sabato 12 luglio 2014

microstoria fascista di Racalmuto


RICERCHE PER UNA MICROSTORIA DELL’AVVENTO DEL FASCISMO A RACALMUTO

 

 

 

 

 

Verso il periodo podestarile

 

 

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Criteri periodizzanti

 

 

L’oggetto della presente ricerca si racchiude nell’evoluzione politica, sociale, organizzatoria di una comunità civica di media dimensione dell’entroterra agrigentino quale è Racalmuto in concomitanza di quella che è stata una profonda riforma di struttura negli esordi dello Stato fascista e che riguarda l’istituto podestarile.

 

 

Per convenzione, il periodo di ricerca viene limitato al quinquennio 1926-1931. Non è, peraltro, agevole invocare un criterio priodizzante per meglio inquadrare la vicenda storica che qui interessa. Tante sono le ripartizioni temporali che in coincidenza - ma più spesso in prossimità - di quella riforma amministrativa sogliono invocarsi nelle varie sedi o dalle diverse scuole della storiografia, ormai sterminata, sul fascismo.

 

 

Sono criteri che variano a seconda delle ideologie sottese, delle opzioni cultirali e persino della estrazione territoriale o nazionale degli studiosi. Se il Croce è sbrigativo nel rigettare indistintamente l’intera esperienza fascista definendola «funesto regime che è stato una triste parentesi nella .. storia» d’Italia (), non è neppure univoca la contemporanea cultura fascista nel datare le coeve svolte di quella che all’epoca veniva assiomaticamente dichiarata la "rivoluzione fascista".

 

 

Per l’Ercole (), ad esempio, è da parlare di due "tempi della rivoluzione fascista": A) dalla "marcia su Roma" al discorso del 3 gennaio 1925; B) da predetto "discorso" alla legge 5 febbraio 1934 sulle "corporazioni". Vi era stata prima "la vigilia della Rivoluzione Fascista - dalla fondazione del primo Fascio di Combattimento alla Marcia su Roma: 23 marzo-28 ottobre 1922.

 

 

Ma nella stessa pubblicista fascista del tempo si indulgeva, talora, ad un succedersi di due "ondate" prima della marcia su Roma e dopo la "sosta d’autunno" imposta a seguito del delitto Matteotti. Il ricorso ad "una seconda ondata" era stato a dire il vero minacciato dallo stesso Mussolini e Farinacci pensava nel dicenbre del 1924 che era giunto il momento di darvi esecuzione. Non avvenne o non ce ne fu bisogno, almeno nella valutazione fascista del tempo. Il riferimento era ad una seconda ondata "insurrezionale", ‘violenta’, che non è da escludere poteva scoppiare se il re avesse "dimesso" Mussolino a conclusione della crisi aventiniana. Per l’Ercole (op. cit. pag. 232) «la reiterata minaccia della cosiddetta seconda ondata» sarebbe stata fatta «non tanto dal Duce, quanto da qualcuno dei gerarchi del Partito, specialmente da Farinacci». Nella valutazione Mussoliniana quella seconda ondata sarebbe stata di ridotti effetti, avrebbe colpito soltanto «bersagli fuggenti ed effimeri» (). Tale suprema stroncatura espluse dalla cultura fascista questa classificazione periodizzante, la quale invero tornò in auge presso certa letteratura antifascista del dopo guerra. ()

 

 

In campo cattolico, Gabriele De Rosa () adotta la data del 3 gennaio 1925 per una svolta di rilievo nella evoluzione del partito fascista: le successive date caratterizzanti sono, per l’insigne storico, il 21-22 aprile 1927 (carta del lavoro); il 1932 (saggio sulla «dottrina del fascismo» elaborato da Mussolini per l’Enciclopedia Italiana); 17 settembre 1943 (appello di Mussolini agli italiani da Monaco di Baviera).

 

 

Quanto allo storico moderno, per tanti aspetti acuto crtitico di tanti luoghi comuni sul fascismo, Renzo De Felice, il discorso del 3 gennaio 1925 «non costituì per il regime liberale italiano una rottura vera e propria; il regime fascista sarebbe nato sul piano costituzionale solo tra il dicembre 1925 ed il gennaio 1926 e si sarebbe perfezionato alla fine del 1926». ()

 

 

In campo marxista, imperando per assioma ideologico l’antifascismo è arduo cogliere un obiettivo inquadramento di questa tutto sommato è una pagina ultraventennale della storia d’Italia. Per Ragionieri (cfr. Op. Cit.) trattasi del "fascio della borghesia" giunto al potere il 28 ottobre 1922 (op. cit. pag. 2120) e cacciatone l’8 settembre 1943 (pag. 2357), sia pure con qualche tragico epigono. Una disamina, la sua, di 237 fitte pagine per dar ragione a Palmiro Togliatti che nelle sue Lezioni sul fascismo del 1935 lo aveva definito "regime reazionario di massa". Nessuna mutazione culturale né evoluzione politica né conversione sociale avrebbero contraddistinto il fascismo. Solo «un muoversi a tentoni .. nella persistente fedeltà all’obiettivo di fondo.» Intorno alla svolta del 1924-26 - cesura periodicizzante di risalto ai fini della nostra ricerca - Ragionieri è persino, insolitamente, sferzante. «Si può dire - scrive a pag. 2147 - che lo sbocco dittatoriale era nella logica delle cose, nella logica cioè di una ristrutturazione autoritaria della società italiana messa in opera dai centri decisivi del potere economico, finanziario e politico». ()

 

 

Quanto alla storiografia siciliana sul fascismo regionale, le periodizzazioni del Renda sono molto articolate. A proposito della storia siciliana scrive: «il diciottennio 1925-1943, oltre che storia di un regime, fu anche storia della società che quel regime si era scelto o forse aveva subito. [...] Nell’ambito del diciottennio, per un’analisi più puntuale e precisa, appare utile distinguere quattro fasi, ciascuna comprendente gli anni 1925-29, 1929-36, 1936-39, 1939-43.» () Il 1929 viene preso come anno di demarcazione vuoi per il rinnovo del parlamento (piuttosto punitivo nei confronti dei siciliani), vuoi per il concordato, punto di agglutamento intorno al fascismo di consensi episcopali della chiesa siciliana. L’anno 1936 viene ritenuto quello in cui «il fascismo era apparentemente al suo massimo fulgore» (pag. 378). Il 2 gennaio 1940 viene varata la legge contro il latifondo «accompagnata da gran clamore propagandistico [non senza] scoperte intenzioni di demagogia sociale] (pag. 401).

 

 

Il Lupo, () un affermato esponente della scuola storica catanese, vuole la vicenda del fascismo siciliano come "utopia totalitaria". Teorizza un’iniziale «(breve) trionfo della borghesia» coagulantesi attorno, ma non solo, a Gabriele Carnazza, l’industriale catanese divenuto ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Mussolini. Sottolinea che «con la traumatica liquidazione di Cucco, Carnazza e Crisafulli-Mondio, tra il 1927 e il 1929, il regime entra nella sua fase matura. [ ...] Il regime totalitario a lungo vagheggiato si definiva come uno Stato amministrativo che inglobava le istanze del partito, in periferia ancor più che al centro, all’interno di un meccanismo integrato e verticale dove le autonomie e i conflitti del politico venivano considerati quali inammissibili residui del passato, delegittimati come beghismi, personalismi, espressione di interessi incoffessabili» (v. pag. 429). Un "totalitarismo", dunque che a partire dal 1927-1929 viene messo "alla prova" fino al 1939, quando esplode «l’ultima impennata del radicalismo fascista», «popolare la campagna» con «un esperimento di ‘ingegneria sociale», cioè a dire «assalto al latifondo».

 

 

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Il segmento temporale (1926-1931) che a noi interessa per la nostra ricerca di microstoria comunale esula, ad evidenza, dalle precedenti cesure periodizzanti. Non è però in frizione; anzi, sotto vari aspetti, vi si inquadra piuttosto significativamente, soprattuto sotto l’aspetto dell’aggancio alla dinamica storica nazionale che delitto Matteotti (10 giugno 1924), «aventino», "sosta estiva-autunnale", discorso del 3 gennaio 1925 e tutta la legislazione istauratrice dello Stato fascista del 1925 scandiscono in termini di salto qualitativo e di cambiamento per tanti versi irreversibile. Si attaglia al 1926 il motto "incipit novus ordo" che poteva leggersi sotto una statua di Mussolini sita nell’androne del palazzo comunale di Racalmuto. Il 1926 è, invero, l’anno della radiazione dal parlamento degli «aventiniani»; dell’ulteriore dilatazione dei poteri del governo a scapito del parlamento (legge 31 gennaio 1926 sulle «attribuzioni e prerogative del capo del governo primo ministro segretario di Stato»); del varo della legge del 3 aprile 1926 e del regolamento del 1° luglio 1926 che vietarono lo sciopero e la serrata, istituirono la magistratura del lavoro ed elevarono ed elevarono i sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori ad organi indiretti della pubblica amministrazione, di quella riforma, cioè, che - ad usare il linguaggio del tempo "seppellisce lo Stato demoliberale, agnostico di fronte al fenomeno sindacale e crea lo Stato sindacale-corporativo" () L’anno 1926 è soprattutto l’anno del Regio decreto-legge 3 settembre 1926, n. 1919, «concernente l’estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del Regno». Racalmuto, il paese dei notabili ottocenteschi in lotta fra loro per la conquista del Comune, il centro zolfataro con l’influente ‘lega’ che consentiva ad un proprio capo-popolo uno scanno al Consiglio comunale, il luogo di ambigue affinità elettorali tra conventicole agrarie e clericali a sfondo vagamente mafioso, il fertile territtorio per clientelari votazioni ‘trasformistiche’ ma anche - bisogna dirlo - l’agone per affinamenti sociali, per prese di coscienza politica, per lotte di redenzione civica, quella Racalmuto, dunque, finiva con un suggello legale da Gazzetta Ufficiale. Non si sarebbbe votato più (fino al 1946) neppure nei circoli, per le elezioni di cariche sociali. Solo un paio di "referendum" (solo sì oppure no) - e Racalmuto dirà sì al 100% - nel 1929 e nel 1934.

 

 

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Il 1931 viene assunto come dies ad quem scadendo il quinquennio della carica podestarile ai sensi dell’art. 2 della legge 4 febbraio 1926, n.° 237. Sul piano politico, va registrato che sino al 1931 vi era una certa discrezionalità quanto ad adesione dei ceti impiegatizi e dirigenti al P.N.F. Con una serie di dereti del 1932-33 stabilì l’obbligo dell’iscrizione al P.N.F. per chiunque volesse partecipare ai concorsi per impieghi pubblici di qualsiasi genere o per impieghi nelle amministrazioni locali e in istituti parastatali. Anche per le libere professioni o per la magistratura l’iscrizione al partito divenne di fatto necessario. Nel 1931 scoppiò - ma subito si esaurì - la nota controversia tra chiesa e fascismo sull’autonomia dell’Azione cattolica, che a Racalmuto aveva una sua significativa presenza. Il contrasto si concluse con piena soddisfazione del Vaticano. Qualche storico (Ragionieri, op. cit. pag. 2223) reputa responsabile dell’incidente Giovanni Giuriati, nominato segretario del PNF l’8ottobre 1930. Egli, in effetti, cercò di rintuzzare la crescente forza organizzativa e politica dell’Azione cattolica. Pare che abbia esagerato e da qui la sua breve permanenza alla segreteria del PNF. Nel dicembre del 1931 veniva sostituito con l’ancor oggi notorio Achille Starace. Con Starace la fisionomia del PNF cambia vistosamente. Gli effetti si registreranno anche nella lontana e periferica Racalmuto. Se prima, non si poteva essere antifascisti, ma essere ‘indifferenti al Regime’ - come recitavano le carte degli schedari della polizia - era in definitiva tollerato, ora occerreva anche un ‘consenso’ come dire, ope legis. Ciò vale a livello nazionale; ciò vale anche sul piano locale. Chiudere il segmento nel 1931 per la storia del fascismo racalmutese ha dunque una sua validità, anche sotto questo aspetto. Si pensi che il vecchio arciprete di Racalmuto amava negli anni ‘50 raffigurarsi come un eroe per avere vissuto - ed a suo dire ‘combattuto’ - la persecuzione fascista contro l’Azione cattolica. ().

 

 

Le cadenze temporali della microstoria racalmutese sono invero alquanto sfasate rispetto al corso politico nazionale di quel periodo.

 

 

Il 24 gennaio 1924 (), con lo scioglimento del consiglio comunale eletto nel 1920, si chiude l’era dei sindaci del vecchio stato democratico. Subentra, un periodo di transizione con un rapido succedersi di commissari straordinari (ben tre: Ernrico Sindico; avv. Salvatore Burruano e Salvatore Curatola). Nel 1926 inzia l’epoca fascista vera e propria, quanto all’ammonistrazione comunale), che s’impersona nella figura del farmacista dott. Enrico Macaluso per un decennio.

 

 

Per un scandalo a carattere sessuale, il dott. Macaluso è costretto a dimettersi il 18 maggio 1936 (). Gli succede un suo fedelissimo, il prof. Giuseppe Mattina fu Gaetano che dura, praticamente, fino all’inizio della guerra. I tempi del fascismo racalmutese sono in effetti cinque:

 

 

1°) la vigilia fascista che si chiude con l’estromissione governativa degli amministratori demo-liberali del 1924;

 

 

2°) il periodo di transizione che cessa, nel marzo del 1927, con la nomina a primo podestà del dott. Enrico Macaluso;

 

 

3°) il decennio del podestà Macaluso che si conclude nel 1936;

 

 

4°) la successione del prof. Mattina, che di fatto tiene la carica sino all’entrata in guerra nel 1940;

 

 

5°) il periodo della guerra sino al 17 luglio 1943, giorno dell’entrata a Racalmuto dell’esercito americano.()

 

 

 

 

 

Racalmuto prefascista

 

 

Dal 1860 al 1923, Racalmuto è un centro minerario ed agricolo totalmente dominato da alcune famiglie medio-borghesi qualcuna delle quali cerca di accreditare titoli persino nobiliari. I Tulumello, ad esempio, vantavano il fregio baronale, ma si era trattato dell’astuta acquisizione di due terzi del feudo di Gibillini da parte di un prete loro antenato, piuttosto traffichino, tra il Settecento e l’Ottocento, in piena soppressione dei diritti feudali. I Tulumello, già ricchi per il possesso di vaste terre a Villanova, tra Racalmuto e Montedoro, locupletarono molto con le miniere di zolfo nello scorcio finale del secolo scorso. Soppiantarono i concorrenti ottimati dei Matrona e dei Savatteri e si insediarono nella sindacatura locale praticamente per un ventennio, dal 1889 al 1909. Intorno al 1909 ebbero rovesci finanziari, decaddero economicamente e sparirarono dalla scena politica locale. Subentrarono nella gestione della cosa pubblica avvocati e medici appartenenti a famiglie borghesi che avevano fatto fortuna con lo zolfo. Per un settantennio erano stati dunque gli ottimati locali, i cosiddetti "galantuomini", con la loro boria di nuovi ricchi a dominare lo scenario politico racalmutese, con le loro beghe, le loro risse, le loro clientele. Col 1924 tutto ciò scompare e può dirsi definitivamente, visto che dopo il 1943 la storia dei locali sindaci ha altre peculiarità, profondamente intrisa degli umori delle masse, in termini, cioè a dire, di moderna domocrazia popolare. Con 1926, si affaccia e - come si dirà - trova consensi di massa la figura del podestà della riforma fascista.

 

 

Racalmuto si consegna alla gestione podestarile con una fisionomia economica e sociale segnata da turbolenza sociali, specie tra gli zolfatai. Sono gli zolfatai che hanno una più avvertita coscienza sociale ed è appunto fra loro che sorge a Racalmuto il primo nucleo fascista. Ne sono animatori gli avvocati Agostino Puma e Salvatore Burruano. L’11 dicembre 1922 il prefetto di Girgenti (poi Agrigento) il dott. Raffaele Rocco () partecipa al Ministro degli Interni che l’associazione «Racalmuto - Lega di miglioramento fra zolfatai» aveva pochi giorni prima cambiato titolo in «Sindacato Nazionale Zolfatai» aderendo al fascismo. () Siamo, come si vede, a pochi giorni dalla "marcia su Roma": avvedutezza degli zolfatai (la cui loro lega risaliva ai Fasci ed era stata dominata dal socialista Vella) o opportunismo di due giovani avvocati appartenenti alle famiglie emergenti di Racalmuto? Non è facile rispondere, ma entrambe le cose sono plausibili. Una sezione fascista - la prima - risulta costituita a Racalmuto il 26 dicembre 1926. ()

 

 

Racalmuto si affaccia al secolo XX con connotati che possiamo cogliere dall’Annuario d’Italia - Calendario generale del Regno" del 1896 pag. 318 e segg. «Mandamento di Racalmuto - Comuni 2 - Popolazione 22.648, Tribunale, Conservatorie delle ipoteche e Ufficio metrico in Girgenti, Ufficio di P.S. e Uff. Reg. In Racalmuto. Magazzino Privative e Agenzia delle imposte a Canicattì - Racalmuto - Collegio elettorale di Canicattì, diocesi di Girgenti. Ab. 13.434 Sup. Ett. 4.237 - Alt. Su livello del mare m. 460 - Grosso borgo, fabbricato sulla sinistra di un affluente del Platani. Corsi d’acqua: un affluente del Platani. Prodotti: cereali, viti, olivi, frutta. Miniere: Miniere di zolfo greggio e varie miniere di salgemma. Fiere: ultima Domenica di maggio (bestiame e merci). Sindaco: Tulumello barone Luigi. Segret. Comunale: Rao Liborio. - Agenti di assicurazione: Macaluso Vincenzo (Venezia), Rao Liborio. Albergatori: Martorana Alfonso - Valenti Giuseppe. Bestiame: (negoz.) Borsellino Calogero - Borselino Giovanni - Pavia Giulio - Piazza Gio. E Giuseppe. Caffettieri: Esposto Pio; Farrauto Gioacchino; ved. Licata. Cappelli (negoz.): Conigliaro Francesco - Martorana Nicolò. Cereali: (negoz.) Bartolotta Giuseppe - Bartolotta Salvatore - Bartolotta Nicolò - Scimè Salvatore - Nalbone F.lli. Cordami: (fabbric.) Greco Salvatore - Scimè Salvatore. Farine: (negoz.) Falcone Gioacchino - Geraci Calogero - Scimè Gregorio - Scimè Alfonso - Scimè Pasquale - Schillaci Ventura - Taibbi Gioacchino. Ferro: (negoz.) Cutaia Luigi - Macaluso Salvatore. Formaggi: (negoz.) Denaro Calogero - Denaro F.lli - Giuffrida Gaetana - Iovane Antonio. Legnami: (negoz.) Macaluso Francesco - Macaluso Salvatore - Napoli Carmelo - Cutaia Luigi. Merciai: Alessi Salvatore - Di Rosa Giuseppe. Miniere di salgemma: (eserc.) Bartolotta Giuseppe - Denaro Giovanni - Lauricella Nicolò - Licata Salvatore. Miniere di zolfo: (eserc.) Argento Michelangelo - Argento Santo - Bartolotta Diego - Bonomo Giuseppe e Figli - Brucculeri Michelangelo - Buscarino Pietro - Cavallaro Giuseppe - Cavallaro Luigi - Cino Calogero - Cutaia Salvatore - Farrauto cav. Alfonso - Farrauto Francesco - Franco Gaspare - La Rocca Salvatore - Liotta Calogero - Lo Jacono Vincenzo - Macaluso Stefano di Calogero - Macaluso Stefano di Francesco - Mantia Giuseppe - Mantia Michele - Mantia Salvatore - Martorana Salvatore - Martorana Vincenzo - Matrona comm. Gaspare - Matrona cav. Paolino - Matrona cav. Michele - Matrona Napoleone - Messana Calogero - Morreale Carmelo - Munisteri Pinò Nicolò - Picone Salvatore - Puma Carmelo - Romano Calogero fu Luigi - Romano Giuseppe - Romano dott. Salvatore - Salvo Giuseppe - Schillaci Diego - Schillaci Giuseppe - Schillaci Pietro - Schillaci Ventura F.lli - Sciascia Leonardo - Scibetta Diego - Scibetta avv. Giuseppe e F.lli - Scimè Pasquale - Sferlazza Salvatore e Figli - Tinebra Luigi - Tinebra Salvatore; Serafino; Vincenzo - Tulumello Arcangelo - Tulumello b.ni Luigi - Tulumello Nicolò - Tulumello Salvatore - Vella Antonio e Volpe Calogero. Mode: (negoz.) Conigliaro F. - Molini: (eserc.) Burruano Giuseppe - Falcone Gioacchino - Farrauto Salvatore - Palermo Nicolò - Scimè Pasquale - Scimè Sferlazza Salvatore. Molini (a vapore) : (eserc.) Alfano Giuseppe - Farruggia Gerlando - Grillo e Picataggi - Scimè Arnone Giuseppe. Olio d’oliva: Cinquemani Alfonso - Cinquemani Dom. - Cinquemani Salvatore - Leone Diego - Licata Salvatore - Liotta Pietro e Patti Leonardo. Panettieri: Genova Pietro - Rizzo Nicolò - Romano Ignazio. Paste alimentari: (fabbric.) Franco Vincenzo - Giudice Nicolò - La Rocca Francesco - La Rocca ved. Carmela - Mattina Salvatore - Mattina Vincenzo - Picataggi Federico (a vapore) - Pitruzzella Angelo; Diego. Pellami: (neg.) Alessi Salvatore. Pizzicagnoli: Denaro Salvatore - Iovane Antonio. Sommacco :(negoz.) Denaro Giovanni - Flavia Giuseppe - Grillo Raffaele - Mantia Giuseppe - Martorana Luigi - Mendola Calogero - Pantalone Giosafatte. Tessuti: (negoz.) Collura Salvatore - Franco Gaspare - Petruzzella G.B. - Puma Gerlando - Romano Calogero - Scibetta Giuseppe. Vini: (negoz. Ingrosso) Mazttina Carmelo - Mendola Santo - Puma Giov. - Puma Michelangelo - Salvo Giuseppe - Taverna Carmelo - Zaffuto Angelo. Professioni: Agrimensori: Amato Calogero. Agronomi: Busuito Alfonso Falletta Luigi - Grisafi Calogero - Terrana Giuseppe. Farmacisti: Baeri Angelo - Cavallaro Giuseppe - Scibetta Luigi - Presti Cesare - Romano Giuseppe - Tulumello Salvatore. Medici-chirurghi: Bartolotta Giuseppe - Burruano Francesco - Busuito Luigi - Busuito Giuseppe - Busuito Salvatore - Cavallaro Erminio - Falletta Gaetano - Romano Salvatore - Scibetta-Troisi Alfonso - Scibetta-Troisi Diego - Macaluso Luigi. Notai: Alaimo Michelangelo - Gaglio Ferdinando - Vassallo Giuseppe Antonio.

 

 

Il quadro economico che se ne trae è molto variegato ed esplicativo. Oltre 63 esercenti di miniere di zolfo (per converso solo 4 esercenti di miniere di salgemma) attestano l’importanza del settore. L’agricoltura è piuttosto fiorente: 5 grossisti in cereali; 7 spacci di farine; 6 molini e 4 a vapore; paste alimentari e pane vengono smerciati in vari punti di vendita; opera anche un pastificio a vapore; 7 commercianti all’ingrosso in vino; 7 grossisti di sommacco; 7 grossisti di olio di oliva. Il secondario, in un centro effervescente per occupazione industriale e per sviluppo agricolo, è congruo: negozi di ferro, di pellami, di legname, di cordami non mancano; e poi merciai ed empori di mode, di tessuti, di cappelli; quindi trovano lavoro i caffettieri (ben tre). La pastorizia è discreta: negozi di formaggio e quattro macelleria lo comprovano. Nutrita la serie dei professionisti: diversi agrimensori ed agronomi, segno della rilevanza della proprietà terriera; tre notai (di cui solo uno veramente racalmutese); stranamente i tanti avvocati del tempo non ci vengono segnalati; e poi tanti (troppi) medici (ma molti sono fra loro strettisimi parenti ed è da pensare che la laurea fosse più un orpello che lo studio propedeutico ad una effettiva professione medica). Il quadro ‘borghese’, "agrario" ed il profilo degli esercenti di miniere di zolfo - che un ruolo avranno nell’avvento del fascismo a Racalmuto - sono ben delineati a decifrare fra i cognomi delle famiglie che figurano le arti ed i mestieri. Destinati ad uno squallido tramonto le tre famiglie in qualche modo titolate: i Tulumello, i Matrona ed i Farrauto; presenti nell’agone politico prefascista i vari Cavallaro, Bartolotta, Scimé, Baeri, Mantia, Vella, etc. E’ arduo rinvenirvi i ceppi d’origine di quelle che saranno le figure dominanti del fascismo: Giovanni Agrò, il dott. Enrico Macaluso, il prof. Giuseppe Mattina di Gaetano, il maestro Macaluso, Antonio Restivo: una rotazione dirigenziale, in senso popolare, il fascismo a Racalmuto senza dubbio finì col determinarla, una sorta di redenzione sociale delle classi meno abbienti, una retrocessione dalle funzioni pubbliche dei ‘galantuomini’ racalmutesi dell’Ottocento.

 

 

Luigi Pirandello ne I vecchi e i giovani ( accenna alle condizioni - avvilentissime - dei ceti infimi racalmutesi. Vi include ovviamente gli zolfatai. Triste la sorte dei ‘mafiosi’ incastrati dalla giustizia: miseranda la vita delle loro donne.

 

 

«..s’affollavano storditi i paesani zotici di Grotte o di Favara, di Racalmuto o di Raffadali o di Montaperto, solfaraj e contadini, la maggior parte, dalle facce terrigne e arsicce, dagli occhi lupigni, vestiti dei grevi abiti di festa di panno turchino con berrette di strana foggia: a cono, di velluto; a calza, di cotone; o padavovane; con cerchietti o cateneccetti d’oro agli orecchi; venuti per testimoniare o per assistere i parenti carcerati. Parlavano tutti con cupi suoni gutturali o con aperte pretratte interjezioni. Il lastricato della strada schizzava faville al cupo fracasso dei loro scarponi imbullettati, di cuojo grezzo, erti, massicci e scivolosi. E avevan seco le loro donne, madri e mogli e figlie e sorelle, dagli occhi spauriti o lampeggianti d’un’ansietà torbida e schiva, vestite di baracane, avvolte nelle brevi mantelline di panno, bianche o nere, col fazzoletto dai vivaci colori in capo, annodato sotto il mento, alcune coi lobi degli orecchi strappati dal peso degli orecchini a cerchio, a pendagli, a lagrimoni; altre vestite di nero e con gli occhi e le guance bruciati dal pianto, parenti di qualche assassinato. Fra queste, quand’eran sole, s’aggirava occhiuta e obliqua qualche vecchia mezzana a tentar le più giovani e appariscenti che avvampavano per l’onta e che pur non di meno tavolta cedevano ed eran condotte, oppresse di angoscia e tremanti, a fare abbandono del proprio corpo, senz’alcun loro piacere, per non ritornare al paese a mani vuote, per comperare ai figlioli lontani, orfani, un pajo di scarpette, una vesticciuola.»

 

 

Forse un tantinello oleografica, ma pur sempre molto pertinente, la raffigarazione che Nino Savarese () fa delle zolfare e dei zolfatai che ben si attaglia alla Racalmuto dell’avvento fascista. «I fazzoletti di seta sgargiantissimi, i pantaloni a campana, gli scarpini di pelle lucida con lo scricchiolìo, il berretto sulle ventitre e il grumoletto giallo dei semprevivi all’occhiello, sono distintivi della classe zolfilfera, non solo ignorati, ma ironizzati, dalla gente di campagna. Dopo di essere stati mezzo nudi come selvaggi, grondanti sudore anche di pieno inverno, nelle gallerie e nei pozzi afosi o sotto il peso delle corbe nei trasporti, per i quali spesso non esistono mezzi animali o meccanici, quelle vistose gale sono come una rivincita, una specie di commemorazione domenicale, di fatto, non tanto naturale e prevedibile, di essere ancora in vita e con le tasche piene di danaro ben guadagnato. E fra i proprietari e dirigenti di zolfare e proprietari di terre, c’è ancora, una netta distinzione di modi, di vita, di gusti e persino una certa differenza nel linguaggio: gli uni sempre intenti a tentare nuove avventure di pozzi e di gallerie, con l’animo sospeso sulle incognite degli abissi e degli improvvisi disastri dei crolli e del grisù, gli altri con gli occhi pacificamente rivolti al cielo a scrutare i cambiamenti del tempo. [...] L’isola è ancora ricchissima di zolfo. Specie nella parte centrale, le miniere, in certe contrade, si seguono a brevissima distanza.

 

 

«Dalla profondità delle loro viscere esse hanno mandato ricchezze enormi: intere generazioni di padroni vi si sono arricchite; intere generazioni di operai vi hanno logorato la loro esistenza, ed eccole che fumano ancora, che è il loro modo di dire che esistono, che producono ancora e vogliono nuove braccia e nuovi sacrifici, in cambio di nuove promesse di ricchezza e di felicità! La fumata di una miniera altera le linee del paesaggio di una contrada, come per l’avvertimento che, in quel punto, la terra si sta consumando in una dissoluzione e in uno struggimento innaturali: c’è qualcosa che richiama la vampata di un incendio o di un disastro irreparabile. Non vedi le poche colonnine di fumo delle ciminiere di una fabbrica, le quali hanno sempre qualche cosa di simmetrico e di preordinato, ma centinaia di colonne di fumo che salgono, ora altissime, ora basse, ora a larghe volute come veli di nebbia densa e giallastra. [...]

 

 

«I molli pascoli, gli orti grassi, le vigne sembrano girare al largo da questi luoghidove la terra si è resa maledettamente infeconda. [...]

 

 

«Qua e là, tra le distese grige del tufo e i mucchi rossastri dei detriti della fusione, sbocciano improvvisamente come grandi fiori gialli, i mucchi dello zolfo già fuso ed accatastato, pronto per essere spedito. Queste cataste vengono fatte in prossimità dei forni e dei calcheroni, che sono i luoghi della fusione; a sistema moderno, i primi, a modo antico, i secondi. I calcheroni, mucchi di minerale più minuto, a cono, sembrano piccolissimi vulcani a catena; i forni, piatte costruzioni in muratura hanno nell’interno la forma di botti da vino, col mezzule e la spina e l’ampio cocchiume aperto, dal quale, per certi soppalchi praticabili, viene versato il mineralegrezzo. Lo zolfo, acceso all’interno, filtra attraverso i residui che non fondono, e viene fuori dalla spina, in un liquido scuro, ancora denso, sfrigolante di fiammelle azzurrognole, tra vapori acri ed irrespirabili. Le operazioni che si vedono in una miniera sembrano allora quelle di una vendemmia diabolica condotta nel centro della terra, e questo il vino di Mefistofele!

 

 

«Di notte la miniera è appena segnata da grappoli di lampadine. Ma nel suo grembo infuocato il lavoro non si arresta nemmeno durante la notte. Squadre di minatori non lasciano il piccone. Si suda ancora e si impreca mentre nelle campagne intorno, i lumi delle casette campestri si spensero assai per tempo, e i contadini aspettano il nuovo soleper riprendere la loro fatica. E i campanacci dei bovi e delle pecore levano sui campi silenziosi il loro suono di pace e di tranquillità.»

 

 

Quanto al contrasto contadini-zolfatai che affiora dalla pagina di Savarese, per Racalmuto dovremmo fare un qualche distinguo se già nel lontano 1885 il pretore locale così riferiva alla Giunta per l’Inchiesta Agraria sulle condizioni della classe agricola (): «Il contadino di questi luoghi non è un servo della gleba, non è scarsamente pagato come in altri luoghi: se non gli è ben pagato il suo lavorosui campi, trova sicuro lavoro e ben retribuito nelle miniere e perciò non è misero, ha di che vivere e può mantenere la sua famiglia [...], veri contadini, individui che attendono esclusivamente alla cultura dei campi, non ve ne sono: lavorano alternativamente, ora in miniera di zolfo, ora nei campi.»

 

 

L. Hamilton Caico, l’irrequita moglie di uno dei membri dell’importante famiglia Caico di Montedoro (paese finitimo con Racalmuto), commentando vicende e costumi di un paese agricolo-minerario attorno al primo decennio del secolo, in pieno riferimento, quindi, al centro che qui interessa, scriveva: «Il lavoro al quale il piconiere è sottoposto corrode e disgrega la sua personalità, fino alla perdita totale di ogni senso morale. Imbroglia e deruba il pur severo sorvegliante, durante il lavoro della miniera; e quando rientra in paese, non fa altro che bere e gioca d’azzardo, sperperando così tutto quello che ha guadagnato durante la settimana [...]. E’ rispettoso e sottomesso ai superiori durante le ore di lavoro, ma appena ritorna in paese diventa prepotente e litigioso, con un atteggiamento sprezzantee provocatorio [...]. E i carusi? Le infelici creature vengono ingaggiate per lavorare all’aperto non appena compiono dieci anni e, quando hanno compiuto i quattordici anni, per lavorare dentro la miniera [...] questo genere di vita li predispone al rachitismo e alla deformità e, moralmente, sopprime in essi ogni istinto di umana bontà, poiché crescono avendo a loro modello i piconieri, anzi con un più completo e generale disfacimento della dignità umana [...], mentre nell’animo nascono e crescono istinti violenti di ribellione e di malvagità, i sensi di un odio inconscio, le tendenze più perverse.» ()

 

 

Gli zolfatai di Racalmuto furono politicamente e sindacalmente vivaci. Abbiamo visto come subito passarono al fascismo, ma con un ribellismo sindacale che fu domato molto tardi dallo stesso fascismo. Ancora, nel 1931, osavano scioperare per contestare la riduzione della paga unilaterlmente decisa dagli esercenti. () Prima di tale - sospetta - conversione al fascismo, erano stati socialisti sotto l’egida di una strana figura d’avvocato locale, Vincenzo Vella, figura che illustreremo dopo. Non crediamo proprio che avessero gradito lo sproloquio moralistico che ebbe a propinargli un noto socialista dell’epoca, il geom. Domenico Saieva. Costui, organizzatore di minatori a Favara fra fine secolo ed i primi del ‘900, in un comizio agli zolfatai di Racalmuto del 12 marzo 1905 redarguiva i locali zolfatai in questi termini: «Io ho sentito il dovere di dirvi ... che se volete andare avanti occorre educarvi, abbandonare il vizio, le bettole e dare una contingente inferiore alla criminalità [...] le statistiche criminali parlano chiaro e fanno spavento [..]. Ignoranti, viziosi e disorganizzati come siete oggi, vivrete sempre nella più orribile abiezione morale ed economica [..].» ()

 

 

Quanto alla vexata quaestio dei carusi, il moralismo era antico, ma in fondo cinico. Richeggiano le scriteriate parole che un sindaco di Racalmuto, Gaspare Matrona, tanto conclamato da Leonardo Sciascia, ebbe a pronunciare nel 1875 davanti alla Giunta per l’Inchiesa sulla Sicilia: «A domanda: E l’affare fanciulli nelle zofare? Risponde: E’ questione grave, ci è l’umanità da una parte e l’interesse economico dall’altra. A domanda: Produce danni fisici e morali: Risponde Non quanto si crede. Per le zolfare credo che ci vorrebbe una specie di consorzio. Qui la proprietà è divisa. Tutti siamo nella commodità generale. Per togliere l’acqua occorrerebbe potersi avvalere per costruzione di acquedotto dei terreni sottostanti; una specie di servitù di acquedotto o meglio consorzio.» ()

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