, non si era ancora concluso il quarto decennio della
conquista, consolidatasi soprattutto nel settore centro-orientale, che già i
musulmani davano qualche segno di cedimento e mostravano di sentirsi meno
impegnati nell’ulteriore rafforzamento delle posizioni conquistate e nella
partecipazione all’opera di sistemazione amministrativa del paese, più
sensibili alle sollevazioni e ai disordini che elementi sobillatori cercavano
di fomentare soprattutto nell’agrigentino. Qui prevaleva l’elemento berbero; ed
è da ritenere che esso agisse in collusione con i bizantini ai danni degli
arabi, per cui si riproponeva anche in Sicilia, e forse si esasperava quella incompatibilità
fra le due razze diverse che, in Ifìqiya, aveva già provocato - e continuava a
provocare - non pochi e cruenti scontri. A tale proposito è da osservare che -
fra i diversi gruppi etnici venuti in Sicilia con l’esercito di occupazione - i
due gruppi più consistenti erano proprio quello arabo e quello berbero.
Accomunati dalla fede, ma solo apparentemente fruenti di uguali condizioni
sociali, gli arabi si erano sempre sentiti, in ogni circostanza, i padroni dei
berberi, e sempre cedettero all’orgoglio di averli dominati fin dall’ormai
remoto secolo vii, quando l’Islàm
iniziò la conquista del Maghrib. Al tempo stesso i berberi, genti di
antichissime tradizioni e ben noti per la loro fierezza, non tolleravano
condizioni di subordinazione agli arabi, a cui fra l’altro si sentivano
superiori per numero, industriosità e capacità soprattutto nel settore
agricolo.
«Per quanto concerneva invece i dhimmi, questi erano soprattutto
notabili locali, funzionari, proprietari terrieri, contadini commercianti.
Anche fra loro il malcontento era assai vivo. Il carico fiscale che dovevano
sostenere in cambio del loro statuto era sempre più pesante; oggetto di
continue discriminazioni e vessazioni da parte dei musulmani, essi erano
esposti più che mai agli umori del momento, all’opportunismo del principe, alle
rappresaglie - spesso sanguinarie - da parte degli elementi musulmani più
violenti e turbolenti - venuti in Sicilia immaginando di conquistarvi facili
ricchezze. Ora che le campagne militari - rivelatesi più dure di quanto forse
inizialmente supposto - fruttavano bottini minori, è chiaro che erano i dhimmi a dovere «pagare» l’irrequietezza
di questi elementi musulmani. Tale era il contesto sociale siciliano alla morte
di a-Abbàs.
«Pertanto a nuovo governatore -
Khafagia ibn Sufyàn (862-869) - che era stato preceduto da altri due reggenti,
rimasti in carica complessivamente un anno, s’impose il compito di eliminare,
per quanto possibile, ogni motivo di dissidio, onde evitare che si trovasse
pregiudicata la ripresa delle operazioni militari, avviate presumibilmente ad
un anno di distanza dall’arrivo a Palermo di quel nuovo rappresentante
dell’autorità aghlabita d’Ifrìqiya ([45])»
Non è questa la sede per dilungarsi
sulle imprese militari a Siracusa, Ragusa, Noto e Scicli di Khafagia: ci
interessa invece l’episodio narrato dall’Amari che per tanti versi investe la
storia locale racalmutese. Siamo nell’anno 867 e «par che seguendo la costiera di mezzogiono - scrive l’Amari nella sua
SMS - giugnessero i Musulmani presso Girgenti, avendo costretto a calarsi agli
accordi il popolo di Ghirân, che io credo la terra di Grotte: e moltissime
altre castella occuparono; finché il capitano infermo di malattia sì grave, che
fu mestieri portarlo a Palermo in lettiga. Ma non andò guari che il rividero i
Cristiani nel duegento cinquantatrè (10 gennaio a 30 dicembre 867) cavalcare i
contadi di Siracusa e di Catania, distruggere le méssi, guastar le ville;
mentre le gualdane ch’ei spiccava dal grosso dell’esercito depredevano ogni
parte dell’isola. »
Elementi arabi, con intenti
vessatori, si spandono nell’867 nelle campagne attorno a Grotte (investendo,
quindi, anche il villaggio del nostro Casalvecchio) distruggendo, depredando,
violentando. Avranno lasciato dietro di loro morte e desolazione. Se una
qualche attendibilità - e noi la neghiamo del tutto - ha l’antica tradizione
che vuole attribuire a Racalmuto il significato di «Paese morto», questa
andrebbe collegata alla vicenda dell’867 che abbiamo richiamata. Solo se così
inquadrata, può avere una qualche validità storica la dissertazione del Tinebra
Martorana (v. pag. 33) sul villaggio chiamato dai «Saraceni .... Rahal-Maut, villaggio morto, distrutto [...] a memoria perenne.»
Amari ritiene che Grotte corrisponda
alla fortezza di Ghîran sol perché Ghîran in arabo significa grotta o
caverna. Ed allora perché non congetturare che si riferisca alla contrada di
Racalmuto chiamata ancor oggi Grotticelle
attorno a cui si spandeva un’apprezzabile villaggio arabo-bizantino? o alle
tante grotte che erano abitate sotto il Carmelo, nell’antico quartiere
denominato in epoca post-sveva S.
Margaritella? Ma tanto solo per rendere avvertiti della non perspicuità
dell’argomento toponomastico dell’Amari.
[1] )
Archivio Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[2])
Cro-Magnon (Francia), località del
Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo
sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località
omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[3]) Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro dell'Agricoltura
di Ibn 'al Awwam
[4]) Giovan Battista
Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani
- UTET 1990.
[5]) Peri I., La Sicilia dopo il Vespro, Laterza 1982, pag. 235
[6]) AVS - Reg. Av. 162 f.419v.
[7]) cfr.
G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.
[8]) John A. Garraty e Peter Gay - Storia del Mondo - Mondadori 1973 - Vol.
I - pag. 15
[9]) Ibidem. pag. 15.
[10]) Ferdinando Milone: Sicilia, la natura e l’uomo - Torino, 1960, pag. 13.
[11]) L.
Trevisan: Les mouvements tectiques
récents en Sicile - Hipothèses et problèmes.
[12]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto -
GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[13]) Pratesi e Tassi: Guida alla natura della Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss.
[14])
Cfr. S. Tinè: L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73
ss.
[15])
C.I. Solinus, 5\ 18; 19
[16]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[17])
Presso l’Archivio Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra
il Mauceri ed il Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra
Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”.
Il Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale
di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S.
di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI
(AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.5.2 ).
[18]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880,
pag. 17.
[19]) Luigi Mauceri: op. cit. pag. 18.
[20])
Pietralonga, a dire il vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del
finitimo Castrofilippo.
[21]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale. - Roma 1983 - pag. 114.
[22]) Vincenzo Tusa/Ernesto De Miro: Sicilia Occidentale. - Roma 1983 - pag. 14.
[23])
A.C.S. di Roma - Fondo: ANTICHITA' E
BELLE ARTI (AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 - Fascicolo 40.3.4 -
(annotazioni interne: 1877 - 64-1-1 - Girgenti - Mattoni antichi con bolli,
miniere solfuree).
[24])
C.I.L. [CORPUS INSCRIPIONUM LATINARUM] a cura di Teodoro MOMMSEN - Vol. X, 2 p.
857 - TEGULAE MANCIPUM SULFURIS AGRIGENTINAE - 1883 - (nn. 8044 1-9).
[25])
NOTIZIE DEGLI SCAVI - Anno 1900, pagg. 659-60.
[26])
KOKALOS 1963, pp. 163-184.
[27]) B. Pace, Arte
e Civiltà, I pp. 393-4
[28])
L’accenno al MANCEPS conduce a quella
datazione, se si accettano le argomentazioni in proposito di E. De Miro, quali
si leggono nella sua relazione pubblicata in Kokalos XXVIII-XXIX, 1982-1982,
pag. 324.
[29])
Fino a poco tempo fa mal custodito nell’androne del Comune, ora è ritornato al
Castello ove il padre Cipolla, dopo il rinvenimento, l’aveva ubicato. Invero,
il sarcofago viene al momento neghittosamente esposto nei locali che un tempo
furono adibiti a cappella palatina dei Carretteschi. La particolarità è ovviamente
del tutto ignota alle locali autorità.
[30])
Guida d’Italia del Touring Club Italiano - Sicilia - ed. 1968, pag. 303.
[31]) Ernesto De Miro: Città e contado nella Sicilia Centro-Meridionale, nel iii e iv sec.
d.C. - in Kokalos pag. 320. In quella relazione, spunti riguardanti
specificatamente Racalmuto si colgono nella Tav. XLIV [la Tegula di cui alla
Fig. 1d - CIL X 8044, 1 - MANCIPU[M] - [S]ULFORIS - SICILI[AE] - ST, se non è
proprio quella del Picone, è del tutto analoga.]
[32]) E.
De Miro, op. cit. pag. 321.
[33]) E.
De Miro, op. cit. pag. 320.
[33]) B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia Antica I, 1935, p. 393 ss.
[34]) E.
De Miro, op. cit. passim.
[35])
M.R. LA LOMIA, in Kokalos, VII, 1961; E. DE MIRO, in Encicopledia Arte Antica,
VII, 1966, p. 276, ID, in Kokalos, XVIII-XIX, 1972-73, pp.247.
[36])
Sidonio Apollinare - Carm. II - Panegirico recitato in Roma all’imperatore
Artemio (ediz. di Parigi 1599). Di risalto i versi 362-372. Si celebra la
vittoria di Ricimero del 456 con questi encomiastici tratti:
Agrigentini recolit dispendia campi,
Inde furit, quod se docuit satis iste nepotem
illius esse viri, quo viso, Vandale, semper
Terga dabas, nam non siculis illustrior arvis,
Tu, Marcelle, redis per quem tellure, marique
Nostra syracusios texerunt arma penates.
(Da G. Picone: Memorie Agrigentine, pag. 283).
[37]) Il
Griffo (op. cit.) accenna all’esposizione di «un ripostiglio di aurei imperiali
(ben 207 pezzi) del V secolo d.C. proveniente da Racalmuto per scoperta
occasionale del 1940. » A suo dire il medagliere sarebbe stato oggetto di «un accurato
inventario a cura della dott.ssa M. T. Currò-Pisanò, che s’era preso anche
carico di elaborarlo per le stampe». (Ibidem,
pag. 317). Abbiamo cercato di saperne di più presso il Museo di Agrigento, ma
siamo stati sgarbatamente messi alla porta come importuni scocciatori.
[38]) B. Pace,
Arte e Civiltà della Sicilia Antica IV, p.174.
[39]) V. D'Alessandro, per una storia delle campagne siciliane nell'Alto Medioevo, in
Archiv. Storico Siracusano, n.s. V, 1981.
[40]) André Guillou, L'Italia
bizantina dall'invasione longobarda alla caduta di Ravenna, Vol. I, Torino 1980, pag. 316.
[41]) Cfr. Arch.
Stor. Sirac., n. s. IV. 1975-76, pag. 74, n. 149
[42]) P.
Griffo, Il Museo Archeologico
Regionale di Agrigento, 1987,
pag.192.
[43]) Ibn Hamdis: poeta arabo, nato a Siracusa verso il 1053 e morto in
Africa nel 1133. Vedi Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula - Torino 1880 -
pagg. 312 e ss.
[44]) Umberto Rizzitano: Gli Arabi di Sicilia, in Storia d’Italia diretta da G. Galasso,
UTET 1983, Vol. III, pagg. 384 e ss.
[45])
«Khafagia ibn Sufyàn era indubbiamente una personalità di primo piano; si era
già distinto in Ifrìqiya all’epoca della rivolta dei giùnd, dando prova di grande fedeltà alla dinastia aghlabita.
Quando arrivò in Sicilia non mancava quindi né di esperienza né di prestigio
personale. Il primo anno della sua permanenza a Palermo lo trascorse, secondo
Ibn al-Athìr, più che in operazioni militari proprio nel delicato compito di
ristabilire ordine e disciplina fra gli elementi musulmani, e di armonizzare
conquistatori e conquistati: condizioni indispensabili alla ripresa delle
operazioni militari. Cfr. Ibn al-Athìr,
Al-Kàmil, pag. 312. Cfr. anche SMS,
I, 482.
Nessun commento:
Posta un commento