STORIA DI RACALMUTO
di Calogero Taverna
CENNI
GEOLOGICI
In sede scientifica non si ha dubbio alcuno che la Sicilia
sia una terra “geologicamente recente”([1]).
Concetto in ogni caso relativo: occorre, infatti, riandare indietro, nella notte dei tempi, per
un centinaio di milioni di anni prima di datare la fase iniziale del complesso
fenomeno formativo dell’attuale isola. In un primo momento, “formazioni calcaree mesozoiche, e cioè
dell’èra dalle forme intermedie di vita, o èra secondaria” ebbero ad abbozzare
un cosiddetto “scheletro” tra Trapani, Palermo e Messina con un isolato nucleo
con epicentro a Ragusa. In una seconda fase, si formò una sorta di tessuto
connettivo per il progressivo emergere di terre durante la regressione
pliocenica. Infine, in epoca quaternaria, affiorarono le terre marine.
Quanto a Racalmuto, il suo territorio ebbe a configurarsi
nelle forme che oggi ci sono familiari sul finire del periodo intermedio e cioè
durante la transizione dal terziario al quaternario. E ciò stando ad una
cartina della distribuzione dei terreni pliocenici e quaternari in Sicilia
dovuta al Trevisan ([2]).
Studi sulla geologia di Racalmuto sono stati fatti da A.
Diana (1968). Geologi locali (vedasi fra gli altri Luigi Romano) hanno di
recente dato i loro apporti. Nella sua tesi laurea il Romano, avvalendosi dei
dati sperimentali desunti dalla trivellazione di una quarantina di pozzi,
distingue quattro strati nel sottosuolo racalmutese. «Cronologicamente - egli
afferma ([3])
- i terreni che compaiono nella zona studiata, vengono raggruppati come segue:
1) complesso argilloso caotico di base, di età
pre-tortoniana;
2) formazione Terravecchia del Tortoniano, costituita da
sabbie, conglomerati e argille;
3) serie Gessoso-Solfifera, complesso rigido
costituito da vari elementi del Saheliano e Messinese.
4) una formazione di copertura di età Pliocenica
inferiore, costituita da marne e calcari marnosi (Trubi).
Completano
la geologia della zona una copertura detritica alluvionale.»
Ma abbandoniamo subito le questioni geologiche per le quali
non abbiamo alcuna competenza e soffermiamoci un istante sui tradizionali
minerali racalmutesi. Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli
sconvolgimenti del Miocene, quando alle «grandi lacune terziarie
progressivamente evaporate [sarebbe seguito] un processo di sedimentazione che
avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della
chimica, ma addirittura uno
straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace
di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando
luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe
partorito lo zolfo nativo» ([4]).
Secondo tale affascinante teoria, le
ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si devono, dunque,
a quel geologico vibrione; il che per qualche verso sa di simbolica
premonizione.
LA PREISTORIA
Ma a che epoca risale il primo insediamento umano nel
territorio di Racalmuto? Fu esso teatro di qualche fase evolutiva della specie
umana? Come vissero i primi nuclei umani? Ove abitarono e con quali riti e
culture?
Sono tutte domande senza risposta, alla luce delle attuali
conoscenze scientifiche. Solo si può ipotizzare una qualche presenza umana
nella grotta di Fra Diego, che per ubicazione ed ampiezza sembra proprio idonea
ad ospitare il primitivo homo sapiens
dei dintorni racalmutesi.
Dobbiamo saltare al secondo millennio a.C. per essere certi
di consistenti nuclei abitativi che sogliono chiamarsi, sulla scia di una
pagina di Tucidide, sicani. Due
testimonianze ce l’attestano in modo indubbio: le tombe a forno scavate nella parete della medesima grotta di Fra
Diego e presenti anche lungo il crinale che da lì arriva, passando per il
Castelluccio, sino alle porte del paese; ed un ritrovamento casuale a dieci
chilometri da Canicattì, lungo la strada ferrata.
Azzardiamo una nostra ipotesi: trattasi di due flussi
migratori diversi: uno a sfondo agricolo che da Licata tocca le falde del
versante sud del Serrone e l'altro, in
cerca del sale, contiguo agli insediamenti che da S. Angelo Muxaro - la terra
di Cocalo? - si espandono verso Milena, Montedoro, Bompensiere.
Il primo insediamento è quello che persino nelle
cartoline illustrate locali viene definito ' sicano'. In mancanza di campagne
di scavi ufficiali dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e
delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero
di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti
mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a
bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i
nostri antenati pare nutrissero. (Cfr. S. Tinè: L'origine delle tombe a forno
in Sicilia, in Kokalos 1963, p. 73 ss.).
Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla
grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche
lo zolfo, all'epoca sicuramente reperibile anche in superficie. Risale alla
tarda età romana lo strambo passo di Solino che il Tinebra Martorana riferisce
- a nostro avviso fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di
certo, una tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo
metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18; 19). Ancora nel '700 il
viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente
pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai
nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei
'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia
circolavano ancora.
Il secondo insediamento viene fatto risalire al XVIII secolo
a.C. Esso venne documentato durante i
lavori della ferrovia nel 1879. ([5])
I reperti fittili salvati dal Mauceri finirono dispersi nei sotterranei di un
qualche museo siciliano. Le tombe a forno, che si trovavano, nei pressi della
stazione ferroviaria di Castrofilippo sono andate del tutto distrutte per lo
sfruttamento delle cave di pietra.
Sulla primissima presenza umana nei dintorni di Racalmuto,
non sappiamo null’altro se non quanto, con qualche ingenuità ed approssimazione
da dilettante, ebbe a riferire, in una sua corrispondenza a W. Helbig, quel
solerte dirigente delle ferrovie che fu Luigi Mauceri ([6]).
Apprendiamo da questa fonte che «le scoperte di tombe antichissime hanno un
importantissimo riscontro nell’altipiano di Pietralonga tra Canicattì e
Racalmuto, ove ebbi la fortuna di esaminare le tracce di un gruppo di tombe
scoperte casualmente. La strada ferrata in costruzione, che va da Canicattì a
Caldare, ... a circa dieci chilometri dalla prima città passa in una terrazza
che si protende a sud-ovest di un altipiano tortuoso, costituito da un gran
banco di roccia calcare non ancora denudato. In questa altura e su vari speroni
rocciosi che in vari sensi si diramano, nella scorsa estate [1879] furono
aperte parecchie cave di pietra per le costruzioni ferroviarie. Quivi i
cavatori avanzando le loro cave in vari punti, ... incontrarono molte tombe che
hanno una perfetta somiglianza con le altre precedentemente descritte.» ([7])
Si passa alla descrizione delle tombe, oggi non più rinvenibili. Esse «erano
scavate - aggiunge il Mauceri - quasi tutte nei versante di levante e
mezzogiorno dell’altipiano e dei contrafforti. La loro forma è assai varia;
abbonda per lo più il tipo della tomba a pozzo, come quella di Passarello; ma
sembra che talvolta le celle invece di due siano state tre e anche quattro. In
un punto pare fosse stata aperta una specie di trincea, su cui poi furono
scavate parecchie celle a pozzo, ma irregolari.
[...] La chiusura della bocca dei pozzi o dell’ingresso delle celle è
sempre fatta con grossi massi irregolari, e in cui non scorgesi traccia di
alcuna particolare lavoratura. Tutte le tombe, oltre a contenere più d’uno
scheletro e parecchi vasi, contenevano anche molti ossami di animali, e terra
grassa mista a cenere e carbonigia. Nessun utensile, né di pietra né di
metallo.» ([8])
Segue la descrizione di n.° 11 reperti fittili, di cui viene fatta anche una
riproduzione grafica. Trattasi di vasetti di terracotta, di frammenti di una
“coppa di un vaso grande”, di “una specie di olla”, della “coppa di un calice”,
di un “vaso di bucchero”, nonché di un “utensile di terracotta a forma di un
corno”. Non è questa le sede per
riportare diffusamente la descrizione che fornisce il Mauceri: per gli
appassionati, si fa rinvio alla pubblicazione ed alle tavole ivi allegate. La conclusione
di quella corrispondenza contiene affermazioni che l’ulteriore sviluppo
dell’archeologia ha solo in minima parte confermato. «Gli altopiani rocciosi e
naturalmente muniti di passarello, Pietrarossa, Fundarò e Pietralonga, ([9])
- conclude l’A. - nei cui contorni sonosi scoverte le tombe da me descritte, mi
sembrano indicare il sito di altrettante dimore stabili dei Sicani, tanto più
che ho osservato alle falde di ciascuno abbondanti sorgenti d’acqua. In ispecie
a Pietralonga, chiunque esamini la contrada, troverà indicatissimo il sito di
una città; ond’io ritengo che di queste notizie potrà in qualche guisa
avvantaggiarsene la topografia antica di Sicilia, potendosi ivi collocare
qualcuna delle città sicane (Ippona, Macella, Jeti, ecc.) di cui è tuttora
incerta la giacitura.»
Dopo la descrizione di quel rinvenimento casuale, nessuna
campagna di scavi è stata sinora portata avanti nel territorio racalmutese.
Quell’antichissima - ma certa - presenza umana resta dunque per ogni altro
verso oggi del tutto oscura. Si trattò di un popolo sicano, ma come visse, con
quale evoluzione, con quali strutture socio economiche, si ignora del tutto.
Possono slo avanzarsi congetture: ma esse risultano alla fine inappaganti.
Quel che le affioranti testimonianze archeologiche dimostrano
con certezza è un policentrico insediamento sicano che può farsi risalire alla
prima fase dell’Età del Bronzo (1800-1400 a.C.) Oltre alla necropoli lungo la
strada ferrata, nei pressi di Castrofilippo, di cui è cenno presso il Mauceri,
il maggior nucleo pare quello sulla fiancata della grotta di Fra Diego. Tombe
rade, ma pur presenti, emergono vicino al Castelluccio, su un avvallamento del
Serrone ed in altre contrade racalmutesi. Molto manomesse, ma non
irriconoscibili, sono le tumulazioni sicane scavate in costoni calcarei sovrastanti
la contrada di Casalvecchio o al confine tra il Saraceno e Sant’Anna.
Si sa che nel XIII-XII secolo a.C. si sviluppa nella media
Valle del Platani un’articolata iconografia tombale micenea. E’ questo il tempo
dei primi contatti con il mondo miceneo. Nella confinante Milena si rinvengono
tombe a tholos e materiali del Mic. III B-C. Secondo il De Miro è da pensare
«ad una miceneizzazione di questa parte dell’Isola tra il Salso ed il Platani,
risalente a veri e propri stanziamenti di nuclei transmarini avvenuti nel
XIII-XII secolo a.C., forse alla ricerca della via del salgemma.» ([10])
Il Monte Campanella di Milena, ove sono state rinvenute tombe a tholos con
frammenti di vasi micenei e corredo di spade e pugnali di bronzo e un bacile
cipriota del XIII secolo a.C., non è poi tanto lontano dalla necropoli di Fra
Diego; eppure qui nulla si trovato, a memoria d’uomo, che comprovi un analogo
influsso miceneo. Nè vi è notizia di tombe a tholos in qualche punto
dell’intero territorio di Racalmuto. Dunque è da pensare che la civiltà sicana
sia sparita a Racalmuto sin dal XIII secolo a.C.? Lo stato delle conoscenze
archeologiche porta a tale conclusione. Spariscono, dunque, i Sicani o
sopravvivono senza contaminazione? Ed in tal caso per quanti secoli ancora? Possiamo
solo affermare con qualche fondamento che al tempo della colonizzazione interna
dell’Agrigento greca, Racalmuto dovette essere pressoché disabitato, come
l’assenza di ogni testimonianza archeologica pare dimostrare.
VERSO
L’AVVENTO DEI GRECI.
Non riusciamo a sottrarci dalla tentazione di formulare
nostre personali congetture sull’evoluzione sociale ed abitativa dei primordi
racalmutesi.
Se qualche abitante vi fu a Racalmuto durante il Paleolitico
Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad ospitarlo: quell'antro per esposizione,
per capienza e per vicinanza a luoghi fertili ed a valli boschive adatte alla
cacciagione, si attaglia all'ospitalità troglodita. Le
testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga posteriori e ci
portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le caratteristiche «tombe del tipo a forno», ove è presente il corredo
di vasi e oggetti fittili ([11]).
Da quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro -
riuscirono a sormontare gli
sconvolgimenti epocali dell'età del Bronzo e di quella del Ferro in condizioni
di relativo benessere, piuttosto pacifici ed alquanto prolifici, come il
diffondersi delle tombe per tutto il crinale collinare sta a testimoniare.
Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicultura e pastorizia
consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo.
Ad un certo punto si ebbe, però, una crisi per ragioni che ci
sfuggono: forse per le razzie dei Siculi. Successivamente, quando, per
l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo e le genti
di Rodi e di Creta, via Gela, si
insediarono nella valle agrigentina, per
i radi indigeni di Racalmuto fu il definitivo sconquasso.
I moderni storici si
accapigliano per stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non
si attaglierebbe neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di
un'espulsione senza ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci
subirono la violenza della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando
di mogli, la scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì
né nella prima ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda
generazione. Racalmuto era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite
dai greci per trarre in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice
auspicio per un (improbabile) ritorno in patria. I rodiesi ed i cretesi di Gela fondarono, accrebbero e consolidarono
la città akragantina. Per qualche secolo ancora Racalmuto poté restare libero
territorio anellenico.
Ma giunti i tempi
della famigerata tirannide di Falaride,
nel sesto secolo a.C., per le popolazioni di Racalmuto fu l'inizio di
una devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di
terra e di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono,
forse, fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro
mani. Si attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e
Casalvecchio. I radi reperti numismatici con la
riconoscibile effigie del granchio akragantino non attestano
solo l'inclusione di quel territorio nella circolazione monetaria delle
varie tirannidi dell'antica Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi
padroni. Da quell'epoca la civiltà sicana indigena non è più testimoniata in
alcun modo. I nuovi padroni venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda
gioventù per trasferirla, schiava, nella titanica costruzione del tempio a Zeus
che si attribuisce a Falaride. La gran parte, se non resa schiava, fu
senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba. Taluni, scacciati
o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli inospitali
valloni siti a tramontana. E divennero
pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi ma irriducibili ed incoercibili,
simili a quei pastori che ancor oggi sembrano mantenere le prische connotazioni
di uomini fieri e liberi. In tutto ciò
sono da rinvenire le radici della storia sociale racalmutese. La classe
agro-pastorale nasce e si evolve lungo millenni con rimarchevole continuità e
peculiarmente autoctona. Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori,
arroganti ed estranei. Si pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha
potuto registrare solo ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX
secolo sono propizi ad un rivoluzionario avvento di amministratori con genuine
ascendenze locali e d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO
GRECO
Tra il 570 ed il 555 a. C. Racalmuto diviene pertinenza
rurale della polis di Akragas, sotto
la tirannide di Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei
ribellismi sociali e plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico
dei silicioti greci di quel periodo.
Racalmuto vi fu travolto di riflesso, per via dei greci
nobili che poterono appropriarsi delle terre del nostro altopiano. Frattanto
nelle nostre plaghe ebbero a moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva
lavorare per la vicina polis di
Akragas, senza libertà di movimento, senza diritti civili se non quelli di non
potere essere venduti o allontanati dalla terra che lavoravano, potendo
conservare la propria famiglia e la propria vita comunitaria. I reperti
numismatici che talora si sono rinvenuti a Racalmuto sono i soli indici della
loro presenza.
E' certo che sino a quando non vi saranno sul nostro
territorio scavi come quelli che gli Adamesteanu e gli Orlandini ebbero a
condurre sul circondario di Gela attorno agli anni cinquanta, a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture. Solo 'MALGRADO TUTTO' nell'ottobre del
1990 riporta il pensiero di Rosalba Panvini che reputa la scoperta archeologica
degli operai dell'ENEL in contrada Grotticelle 'molto interessante' e pensa che
«siamo in presenza di due strati archeologici che coprono un arco di tempo che
va dal III secolo avanti Cristo al II dopo Cristo».
Nell'accennata campagna di scavi del 1960, le importanti
scoperte presso Vassallaggi, in S. Cataldo, portavano a attribuire a quella
località la nota cittadina di Motyon della Biblioteca di Diodoro
Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava definitivamente il sogno accarezzato
da Serafino Messana nel secolo diciannovesimo di assegnare quel nome greco al
nostro paese. La sua teoria della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo
e perciò Casalvecchio» - e dire che Serafino Messana ignorava le teorie
linguistiche del Ciaceri che vuole Mothion una grecizzazione del preesistente
'Mutuum' - sfiorisce in un patetico dilettantismo. Tinebra Martorana già
rifiutava quella teoria con l'elegante 'non liquet' (non risulta) di Filippo Cluverio. Oggi, liquet (risulta) l'inattribuibilità di Motyon a Racalmuto e
dintorni: la località è dagli studiosi
concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di
Akragas, Motyon, nel 451 o o nel 450
a.C., l'onta dell'invasione non riguardò il territorio dell'attuale Racalmuto:
per quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti
agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da
quella della fine del secolo scorso.
Frattanto Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva
usi e costumi sicani, dimenticava la madre lingua per storpiare una aliena
lingua dorica, e si dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla
vinificazione per i padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce
di scambio per i traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini
cartaginesi. La continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva
certo, ma in via sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità
e senza lasciare alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto continua a riflettere sbiaditamente la vicenda
storica di Agrigento. Resta pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza
monumenti ragguardevoli, con una popolazione sfruttata e vessata. Periferia
agricola della Polis, dunque, al
tempo degli splendori di Terone, il tiranno agrigentino legato anche con
vincoli di parentela con il tiranno di Siracusa Gelone. Pindaro esaltava, a
pagamento, Agrigento come la più bella città dei mortali. Racalmuto doveva
fornire grano e tributi per consentire ai tiranni agrigentini di equipaggiare
le costosissime corse dei carri a quattro cavalli nei giochi olimpici della
lontana Grecia. Dopo, chi vinceva
commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori greci e profondeva
doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui
economia agricola quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile
eco, se qualche signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per
refrigerarsi in qualche sua villa sulle pendici del Serrone dalla canicola
estiva. Alcuni versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di
Terone nel 476 a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma
sensibile all'alta poesia.: «certo per i
mortali non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del
sole/ s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti
alterni/ di gioia e d'affanno vengono agli uomini» eran poi versi da
avvincere anche l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone,
specie se questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine
dell'estate racalmutese.
E a Racalmuto circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora la società
contadina racalmutese la nebulosa vicenda di Trasideo, figlio di Terone,
«violento ed assassino», per Diodoro Siculo.
La sua cacciata da Akragas, per il passaggio ad un regime democratico,
fu forse neppure avvertita. Non sapremo
però mai se Racalmuto fu coinvolto nella successiva confusione che venne a
determinarsi per lo sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle
terre.
Dopo il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella
riservatezza. Se Siracusa coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua
guerra contro Lentini, a sua volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola
Nasso, Akragas si mantiene neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano
ad entrambe le parti contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico,
di cui ebbe a goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste,
certo, ipotesi, ma attendibili.
Atene - con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la
Sicilia in un guerra lampo ritenendola una terra di imbelli popolazioni
bastarde - si avventura, nel 415 a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce,
l'esercito d' Alcibiade, una disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini
agli ordini del suo più esperto generale, Demostene, ritenta l'impresa.
Siracusa trova alleati a Sparta, a Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino
tra i siculi di Kale Akte. Quelle tragiche vicende che portano alla tremenda
disfatta degli ateniesi trovano risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas,
come al solito, sta a guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di
Cartagine e del settore fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha
modo per prosperare con i profitti di
guerra. Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue le sorti, intensificando l'agricoltura e la
pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla tirannide
di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso, Racalmuto
poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis
akragantina.
Nel 406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di
impossessarsi di Siracusa, Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia
punica. Un esercito africano numeroso e potente - anche se ben lontano
dall'astronomica cifra di 120.000 uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come
primo bersaglio l'opulenta Agrigento. Gli aspri combattimenti tra siracusani e
cartaginesi durarono sette mesi, nell'imbelle indifferenza dei greci
agrigentini. Nel dicembre del 406, per Akragas fu la fine: fuggirono i
cittadini a Leontini e la città fu abbandonata.
I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione
delle tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride.
Racalmuto dovette essere per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque,
anzi un afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie
agrigentine finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio
centro sicano sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi
avevano fattorie e ville, ebbero di certo a preferire le note località
racalmutesi all'angustia dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio il giovane, un ventiquattrenne rampante, si
impossessava frattanto di Siracusa. Trattava con i cartaginesi ed Akragas
cadeva nella mediocrità dell'epikrateia
africana. La popolazione poteva ritornare a casa, ma per una umiliante
sudditanza punica. Dal 405 al 264 a.C. la storia di Agrigento emerge solo per
qualche barlume che le vicende siracusane vi riflettono. E' comunque un ruolo subalterno alla politica
ed alle fortune di Cartagine: da una parte, commercio, relativo benessere,
vivacità economica; dall’altra, sudditanza politica e remissività verso la
civiltà africana d'oltremare. Una tassazione che gravava sulla la popolazione
cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle esigenze cartaginesi.
Crediamo che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri:
i nuovi dominatori africani erano gente di mare per penetrare nelle impervie e
infide vallate racalmutesi. Per altri versi, a Racalmuto si apriva un mercato
proficuo per quei tempi ed i suoi prodotti agricoli potevano trasformarsi in
moneta contante, idonea ad un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il
male di Akragas si ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia e la numismatica attestano qualcosa di più
delle fonti letterarie: sappiamo che artigiani greci e non greci furono
chiamati a coniare le cosiddette monete siculo-puniche. Tinebra Martorana
scrive di monete con effigie di improbabili scheletri e potrebbe trattarsi
degli oboli di Motya o delle monete con la spiga. Per noi, quei reperti
numismatici attestano proprio la presenza dello scambio cartaginese nelle terre
racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia
(provincia) cartaginese.
Sempre il Tinebra Martorana
ci testimonia del rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una
parte un cavallo alato ed al rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi
senza dubbio di pegasi siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di
Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In
quel periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a
Siracusa. I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma
anche vino, olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente
siciliano oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto
da consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al
Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA
PARENTESI CARTAGINESE
Attorno al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un
tiranno agrigentino di un qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo
Gela e a trasportarne la popolazione nell'attuale Licata: in questa località il
tiranno costruì una città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette
essere terra subalterna a Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno
finanziario delle mire egemoniche del tiranno agrigentino. Fu però vicenda
storica di breve respiro. Sparisce ben
presto Finzia e Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare
l'egemonia di Siracusa.
Nel 280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile
ed interessata, arma un imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le
porte di Siracusa. Akragas ed il suo
territorio - ivi compreso Racalmuto - si
estraniano, come sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti
all'intrusione di Pirro, quel re dei molossi, passato alla storia per le sue
risibili vittorie.
Akragas e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella
zona di influenza di Cartagine e vi
restano per quasi un ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle
mire espansionistiche della repubblica
romana.
Nel 264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda
siciliana si avvia melanconicamente a divenire un'oscura appendice della
lontana e suprema Roma. La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia
che secondo Cicerone: «prima docuit
maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare». Già, la
Sicilia di fa gustare per prima ai Romani quanto fosse bello soggiogare popoli
stranieri. E, ancora - dopo un secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più
Racalmuto) saranno per i romani nient'altro che «extera gens» [gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo
perché «ornamentum imperi».
Roma conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi,
le scomposte furie dei romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri
cittadini agrigentini. Né beni, né donne e neppure gli stessi uomini furono
risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti
furono venduti come schiavi.
Sette anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della
città, dopo avere distrutto la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne
le spese è ancora una volta la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni
cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo che la terra di Racalmuto dovette risultare
alquanto decentrata per subire direttamente le atrocità di quella guerra
punica. Ma i riflessi dovettero esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i
parenti che si erano stanziati nella vicina polis;
distruzione di beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni:
verso lo spirare del secolo, Akragas e
la vicina Eraclea Minoa appaiono
saldamente in mano dei cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio
movimento di uomini armati - si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000
cavalieri - su 200 navi parte da Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di
approdo è Akragas: sulle colture raculmutesi si abbatte il gravame di apporti
alimentari a quegli eserciti tutto sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa
cadere nelle mani dei romani ed il grande Archimede finisce ucciso per mano
militare. Per i cartaginesi, nel grande scontro con i romani, le sorti belliche
volgono al peggio: i fenici ripiegano su Agrigento, ultimo baluardo delle loro
difese. Mercenari numidi consumano l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora
una volta in mano dei romani; ancora una volta popolazione e beni diventano
bottino di guerra per una vendita sui mercati del mondo. Levino a Roma fa il suo trionfale rapporto. Per Racalmuto inizia
l'epoca di agro ferace per le distribuzioni di grano nella lontanissima Roma.
IL PERIODO
ROMANO
Finite le guerre puniche, il console Levino avvia la
Sicilia al suo secolare sfruttamento
agricolo da parte di Roma.
Dall'originaria Siracusa i gravami fiscali della legge
Ieronica si estendono all'intera Isola, a tutto vantaggio delle plebi
dell'Urbe: quell'estensione avviene con
la lex Rupilia del 132.
E così sotto il cielo di Roma una società di pubblicani
appaltava la riscossione delle tasse sul pascolo (scriptura) e sui
trasporti marittimi (portorium). Ma erano il grano, l'orzo, il vino, l'olio e i
legumi di Sicilia che, assoggettati a decima, prendevano la via del mare per
Roma.
Ma per uno dei soliti paradossi della storia, Racalmuto in
quel regime coloniale romano ebbe occasione e modo di sviluppo economico e
demografico: il suo suolo ferace ed anche la sua vocazione alla viticoltura
furono di sprone all'insediamento contadino. Niente grandi opere e neppure
edifici; non si ebbe manco un toponimo che resistesse all'oblio dei tempi.
Eppure, i segni di quel consorzio umano e sociale nel territorio di Racalmuto
sono giunti sino a noi: resti fittili, anfore, monete romane ed altre
testimonianze archeologiche.
Nella contrada di S. Anna
agli inizi del secolo furono rinvenute anfore in gran numero - forse
proprio quelle che servivano agli esattori romani per trasportare il grano o
l'orzo a Roma - e mi si dice che i proprietari dei poderi dell'epoca si
affrettarono a farle sparire nelle voragini del monte Castelluccio per il
timore di espropri o molestie da parte delle Autorità.
E' tuttavia noto un reperto di grande interesse che fu
trovato da tal Gaspare Vaccaro nel 1782:
esso ci attesta della organizzazione esattoriale delle decime agrarie a
Racalmuto da parte di Roma. Trattasi di una iscrizione latina pubblicata nel
1784 da Gabriele Lancellotto Castello, principe di Torremuzza, nel suo "Siciliae et adiacentium insularum veterum
inscriptionum - nova collectio..". A pag. 237 il principe archeologo c'informa che l'anfora
fittile rinvenuta a Racalmuto era una "diota" (anfora per vino) nel
cui manico [«in manubrio diotae fictilis
erutae»] poteva leggersi la seguente epigrafe:
C* PP. ILI* F* FUSCI
RMUS. FEC.
|
Il Mommsen diede
credito al Torremuzza e pubblicò tale e quale quell'epigrafe nei suoi ponderosi
volumi (C.I.L. X, 8051, 40, pag. 870) ma
amputandola del riferimento alla diota
ed eludendo ogni commento prosopografico.
Chiaro appare, comunque, il richiamo ad un personaggio di
nome FUSCO, del tutto ignoto alla
storia di Sicilia ma ben presente alla prosopografia romana.
Marziale augura al potente Fusco che «le smisurate sue
cantine diano ottimi mosti» (VII, 28); Giovenale ironizza sui ricchi Fusco della Roma del suo
tempo; un Fusco fu console romano con Domizio Destro ed abbiamo anche un Cn.
Pedanius Fuscus Salinator e via di
seguito. Ma una famiglia Fusco siciliana non sembra plausibile.
Quello del vaso fittile di Racalmuto era dunque un romano o in
ogni caso un cittadino di Roma: un probabile esattore dunque e forse un
esattore delle decime sul vino di Racalmuto se ci fidiamo del Torremuzza quando
accenna a diote fittili e cioè ad anfore per il trasporto a Roma del vino,
prelevato in natura dal fisco romano sino a tarda età, come si evince dalle Verrine di Cicerone.
Per quasi quattro secoli la vita agricola e contadina nei
dintorni di Racalmuto, sotto il dominio romano, trascorre senza lasciare
traccia alcuna.
Gli studiosi ci avvertono che tutto il sottosuolo siciliano
divenne proprietà privata di Augusto, ma
di miniere racalmutesi non si ha non si ha notizia per quel periodo. Solo, sul
finire del secondo secolo d.C., sotto Commodo si registra una svolta economica
di grande risalto in Racalmuto: le miniere di zolfo, impiantate come alcuni
vecchi ancor oggi ricordano, vi presero piede.
Per oltre un millennio non se ne seppe nulla, finché
nell'Ottocento si rinvennero i cocci di talune forme romane, simili alle
'gàvite', recanti sul fondo i caratteri a risalto, e con scrittura alla
rovescia, indicativi dello stabilimento minerario.
Il
primo ad averne contezza è stato l’avv. Giuseppe Picone, figlio di racalmutesi
trasferitisi ad Agrigento. All’Archivio di Stato di Roma si conserva questa
preziosa corrispondenza .
« All’Isp.
degli scavi e dei monumenti Cav. Picone.
Girgenti - Roma, addì 3 novembre 1877.
Oggetto: Mattoni antichi con
bolli relativi alle miniere sulfuree.
Il dr. Mommsen reduce dal suo
viaggio in Sicilia mi parla della scoperta importante da lui fatta di bolli
fittili con ricordi di prepositi alle miniere sulfuree nei primi secoli
dell'e.c. - Sarò grato alla S.V. se si compiaccia dare su tale oggetto i
maggiori ragguagli. F.to Donati
^^^^^^
"Lettera del Picone, Ispettore degli scavi - 28 dicembre 1877 -
Repertorio al protocollo 1878 n.° 16"
Furono or sono pochi anni
scoverti nel bacino di Racalmuto, e a considerevole profondità taluni mattoni
antichi, con bolli, che io raccolsi, e formano parte di questo museo comunale.
In essi si vedono delle iscrizioni latine, che, per difetto d'arte, venivano
rilevate al rovescio di che siano leggibili da sopra a sinistra, come le
scritture orientali.
In uno di essi mutilato si legge
(totalmente a rovescio, n.d.r.) :
MANCIPYM/
SULFORIS
SICIL
Messa questa in rapporto alle
altre iscrizioni pare che vi manchi nella prima linea
EX. OF. (ex officina)
come si rileva in talune, ove si
legge Ex officina Gellii ec. ec.
Dallo stile uniforme e dalla
paleografia risulta sippure, che l'epoca sia quella di Antonino Domiziano e di
altri, come dai frammenti di altri bolli, ove si legge il nome di quegli
imperatori, sì che possa concludersi, senza tenore di errare, che in quella
stagione, la industria zolfifera era fiorentissima nella provincia Girgentina.
L'esimio Dr Mommsen, che onorò di
sua presenza questo Museo, potrebbe dare alla E.V. maggiori schiarimenti e più
dotte illustrazioni che io non saprei. ([12])»
Successivamente vi un’eco nel nostro Tinebra Martorana che
racconta di reperti della specie regalati dalla Famiglia La Mantia all'Avv. Giuseppe Picone di Agrigento e
finiti, quindi, al Museo Archeologico di Agrigento.
KAIBEL e MOMMSEN ne fecero oggetto di studio nei rispettivi
CORPORA, senza però precisarne l'origine. All'inizio di questo secolo, il
SALINAS aveva modo di rinvenire proprio a Racalmuto alcuni reperti di quelle
che Mommsen impropriamente, ma con fortuna, ebbe a chiamare «tegulae sulfuris». Al Salinas, invero,
furono vendute per il Museo di Palermo quattro lastre con iscrizioni da un
contadino nostro compaesano che le aveva rinvenute nella costruzione di un
sepolcro, presumibilmente nei dintorni
di Santa Maria.
Quell'insigne
archeologo procedeva ad un'analisi storica di grande acume che pubblicava
sul bollettino dell'Accademia dei Lincei
([13])
Altri reperti di tali «tegulae»
sono stati rinvenuti in gran numero nel 1947 in località Bonomorone di
Agrigento. Ma qui non attestavano la presenza di miniere di zolfo perché, come
ebbe a scrivere il Prof. Pietro Griffo ([14]),
si trattava di un deposito di cocci di una figlina
(officina di vasaio): dunque il commercio avveniva ad Agrigento, ma la
produzione era altrove ed in
particolare, per quel che ci riguarda, a Racalmuto.
Biagio Pace, con taglio più letterario che scientifico, così
sintetizza quell'attività mineraria dei tempi romani: «Si tratta di tegole
quadrate di terracotta, di circa 40 cm. di lato, che recano in rilievo,
rovesciate, delle epigrafi... Tegole evidentemente poste, come illustrò il
Salinas, nei cassoni destinati a contenere lo zolfo liquido e che dobbiamo
immaginare del tutto identici a quelli che si adoperano tuttavia sotto il nome
di gàvite, nel fondo dei quali sono
parimenti incise le lettere della miniera, che in tal modo vengono riprodotte
in quelle caratteristiche forme falcate
di zolfo, le balate, che ognuno che
abbia transitato per le stazioni zolfifere di Sicilia ha notato.» ([15]).
Pare, comunque, che l'attività mineraria solfifera a
Racalmuto si sia presto estinta nell'antichità. Dopo quelle testimonianze
dell'anno 180 d.C. si fa un salto di oltre quindici secoli per avere notizie
certe su una presenza mineraria racalmutese: risale all'inizio del Settecento
una nota negli archivi parrocchiali della Matrice che ha attinenza con le
miniere. Sotto la data del 22.10.1706 il cappellano dell'epoca registra un infortunio sul lavoro:
Giacomo Giangreco Cifirri, di 34 anni, sposato con la sig.a Nicola, periva
sotto una valanga di salgemma, mentre scavava dentro una miniera di sale. Il
giovane minatore veniva sepolto nella Matrice. «In fovea salinae, ob ruinam
salis repentinam, defunctus est», è
la malinconica annotazione in latino. Il Giangreco Cifirri moriva dunque nella
caverna di una salina, per il repentino crollo di massi di sale.
[3]) Luigi Romano: Idrogeologia della propagini sud-ovest dell’altipiano di Racalmuto
-GEOLOGIA - Università di
Palermo - Facoltà di Scienze - Anno Accademico 1978-79 , pag. 6
[5]) Luigi Mauceri: Notizie su alcune tombe ..
scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880.
[6]) Presso l’Archivio
Centrale dello Stato abbiamo rinvenuto la corrispondenza fra il Mauceri ed il
Comm. G. Fiorelli di Roma “sulle antichissime tombe fra Licata e Racalmuto nella provincia di Girgenti”. Il
Mauceri risulta essere ingegnere e
direttore dell’Ufficio Centrale
di Direzione in Caltanissetta delle Strade Ferrate Calabro-Sicule. (cfr. A.C.S.
di Roma - Fondo: ANTICHITA' E BELLE ARTI
(AA. BB. AA.) 1° VERSAMENTO - BUSTA N.° 21 -
Fascicolo 40.5.2 ).
[7]) Luigi Mauceri: Notizie su
alcune tombe .. scoperte fra Licata e
Racalmuto, in Ann. Inst. Corr.
Arch., 1880, pag. 17.
[9]) Pietralonga, a dire il
vero, non fa parte del territorio di Racalmuto ma del finitimo Castrofilippo.
Fascicolo 40.3.4 - (annotazioni interne: 1877 - 64-1-1
- Girgenti - Mattoni antichi con bolli, miniere solfuree).
[13]) NOTIZIE DEGLI SCAVI -
Anno 1900, pagg. 659-60.
[14]) KOKALOS 1963, pp.
163-184.
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