Calogero Restivo, il poeta ora alle prese col racconto. Prosa trepida e
contenuta, poetica insomma. Capacità affabulatrice impressionante, profili
tracciati con abile ma efficacissima essenzialità. Ed ogni suo racconto è un
piccolo singolare mondo che rivive, nella malinconia del suo autore. Partecipe
ma computo, rispettosamente distaccato. Di tanto in tanto affiora l’ironia ma
lieve, trepida umanissima. E dalla raffigurazione rappresa un guizzo e talora eccovi anche una
sorta di espressionismo metafisico. Si può andare a bussare nel gran portone
del paradiso per non venirvi ammessi e quindi ritornare nelle dimesse plaghe
della terra delle miniere, del paese del sale. Simbolismo soffuso che dà senso
a ciò che senso non ha, che crea il miracolo laddove non vi è nulla di sublime, di ultraterreno. A leggere questo racconto –
mirabile – i nostri canoni interpretativi si sono dissolti. Non sappiamo
trovare più una chiave ermeneutica, schiacciati dalla soavità di un racconto
che mentre ci porta nel mondo della nostra vetusta fanciullezza ci disorienta con
guizzi metafisici in un mondo arcano, a
noi del tutto alieno.
Ci va pertanto di
pubblicare in anticipo questo complesso affresco di Calogero Restivo. Un
esempio di paratattico scrivere di intricate valenze immanenti e trascendenti, di realistici disegni
e di pindarici voli nel mondo delle cose divine. Un passaggio repentino da rappresentazioni
di umilissima follia ad un surreale
finale: in esordio si arriva “ alla fine di questo giorno [con] la fatica che impediva di
consumare la cena, [un] … giorno di non vita, finito” e sorprendentemente la
dissolvenza finale: “c'era chi diceva
che Fofò Incardona faceva l'eremita in
un posto sconosciuto, chi diceva di averlo incontrato vestito con grande
eleganza dato che si era messo a fare il
santone di professione, che era diventato ricco assai, che abitava in un
palazzo di cinquanta stanze, ma nessuno vide più Fofò Incardona in paese”.
Il sole
nel cortile
di Calogero Restivo
“Fofò Incardona si alzò, come ogni mattina, al primo canto
del gallo del vicinato. Uscì in cortile che era ancora buio. Dalle parti del
castello si intravedevano fasci di luce
nel cielo scuro come lampioni squassati dal vento della recente burrasca che invece di illuminare la
strada, sparavano la luce verso l'alto, inutilmente. Riempì la
bacinella di acqua gelida, se ne spruzzò un poco sul petto come aveva imparato
a fare quando era stato a lavorare in Germania. Pronto per andare a lavorare, come ogni giorno, come
sempre ,nella miniera di sale a cui era
legato come da un cordone ombelicale. Anche di domenica, ci andava ,per
arrotondare la paga e per vederla, quella cupola lucida sopra la testa e fredda
come il ghiaccio.
Gli ricordava la chiesa
della Madonna di Altomonte ma questa era più luminosa e misteriosa senza avere le luci della chiesa.
Uscì di nuovo
fuori in cortile, raccolse qualche ramoscello delle piante in vaso che forse il
gatto aveva rotto nella sua furia amorosa della notte. L'aveva sentito
miagolare e litigare per mettersi d'accordo
e nonostante il rumore di tegole smosse e di miagolii, che sembravano lamenti, alla fine si era addormentato. La stanchezza l'aveva avuta
vinta sugli amori notturni del gatto. Bisognava rivedere e sistemare le tegole,
si ripromise, perché altrimenti alle prime piogge l'acqua la si sarebbe dovuta raccogliere con secchi e
bacinelle.
Il cielo si era
schiarito. Era ora andare. Si avviò senza troppa fretta. C'era ancora tempo e
comunque l'autobus qualche minuto oltre il tempo previsto aspettava, nel caso
ci fossero ritardatari.
Niente di nuovo
al lavoro, le solite cose: il capomastro che si lamentava della lentezza del
lavoro, il padrone della miniera che avrebbe voluto che i camion volassero
invece di camminare con quei motori che sa solo Dio come reggevano ancora ed i
meccanici che dovevano fare miracoli per metterli in grado di camminare, trenini da smuovere e
le pulegge che consentivano il carico dei camion di scarsa qualità che si rompevano appena i
motori incominciavano ad andare al massimo. Anche questo giorno di lavoro era
finito, anche alla fine di questo giorno la fatica che impediva di consumare la
cena, anche questo giorno di non vita, finito.
Prima di
addormentarsi, Fofò, ebbe un pensiero triste che lo costrinse a ritardare di
chiudere gli occhi “che ci vado a raccontare ai morti, quando giunge l'ora, solo che ho scavato, raccolto e
caricato sale? E nient'altro ?”
L'indomani era
lunedì, incominciava un'altra settimana. Bisognava alzarsi, il gallo cantava
sempre alla stessa ora, puntuale come se avesse una sveglia dentro la testa.
Fofò, usci come al solito in cortile per lavarsi e si accorse allora che alcuni
vasi dei fiori erano caduti,alcuni rotti
e anche qualche tegola era per terra. “I gatti” pensò Fofò perché
non aveva sentito il vento che durante la notte aveva soffiato così
forte da scoperchiare i tetti delle case e sradicare gli alberi del viale che
portava al Padreterno. Fu mentre si lavava che cadde la tegola che stava in
bilico, forse l'aveva toccata il gatto ma cadde sulla testa di Fofò che stava
per immergere la testa nella bacinella di acqua gelida come faceva ogni
mattina.
L'autista
dell'autobus che portava i lavoratori in miniera, quel giorno, partì in ritardo. Aveva suonato il clacson un
paio di volte, aveva chiesto se qualcuno aveva notizie di Fofò ma nessuno
sapeva, niente di niente. Il vicino di casa azzardò l'ipotesi che si fosse
ubriacato e non riusciva ad alzarsi dal letto, ma l'ipotesi non reggeva. Era
vero, Fofò qualche volta beveva
qualche bicchiere in compagnia degli amici, ma nessuno l'aveva mai visto
ubriaco.
“Purtroppo bon tiempu e malu tiempu non dura sempre un tiempu” le
cose nella vita cambiano non sono sempre
le stesse, sentenziò qualcuno e tutti tacquero come se fosse stata detta una
grande verità che non ammetteva repliche né commenti. Per tutto il percorso non
si sentì altro che il gracchiare del motore dell'autobus che nelle salite
soffiava peggio di un asino carico di sale. Fofò viaggiava in un mare di luce.
C'erano tante persone e nessuno sembrava facesse caso a lui. “Come mai così
impegnati a discutere se sono in
paradiso?” pensava “Se fossimo alla piazzetta nel periodo della trebbiatura,
capirei. Bisogna parlare per mettersi d'accordo, trattare, stabilire. Vuoi
vedere che anche qua vi sono miniere di sale e mi mandano là a lavorare? Non
può essere”, pensava, Don Giuseppe , il
parroco della chiesa della Madonna della Rocca, aveva parlato di grandi viali
alberati, di angeli che suonano violini e la luce, sempre, come se fosse mezzo
giorno anzi più forte. Anche il sagrestano,
che era li vicino , assentiva. E allora.. “non può essere”. Si avvicinò ad uno
di quei gruppi di persone e restò meravigliato a guardare: quella gente non
stava discutendo, non parlava. Avevano lo sguardo rivolto verso l'alto ed il
viso sereno , gli occhi lucidi, ridenti.
“Scusatemi” disse facendo il gesto di toccare uno di quelli con un dito,
timidamente “scusatemi, io sono nuovo di questo posto. Sono un morto recente,
Mi sapreste dire a chi rivolgermi per sapere che debbo fare e dove andare?” Dentro
era perplesso, quando aveva fatto il gesto di toccare l'uomo che gli voltava le spalle era come se
avesse immerso il dito nell'acqua.
“Vai sempre diritto, per questo viale” rispose gentilmente “quando arrivi
davanti ad una città recintata con tanto di mura merlate e di torri, bussa.
Chiedi a quello che viene ad aprirti che cosa devi fare. Ma c'è da aspettare.
Che cosa credi che stiamo facendo, noi?”
“Grazie” disse e si avviò a passo lento, guardandosi intorno, lieto
finalmente di camminare senza fretta, senza l'affanno del lavoro, camminare per
svago, insomma. “Che fretta ho? E correre per andare dove, poi. È questo il
punto d'arrivo, non c'è il cartello ma oltre non si va” si diceva Fofò più per
convincersene che convinto.
Camminando
arrivò davanti ad una città cintata da alte mura, le pietre perfette, squadrate
a regola d'arte e lisce come se fossero di marmo e di colore giallo come d'oro.
“Qui le cose le fanno per bene” pensò Fofò “non badano a spese”. In fondo al
viale di alberi c'era un grande portone di bronzo e vi si diresse.
Cercò un campanello o altro e visto che
non c'era si decise a bussare, piano da
principio, con le nocche, ma visto che nessuno veniva ad aprire, diede
un paio di colpi a pugno chiuso. Piano piano il portone si apri, senza
cigolare. “Si vede che è oleato bene” pensò “segno che qui le cose funzionano
bene non come alla miniera che è un miracolo se la montagna non ti casca
addosso”.
Apparve un
vecchio tutto bianco, tunica, mantello e barba che gli copriva quasi la
bocca.
Disse “Tu chi
sei?”
“Fofò Incardona .. scusi.. voglio
dire .. Incardona Francesco. È che mi conoscono tutti come Fofò” rispose.
Il vecchio si
diresse al tavolo che si reggeva su tre piedi, si sedette e incominciò a
sfogliare un libro enorme. “Hai detto Incardona Francesco ?” “Si” rispose con una certa apprensione, e non sapeva perché. Il vecchio continuò a cercare, ripassò rigo per rigo tutto
l'elenco di nomi aiutandosi con un dito
“Tu non ci sei “ disse chiudendo il
libro “ in quelli del mese in corso, non
ci sei”.
“Ma come è possibile” disse Fofò un po' frastornato “se sono morto di
recente. Ci vuole anche qua la raccomandazione?”.
“Tu non sei morto, tu non muori... Via che bussano alla porta” disse il
vecchio. Si muoveva con la vitalità di un ragazzo. “Si vede che non ha mai
lavorato in una miniera di sale” pensò Fofò. Voleva insistere, non sapeva cosa
fare e il vecchio lo spingeva fuori, aveva altro da fare.
“ Ma allora che faccio?” incominciò Fofò ma il vecchio sempre più
impaziente “che ma e ma non lo senti che
bussano alla porta?”
In effetti
bussavano alla porta, Fofò aprì gli occhi, cercò di capire, di rendersi conto.
“Come stanno, le cose?” disse tra se toccandosi il bozzo che aveva sulla testa. Gli faceva un
male cane, ma bussavano alla porta e bisognava andare ad aprire. Si alzò a
fatica, la testa continuava a fargli male
e andò ad aprire la porta a stento perché anche la porta girava. Da
fuori giungevano delle voci di donne “È in casa, sta venendo ad aprire”
Finalmente riuscì a fermare la porta che si spostava come tirata di qua e di là
dal una molla. Tirò il chiavistello e
cadde a terra svenuto.
Quando aprì gli
occhi era circondato da camici bianchi.
“È amnesia conclamata ma sono certo che
si risolverà fra qualche giorno”. I
“camici” parlavano tra di loro come se
lui non fosse lì presente.
“Di nuovo?” disse e richiuse gli occhi. I “camici” continuavano a parlare fra loro.
“È amnesia… di essere amnesia è amnesia ma non sono certo che si risolva
così presto. Un mio vecchio professore diceva un po' scherzando e un poco
seriamente che in questi casi un altro
trauma, certamente più leggero, a volte risolve il caso”. diceva uno.
“Bisogna vedere quali altri danni
non ancora accertati ha prodotto
questo trauma” disse uno di
quelli con tono stizzito, calcando la voce sul “questo” Fofò aprì gli occhi,
capì che parlavano di lui.
“ Che è successo?” Chiese “Come sono
arrivato fin qui?”
Il capo dei
camici “Ha avuto un incidente” disse “Siamo in ospedale e ci stiamo occupando
del suo caso”. Credevo di essere di nuovo in paradiso” disse Fofò.
“ Perché c'è già stato, in paradiso... prima intendo” disse uno di
essi. I camici si guardavano e lo
guardavano con un risolino sulle labbra. Fofò, si resero conto i medici, stava
ormai bene, potevano dimetterlo ma c'era qualche cosa che non riuscivano a
capire. Quell'accenno al paradiso li inquietava, ma più ancora quello che aveva
confidato all'infermiera di notte “Sono stato in paradiso e m'hanno detto che
non muoio”. “Ora?” chiese l'infermiera, ma Fofò non rispose, anzi chiuse gli
occhi e finse di dormire.
Dopo qualche
giorno Fofò fu dimesso dall'ospedale e se ne andò direttamente in campagna
senza passare da casa per non dare spiegazioni anche perché non aveva
spiegazioni da dare. Non lo capiva nemmeno lui, come poteva spiegarlo agli
altri? Era stato semplicemente in
paradiso e gli avevano detto che non moriva. Era tutto qua. “Chi lo sa perché
hanno scelto proprio me?”
La decisione di
recarsi in campagna, stare solo a riflettere senza l'incubo di dare risposte ai
vicini e parenti che chiedevano perché, sempre
perché. Gli volevano bene e volevano essere assicurati sul suo stato di
salute. “Non siamo tutti cristiani?”
Un colpo di
vento, una tegola che cade e la vita di un uomo viene stravolta” diceva la
gente che la voce di questa andata e ritorno dal paradiso incominciava a
circolare”.
“Poveraccio”
pensavano le brave donne “e non ha nemmeno una famiglia sua”.
Voleva far
crescere il gruzzolo prima di sposarsi, voleva essere certo di non ricadere nello
stato di miseria che conosceva per averla vissuta e da cui si era tirato fuori
onestamente con il suo lavoro. Non poteva e non voleva spiegare queste cose
alla gente che gli diceva di rallentare, di riposarsi almeno la domenica per essere vigile sul lavoro. Un errore ,
anche minimo, si paga caro, sotto terra, a centinaia e centinaia di metri
tra gallerie e passaggi che si
allungavano ogni giorno di più come un serpente che striscia tra l'erba al sole. Finalmente la decisione di rientrare
in paese. Quando la gente lo vide in piazza
quasi quasi non lo riconosceva. Compare
Gaspare, che era amico e compare,
Fofò gli aveva battezzato il figlio, lo guardava come se fosse un
forestiero e quando riconobbe che sotto
la barba era Fofò stese le braccia per abbracciarlo ma si fermò subito che tra
paesani questi abbracci non usano. Era
veramente contento di vederlo e, a quanto sembrava, in buona salute. Alla
piazzetta sembrava si fossero radunati tutti gli amici e conoscenti e tutti con
le stesse domande e tutti con le stesse facce sorprese quando Fofò decise di
spiegare come stavano le cose.
Ora non restava che stabilire che fa uno che non
deve morire, a cui è stato detto a chiare lettere “Tu non muori”. La gente
rideva sotto i baffi, faceva la faccia contrita, assentiva di apparente comprensione. Fofò se ne rendeva conto ma non poteva farci
niente. Decise di andare in chiesa e parlare
con don Giordano, il prete della parrocchia del Monte Carmelo a cui apparteneva.
Certamente lui in queste
cose ci capiva di più e meglio di tanti altri.
Il prete era in confessionale. C'erano alcuni ragazzi in fila che
aspettavano il turno ed alcune vecchie che non avevano più l'età per peccare.
Quando il prete vide Fofò si sporse dal confessionale e gli fece cenno di aspettare che si sbrigava subito. Aveva
avuto sentore di quelle voci che parlavano delle andate in paradiso e ritorno e
voleva vederci chiaro. “Si fa presto a creare problemi ed una volta uscite le
pecore dall'ovile è difficile ripescarle e portarle dentro” pensava il prete
che nella sua vita aveva sempre scansato i problemi”. In verità non aveva né
“sciusciatu” né “chiavatu” come dicevano gli antichi in questi casi ma era vissuto tranquillo senza soffiare
sulla brace e senza aggiungere legna al fuoco, aveva sempre evitato di prendere
decisioni e parte e quando la conversazione si faceva pericolosa sempre
lasciava la compagnia e faceva finta di recitare preghiere e giaculatorie per
non dover dare spiegazioni. Così il suo allontanarsi non era assenso o dissenso
di quello che si discuteva anche se la discussione concerneva la sua
chiesa ed il modo in cui aveva speso i
soldi che aveva ricevuto per fare delle riparazioni che non erano state fatte
perché non necessarie.
Fece presto a
sbrigare le persone in attesa e andò incontro a FoFò che se ne stava in fondo
alla chiesa, appoggiato alla porta
pronto a scappare se qualche cosa fosse andata male.
“Andiamo in sacrestia?” disse il
prete avviandosi senza aspettare
risposta. Fofò parlò del suo arrivo in paradiso, di quello che gli aveva detto
il vecchio e poi parlò della curiosità della gente che non gli dava respiro.
Pure del male di testa continuo e delle orecchie che gli ronzavano e sbattevano
come se in testa ci avesse una bacinella piena a metà d'acqua che andava di qua e di là appena muoveva la
testa ma più che altro parlò di questa cosa strana che gli era capitata, che
era capitata proprio a lui. Il prete
ascoltava e aspettava la fine del discorso ma davanti agli occhi aveva la faccia burbera del monsignore che si
presentava alla porta della canonica appena correva voce della “
santificazione” di Fofò e l'accusava col dito che quasi toccava gli occhi di
non aver saputo spegnere quelle fiamme sacrileghe. “Non lo sapeva forse che
solo i santi sono immortali ma immortali nella memoria della gente e che essi
stessi , i santi, si ingegnavano a fare qualche miracolo ogni tanto
altrimenti la loro immortalità se ne andava a farsi benedire?” gli sembrava di
sentirle le parole del vescovo e, guardando Fofò negli occhi, le due figure
nella sua mente si confondevano
Perché, è meglio
dirlo subito, la gente, e in special modo le donne tutte casa e chiesa che
andavano alla prima messa mattutina appena suonava la campana, già parlavano di
Fofò Santo. “Che uno che va in paradiso e torna indietro e gli dicono che non
muore, santo lo deve essere per forza.” Addirittura qualcuno, non si sapeva
chi, vox populi diceva che Fofò aveva già fatto dei miracoli. Non era miracolo
il fatto che compare Gerlando era caduto da cavallo della mula, che la mula si
era imbizzarrita e quando si avvicinò Fofò, “calmati non è successo niente”
disse “e solo allora la mula si calmò e si lasciò accarezzare nel collo da Fofò
come se fosse un agnellino e compare
Gerlando, in perfetto stato, quasi ringiovanito, si alzò da terra agile come un ragazzino”. In miniera, il capo mastro e lo stesso
padrone non avevano permesso che Fofò andasse a lavorare come prima, non
volevano che andando a mettere le
cariche, anche se piccole, potesse succedere qualche incidente e poi la gente
si sarebbe riversata a chiedere, a scoprire e scoperchiare le pentole, che
pentole tappate e con il coperchio sopra ce n'erano tante. “Si poteva essere
perfetti, perfettamente in regola con il sale che scendeva e saliva di prezzo come
un ascensore che ha rotto il sistema di controllo?”
I compagni si
fermavano, volevano che raccontasse come erano andate le cose, il lavoro andava
a rilento. Bisognava finirla ed era
finita, infatti con una lettera di licenziamento che dietro a belle parole, che
sanno trovare i datori di lavoro quando
debbono mettere in mezzo alla strada un povero cristo, c'era il fatto che Fofò rimaneva senza lavoro
e con il gruzzolo accumulato negli anni che
si assottigliava ogni giorno di più.
La lettera arrivò
con la prima distribuzione, quella della mattina. Quando don Giordano vide la busta e lo stemma del
vescovado in alto a sinistra, capì di cosa si trattava senza bisogno di
leggere. Si mise in tasca la busta chiusa e si diresse verso la chiesa del
Calvario, ove per tanti anni aveva detto messa e dove conosceva bene tutte le
“pecore”. Si inoltrò in uno di quei vicoli stretti e quasi senza uscita che
sembravano tanti vecchi che si stringevano fra di loro per ripararsi dal
freddo, e quando trovò la porta che cercava bussò con mano sicura. La donna che
gli venne ad aprire, poco più alta di una nana, grassoccia e piuttosto bruttina
gli rivolse uno sguardo indagatore lo guardò, il volto corrucciato.
“Che voleva? “ chiese. Teneva la mano destra appoggiata allo stipite e
l'altra teneva la porta accostata come ad impedire all'estraneo di entrare in
casa.
“ Cercavo a Filippo” disse il prete “ho bisogno di parlargli di una cosa...
è piuttosto urgente” aggiunse. La donna lo informò che Filippo, suo marito era
uscito per certe faccende e che sarebbe ritornato a casa nel primo pomeriggio.
“ Chi debbo dire…?”
“Gli dica che l'ha cercato don Giordano” e si toccò il petto come ad
assicurarsi ed assicurare che lui fosse veramente quello che diceva. “L'aspetto
in giornata per una cosa piuttosto urgente, in parrocchia”. Salutò la donna che
appena lui ebbe girato l'angolo, chiuse la porta sbattendola così forte che
suscitò un sorriso nel prete “Non le piacciono i preti” commentò con sé stesso.
Quando tutto era
finito da un pezzo e di Fofò Incardona non si parlava più o se se ne
parlava come di fatti che accadevano un
tempo ed ora non più, che queste cose a
volte accadono ma poi fortunatamente
tutto si aggiusta e come in un mosaico tutte le poste vanno nel loro posto, giunse una telefonata , una
di quelle mattine di sole che sembrano una tortura,infuocate di giorno e di
notte e la mattina uno si alza dal letto, nervoso stanco per avere passato la
notte in bianco “Sono Don Pasquale della
Valle... della segreteria di Monsignore
il Vescovo. Lei è don Giordano?” senza attendere riposta continuò “La volevo avvertire che giovedì otto, del mese
corrente Monsignore sarà nella sua
parrocchia per una visita pastorale. Ci si aspetta da lei un'accoglienza ed una organizzazione dell'evento degni del
rango di Monsignore”.
“Farò del mio meglio, certo...”
farfugliò, sentì un clic, segno che la conversazione era terminata e la
comunicazione interrotta.
“Figlio mio” disse il Vescovo prima di entrare in chiesa e mentre don
Giordano si genufletteva per baciargli l'anello e la mano “sono contento che le
cose si siano risolte nella maniera
migliore. Bisogna stare attenti che il diavolo è sempre pronto a fare la sua
parte e si introduce appena vede una piega, una crepa... ma non parliamone più.
Piuttosto sappia che non mi sono dimenticato di lei, di tutto il lavoro e la
fatica che le costa badare, che dico
badare, curare questa parrocchia come se fosse una pianta preziosa. Ho pensato
di consentirle un periodo di riposo in
una nuova parrocchia, piccola certo che
le consenta un po' di riposo ma che sono certo lei saprà custodire, curare e
far crescere secondo la volontà divina. Ma adesso non parliamo più di queste
cose, entriamo in chiesa a compiere il sacrificio della santa messa, che è il
nostro compito e nostro dovere a cui con
umiltà ci accingiamo come figli devoti ed obbedienti della santa chiesa”.
Di tanto in tanto arrivavano voci in paese, le portavano i
venditori ambulanti che facevano il mercatino settimanale nei diversi paesi.
C'era chi diceva che Fofò Incardona
faceva l'eremita in un posto sconosciuto, chi diceva di averlo incontrato
vestito con grande eleganza dato che si era messo a fare il santone di professione, che era
diventato ricco assai, che abitava in un palazzo di cinquanta stanze, ma
nessuno vide più Fofò Incardona in paese.
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