giovedì 22 febbraio 2018

Il Falconcini, dopo, in piena irritazione per l’umiliante defenestramento, sui misfatti di Racalmuto torna ed ora con accenti più caustici e più offensivi. Scrive (cfr. il capitolo di pag. 55 intitolato: “Vandalici fatti consumati in Racalmuto”): «Da Canicattì  si appiccò l’incendio ad un tempo a sette paesi della provincia; nei quali  sotto colore di provare scontento contro il governo vincitore ad Aspromonte, si dette sfogo a quelle covate ire di famiglie alle quali sogliono le passioni politiche servire di comodo manto in Sicilia: a Racalmuto fu il disordine molto più grave che altrove. Due casate da lungo tempo in Racalmuto rivaleggiavano per il dominio nella propria terra e per il possesso delle cariche municipali, le quali in provincia, eccettuato le primarie città, si ritengono mirabile mezzo per quello a proprio piacere esercitare nel comune. I Matrona ed i Farrauto rinnovellando in fondo alla Sicilia le lotte cittadine che nel medio evo mandarono fino a noi la memoria dei Donati e dei Bondelmonti, fanno odiernamente rivivere nello sventurato loro paese la inciviltà dei secoli di mezzo, senza trarne neppure il vanto di storica celebrità. Le campagne di quel comune erano piene di renitenti alla leva, frutto questi della retrograda amministrazione tenuta dagli adepti dei Farrauto: la quale gestione delle cose municipali non era valso a togliere ad essi lo scioglimento del consiglio comunale, di recente avvenuto per decreto del re a savia proposta del mio predecessore; l’autorità municipale essendosi ricostituita quale si trovava prima di essere stata disfatta da quel regio decreto, perché il fatto stava nella [pag. 57] formazione delle liste elettorali e queste non possono per legge da un regio commissario venire rivedute. Già da qualche giorno si mormorava che il partito dei Farrauto, il qual sembra che vesta in calzon corto ed in coda per differire da quel dei Matrona che ama indossare la camicia rossa, pensasse a profittare dell’abbattimento che dal fatto d’Aspromonte veniva alla parte sua rivale, per correre alle case dei Matrona ed appiccare con questi una volta di più accanita zuffa, e si diceva che a tal rei fine tenesse quel partito continui e segreti accordi con la banda dei renitenti: si mandavano consigli e minacce dalla prefettura per ritardare, se possibile, tali avvenimenti tanto che la truppa giungesse da Palermo; non avendo senza questa modo di far altra cosa, fuor di consigliare e minacciare. Ma vedendosi a Racalmuto che il disordine di Canicattì non si puniva e deducendosene, secondo la logica dei Siciliani, che il governo non avesse forza per punire, si ridussero ad atto i meditati piani e il di 6 settembre 1862 si facevano entrare in paese i renitenti, si bruciavano gli archivi comunali, mandamentali, [pag. 58]  e si saccheggiava la caserma dei carabinieri, si devastava il casino di conversazione, si svaligiava il corriere e si ardevano le corrispondenze, si poneva l’assedio alle case dei Matrona che validamente si difendevano. Le notizie di queste vandaliche azioni giungevano a me da più parti ...la mattina del 7 settembre fra le undici e le dodici. [...]

«[pag. 60] Mezz’ora dopo mezzogiorno del di 7 settembre l’ordine era dato da me alla poca truppa di marciare tutta con veloce passo verso Racalmuto ... [pag. 64] La truppa partì all’imbrunire, e sul fare del giorno era a Racalmuto. [ ...] Quasi insieme alla truppa partirono per Racalmuto il procuratore del re ed il giudice istruttore, ed io affidai pienamente ad essi l’investigazione dei fatti avvenuti e le misure da prendersi [...], limitandomi a sospendere la guardia nazionale racalmutese che evidentemente aveva mancato al proprio mandato. Ma avendo poi saputo per un espresso, speditomi dall’autorità locale, che per ordine del comandante la colonna militare, i Matrona erano stati posti in carcere, e parendomi che non potessero essere rei poiché erano stati assaliti fino nelle loro case dai ricoltosi, spedii un delegato di Sicurezza da Girgenti ad informarsi della verità di quel rapporto ed a sollecitare in mio nome presso il giudice istruttore l’esame dei Matrona: io non poteva né doveva far di più, e questo bastò allo scopo; perché esaminati subito [pag. 65] i Matrona, furono dal giudice stimati degni di libertà e scarcerati. Essi, infatti, a mia insaputa, lealmente dichiararono tutto questo in un giornale, quando altri fogli si dilettavano di svisare ciò che io disposi in questa circostanza; ma così non fu impedito ad altri onesti diarii ed all’onestissimo Diritto di asserire, quando piacque al partito al quale tali periodici appartengono da Falaride, che io avevo lasciato premeditatamente avvenire i disordini vandalici di Racalmuto, per dare a me stesso il sollazzo d’esercitare severità contro i liberali, precisamente ordinando l’arresto inopportuno dei Matrona.

«[...] [pag. 64] L’ordine fu immediatamente ristabilito a Racalmuto, in grazia della presenza della truppa, la quale arrivata in quei giorni andò a ripristinarlo ovunque era stato manomess; gli arresti fatti nel primo momento dai comandi militari e dai delegati locali furono corretti dall’autorità giudiciaria, e regolare processo fu iniziato onde scoprire e punire i rei di tali odiosi misfatti.»

Il Falconcini aveva premesso tutto un racconto sui prodromi degli eventi racalmutesi. La scintilla scoccò a Canicattì: grande fu lo sgomento per i fatti d’Aspromonte e nel vicino centro canicattinese il “ceto civile il 30 agosto si vestì pubblicamente a lutto con l’animo di fare una dimostrazione puramente garibaldina.” [1] Il sindaco di Canicattì Giuseppe Caramazza, si premurava di telegrafare al prefetto queste note datate primo settembre 1862: «ieri sera una dimostrazione pacifica popolo tutto, alle grida via Garibaldi, viva Vittorio Emanuele, abbasso Rattazzi, abbasso il ministero. Appresso fornirò dettagli.»

Ma gli eventi presero subito una brutta piega:  “un atroce ferimento di carabinieri fu avvenuto ad una delle barriere della città”; “in conseguenza di un rapporto del regio procuratore - annota nel suo libro, a pag. 54, il Falconcini - io riattivai la guardia nazionale e lasciai riaprire il casino”: il prefetto aveva fatto chiudere il casino di società di Canicattì perché lì  si era organizzata la rivolta; ne scrisse la Gazzetta di Torino del 28 ottobre 1862.

Da Canicattì l’insurrezione si propagò subito a Racalmuto, a quel tempo già ben collegato dalla strada statale che poi raggiungeva Grotte e quindi Aragona; dal bivio di Aragona si poteva andare comodamente ad Agrigento oppure - dall’altro versante - a Comitini, Casteltermini, S. Giovanni, Castronovo fino a Palermo. La tesi del Ganci a dir poco non si attaglia a Racalmuto: secondo questo storico [2]

“per le cattive di viabilità e la mancanza di strade, scarsi erano i rapporti culturali e commerciali tra i vari comuni.” Ma allo studioso bisogna credere quando analizza la crisi del ’62: «una crisi anche morale - chiosa a pag. 120 - determinata da diffidenza reciproca, dei “continentali”  verso la Sicilia e della popolazione siciliana verso la politica fino allora seguita dal governo luogotenenziale, emanazione di quello di Torino, non senza uno strascico di recriminazioni che non potevano non acuire maggiormente il contrasto tra il Nord e il Sud. Questo provano anche le misure di sicurezza adottate (nomina di un commissario straordinario con poteri civili e militari, stato d’assedio, disarmo generale, fucilazioni eseguite ad Alcamo, a Racalmuto, a Siculiana, a Grotte, a Casteltermini, a Bagheria  ...) misure che non mirarono soltanto a colpire i “ribelli” che si ostinavano a non volere deporre le armi, ma anche e soprattutto ad arrestare, come si era fatto dopo il plebiscito, il movimento rivoluzionario popolare, che per la presenza di Garibaldi, s’era rinnovato con lo stesso ardore che nel ’60. “In presenza di Garibaldi - scriveva a L’Indipendente di Napoli il corrispondente di Sicilia subito dopo i fatti di Aspromonte - egli è che i malumori che covavano da tempo si sono scatenati alla prima occasione; ma lo stendardo di tutti è uno, la guerra civile, la guerra del povero contro il ricco”. Ciò non sfuggiva ai moderati e a tutta la classe dell’alta borghesia terriera, la quale si schierò ancora una volta, come nel ’60, da parte del governo di Torino e tollerò anche di buon grado, pur di vedere rimesso in “ordine” il paese, lo stato eccezionale in cui venne posta la Sicilia, essendole stato applicato anche il blocco di cui fu data comunicazione a tutti i governi delle Potenze estere. Allorché anzi si cominciò a parlare di togliere lo stato d’assedio, da parte dei benestanti si levarono reclami perché fosse ancora conservato, come rimedio fondamentale per “purgare” l’isola di tutti i “tristi” che la infestavano.»

A noi quelle fucilazioni di racalmutesi danno raccapriccio; ed è fuor di dubbio che ci fosse lo zampino di Falconcini. Non riusciamo quindi a capacitarci come Sciascia, preso dalla “amara esperienza” di quel prefetto, lo accrediti di una patita “ingiustizia”. Il prefetto fu, come si disse, un continentale, un burocrate come tanti altri funzionari mandati in Sicilia ad occuparvi gli uffici di maggiore responsabilità; uno come gli altri: «duri e pieni di boria - secondo il profilo tracciato dal Ganci, op. cit. pag. 118 - coscienti di rappresentare una civiltà più progredita», burocrati che «arrivando in Sicilia non sapevano neppure rinunziare a tutte quelle formalità e cerimonie che si solevano praticare, specie dall’alta burocrazia piemontese, nei riguardi di un’alta autorità, nel momento di entrare in carica.» Per noi, vada un’infamia perenne a siffatto Falconcini. Evviva S. Spaventa che l’11 gennaio 1863 gli  inviava una lettera che gli giunse la sera del 16 gennaio ove a “nome del ministro dell’interno gli annunziava avere il re fino dal dì 11 dello stesso mese firmato il decreto che lo dispensava dall’ufficio di prefetto di Girgenti”.

L’argomento Falconcini tenne banco nelle dispute serotine del circolo di compagnia. Ma bisognava stare attenti: non si potevano urtare le suscettibilità delle due contrapposte fazioni, quella dei Matrona e quella dei Farrauto, entrambe massicciamente presente tra le file dei soci. In un punto si era unanimemente concordi: gratitudine al polso di ferro del prefetto, capace di sgominare con arresti e qualche scarica di fucili la masnada sanculotta che aveva osato profanare il rispettabilissimo circolo dei galantuomini racalmutesi.

Il Falconcini è proprio un fanatico del Nord, venuto a Racalmuto ‘a miracol mostrare’ della prepotenza piemontese: attorno all’autunno del 1862 sua altezza prefettizia non  può tollerare che nel piccolo paese dell’Est agrigentino due famiglie continuino a fare sceneggiate da Capuleti e Montecchi. Contatta il sindaco di Agrigento, Giuseppe Mirabile; lo sa amico dei Matrona e dei Farrauto; gli fa sapere che se costoro non mettono la testa a posto, lui all’isola li manda; ne i poteri; ne ha la voglia - forse più verso i Farrauto che verso gli ora prediletti Matrona. Il Nostro grafomane lo dovette essere: prende carta e penna e così indirizza una missiva al  disorientato sinfaco agrigentino: « Al signor avvocato Mirabile sindaco della città di Girgenti ... Il paese di Racalmuto ...   è diviso in due partiti ... l’uno capitanato dai signori Matrona, ed assume l’apparenza di liberali; l’altro è qui dato [da chi? Dall’avv. Picone?, n.d.r] dai signori Ferrauto e Mantione e fa sembianza di rimpiangere il dominio dei borbonici. [...] Io son risoluto far cessare il più presto e per sempre le gare delle famiglie Matrona e Ferrauto. [...] Ella signor sindaco tiene rapporti di amicizia con i membri delle due famiglie Matrona e Ferrauto. [Dato che è bene] non mantengano esagerate passioni politiche, [è bene si sappia che] potranno facilmente essere forzati a vivere lontani dal paese.

«In pari tempo provo il bisogno di notiziare V.S. Ill.ma che l’arresto avvenuto del sacerdote Mantione, e ciò che ad esso terrà dietro, fu cagionato solo da speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità, e non derivò per nulla dalla sua inimicizia personale coi Matrona [...] Girgenti 3 ottobre 1862. Il prefetto Falconcini.»

La nota ci svela il connubio tra i Farrauto ed i Mantione: i Mantione erano pur sempre gli eredi di quel bizzarro - ed impropriamente osannato - canonico Mantione. Ancora nell’Ottocento erano potenti e (se crediamo al Falconcini) prepotenti. Certo non era cosa da poco carcerare un sacerdote solo per la prevenzione di un prefetto nordista, all’improvviso convertitosi alla causa dei Matrona. Excusatio non petita, ci pare quella giustificazione della carcerazione del sac. Mantione solo “per speciali motivi d’ordine pubblico e di superiore gravità”; noi siamo certi che alla base c’era solo la vendetta dei Matrona, il loro odio verso chi ritenevano reo di insolente “inimicizia personale”. Alla faccia delperseguitato Falconcini, qui fanatico estimatore dei Matrona così come il suo postumo - oltre un secolo dopo - Sciascia.

Il sac. Mantione, così anonimamente infangato dal nordico prefetto, resta d’incerta individuazione - salvi gli apporti di ulteriori ricerche d’archivio - essendo due i sacerdori con quel cognome operanti in quel tempo a Racalmuto: Annibale e Giuseppe. Nei nostri archivi informatici ritroviamo:

DIACONI E CHIERICI
1
1851
ANNIBALE
MANTIONE
13
1851
GIUSEPPE
MANTIONE
A.26 PALERMO CAPP. OSPEDALE
ANNO 1873
17
1873
GIUSEPPE
MANTIONE
A.49
19
1873
ANNIBALE
MANTIONE
A.45
ANNO 1878
3
1878
GIUSEPPE
MANTIONE


 Nel “liber in quo adnotantur ... nomina sacerdotum “ della Matrice sono così contrassegnati:

n.° 420: D. Annibale Mantione, Mansionario, obiit 27 Maji 1882;

n.° 429: D. Giuseppe Mantione, obiit 4 Aug. 1888.

Si è certi che entrambi i preti Mantione si godevano ora i frutti della parsimonia del loro zio canonico. Contro costui noi non siamo nuovi nello scriverne contro corrente. Citiamo questo passo.

Il can Mantione, però, una imperdonabile colpa ce l’ha: per mera grettezza economica ha lasciato che una gloriosissima testimonianza religiosa di Racalmuto andasse irrimediabilmente perduta. Santa Rosalia di Racalmuto non sarà stata la «prima chiesa in honor di lei nel mezo della terra, che hoggi è servita dai Confrati del Santissimo Sacramento (cfr. Cascini  op. cit. pag. 15)», ma aveva un rilievo ed una sacralità  superiori allo stesso interesse locale e se veramente il Mantione era uomo di cultura non doveva permettere quello scempio. Era  da quattro anni arciprete di Racalmuto, con prebende, quindi, cospicue. I mezzi occorrenti per sistemare un tetto o rafforzare un muro erano accessibilissimi. Ai miei occhi, il comportamento di quell’Arciprete appare incomprensibile. Un  pozzo di scienza, viene ritenuto. Ma la dimostrata insensibilità culturale (se non religiosa) verso la chiesetta di S. Rosalia o Rosaliella gli riverbera una  poco esaltante ombra.

A voler sintetizzare, abbiamo dunque un’antichissima chiesetta che risale, a seconda delle varie versioni delle fonti,  al 1200 (Vetrano, Acquisto) o al 1208 (Salerno) o al 1320-30 (Cascini, Asparacio, Morreale) o al 1400 (Pirri). Forse realisticamente quella chiesa non esisteva prima del 1540 (epoca delle visite pastorali agrigentine).

Nel 1628, ad opera della Confraternita delle Anime del Purgatorio viene riadatta, o edificata (o riedificata) la novella chiesa di S. Rosalia che resiste sino al  3 giugno 1793 quando viene ceduta al sac. Salvadore Grillo essendo stata barattata dal can. Mantione per un altare con statua alla Matrice.

Ma già nel 1758 quella chiesetta era in cattivo stato. Il vero culto della Santa si era trasferito alla Matrice come attesta l’arc. Algozzini  nella visita pastorale del 1732. Vi si riferisce il § IX ove è inclusa nell’elenco “delle processioni” quella di “S. ROSALIA”.

*   *   *

Ma ritorniamo a quell’insolito quadrilatero: il prefetto Falconcini, il sindaco di Girgenti Mirabile, i Matrona ed i Farrauto. Data: ottobre 1862.

Il sindaco Mirabile entra in fibrillazione: convoca i nostri Matrona e Farrauto: non si poteva scherzare; quello - il pefetto - aveva davvero brutte intenzioni. Prosternazioni, costernazioni, intenti ultrapacifici, promesse, retorica. Il 5 ottobre il sindaco scrive al «signor Prefetto, ... la pacificazione dei signori Matrona e Ferrauto è riuscita nel modo il più soddisfacente ..... concorse moltissimo l’ottimo giudice di Racalmuto sig. Vaccaro .... » Firmato: il sindaco Giuseppe Mirabile.

E non basta, viene redatto addirittura un “processo verbale della pace fatta fra i Matrona e Ferrauto”. Confidiamolo: i galantuomini di Racalmuto hanno fama - almeno tra il popolino al quale apparteniamo - di essere “falsi e burgiardi”, sommamente ipocriti. A leggere quel verbale se ne ha una prova lampante. «L’anno 1862 il giorno 5 ottobre nel Municipio di Girgenti. Innanzi noi Giuseppe Mirabile sindaco della città di Girgenti,

«Vista la riverita officiale del sig. prefetto di questa provincia del tre andante ... dietro invito ... si sono a me presentati i sigg. D. D. Giuseppe e D. Gasperino Matrona, non che il sig.  D. Alfonso Ferrauto, e D. Baldassare Grillo.

«I suddetti .... scancellarono ogni malinteso, suscitato da tristi e malvolenti ... e profondamente inteneriti scambievolmente abbracciandosi protestarono di non aver mai nutrito odio o rancore ... Vennero a santificarle con solenne giuramento pronunziato sul proprio onore.

« Firmato: Giuseppe Matrona; Alfonso Farrauto; Gaspare Matrona; Baldassare Grillo - Giuseppe Mirabile, sindaco.»

Giuseppe Matrona era figlio di Pietro Matrona ed era nato il 15 settembre 1828; gli era fratello Gaspare, nato l’11 settembre 1835; Alfonso Farrauto fu Francesci era nato il 9 agosto 1829.

Il Falconcini ci regala anche alcune note di cronaca che vogliamo qui risportare. «Mandamento di Grotte - v. pag. 94 - Fu sequestrato il giovane Isidoro Selvaggio da Grotte e condotto in una grotta nel territorio di Racalmuto e vi rimase per oltre una settimana in mani di 4 malviventi [per la datazione: prima del 20 agosto 1862, n.d.r.] »

«Tutto il territorio fu seriamente minacciato nel 6 settembre dopo i fatti seguiti in Racalmuto, e quegli abitanti stettero due giorni e due notti in sull’avviso temendo da un momento all’altro un assalto dalla banda che si era costituita in numero di circa 200 e a suon di corno sfidava la truppa convenuta in Racalmuto.

« Mandamento di Racalmuto - v. pag. 104 - Appena partito da questo luogo un distaccamento di truppa verso metà di agosto sorsero voci di ribellione ed attacco contro i carabinieri di quella stazione. Nel 18 agosto prestandosi dalla guardia nazionale ricostituita il giuramento fu fatta una dimostrazione colle grida abbasso V.E., abbasso la leva. Dopo rimase gravemente ferito il sacerdote Felice Carmeci, che aveva fatto un discorso alla guardia nazionale riunita in senso liberale. Nel territorio avvenivano ai primi di settembre molti delitti di sangue e di rapina.»

Vi furono oltre 50 arresti. Quel sacerdote ferito non era racalmutese; era di Cammarata e così viene segnato nel “Liber”: n.° 432 D. Felice Carmeci da Cammarata: obiit 21 Martii 1873. Nel libro del Falconci fa capolino anche il noto sacerdote garibaldino don Calogero Chiarenza. Incontriamo a pag. 76 la “nota dei volontari di Garibaldi, dai quali fu domandata notizia al prefetto di reggio con telegramma appena ricevuta la nuova del fatto d’Aspromonte”; al n.° 3 è segnato «Sacerdote Calogero Chiarenza». Mons. Domenico De Gregorio, il pacato storico contemporaneo, dedica al sacerdote racalmutese queste note: «benché svolgesse la sua attività in Palermo, il sacerdote Calogero Chiarenza da Racalmuto, dove era nato nel 1823, fu in “relazione con tutti i liberali specialmente dell’aristocrazia  ed era un intermediario preziosissimo tra la capitale della Sicilia e i cospiratori agrigentini Domenico Bartoli, Pietro Gullo, Vincenzo e Rocco Ricci-Gramitto, anime buone ed entusiaste - Rocco in particolar modo che arrischiando la vita, recavasi spesso in Palermo per conferire coi capi del movimento, principalmente con Salvatore Cappello ... Il Chiarenza, cappellano dell’ospedale civico, grazie alla sua veste poteva molti segreti conoscere, cospirare, scrivere, senza attirarsi, come altri i sospetti del governo” [Pipitone-Federico G. - Francesco Crispi e la spedizione dei Mille, Palermo 1910, pag. 67]» [3]


*   *   *

Il Falconcini fu irrequieto fino alla fine dei suoi giorni di permanenza a capo della prefettura agrigentina. Aveva un conto in sospeso con Racalmuto; pensò di saldarlo nel gennaio del 1863. Limitiamoci al suo racconto. «I tre arresti veramente politici - ammette a pag. 90 - furono fatti nell’ultima settimana della mia autorità di prefetto; furono tre cospicui cittadini di Racalmuto, accusati di volere per amore de’ Borboni disturbare la tranquillità di tutta la provincia, facendo rinnovare in quel paese i vandalici fatti del di 6 settembre.   Io pensai lungamente prima di procedere a tale severa misura, ma ripetendosi e moltiplicandosi gli avvisi di prossimi moti borbonici in Racalmuto, e la voce pubblica chiedendo come indispensabile una misura preventiva, per salvarmi da enorme responsabilità mi dovei risolvere ad ordinare l’arresto di coloro che erano evidentemente supposti fautori di tali possibili disordini: arrestandoli però provvidi al loro convenevole custodimento, e la volontà di passarli al potere giudiciario annunziai subito al procuratore del re, il quale trovò subito la misura del loro arresto saviamente presa..»

Il Falconcini si premura anche di ragguagliare il ministro dell’interno: «Sin dal giorno 9 corrente [9 gennaio 1863] - vedasi documento riportato a pag. 128 della seconda parte del libro del Falconcini - circolavano strane voci di combinate trame in Racalmuto che dicevansi di colore borbonico. [...] [si aveva] la conoscenza di mantenersi quel paese ... sotto il dominio di un partito retrivo ed ostile ad ogni disposizione governativa. Una prova certissima poteva ritrarsi dal non essersi presentati di Racalmuto nessuno alla leva, perché quei giovani erano indotti a scegliere piuttosto l’emigrazione per Malta che presentarsi alle richieste del governo del re. Frattanto nel sabato 10 corrente accrescevasi molta consistenza a quelle voci di possibili disordini in Racalmuto. [In particolare] l’essere il giorno 12 anniversario della rivoluzione della rivoluzione in Sicilia. Riferivasi di nascoste bandiere borboniche e si designavano siccome principali autori del tutto alcuni cittadini i nomi dei quali erano già condannati dalla pubblica opinione, vorrei dire dell’intera provincia. Egli è per questo che lo scrivente credé doversi d’accordo col comando militare perché fosse tosto accresciuta d’altra compagnia la truppa colà stanziata e diede appositi ordini all’autorità locali per eseguire alcune perquisizioni tenute indispensabili ad assicurarsi del fatto e procedere a qualche arresto delle persone credute maggiormente influenti e dannose, colla sola idea di mostrare a Racalmuto che il governo non solo sorveglia e previene ma ha la forza di agire, ciò che vale assai più pei molti che stimavansi liberi di ogni vincolo e quasi padroni di operare a posta loro dopo cessato lo stato d’assedio.

 «Un singolare esempio della reale esistenza delle trame di quel partito si ha in questo, che per quanto fosse ordinato l’arresto all’impensata ed eseguito di notte, tre altri individui, dei quali appunto andavasi in traccia, fuggirono non appena ebbero il sospetto della loro ricerca, segno manifesto del non trovarsi essi scevri di cole. D’altra parte il processo ... porterà lume alla cosa.

«Frattanto può assicurarsi d’essersi disposto in modo che i tre arrestati avessero stanza il più possibilmente propria e fossero trattati con ispecial riguardo, non dovendo confondersi, con rei di delitti comuni chi può essere spinto anche a degli eccessi per fanatismo politico.

«Girgenti, 15 gennaio 1863. Il prefetto: Falconcini.»

Curiosa coda di perbenismo borghese: vadano pure in carcere i galantuomini, ma con i dovuti riguardi. Per il resto, altro che politica del sospetto! E Sciascia poteva davvero avere simpatia con un simile campione del sopruso di stato? Un sopraffattore vittima dell’ingiustizia di Silvio Spaventa [4] - ci dispiace dirlo - è una bubbola sciasciana. E i commenti al circolo? Ora blandi, ora astiosi a seconda di chi si trattava. Anche allora - come ancora nei nostri giorni - il “casino” vezzi massonici ed anticlericali ha costantemente avuto. Blandi si doveva essere verso influenti soci, anche borbonici; spietati, dissacranti, velenosissimi contro preti vecchi e nuovi, più o meno coinvolti nelle bufere politiche del momento.

In siffatti frangenti - e non nell’improbbile 1860 - dovette essere consumata quella agghiacciante fucilazione narrata da Sciascia: «Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero un uomo contro il muro di una chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di campagna fucilato contro il muro della chiesa di San Francesco; se ne ricordava il nonno di un mio amico, aveva otto anni quando i garibaldini passarono, i cavalli li avevano lasciati nella piazza del castello, il tempo di fucilare quell’uomo e via, l’ufficiale era biondo come un tedesco.» [5]

Falconcini non svela ora i nome di quei tre - tutto sommato - perseguitati politici. Sfogliando carte d’archivio successive, emergono echi di schedati eccellenti racalmutesi. Significativa la schedatura della pubblica sicurezza di Girgenti di don Vincenzo Grillo e don Giuseppe Matrona:

Grillo d. Vincenzo,

figlio del fu Girolamo, nato il .... 1823 nel Comune di Racalmuto, proprietario.-

Statura 1.60; corporatura giusta; capelli castani; fronte media; ciglia castani; occhi cilestri; naso regolare; bocca giusta; mento ovale; barba castana; faccia ovale; carnagione naturale.-

Luogo di abitazione: Racalmuto.-

Partito politico: Borbonico - clericale.-

Candanne: - ==

Cenni biografici: Capo partito borbonico-clericale. Nel 1863 in Girgenti ebbe sequestrata una corrispondenza in sensi borbonici proveniente da Malta.

Nelle evenienze è capace ed ha influenza bastante per sommuovere masse, ma non lo si crede atto a capitanarle

Matrona Giuseppe

del fu Pietro nato ... 1827 [rectius 1828] in Racalmuto, proprietario; m. 1,65, snello, nero ovale, abitante a Racalmuto.

Partito Borbonico - Non condannato.

Figura liberale e lo affetta onde farsi maggior credito, ma in fondo è stato sempre di principi borbonici, Uomo ambizioso e vendicativo: influente coi tristi e capacissimo nelle evenienze di sommuovere le masse e commettere disordini. Vuolsi che nel 1862, egli abbia spinte le turbe dei renitenti alla leva latitanti i quali, armata mano, turbavano l’ordine pubblico, bruciando l’Archivio Comunale e quello della Pretura.

[In altra scheda: Abbenché in apparenza conserva regolare condotta e mena vita ritirata, pur tuttavia dirige /Racalmuto 17 settembre 1869/ tutti gli intrighi che si ordiscono in Paese.]


Mons. De Gregorio rintraccia nell’Arcivio di Stato di Agrigento [ASA - Gabinetto Prefettura; non cita la busta che dovrebbe essere prossima al n.° 26] il sacerdote Calogero Lo Giudice di Giacomo, schedato tra i “preti borbonici”. [6] Nel “liber” il sacerdote risulta al «n.° 426: D. Calogero Giudice, mansionario fidecommisso della chiesa Monte, organista; obiit 19 Junii 1886.» Nato attorno al 1824, non sembra di nobili natali. Nel censimento del 1822, il padre del sacerdore è ancora ‘schetto’ e fa parte del nucleo paterno come dalla seguente scheda:

1894
LO GIUDICE
NICOLO'
1895
LO GIUDICE
GIUSEPPA
MOGLIE
1896
LO GIUDICE
GIACOMO
F.O
anni: 24
1897
LO GIUDICE
GIUSEPPE
F.O
17
1898
LO GIUDICE
CALOGERO
F.O
9
1899
LO GIUDICE
CARMELO
F.O
7
1900
LO GIUDICE
GIOVANNA
F.A
5



*   *   *


Quanto ai Farauto, pare che nel gennaio del 1863 qualcuno di loro sia finito in gattabuia. Richiamiamo quello che abbiamo sopra riportato:

[...] il Comandante della truppa, che venne spedito in Racalmuto, per quella circostanza, fece eseguire l'arresto dei fratelli Matrona, come ritenuti complici nei fatti del Settembre 1862.- Ma chiarita presto la loro innocenza, vennero quasi subito lasciati liberi. In proseguo poi vennero arrestati taluni della famiglia Farrauto, e qualche aderente di quella, per lo stesso titolo pel quale furono arrestati i Matrona [...].

Allo stato delle nostre ricerche non sappiamo aggiungere altro: ma i ricchi archivi agrigentini - e forse quelli appena riesumati di Racalmuto - chissà quali sorprese si riserveranno. Siamo certi che quello che va dicendo - pag. 248-256 - Eugenio Napoleone Messana su questa congiuntura storica avrà una drastica rettifica: per onestà bisogna però ammettere che qui lo storico locale scrive pagine di notevole pregio documentario.

*   *   *

Il Falconcini ci ragguaglia fra l’altro sulla consistenza delle opere pie racalmutesi:

1.   Monte frumentario di Pantalone: opere di pietà - rendita lire 264 e 82 cent.;

2.   Eredità Spinola - spese generali di culto e maritaggio - rendita L. 562,32;

3.   Fidecomm. Busuito - L. 391,57;

4.   Cong. S. Anna - L. 1329,21;

5.   Comp. Agonizzanti - L. 650,76;

6.   Congreg. Purgatorio - L. 223,46;

7.   Congreg. S. Maria di Gesù - L. 669,78;

8.   Congreg. Monte - L. 599,52;

9.   Legato del canonico Franco - L. 727,64;

10.  Legato degli Orfani del Crocifisso - L. 127,50;

11. Eredità Signorino - L. 1.396,87;

12. Legato del Rev. Carini - messe - L. 127,50. 

*   *   *

L’agricoltura andava in quegli anni a fasi alterne: l’anno 1856, l’anno 1858, l’anno 1862 erano stati catastrofici stando alle statistiche desumibili dalla contabilità del Convento dei Minori Osservanti sotto titolo di Maria di Gesù di Racalmuto

Vino prodotto dalle vigne del Convento di Santa Maria
Misure in "botti" e "langelle"
anno
produz.
1824
5,00
1825
3,05
1826
4,07
1827
3,00
1828
3,01
1829
3,02
1830
3,03
1831
5,54
1832
3,28
1833
3,40
1834
4,00
1835
3,00
1836
4,00
1837
4,18
1838
3,08
1839
3,07
1840
5,00
1841
3,24
1842
4,14
1843
2,30
1844
2,08
1845
3,56
1846
5,30
1847
4,32
1848
6,00
1849
5,00
1850
3,56
1851
5,10
1852
4,32
1853
1,32
1854
3,24
1855
0,00
1856
2,32
1857
3,00
1858
3,00
1859
1,08
1860
3,00
1861
3
1862
1,08
1863
3
1864
2,40
1865
4,24
1866
2,00




Possiamo essere sicuri che da settembre a novembre l’argomento delle rese vinarie erano d’obbligo tra i galantuomini del circolo unione: discussioni animate, irate, con contumelie sino alle rotture personale, qualcosa di simili con quello che ora avviene con i contributi dell’AIMA.

Ma era la scena politica che si andava arroventando e gli echi giungevano alle sale del circolo con sempre maggiore animosità. Del resto le cose erano davvero diventate roventi.

Approdiamo a momenti storici racalmutesi con trasporto, trepidamente, con intenti alieni da ogni vezzo sindacatorio. Mi appassiona l'uomo racalmutese - che reputo una specie a sé; la cronaca recente e passata di questo luogo in cui sono nato, con le sue bizzarrie, la sua antierocità, il suo atteggiarsi sempre ironico e dissacrante. Le impurità presenti in ogni figura di racalmutese, anche in quella dei sommi, forniscono un quadro di affascinante umanità. 'Guai a quel popolo che ha bisogno di eroi', si ama dire: Racalmuto di eroi sembra non averne mai avuto bisogno, o non li ha voluti e, in ogni caso, sempre li ha derisi. Magari con rime anonime in vernacolo, come di moda negli anni presenti. O con lettere anonime. Ne ho trovate, infatti, persino negli Archivi Segreti del Vaticano. Con fallace firma di 'LUIGI TULUMELLO  fu Ignazio,’ [7] il 18 gennaio del 1875 un racalmutese, che mi sa essere insufflato dall'arciprete dell'epoca, importunava la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, per contrapporsi alle pretese espoliatrici della Famiglia MATRONA, quella appunto osannata da SCIASCIA. Negli ARCHIVI di STATO di Agrigento e Roma si rinvengono lettere infuocate del gesuita P. NALBONE contro gli stessi MATRONA, con dati di fatto che hanno sospinto una frangia della Commissione d'inchiesta parlamentare a venire a Racalmuto per sottoporre i vari Matrona, il cav. Lupo, Giuseppe Grillo Cavallaro, nonché l'avversario dottor Diego SCIBETTI-TROISE ad imbarazzanti interrogatori, aleggiando il sospetto di collisione con mafiosi di Bagheria. Buon per i Matrona che all'epoca il manto protettivo della massoneria valesse molto. Chissà perché, Sciascia ha voluto stendervi un velo, storicamente ingannevole, definendo persino 'anonimo' il libello del Nalbone, quando questi lo aveva  apertamente sottoscritto e rivendicato. Sarebbero false, invece, le firme di Antonio Licata, Pietro Farrauto, Antonino Falletta e Fantauzzo Calogero, che certamente non erano in grado di concepire e scrivere le velenosissime accuse contro il tesoriere comunale Giuseppe Nalbone, Diego Bartolotta, il fratello del consigliere Provinciale dott. Romano, la guardia Martorelli, un certo Carmelo Alba zio dell'assessore Busuito, l'inviso doganiere Francesco Orcel, un certo Tinebra Nicolò ...'mantenuto agli studi ' dal Comune ( e credo trattarsi appunto dello storico prediletto da Sciascia), Lumia Eugenio 'figlio naturale dell'assessore Salvatore Alfano cui si danno delle continue sovvenzioni senza far nulla', Paolo Baeri .  etc. Ma il libello, che viene recapitato il 25 maggio del 1896  a Sua E. CADRONGHI Commissario Civile in Palermo, ha di mira i TULUMELLO , e ciò la dice lunga sulla provenienza . Sono oggetto di accuse pesanti i 'consiglieri TULUMELLO LUIGI ed ARCANGELO'.  In una reiterata lettera anonima del 27 agosto 1896, il Ministro Commissario Civile per la Sicilia veniva informato che «l'epoca del terrore ha piantato le sue tende in Racalmuto! La pubblica amministrazione sorretta da un capo onorario del carcere di S. Vito, è in mano di una accozzaglia di malviventi! Così data a partito la giustizia, ha preso le forme piazzaiole, affidata ai Scimé, ai Sciascia, ai Conti e compagnia bella, avanzo di galera!» E purtroppo debbo continuare citando quest'altro ributtante passo: «Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina l'elemento cattiva che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima elezione. Così Alfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco, dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et similia.» Non la fa franca la potente famiglia dei BUSUITO e francamente mi sembra dello stesso stile delle denunce di MALGRADOTUTTO  la successiva filippica: «Eccellenza.- Racalmuto presenta lo squallore di un sistema indefinibile che solo ha riscontro nei paesi africani. Un'amministrazione dilapidata da pochi furfanti che mangiano a due canasci. Da sette anni che il paese è piombato in mano di gente volgare, inetti ed insipienti; non si è fatta un'opera pubblica, necessaria, richiesta dalla civiltà del paese. E più di tutto l'acqua potabile, mentre il paese è dissetato da acqua inquinata, siccome risulta da esame fatto eseguire dal Capitano della truppa qui, per ora, stanziato.» E giù botte contro il dott. Romano ispiratore di 'una spesa barocca'   per distruggere la 'buona ... acqua detta del Raffo'. E giù botte contro gli approfittatori del lascito Martini, il «pio testatore che lasciò mezzo milione per costituire un'ospedale. Intanto quelle rendite si diedero ad un piazzaiolo per amministrarle - anima del Sindaco - e tra cotto e fritto quelle somme sfumarono con una sola casa costruita, da potere servire per caserma dei carabinieri. Vi può essere più desolante situazione?»

Riconosco di avere sempre sospettato che Sciascia, in possesso di tale documento - per essere il noto ricercatore che tutti sappiamo, difficilmente poteva sfuggirgli -,  abbia voluto censurarlo. In ogni caso mi riesce incomprensibile il passo della sua  introduzione al testo del Tinebra là dove Sciascia annota: «mio nonno, ... fedelissimo elettore [di don Gasparino Matrona], volle anche lui, da capomastro di zolfara, avere un pezzetto di terra nella stessa contrada, edificandovi una casetta: ora è un secolo. »  Nicolò Petrotto - se porrà occhio a questo mio scritto - sicuramente saprà ancora una volta rintuzzarmi, facendo piena luce sull'intoccabile mito.

Certo, povero lui!, molto ancora dovrà stizzirsi. Sono sufficientemente documentato sulle topiche di Sciascia in materia di storia locale. Fa nascere fra Diego La Matina nel 1622, quando una vaga infarinatura di datazioni indizionarie gli avrebbe fatto leggere meglio il documento della Matrice di Racalmuto ove l'inequivocabile data del 15 marzo 1621 veniva confermata dalla dizione «4 Ind.» e cioè la quarta indizione che in quel quindicennio comportava il periodo dal primo settembre 1620 al 31 agosto 1621 (indizione anticipata, in  uso negli atti ecclesiastici dell'agrigentino).  Se «il padre Girolamo Matranga, relatore dell'atto di fede di cui Diego La Matina fu vittima, ... non seppe trarre brillanti considerazioni ... sui segni astrologici che avevano presieduto alla nascita   ... del  mostro» V. pag. 182 della Morte dell'Inquisitore) era perché il dotto cronista sapeva esattamente che la Matina era nato nel 1621 e che appunto nel 1658 era «dell'età di 37 anni».

Fra Diego La Matina, poi, non potè essere battezzato «nella Chiesa dell'Annunziata di Racalmuto» (v. op. cit. p. 180): questa chiesa era divenuta subalterna a S. Giuliano per tersche episcopali in favore di don Giuseppe del Carretto dal 27 gennaio 1608 (VI IND.) al 20 giugno 1621 (IV IND.)  Sciascia non riuscì a leggere, per sua stessa ammissione, il nome del padrino di Diego la Matina, ma «iac» sta per «Iacupo» il nostro Giacomo che era il nome dello Sferrazza, il racalmutese che  tenne a battesimo il futuro frate agostiniano. 

Noi gli imputiamo anche l'avere ignorato che la madre di Diego la Matina era una  RANDAZZO, racalmutese puro sangue nata il 24 gennaio 1600 e sposatasi con  Vincenzo la Matina il 7 ottobre 1618., che invece per parte del nonno proveniva da Pietraperzia. Vincenza Randazzo in La Matina , prima di Diego , ebbe GIUSEPPE che il 29 settembre 1651 andò a sposarsi a Canicattì con certa Anna SURRUSCA ed era di condizione sociale non spregevole venendoci tramandato con il titolo di 'mastro'. La madre di Diego fu religiosissima. Dopo la morte del figlio , quando era già vedova, si fece ‘terziaria francescana’. Muore a 65 anni  e il primo febbraio del 1666 viene sepolta in S. Maria di Giesu, dopo avere ricevuto quale 'soror tirtiaria S. Frincisci' i conforti religiosi da P. Bonaventura da  'Cannigatti'.

Nell'anno 1620 - precedente a quello di nascita di Fra Diego - era invece nato Don  Federico La Matina figlio di  Francesco di Giacomo e di Caterina La Matina, un ceppo autenticamente racalmutese, contraddistinto con il nomignolo di “Calello” e divenuto offi un nucleo di ottimati che frequentano assiduamente le sale del circolo, anche se talora con intolleranza filosciasciana. Don Federico La Matina  fu un 'confessore 'adprobatus' molto attivo e molto stimato in Racalmuto e la sua figura - alquanto bistrattata da Sciascia a pag. 197 op. cit. - va  riabilitata.

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