L’avvento
dei Del Carretto
PERCHE' UNA STORIA SUI DEL CARRETTO
|
Astrette in un paio di
pagine sono godibili le riflessioni terminali (1984) di Leonardo Sciascia ([1][1]) su tutta la storia
racalmutese. Desolato il quadro: per lo
scrittore è flebile l'eco dell’antica 'dimora vitale', che si amplifica forse
una sola volta quando Racalmuto «piccolo paese, 'lontano e solo', come sperduto
nel Val di Mazara, diocesi di Girgenti , ... dall'oscurità di secoli emerge,
nella prima metà del XVII, a una vita che Américo Castro direbbe 'narrabile'
.... grazie alla simultanea presenza di un prete che vuole una chiesa 'bella' e
vi profonde il suo denaro, di un pittore, di un medico, di un teologo; e di un
eretico.» Di solito, invece, «per secoli, vita appena 'descrivibile',
nell'avvicendarsi di feudatari che, come in ogni altra parte della Sicilia,
venivano dal nord predace o dalla non meno predace 'avara povertà di
Catalogna'; col carico di speranze deluse e delle rinnovate e a volte
accresciute angherie che ogni nuova signoria apportava.»
Sull'altipiano
solfifero ebbe quindi a trascorrere un’oscura, millenaria vicenda umana; ma era
una 'vita pur sempre tenace e rigogliosa che si abbarbicava al dolore ed alla
fame come erba alle rocce'.
Promana quasi un
monito a non indugiare sulle araldiche traversie dei signori di Racalmuto.
Eppure noi si accingiamo ugualmente a scrivere sui Del Carretto ed altri
feudatari locali. Abbiamo rovistato a lungo negli archivi (dalla locale matrice
al lontano archivio segreto del Vaticano; da Agrigento ai ponderosi fondi di
Palermo); abbiamo rinvenuto carte, documenti, diplomi, testamenti, codicilli
che una qualche luce nuova la proiettano sul vivere feudale dei racalmutesi.
Tanto ci pare sufficiente a superare remore e riserbi.
L'avvicendarsi dei
feudatari è stato sinora narrato dagli eruditi locali con approssimazioni e
topiche: diradarle o correggerle alla luce dei documenti d'archivio un qualche
valore dovrebbe pure rivestirlo. Incapperemo sicuramente anche noi in sviste ed
abbagli: consentiremo, così, ad altri il gusto di rettificarci. Niente è più
proficuo dell'errore, quando provoca ulteriori ricerche. Il silenzio equivale
al nulla: è sintomo d'accidia, uno dei sette peccati capitali, almeno per i
cattolici.
* * *
Sui Del Carretto di Racalmuto è reperibile
una folta letteratura, specie fra storici ed eruditi del Seicento; ma solo
Sciascia (vedansi Le parrocchie di
Regalpetra e Morte dell'inquisitore),
scavalcando il vacuo curiosare araldico, scandaglia gli amari gravami di quella
signoria feudale. Peccato che il grande scrittore si sia voluto attenere, sino
alla fine dei suoi giorni, ai dati cronachistici dell'acerbo Tinebra Martorana.
Finisce, così, col dare credibilità a vicende inventate o pasticciate. Sono da
notare, ad esempio, queste topiche piuttosto gravi:
1. Il 'Girolamo terzo Del Carretto' che «moriva
per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all'indipendenza del
regno di Sicilia» ([2][2]) è inesistente. A
salire sul patibolo allestito nel 'regio castello' di Palermo era stato lo
scervellato Giovanni V del Carretto il 26 febbraio 1650. Quello che si indica
come Girolamo quarto è invece il terzo. Dopo una parentesi in cui il feudo di
Racalmuto risulta assegnato alla vedova del malcapitato Giovanni V, la contea
viene restituita, nel 1654, all’ultimo dei Girolami Del Carretto. Costui,
finché subì l'influenza della prima moglie Melchiorra Lanza Moncada figlia del
conte di Sommatino, fu munifico verso conventi, ospedali e chiese. Ma quando fu
prossimo ai cinquant'anni,([3][3]) forse perché oberato
dai debiti, si scatenò contro il clero di Racalmuto, avendogli denegato le
esenzioni terriere risalenti all'ultimo barone Giovanni III Del Carretto ([4][4]); e contro la parte
abbiente del clero nostrano intentò, presso il Tribunale della Gran Corte, una
causa che poteva costargli una terrificante scomunica.
Alla fine dei
Seicento, il 2 giugno 1687, Girolamo III del Carretto si spoglia della contea,
sicuramente per sfuggire ai creditori, facendone donazione al figlio Giuseppe.
Ma costui premuore al padre e pertanto il feudo ritorna sotto la titolarità di
Girolamo III sino alla sua morte, con la quale si estingue la signoria dei Del
Carretto su Racalmuto. Un Girolamo IV ([5][5]), dunque, non è mai
esistito.
2. Giovanni V Del Carretto non "contrasse
parentado con Beatrice Ventimiglia, figlia di Giovanni I, principe di
Castelnuovo" come vorrebbe - sulla scia del Villabianca ([6][6]) - il
Tinebra-Martorana, riecheggiato più volte da Sciascia. Costei, invero, ne era
la madre ed era proprio quella Beatrice protagonista del pasticciaccio che nel maggio
del 1622 sarebbe stato perpetrato
insieme "al priore degli agostiniani ed al servo di Vita" ([7][7]).
3. Che Girolamo II Del Carretto sia il massimo
responsabile della «vessatoria pressione fiscale» del terraggio e del terraggiolo,
«canoni e tasse enfiteutiche ... applicati con pesantezza ed arbitrio» ed «in
modo particolarmente crudele e brigantesco» ([8][8]) dal conte in parola,
è forzatura storica. Il terraggiolo
fu tassa sui 'cittadini et habitaturi' della Terra di Racalmuto osteggiata sin
dai tempi degli ultimi baroni del Cinquecento. Nel 1580 il neo-conte Girolamo
I, dissanguato finanziariamente dalla sua mania per i titoli altisonanti -
quello di conte riesce a conseguirlo, quello di marchese, no -, trova giurati
compiacenti ed ordisce una 'transazione consensuale'. Nel 1609, quando Girolamo
II è appena dodicenne, il suo tutore architetta con i maggiorenti di Racalmuto
una furbata che verrà poi del tutto cassata nel 1613: si pensa di sostituire il
terraggiolo con una donazione una
tantum di 34.000 scudi da far gravare su tutti gli abitanti di Racalmuto. Gli
effetti furono disastrosi, pensiamo più per il conte che per racalmutesi. I
fondi della donazione risultarono irreperibili. Si optò per un reddito annuo
del 7% (2.380 scudi) da far pagare a tutti i residenti, dovessero o non
dovessero il terraggiolo (e cioè due
salme di frumento per ogni salma di terra coltivata in feudi diversi da quello
di Racalmuto). Furono 700 le famiglie che presero la fuga. Nel 1613, avendo
maggior peso il sedicenne Girolamo Del Carretto, si ritornò all'antico regime
sancito nel 1580. L'anno dopo, frate Evodio di Polizzi fondava il convento
degli agostiniani 'riformati di S. Adriano' a San Giuliano. Rem promovente Hieronymo Comite, scrive
il Pirri. Che ragione avesse poi, otto anni dopo, il frate a mutare la doverosa
gratitudine in rancore omicida non può spiegarsi, specie se si va dietro alla
stravagante tradizione riportata dal Tinebra. A ben vedere, il frate ebbe a
limitare la sua opera alla primissima fase. Passò quindi ad altri conventi ed a
Racalmuto con tutta probabilità non mise più piede. Le carte della Matrice,
così diuturnamente puntuali per quel periodo, giammai accennano al padre
agostiniano (Evodio o Fuodio o Odio, comunque si chiamasse).
Val dunque la pena di
tentare una veridica storia dei Del Carretto? A noi pare di sì. In definitiva,
anche se di vita 'appena descrivibile',
si tratta pur sempre della storia di Racalmuto.
* * *
Sul ramo di Sicilia
della famiglia Del Carretto, nulla è reperibile in letteratura sino a tutto il
secolo XV. Agli albori del XVI, il
rancoroso Giovan Luca Barberi si produce in una maligna stroncatura della
legittimità del titolo baronale di Racalmuto della rampante famiglia d'origine
ligure.
Stando ad una nostra
traduzione dal latino, ecco come tratta i Del Carretto quel temibile
inquisitore in un'apposita "ALLEGACIO RAYALMUTI" del suo «magnum
capibrevium» ([9][9]):
In effetti, per questa terra di Racalmuto, niente
trovo in favore del diritto del sacro regio demanio ad eccezione del fatto che
nessun titolo risulta del modo come la predetta terra sia venuta nelle mani ed in
potere del prenominato Antonio del Carretto. Ed a tal fine è soprattutto da vedere la forma della prima
alienazione della già detta terra per sapere se avvenne legittimamente che essa
fosse staccata dal sacro demanio. Certo sembra lecito per quella clausola
insita nel privilegio del signor Re Martino, quella che recita: «Gli cediamo e
concediamo, in forza della presente grazia, tutti i singoli diritti che
vantiamo su detto casale o che possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto,
ecc. ... ». Se ne trae l'incontrastabile diritto del sacro regio demanio sulla
detta terra. C'è allora da chiedersi
quale causa e quale riguardo abbiano spinto lo stesso signor Re
Martino a fare la detta cessione di
diritti al predetto Matteo. Infatti è chiaro che il re stesso non poteva
minimamente fare ciò in pregiudizio dei signori re successori. Così la vostra
Maestà Cattolica, giusta quanto sopra detto,
ha pienamente il fondato diritto di chiedere all'attuale possessore
della terra di Racalmuto il titolo rilasciato da tutti i suoi predecessori
affinché si dipani la totale verità.
Del pari e poiché al detto Matteo successe Giovanni
del Carretto che nel privilegio o investitura venne chiamato «figlio ed erede
di Matteo» ma non venne indicato quale «figlio legittimo e naturale», nel qual caso è di diritto da reputarsi
bastardo. A tal fine abbiamo chiesto, se la forma della alienazione della detta
terra era tale, il titolo in base al quale poteva estendersi l'alienazione
stessa ai bastardi o illegittimi. Similmente l'attuale possessore deve
presentare e la sua investitura e quella
del condam Giovanni, suo padre, nell'interesse della regia curia.
Abbiamo scritto una
volta e ci pare opportuno ripeterlo qui che, nella sua verve investigativa, G.L. Barberi sia andato un po' oltre
nell'insinuare l'illegittimità della nascita di Giovanni I Del Carretto. Nel processo d'investitura di Federico Del
Carretto del 1453, i testi concordi avevano dichiarato: «Item quod dictus quondam magnificus dominus Mattheus de Garrecto et quondam magnifica
domina Alionora fuerunt et erant ligitimi maritus et uxor ex quibus jugalibus
natus et procreatus fuit magnificus quondam dominus Joannis de Garrecto qui
subcessit in dicto casali et castro Rayalmuti tamquam filius legitimus et
naturalis percipiendo fructus reditus et proventus usque ad eius mortem et de hoc
fuit vox notoria et fama publica». Avevano mentito?
Ha invece ragione da
vendere il Barberi quando contesta l'ammissibilità della prima investitura
baronale in favore di Matteo del Carretto dopo la cessione da parte del
fratello maggiore Gerardo, primogenito, peraltro, di Antonio del Carretto.
In Palermo, infine,
non vi era nei primi anni del '500 - né vi è tuttora - alcun documento
dell'investitura di Giovanni II del Carretto né del figlio Ercole, proprio
quello della Madonna del Monte. Ne fa diligente annotazione lo stesso
inquisitore Giovan Luca Barberi.
Ancor oggi non
possiamo discostarci da quello che scrive, dopo il 1519, quel diligente
inquisitore sull'origine e sui primi sviluppi dell'impossessamento feudale di
Racalmuto da parte dei Del Carretto. Ribadiamo che non pochi dubbi nutriamo
sull'attendibilità delle antiche notizie di una terra feudale racalmutese in
mano a Federico II Chiaramonte, cui
succede la figlia Costanza. Non è storicamente provato che da Costanza
Chiaramonte, sposatasi in prime nozze con Antonio Del Carretto, il feudo sia
passato al figlio di primo letto Antonino Del Carretto e da questi al
primogenito Gerardo Del Carretto, che, per un concambio con 28 'lochi de
communi' in quel di Genova, si sarebbe indotto a cederlo al fratello minore
Matteo (l'altro fratello Giacomino era, frattanto, deceduto). Ma avremo tempo
per indugiare sui nostri dubbi.
Prima che l'Inveges -
un furbo religioso del Seicento, nativo di Sciacca - confezionasse nella sua
notoria Cartagine siciliana (Palermo
1651), testamenti ed atti notarili, che nessuno mai ha poi avuto la ventura di
reperire, per un'epopea spesso mistificatoria sui Chiaramonte (e di striscio
sui Del Carretto), l'accorto Barberi ([10][10]) aveva così
ricostruito, sulla base dei documenti della cancelleria di Palermo, l'avvento
ed il consolidamento a Racalmuto della 'predace' famiglia ligure:
La terra con il suo
castello di Racalmuto è sita e posta nel Regno di Sicilia in Val Mazara ed era
un tempo posseduta dal condam Antonio
del Carretto.
Morto costui, doveva
succedere nella stessa terra Gerardo del
Carretto, come figlio primogenito, che però vendette definitivamente tutti
i diritti che aveva sopra l'anzidetta terra e su tutti gli altri beni del
cennato suo padre e soprattutto quei diritti
che aveva e poteva avere per ragione di
successione e di eredità da parte di Costanza
di Chiaramonte sua nonna, nonché quegli altri diritti dell'eredità del
detto condam Antonio del Carretto e donna Salvasia suoi genitori e del condam
Giacomo suo fratello, e particolarmente
i diritti sopra Giuliana, Garrivuli ... al condam Matteo del Carretto, marchese
di Savona, fratello secondogenito del predetto Gerardo.
Il condam Matteo del Carretto, marchese di
Savona, acquista i predetti beni e diritti dal
fratello Gerardo, per il prezzo
di 3250 fiorini. Ciò appare nel pubblico strumento celebrato e pubblicato per
il giudice Giacomo de Randacio in data 11 marzo - VIII^ Indizione - 1399. Il
contratto fu accettato e confermato dal signor Re Martino a vantaggio dello
stesso Matteo del Carretto e dei suoi eredi e successori, in perpetuo, come
risulta nel privilegio di tal conferma dato in Catania il 13 aprile del detto
anno, annotato nel libro del predetto anno 1399, VIII^ indizione f. 38. Questo
Matteo aveva avuto prima la conferma della detta terra dal detto signore Re
Martino con la seguente clausola «gli cediamo e concediamo, in forza della
presente grazia, tutti i singoli diritti che vantiamo su detto casale o che
possiamo vantare per qualsiasi fatto o diritto, ecc. ..», come risulta nel
libro dell'anno 1391 XV^ indizione f. 71. Sennonché il cennato Matteo del
Carretto si ribellò contro il suo re signore. Furono così devoluti al regio
fisco tutti i suoi beni. Ma tornato, alla fine, nell'obbedienza, ottenne dal
detto signor Re Martino la remissione e l'indulgenza con la restituzione della
detta terra e degli altri beni, con revoca e annullamento di tutti i decreti,
sentenze ed atti contro di lui emanati o fatti, come risulta nel privilegio
della detta remissione notato nel libro dell'anno 1396 V^ indizione, nelle
carte 33.
E morto Matteo, gli successe nella detta
terra Giovanni del Carretto [I], suo
figlio ed erede, che ebbe anche dal Re Martino la conferma della detta
terra in un diploma ove risultano
inseriti i predetti privilegi ed il contratto di vendita fatta al predetto
condam Matteo per Gerardo del Carretto, come risulta nel privilegio del detto
re dato in Catania il 5 agosto VIIII^ indizione 1401 e nella Regia Cancelleria
nel medesimo libro dell'anno 1399, notato nelle carte 177.
E morto Giovanni, successe Federico del Carretto, suo figlio
primogenito, legittimo e naturale, il quale Federico ottenne dal condam Simone
arcivescovo palermitano l'investitura della detta terra per sé ed i suoi eredi
sotto vincolo del consueto servizio militare e con riserva dei diritti della
regia curia e delle costituzioni del signore Re Giacomo e degli altri
predecessori regali edite sui beni demaniali, come risulta nel libro grande
dell'anno 1453 nelle carte 565.
E morto il cennato Federico, gli successe
Giovanni del Carretto [II], suo
figlio, il quale, come appare dall'ufficio della regia cancelleria, non prese
giammai l'investitura della detta terra.
Morto il detto Giovanni, gli successe Ercole del Carretto figlio legittimo e
naturale e maggiore del detto Giovanni, del quale del pari non risulta
investitura alcuna ed al presente si possiede quella terra per lo stesso Ercole
del Carretto, con un reddito annuo superiore ad once 700.
E morto il detto Ercole successe nella
detta terra Giovanni del Carretto [III],
suo figlio, primogenito, legittimo e naturale, che prese l'investitura della
detta terra tanto per la morte del detto suo padre quanto per la morte del
signore Re Ferdinando in data 31 gennaio VII^ Ind. 1519, notata nel libro
dell'anno 1518 VII^ Indizione f. 462 e dichiara un reddito di 420 once; e ciò
sebbene il padre non avesse preso
l'investitura e reso l'omaggio entro l'anno della morte del proprio genitore. ([11][11])
Quanto alla
ricostruzione del Barberi, dobbiamo annotare come questi si astiene
dall'attribuire ogni titolo feudale su Racalmuto a Costanza Chiaramonte (del
padre, Federico, non vi è neppure cenno). Costei, nonna dei fratelli Gerardo e
Matteo Del Carretto, viene indicata come dante causa per
ragione di successione e di eredità di generici diritti che aveva e poteva avere. G.L. Barberi si attiene
rigorosamente al testo dell'atto notarile, come abbiamo avuto modo anche noi di
constatare. L'unico neo che ci pare di cogliere nella sua ricognizione è quel
dar credito al notaio di Girgenti per avere una volta chiamato di straforo marchese di Savona Matteo Del Carretto,
titolo che la cancelleria di Martino riserba solo a Gerardo Del Carretto. Ma
vedremo che in ogni caso era una mera millanteria di questi liguri sbarcati in
Sicilia, che dei veri marchesi di Savona e Finale erano, sì e no, lontani
parenti.
I Capibrevia magna sono preziosi per la ricognizione critica
dell'avvento a Racalmuto dei Del Carretto e del loro consolidarsi, lungo il
secolo XV, nel possesso baronale di questa terra. In un punto, poi,
l'inquisizione del Barberi è fondamentale: solo in base ad essa abbiamo la
ragionevole certezza che nessuna cesura successoria vi fu tra Federico e
Giovanni II. Al riguardo, altre testimonianze non vi sono; men che meno fonti
coeve. La letteratura, anche quella storiografica contemporanea (citiamo per
tutti il Bresc), mette talora in dubbio la regolarità della successione di
padre in figlio della baronia di Racalmuto nel XV secolo. Francesco San Martino
de Spucches, nella sua accreditata storia dei feudi dalle origini al 1925,
aggancia, ad esempio, il subingresso nel feudo di Ercole Del Carretto, sempre
quello della Madonna del Monte, anziché alla morte di Giovanni II, a quella di
Federico (che era dopotutto il nonno), ritenendolo del tutto fallacemente «suo
fratello, morto senza figli». Ed aggiunge: «Non risulta investitura (Vedi Vincenzo Di Giovanni, Palermo restaurato, libro 4°, f. 229).»
([12][12])
Il Di Giovanni aveva
scritto quegli appunti prima del 1627. Era un discendente dei Del Carretto per
via di Paolo, secondogenito di Giovanni II e fratello di Ercole, che era suo
'avo materno'. Aveva molto correttamente rappresentato il succedersi dei
feudatari racalmutesi a cavallo fra XV e XVI secolo come può vedersi da questo
stralcio: «a Federico successe Giovanni; a Giovanni, Ercole, e Paolo,
secondogenito, mio avo materno; ad Ercole, Giovanni; a Giovanni, D. Geronimo; a
D. Geronimo, D. Giovanni; a D. Giovanni, D. Geronimo, al presente conte di
Ragalmuto.» ([13][13]) Il Di Giovanni,
invero, uno svarione l'aveva commesso a proposito della successione di Matteo
Del Carretto, quando gli aveva fatto immediatamente subentrare il nipote
Federico. Tanto non doveva essere bastevole per indurre il San Martino De
Spucches alla topica dianzi sottolineata. G. L. Barberi risulta, comunque,
anche qui provvidenziale, consentendoci di non lasciarci disorientare da pur
eccelsi araldisti.
In effetti, le fonti
documentali sono carenti in ordine a questa prima serie di successioni. Presso
il Protonotaro del Regno è consultabile il processo di investitura di Federico
del 1453 che ci permette di seguire la successione baronale da Matteo a
Giovanni I e da questi allo stesso Federico. Si passa poi al processo
dell'investitura di Giovanni III del 1519 che suona, tra l'altro, come
sanatoria dei passaggi ereditari da Giovanni II ad Ercole e da questi allo
stesso Giovanni III. Tra Federico e Giovanni II il vuoto. Senza i Capibrevia
del Barberi, brancoleremmo nel buio. Certo, qualche ipercritico potrà obiettare
che il Barberi al riguardo parla solo per sentito dire e Dio sa quanto
menzogneri fossero quei nobili, specie
se dovevano rendere conto a fastidiosi inquisitori come l'autore dei
Capibrevia. Noi, fino a prova contraria, pensiamo, ad ogni buon conto, che sul
punto al Barberi vada prestata totale fede.
Il Fazello, restando
nell'ambito della storiografia feudale del Cinquecento, non mostra interesse
alcuno verso quelli che dovettero apparirgli incolti e violenti nobilotti di
campagna: i Del Carretto, appunto. Il colto storico è involontario protagonista
(in negativo) nella ricostruzione della
storia di Racalmuto per avere ispirato due tradizioni che reggono
imperterrite tuttora: la prima accredita Federico II Chiaramonte (+ 1313)
padrone e barone del feudo, ove avrebbe fatto costruire l'attuale castello
("Lu Cannuni"), e ciò è congettura tutt’altro che accettabile; la
seconda tradizione è quella della signoria dei Barresi. Qui il Fazello, però, è del tutto incolpevole, giusta quanto
abbiamo prima illustrato.
Allo spirare del
secolo XVI, il vescovo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva ha
modo di scontrarsi con la potente famiglia dei Del Carretto. La reputa alla
stregua di un groviglio di vipere, a capo di una conventicola di nobili, fra di
loro apparentati, che vessa tutto l'agrigentino e quel che è peggio - per il
vescovo - conculca i sacri diritti della Chiesa agrigentina. Ne scrive,
persino, al Papa. «Beatissimo Padre - esordisce
il prelato - l'Episcopo di Girgente del
Regno di Sicilia dice a V.B. che l'è pervenuto notitia che alcune persone
maligne [si sono messe a] calunniare la bona vita et amministration che l'ha
fatto et fa esso supplicante. [Esse sono] don Petro et don Gastone del Porto,
il Principe di Castelvetrano, la duchessa di Bivona, il Marchese di Giuliana,
il Conte di Raxhalmuto, il conte di Vicari,
il Baron di Rafadal, il Baron di San Bartolomeo Don Bartolomeo
Tagliavia, diocesani di esso exponente, la magior parte delli quali son parenti
[.....]
Il detto Conte
di Raxhalmuto per respetto che s'ha voluto occupare la spoglia del arciprete
morto di detta sua terra facendoci far certi testamenti et atti fittitij, falsi
et litigiosi, per levar la detta spoglia toccante a detta Ecclesia, per la qual
causa, trovandosi esso Conte debitore di detto condam Arciprete per diverse
partite et parti delli vassalli di esso Conte, per occuparseli esso conte, come
se l'have occupato, et per non pagare ne lassar quello che si deve per conto di
detta spoglia, usao tal termino che per la gran Corte di detto Regno fece
destinare un delegato seculare sotto nome di persone sue confidenti per far
privare ad esso exponente della possessione di detta spoglia, come in effetto
ni lo fece privare, con intento di far mettere in condentione la giurisditione
ecclesiastica con lo regitor di detto Regno.
Et l'exponente processe con tanta pacientia che la
medesme giustitia seculare conoscio haver fatto errore et comandao fosse
restituta ad esso exponente la detta spoglia.
Ma con tutto questo, esso Conte non ha voluto pagare
quello che si deve et si tene molti migliara di scudi et molti animali toccanti
a detta spoglia, non ostanti l'excommuniche, censure et monitorij promulgati
per esso exponente et che detta spoglia tocca al exponente appare per fede che
fanno li giurati, per consuetudine provata, et per le misme lettere della
giustitia secolare che ordinao fosse restituta al exponente.
Et più esso Conte ha voluto et vole conoscere et haver
giurisditione sopra li clerici che habitano in detta sua terra di Raxhalmuto et
vole che stiano a sua devotione privi della libertà ecclesiastica, con poterli
carcerare et mal trattare come ha fatto a Cler: Jacopo Vella che l'ha tenuto
con tanto vituperio et dispregio dell'Ecclesia in una oscura fossa in umbra
mortis, con ceppi, ferri et muffuli per spatio di doi anni et fin hoggi non ha
voluto ne vole remetterlo al foro ecclesiastico.
Anzi, perchè il vicario generale d'esso exponente
impedio a don Geronimo Russo, genniro d'esso Conte et gubernatore di detta sua
terra, che non dasse, come volia dare, certi tratti di corda a detto clerico et
essendo stato bisognoso per tal causa procedere a monitorij et excommunica, il
detto Conte fece tanto strepito appresso lo regitore di detto Regno che fece
congregare il Consiglio per farlo deliberare che chiamasse ad esso exponente et
al detto Vicario Generale et lo reprendesse, che è stata la prima volta che in
detto Regno si mettesse in difficultà la potestà delli prelati per la potentia
di detto Conte.
Con lo quale di più esso exponente have liti civili
per causa di detti beni ecclesiastici, per causa di detto archipretato.
Et di più don Cesare parente di detto Conte, per il
suo favore, fece scappare dalle carceri a doi prosecuti dalla corte episcopale
di Girgente, et perchè ni fù prosecuto, diventano innimici delli prelati.» ([14][14])
Il secolo XVI, dunque,
si apre e si chiude con acri rapporti contro i Del Carretto. Poi non succederà
più: avremo solo libelli encomiastici o ricognizioni genealogiche o diplomi,
documenti, atti giudiziari, testamenti, processi di investitura, inventari,
note di cronaca e comunque rispettose testimonianze (Sciascia a parte,
naturalmente).
La vera pubblicistica
sui Del Carretto nasce e si sviluppa nel Seicento. Tutto sorge - a nostro
avviso - da un Del Carretto che diviene, nel 1617, cavaliere gerosolimitano
presso il Gran Priorato di Messina. E' il Fra Don Alfonso Del Carretto, figlio
di don Baldassare e nipote di Federico il secondogenito dell'ultimo barone di
Racalmuto, don Giovanni III Del Carretto. Deve fornire le sue credenziali
nobiliari e queste sono, nel caso, davvero cospicue. Fra Don Alfonso fa
ricerche, può consultare gli archivi di famiglia, è diligente. Ne vien fuori un
lavoro ben fatto: «egregium opus, nihil in eo vel fictum, vel excogitatum», lo
definisce il Baronio. Una ricerca documentata, senza falsità o invenzioni,
dunque. E tutto fa pensare che quella ricerca sia stata la base di un libro scritto poi, nel 1630,
proprio dal Baronio. ([15][15])
Nel frattempo aveva
buttato giù le sue note il Di Giovanni che rimasero a lungo manoscritte presso
la Biblioteca Comunale di Palermo. Abbiamo già accennato al suo Palermo Restaurato. Come leggesi nel
risvolto della copertina del volume pubblicato dalla Sellerio (v. nota 11), il
gentiluomo Vincenzo Di Giovanni aveva abbozzato una «storia encomiastica della
città e [una] descrizione del rinnovamento urbano che faceva di Palermo uno
scrigno di nobiltà. L'opera, fino alla pubblicazione del 1872 nella Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia
di Gioacchino Di Marzo, era un testo manoscritto del 1627.» Ebbe modo di
consultarla il nostro Tinebra Martorana, che, qua e là, non manca di citarla
(sia pure con la piccola storpiatura: Di Giovanni, Palermo ristorato).
Cenni ai Del Carretto
si hanno nella Sicilia Sacra del
Pirri: ma qui quella famiglia entra in gioco solo se le vicende hanno riferimento
alla storia religiosa (come nel caso citato della iniziativa di Girolamo II Del
Carretto nell'insediamento a Racalmuto degli agostianiani a S. Giuliano.) Quel
testo, tuttavia, è stato recepito acriticamente per il rabberciamento (spesso
cervellotico) della prima storia medievale di Racalmuto - tale è la storiella
di un Malconvenant primo barone di Racalmuto, che nel 1108 avrebbe dotato un
suo parente di terre feudali e villani purché edificasse la prima chiesa,
quella di S.Margherita a tre lanci di pietra dal paese, in località che dopo si
chiamerà di S. Maria; e tale è la dubbia sequenza successoria da Federico II
Chiaramonte alla figlia Costanza che avrebbe sposato Antonio Del Carretto figlio del marchese di Finale, da cui
avrebbe avuto nell'anno 1311 (sic) Arelamus
de Carretto, personaggio del tutto inesistente nella nostra storia feudale. Si tenga presente che l'Aleramo Del
Carretto che ricorre nelle cronache opera a cavallo dei secoli XVI e XVII e non
fu mai conte o barone di Racalmuto, pur se figlio di Giovanni IV Del Carretto.
Il Mugnos nel suo
Teatro Genealogico dedica le pagine 237-240 ([16][16]) alla famiglia
"CARRETTO", ma per buona parte si diffonde nella inverosimile
narrazione delle origini regali così come se le era inventate fra Giacomo Filippo
da Bergamo. Fornisce, ad ogni modo, una preziosa testimonianza di come fosse
nota l'antica nobiltà dei Del Carretto nella prima metà del Seicento in Palermo
e nei circoli culturali dell'epoca. La ricostruzione genealogica ci pare, però,
molto arruffata, contribuendo anche certe spigolosità dello stile narrativo che
possono indurre in errore (sempreché di effettivi errori si tratti). Ci si
riferisce in particolar modo al passo riguardante il successore di Girolamo I,
don Giovanni Del Carretto: sembrerebbe, a prima lettura, che Giovanni, Aleramo
e Giuseppe Del Carretto siano figli del secondo anziché del primo Girolamo Del
Carretto. E questo sarebbe gravissimo abbaglio; vi sarebbe confusione tra nonno
e nipote, confusione del resto abbastanza consueta tra gli storici del ramo
siciliano dei Del Carretto anche per
quelle omonimie ricorrenti (cinque Giovanni e tre Girolamo in tre secoli).
Altra grave topica attiene alla successione di Matteo cui in effetti succede Giovanni
I e non Federico, come pretende il Mugnos: Federico subentra al padre, Giovanni
I - sempreché non emergano documenti inediti che rettifichino questa incerta
successione. Il padre di Ercole, quello della venuta della Madonna del Monte, è
Giovanni II (e non Giovanni I, diversamente da quello che si arguisce dal passo
del Mugnos). Una girandola di nomi come si vede che non agevola la precisione e
la correttezza nel tracciare la vicenda «appena descrivibile del succedersi dei
feudatari». E qui Sciascia ha ben ragione a mostrare tedio nei confronti della
trama successoria dei padroni di Racalmuto. Il Mugnos si ferma al "vivente
don Giovanni conte di Racalmuto", cioè a qualche anno prima del 1650, data
della 'mesta fine' di quel personaggio, giustiziato a Palermo per delitto di
lesa maestà.
Intervallati da più di
un decennio escono a Palermo due lavori dell'erudito del Seicento, il sacerdote
di Sciacca don Agostino Inveges: il primo, Palermo
antico, è del 1649, anno in cui è all'apice la fortuna dei Del Carretto; il
secondo, La Cartagine Siciliana, è
datato 1661 [17][17] e può dirsi che dopo l'esecuzione di Giovanni
V per quella famiglia fosse scattata l'inesorabilità del declino. Forse per questo, nel secondo lavoro non si
trova molto sui Del Carretto. Quello storico si diffonde sui Chiaramonte ed i
feudatari di Racalmuto di origine ligure vi entrano solo per i legami
trecenteschi con Federico II e Costanza Chiaramonte. Gli studiosi moderni non
sono propensi ad accreditare troppo l'Inveges. Illuminato Peri, ad esempio,
mette in dubbio persino l'autenticità degli atti notarili trascritti dal
sacerdote di Sciacca, e considera quel libro nient'altro che un testo di
piaggeria araldica. [18][18] ( E questo già si
disse).
Si dà il caso che l'opera dell'Inveges venne,
specie nel Settecento, considerata la indubitabile fonte del vero evolversi del
feudo racalmutese, nel trapasso dai Chiaramonte ai Del Carretto. Citano in tal
senso l'Inveges il padre Caruselli nel 1856 (pag. 18) e nel 1929 il San
Martino-De Spucches (Vol. VI pag. 182). Se le vicende chiaramontane raccontate
nella Cartagine Siciliana sono
inficiate da falsificazioni di atti notarili, la storia racalmutese di quel
tempo è da riconsiderare in passaggi molti salienti. Il testamento di Federico
II Chiaramonte è il fulcro della
legittimità feudale in capo a Costanza Chiaramonte che sappiamo aliunde essere davvero la nonna di
Gerardo e Matteo Del Carretto. Sul testamento di Costanza fornisce elementi il
lavoro dell'Inveges, ma sono elementi vaghi, ambigui. L'atto sarebbe stato in
mano dei Del Carretto, ma noi non l'abbiamo rinvenuto né tra i processi
d'investitura né tra le carte del Fondo Palagonia. Se davvero l'avessero avuto,
non avrebbero mancato, costoro, di farne varie copie e di esibirlo nelle
diverse congiunture giudiziarie, ove sarebbe tornato molto utile.
Efferati delitti,
vendette cruente, esecuzioni capitali segnano, tra il Cinquecento ed il
Seicento, la storia dei Del Carretto. Vi è molta materia per accedere alla
cronaca nera o in quella particolare cronaca del tempo quale viene annotata nel
riserbo delle proprie case da strani diaristi. Tali Paruta e Palmerino, ad
esempio, si occupano della famiglia Del Carretto nell'ultimo scorcio del
Cinquecento.[19][19] Valerio Rosso accenna
allo scampato pericolo del conte di Racalmuto nell’incendio a Castellamare del
19 agosto 1593, ove perì il poeta Antonio Veneziano. [20][20]
Eclatante il mortale
attentato in cui perse la vita Giovanni IV del Carretto la sera del lunedì del
5 maggio 1608. Ce lo descrive un anonimo diarista palermitano.[21][21] Quando, ai primi di
gennaio del 1650 e precisamente in quel martedì dell'11 gennaio, fu arrestato
D. Giovanni del Carretto conte di Racalmuto, l'impressione a Palermo dovette
essere enorme. Il conte è imputato del delitto di lesa maestà, come uno dei
capi principali di una congiura andata fallita. Nel suo diario ne fa diligente
annotazione il dottor Vincenzo Auria [22][22] che poi segue passo passo lo sviluppo
giudiziario fino alla esecuzione avvenuta per "affogamento"
«privatamente dentro del castello» (v. op. cit. pag. 367) il 26 febbraio di
quell'anno, giorno di sabato.
PROFILI DEI DEL
CARRETTO DI RACALMUTO IN EPOCA MEDIEVALE
Non c’è dubbio che una
potente famiglia denominata “DEL CARRETTO” si sia affermata a Finale Ligure sin
dal dodicesimo secolo o giù di lì: essa estese i propri domini anche a Savona e
poté fregiarsi del magniloquente titolo di Machesi di Finale e Savona. A
cavallo tra i secoli tredicesimo e quattordicesimo, i del Carretto liguri erano
al vertice del loro potere ma erano costretti a suddividere il feudo in quote
tra i numerosi figli. Le ricerche storiche indigene, però, non dimostrano
l’esistenza di un certo Antonino del Carretto che in qualche modo avesse titolo
di marchese nel primo decennio del ’300. Rimbalza dalla Sicilia l’esistenza di
un tal marchese, evidentemente spurio, e l’autorità storica di un Pirri o di un
Inveges o di Baronio è tale che gli odierni araldisti liguri di Finale
inframmettono questo personaggio nella ricognizione delle tavole cronologiche
dei loro marchesi. Diciamolo subito: un marchese Antonio I del Carretto che nei
primi del trecento lascia Finale Ligure per approdare ad Agrigento e sposare
l’avvenente Costanza figlia di Federico II Chiaramonte, o non esiste o fu
scialba figura di comprimario, con tendenza al mendacio.
ANTONIO I DEL CARRETTO
Questo non significa
che un avventuriero ligure si sia potuto accasare con la giovane figlia del
cadetto della potente famiglia Chiaramonte. E forse è proprio così che è
andata: dopo i Vespri la Sicilia fu meta del commercio marittimo dei Liguri.
Uno di questi, ricco ma anche in là con gli anni, ebbe a sposare Costanza
Chiaramonte. E’ appena imparentato con la altezzosa famiglia dei Del Carretto,
marchesi di Finale e di Savona. Il mercante forse porta quel cognome, forse no.
Fa comunque credere di essere Antonio del Carretto, marchese di quei due centri
liguri. Il matrimonio dura il tempo necessario per generare un figlio cui si dà
lo stesso nome del padre. Il vecchio Antonio decede e la vedova sposa un altro
avventuriero ligure che questa volta dice di essere Bancaleone Doria. Da questo
secondo matrimonio nascono vari eredi che si affermano, e talora violentemente,
nella storia siciliana. Ma mentre il ramo dei del Carretto sembra subito
acquisire un qualche diritto su Racalmuto - escludiamo però che si trattasse di
diritti genuinamente feudali, forse appena “burgensatici” - quello dei Doria
non nutre interesse alcuno per quelle terre, paludose ed impenetrabilmente
boschive, che circondavano il nostro centro, specie nella parte vicino
Agrigento.
ANTONIO II DEL CARRETTO
Antonio II del
Carretto non lascia traccia storica di sé: di lui si parla solo negli atti
notarili di fine secolo, a proposito della sistemazione successoria tra due dei
suoi figli, il primogenito Gerardo e l’irrequieto Matteo.
In quel documento
emerge che Antonio II del Carretto passò la fine dei suoi giorni nientemeno che
a Genova. Ciò fa pensare che l’orfano di Antonio I non era bene accolto in casa
del patrigno Brancaleone Doria, di tal che appena gli si presentò il destro
ritornò in Liguria nella terra dei propri padri, ma non a Finale o a Savona -
terre delle quali secondo gli agiografi sarebbe stato marchese - ma a Genova.
Questo la dice lunga sul fatto che il preteso titolo era solo millantato,
comunque inconsistente.
A Genova Antonio II fa
fortuna: l’atto transattivo tra i due figli Gerardo e Matteo rendiconta su
partecipazioni a compagnie navali, oltre che su beni immobili e mobiliari di
grossa valenza economica, persino strabocchevole rispetto al lontano, piccolo
feudo che a quel tempo era Racalmuto.
Non sappiamo quando e
dove sposa una tal Salvagia di cui ignoriamo ogni altra generalità. E’ certo
che entrambi gli sposi erano defunti alla data di un importante documento del
12 marzo 1399. Antonio II - pare certo -
lascia in eredità ai figli:
«loca vigintiocto et dimidium que dicuntur loca de
comunii ex compagnia que dicitur di “Santu Paulu” civitatis Janue in compagnia
Susgile pro florenis auri duobus milibus qui
faciunt summa unciarum quatringentarum»
In altri termini si
sarebbe trattato di quote nella compagnia di navigazione genovese di San Paolo
per un valore di duemila fiorini pari a quattrocento onze siciliane (una somma
enorme per l’epoca). Antonio II aveva raggranellato anche molti beni in Sicilia
ed in particolar modo a Racalmuto sia per diritto successorio dalla madre
Costanza Chiaramonte sia per lascito del fratellastro Matteo Doria, morto
piuttosto giovane. L’inventario completo può essere quello che traspare dalla
transazione tra i due figli Gerardo e Matteo e cioè:
«casale et feuda Rachalmuti ac omnia et singula iura
et bona feudalia et burgensatica predicta» posti, cioè in
«territorio Garamuli et Ruviceto, in Siguliana, cum onere iuris
canonicorum civitatis Agrigenti, .... et
eciam in quoddam hospitio magno existente in civitate
Agrigenti iuxta hospitium magnifici
Aloysio de Monteaperto ex parte meridiei, ecclesiam S.cti Mathei ex parte orientis, casalina heredum
quondam domini Frederici de Aloysio ex parte orientis/, viam publicam ex parte
occidentis et alios confines, ac eciam in quoddam viridario quod dicitur “lu
Jardinu di la rangi” posito in contrata Santi Antonij Veteris cum terris vacuis
vineis et in toto districtu in quo iacet flumen dicte civitatis ex parte
orientis viam publicam ex parte occidentis et alios confines cum onere iuris
quod habet ecclesia Santi Dominici de Agrigento nec non in omnibus et singulis
bonis feudalibus et censualibus sistentibus in civitate Agrigenti et eius
territorio ac ... in omnibus et singulis bonis feudalibus burgensaticis et
censualibus sistentibus in urbe Panormi et eius teritorio cum segnalibus suis,
et in omnibus et singulis bonis
stabilibus castris villis baronijs feudalibus et burgensaticis sistentibus in toto regno Sicilie.»
Che Antonio II sia
morto a Genova è ipotesi desumibile da questo passo del citato documento:
«dominus Gerardus promisit sub vinculo iuramenti amnia privilegia
instrumenta et scripturas facientes pro bonis predictis venditionis ut supra et
specialiter pro baronia Racalmuti que remanserunt penes eundem dominum Gerardum
post mortem magnifici quondam domini Antoni de Carretto eius patris qui mortuus
fuit in posse et manibus dicti domini Gerardi mittere de Janua ad Siciliam ad
eundem dominum Matheum et heredes suos.»
Antonio II del
Carretto ebbe per lo meno tre figli: Gerardo primogenito, Matteo rampante
cadetto che inventa la baronia di Racalmuto e Giacomino (Jacobinus) morto
piuttosto giovane.
GERARDO
DEL CARRETTO
Gerardo del Carretto è
il primogenito di Antonio II del Carretto: non sembra che questi abbia mai
messo piede in Sicilia. Il suo centro d’interessi è Genova e là ha famiglia e
ricchezze. Finge di avere interesse alla successione nel titolo feudale della
baronia di Racalmuto, solo per consentire al fratello minore Matteo del
Carretto di sistemare la pendenza con la causidica e venale curia dei Martino a
Palermo. Se leggiamo attentamente i termini di quell’atto transattivo ci
accorgiamo che trattasi di espedienti e cavilli giuridici che nulla hanno a che
fare con la vera possidenza dei due fratelli.
Avrà ragioni da
vendere Giovan Luca Barberi, un secolo dopo, a mettere in discussione la
legittimità del titolo baronale di Racalmuto che sarebbe passato da Gerardo al
fratello Matteo, non solo a pagamento - cosa non ammesso secondo il diritto
feudale allora vigente - ma addirittura con un concambio tra beni allogati
nella lontana Genova e prerogative giuspubblicistiche sui nostri antenati
racalmutesi. Un volpino imbroglio che ancor oggi è ben lungi dall’avere una
persuasiva esplicazione da parte degli storici locali. Quello che scrive Pirri,
Inveges, Baronio e poi Girolamo III del Carretto e poi il Villabianca e poi San
Martino de Spucches (ed altri moderni araldisti) e prima il Tinebra Martorana
(tralasciando gli inverosimili Acquista, padre Caruselli, Messana, lo stesso
Sciascia, i tanti preti da Morreale a Salvo) è semplicemente fantasiosa
congettura. Invero anche il Surita incorre in un errore: per lo meno fa uno
scambio di persona tra i due fratelli Gerardo e Matteo del Carretto.
Gerardo del Carretto
sposa una tale Bianca da cui ebbe una caterva di figli: si sa di Salvagia
primogenita e portante il nome della nonna paterna, Antonio, Nicolò, Luigi
Caterina e Stefano. Nell’atto del 1399
che qui si va citando, il titolo riservato a Gerardo è solo “egregius vir
dominus”. Per converso il titolo di marchese viene appioppato a Matteo del
Carretto designato come “magnificus et
egregius d.nus Matheus miles marchio Saone”.
In un atto dell’anno
prima [23][23] era tutto
l’opposto: Gerardo viene contraddistinto con il titolo di “nobilis marchio
Sahone familiaris et amicus noster carissimus”; Matteo viene relegato in
secondo ordine e segnato solo come “nobilis miles, consiliarius noster
dilectus”.
MATTEO DEL CARRETTO, primo barone di
Racalmuto
Figlio di Salvagia e
Antonio II del Carretto è il vero capostipite della baronia dei del Carretto di
Racalmuto. Da lui prende le mosse un titolo feudale effettivo e debitamente
riconosciuto che sarà sufficientemente attivo nel quindicesimo secolo, assillante
nel sedicesimo (alla fine del secolo, la baronia sarà promossa a contea),
parassitario nel diciassettesimo secolo e finirà nel primo decennio del
diciottesimo secolo in modo miserando.
Matteo del Carretto
sposa una tale Eleonora e sembra averne avuto un solo figlio maschio: Giovanni,
personaggio di spicco che eredita e consolida la baronia di Racalmuto. Pare che
abbia anche avuto diverse figlie.
Prima del 1392 non vi
sono dati certi comprovanti la presenza in Sicilia di Matteo del Carretto, ma
già in quell’anno l’irrequieto barone di Racalmuto si attira le rampogne del
duca di Mont Blanc, il futuro Martino il Vecchio. Un liso diploma di Palermo [24][24] ne fornisce indubbia
testimonianza;
[PRO UNIVERSIS HOMINIBUS LEOCATE ET ..] Dux Montis Albi etc.
«Fidelis etc. Novamenti cum querela e statu expostu a la nostra
maiestati comu pasandu per lo vostru locu di Rachalbutu tanti homini di la
Licata nostri fideli quelli di lu dictu
locu qui tutti generalmente defrodaru e
fichiruli assai dispiachiri; per la
quali cosa si ita est la nostra
maiestati haviva causa di meraviglia et imperoki lu dictu delittu fu tantu
manifestu ki pocu bisogna affannu di chircarisi che cumandamu ki con omni diligencia duviti fari
constringiri quelli di lu dictu locu ki incontinenti divun restituiri tutti li
cosi predicti a lu procuraturi di la
presente per parte di li altri persuni per tali modu ki non perdanu cosa nulla
e non sia bisognu ki la nostra maiestati cesaria [si occupi] plui di questa cosa [...] per
modu ki la loro pena sia terruri di ogni altru ki vulissi operari mali maxime
quam li fideli e homini di la nostra persona. Date in Cathanie VIIII augusti XV
ind. [1392] - Lo Duc.
Dirigitur
Matheo di Carrecto»
Il trambusto storico
che attanaglia gli anni 1392-1396 è ben complesso e non è questa la sede per
dipanarlo: Matteo del Carretto vi si trova impigliato in tutte le salse.
Dapprima è cauto ma è palesemente condizionato dai potenti Chiaramonte di
Agrigento. Gli spagnoli che bussano alla porta non sono graditi. Si è visto
sopra come orde di militari famelici e predoni scorrazzassero per le campagne:
le terre racalmutesi del barone Matteo del Carretto ne sono infestate. Ci si
difende come si può. Ma il Duca di Mont Blanc è già un duro: esige riparazioni,
restituzioni; opera dunque come un conquistatore straniero spietato ed ingordo.
Matteo del Carretto -
stando anche a testi di storia rigorosi - è alquanto amletico: prima blando, ha
momenti sediziosi, si riappacifica, torna alla ribellione, ma alla fine ha modo
di riconciliarsi con i Martino e ne diviene fedele (ma prodigo e pertanto
ultraricompensato) suddito. A suon di once, solleticando oltre misura
(evidentemente a spese dei subalterni racalmutesi) ”l’avara povertà di
Catalogna”, riesce a farsi riconoscere per quello che non è mai stato: barone
di Racalmuto, il primo della serie, l’usurpatore di una condizione giuridica
che Racalmuto sin allora era riuscito ad aggirare.
Certo il predace
Matteo del Carretto ebbe a vedersela brutta incastrato tra l’incudine del duca
di Mont Blanc ed il martello del vicino Andrea Chiaramonte prima che finisse
proprio male.
La turbolenta vita di
Matteo del Carretto emerge da un diploma ([25][25]) del 1395 (die XV°
novembris Ve Inditionis) che fu al centro dell’attenzione anche del
grande storico siciliano Gregorio ([26][26]): « Matheus de Carreto miles baro
terre et castrorum Rahalmuti - vi si annota in latino - ultimamente si rese non ossequiente
verso la nostra maestà.» Certo quel “castra” al plurale starebbe a dimostrare
che sia “lu Cannuni” sia il “Castelluccio” erano appannaggio di Matteo del
Carretto. Le note storiche che riusciamo a cogliere nel cennato diploma del
1395 concernono i seguenti passaggi dell’andirivieni opportunistico del nostro
primo barone: su istigazione di alcuni baroni, Matteo del Carretto si dà alla
ribellione contro i Martino; tardivamente fa credere (il re spagnolo ha voglia
di credere) che non fu per sua cattiva volontà (voluntate maligna) ma per la
minaccia che gli avrebbero diversamente occupate le terre. Matteo è pronto a
prosternarsi dinanzi ai nuovi regnanti spagnoli e fa intercedere l’altro
ribelle - rientrato nell’ovile - Bartolomeo d’Aragona, conte di Cammarata.
Questi viene ora accreditato dalla corte panormitana “nobile ed egregio nostro
consanguineo, familiare e fedele”. La riconciliazione - non sappiamo quanto
costata al neo barone di Racalmuto - è contenuta in capitoli che strutturati “a
domanda ed a risposta” così recitano:
"Item peti chi a misser Mattheu di lu Carrectu
sia fatta plenaria remissioni et da novu confirmationi a se et soi heredi de
tutto lo sò, tanto castello quanto feghi quantu burgensatichi, li quali foru e
su de sua raxuni, et chi li sia confirmatu lu offitio de lu mastru rationali lu quali per lu dictu
serenissimu li fu donato et concessu, oy lu justiciariatu dilu Valli di
Iargenti" - Placet providere de officio justiciariatus cum fuerit
ordinatus, quousque officium magistri rationalis vacaverit, de quo eo tunc
providebit eidem.”
Matteo del Carretto
vorrebbe dunque essere riconfermato nell’officio di “maestro razionale”, cioè a
dire vuol ritornare ad essere l’esattore delle imposte; ma l’ufficio è ora
occupato irremovibilmente da altri; il nostro barone allora si accontenta
dell’ufficio del giustiziariato di Girgenti. Il re acconsente.
[1][1]) Leonardo
Sciascia: Un pittore del profondo
sud, in Leonardo Sciascia e Malgrado Tutto - Editoriale «Malgrado Tutto» -
Racalmuto 1991, pag. 21 e segg.
[3][3]) Anche se non disponiamo
dell'atto di nascita, siamo quasi certi che Girolamo, ultimo di tal nome dei
Del Carretto, sia nato nel 1648. Lo desumiamo da un documento della Gancia (Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato
Palermo - Gancia - P.R.P.) che vuole: «Donna Maria del Carretto e Branciforte,
contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del
Conte; figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don
Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra
detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;
inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che
tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d.
Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve
a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.» La moglie
di Girolamo, Melchiorra Lanza di Trabia, era più vecchia di quasi 18 anni. E
ciò se crediamo all'atto di morte che si custodisce presso la Matrice di
Racalmuto (libro dei morti 1694-1707), ove si annota: Die 10 Aprilis 1701 ind.nis
9^ Ecc.ma Domina D. Melchiora
Lanza uxor ecc.mi Principis comitis Racalmuti Hieronimi del Carretto annorum 70
circiter, in communione s. matris
eccl.ae, in sua propria domo h.t. Racalmuti, animam Deo reddidit. Cuius corpus
sepultum in Ecclesia sanctae Mariae de Jesu in venerabili Cap.a Sanctissimi
Rosarii huius terrae Racalmuti et
praesidio omnium sacramentorum munita, et roborata, per me D. Fabritium
Signorino Archipraesb. huius matricis
Eccl.ae terrae praedictae.
[4][4]) Ampia è l'esenzione fiscale
dell'ultimo barone come può vedersi da questa disposizione del testamento del
1560:
Item dictus dominus testator
voluit et mandavit, ac retulit et refert spectabili domino D. Hieronymo de
Carrecto eius filio et successori in dicta Baronia et pheudis, quod omnes et
singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti sint et esse debeant
immunes, liberi et exempti ab omnibus et singulis gabellis, et constitutionibus
solvendis spectabili domino eius successori, videlicet à gabella saluminis,
vini, carnis, granorum et olei, et hoc pro usu tantum dictarum personarum
ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.
[6][6]) F.M. EMANUELI e GAETANI - Della Sicilia Nobile - PARTE II. libro I
- DELLA SICILIA NOBILE [VILLA BIANCA]
[9][9]) Giovan
Luca Barberi - Il «Magnum
Capibrevium» dei feudi maggiori - a cura di Giovanna Staleri Ragusa -
Università degli Studi di Palermo - Facoltà di Giurisprudenza - Dipartimento di
Storia del Diritto - Palermo 1989, pag. 445 (f. del ms. 528v).
[10][10]) Giovan Luca Barberi - Il
«Magnum Capibrevium» dei feudi maggiori - op. cit. - pag. 526 e segg.
[11][11]) G.L. Barberi aveva
conseguito la nomina a Maestro Notaro della Cancelleria nel 1491. Gli viene
quindi affidato il compito di svolgere le inquisitiones
che gli serviranno per la compilazione dei Capibrevia.
Le sue indagini sono svolte prevalentemente sui registri della
Cancelleria. Scrive G. Staleri Ragusa: «E dai polverosi archivi vengono fuori i
personaggi di due secoli di storia siciliana, dei quali il Barberi non manca di
interpretare i caratteri.... La morte di
Ferdinando nel 1516 - soggiunge l'A. (pag. 14) - poneva fine alle preoccupazioni di feudatari,
ecclesiastici e ufficiali del Regno, che sentivano il loro potere insidiato dal
Maestro Notaro: la sua opera alla quale, pure, andava facendo piccole aggiunte
annotandoci le ulteriori successioni nei feudi o nei benefici ecclesiastici,
non pare avere sortito l'effetto che Ferdinando aveva sperato nel suo disegno.
Ferdinando, in effetti, aveva affidato quelle ricerche
d'archivio ad una persona di sua fiducia qual era il Barberi per avere
materiale di scambio - ed anche di ricatto - per ricostituire il patrimonio
della Corona.» Il terribile e puntiglioso Inquisitore non è certo tenero verso
i nobili, specie con le sue allegationes.
Quella che stila contro i Del Carretto poteva, invero,
procurargli una scopettonata. Si vede
che a quel tempo i baroni di Racalmuto non avevano raggiunto l'alterigia del
secondo conte, quel Giovanni del Carretto IV, mandante nell'omicidio di La
Cannita.
[12][12]) Francesco San Martino de Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro
origine ai nostri giorni (1925). Lavoro compilato su documenti ed atti
ufficiali e legali. - Volume sesto, Palermo 1929 - quadro 783 - Conte di
Racalmuto - pag. 182 e segg.
[13][13]) Vincenzo di Giovanni, Palermo
restaurato. Citiamo dalla edizione di Sellerio editore Palermo - 1989 -
pag. 191. Evidentemente questa parte del manoscritto che viene datato 1627 era
stata scritta prima del maggio 1622, epoca della morte (o omicidio) di Girolamo
II Del Carretto.
[15][15]) D. Francisci Baronii ac
Manfredis - De Majestate Panormitana libri IV - Panormi apud Alphonsum de Isola
- MDCXXX - [Biblioteca Nazionale V.E. - Roma - 7.4.L.31.
[16][16]) Filadelfio Mugnos, Teatro
genealogico delle famiglie nobili, titolate, feudatarie ed antiche del
fedelissimo regno di Sicilia, viventi ed estinte, 3 volumi, Palermo 1647,
1655; Messina 1670. [Dalla ristampa anastatica di Arnoldo Forni editore, pagg.
237-240 del Libro I].
[17][17]) D. Agostino Inveges - Palermo
antico - Palermo 1649 e D. Agostino Inveges - Sacerdote Siciliano, da
Sciacca - Anno 1660. - La Cartagine
Siciliana, historia in due libri, pubblicata in Palermo, nella typograph.
di Giuseppi Bisagni. 1661.
[18][18]) Illuminato Peri, Per
la storia della vita cittadina e del commercio nel medio evo - Girgenti porto
del sale e del grano - in Antichità
ed alto Medioevo, Studi in onore di A. Fanfani, I - Giuffrè Editore Milano
1962, pag. 607.
[19][19]) Diario della città di Palermo dai mss. di Filippo Paruta e Niccolò
Palmerino - in Diari della città di
Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di Marzo, Vol. I -
Palermo 1869 pag. 136.
[20][20]) Varie cose notabili occorse in Palermo ed in Sicilia, copiate da un
libro scritto da Valerio Rosso. 1587-1601 in Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. I - Palermo 1869
pag. 283.
[21][21]) Aggiunte al diario di Filippo Paruta e di Nicolò Palmerino, da un
manoscritto miscellanio segn. Qq C 28 in Diari
della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di Gioacchino Di
Marzo, Vol. II - Palermo 1869, pag. 24 e ss.
[22][22]) Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno di Sicilia
dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal dottor D. Vincenzo Auria
palermitano, dai manoscritti della Biblioteca Comunale ai segni Qq C 64 a e Qq A 6, 7 e 8, in
Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, per cura di
Gioacchino Di Marzo, Vol. III - Palermo 1869, pag. 359 et passim.
[23][23] ) Datis Cathanie anno
dominice incarnationis Millessimo trecentesimo XCVIIII die primo Januari VIII
Ind. Rex Martinus . - Dominus Rex mandat m. Jacobo de Aretio Prothonotaro [ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA -
BUSTA N. 38 - Anni 1399-1401]
[26][26] ) Rosario Gregorio fu
storico e paleografo di grandi meriti: non si riesce a capire perché Sciascia
ce l’abbia con lui. Ecco alcune denigrazioni contenute nel “Consiglio
d’Egitto”: «Un uomo, il canonico Gregorio, piuttosto antipatico, caso personale
a parte, fisicamente antipatico: gracile ma con una faccia da uomo grasso, il
labbro inferiore tumido, un bitorzolo sulla guancia sinistra, i capelli radi
che gli scendevano sul collo, sulla fronte, gli occhi tondi e fermi; e una
freddezza, una quiete, da cui raramente usciva con un gesto reciso delle mani spesse e corte. Trasudava
sicurezza, rigore, metodo, pedanteria. Insopportabile. Ma ne avevano tutti
soggezione.» (Op. cit. edizione Adelphi Milano 1989, pag. 47).
Nessun commento:
Posta un commento