Pecore e capre non vennero
conteggiate; e crediamo anche gli asini.
Asini e muli
s’intensificarono nell’Ottocento con l’esplosione delle miniere di zolfo. Fu il
tempo dei “vurdunara”. Scrive Francesco Renda, nel libro di storia che abbiamo
citato (p. 118): «Il solo trasporto dello zolfo […] fino alla vigilia
dell’unità richiese l’impiego di 3.000 uomini e di 10.000 muli, una vera e
propria armata in permanente stato di mobilitazione.» Fino all’entrata degli
americani, nel 1943, la teoria di asini con il loro carico di “balate” di zolfo
era consueto per le trazzere che da Quattro Finaiti, Cozzo Tondo e dintorni si
portavano alla stazione ferroviaria. Noi ne abbiamo ancora vivo il ricordo. E
l’afrore delle urine che stagnavano nelle solite pozzanghere è rimasto
memorabile: già, l’asino doveva soffermarsi sempre al solito posto per le sue
evacuazioni uretrali. Piuttosto recente l’uso del carretto, appena le
carrozzabili lo permisero. E dopo, utilizzando i dissestati Moss
degli americani, la meccanizzazione, il trasporto su camion.
La caccia, più che per
nutrimento, è stata uno sport, una passione. Il barone Luigi Tulumello, a fine
Ottocento, si fece costruire nel feudo lasciatogli dal prozio prete, delle
torrette, da cui sparare tranquillamente ai conigli, che si premurava a
immettere nelle sue terre a tempo debito. Una guardia campestre – tale
Martorelli – amava però fare il bracconiere nei dintorni della tenuta baronale
di Bellanova. Il nobile don Luigi Tulumello non tollerava il dispetto che si
permetteva una volgare guardia campestre: la fece chiamare, e, in sua presenza
la fece inquisire da un suo famiglio. Il Martorelli fu arrogante, anzi mise in
dubbio “l’essere omo” di quel manutengolo. Dopo pochi giorni, il Martorelli ci
rimise la pelle. In un fascicolo a stampa che trovavasi – chissà perché? –
nella sacrestia della Matrice (ma mani pietose l’hanno trafugato) si poteva
leggere il racconto del processo penale che ne seguì. Per le autorità
inquirenti, due bravacci favaresi si erano acquattati in una macelleria di tal
Borsellino, all’inizio di via Fontana. Quando, come al solito, il Martorelli,
baldanzoso sulla sua giumenta, passò verso il meriggio per andare ad abbeverare
la bestia giù alla fontana, fu da malintenzionati paesani additato dall’interno
della macelleria. I bravacci seguirono allora il Martorelli fino alla fontana e
là gli scaricarono addosso vari colpi di lupara. Per gli inquirenti, i mandante
era stato il barone; l’organizzatore il famoso campiere Bartolotta.
Si fecero, costoro, un paio di anni di carcere preventivo, ma poi vennero
totalmente assolti. Per qualche coniglio selvatico, ci si rimetteva la pelle a
Racalmuto sino al tardo Ottocento. Per gli avversari politici, il barone
Tulumello – anche se poi sindaco ed consigliere provinciale - rimase
“un reduce dalle patrie galere”, come può leggersi in missive
anonime che si conservano nell’archivio centrale di stato. E così anche per
Sciascia. Va letta in proposito questa pagina di Nero su nero: [i]
«La ragione lontana di
questa mia avversione [per i titoli nobiliari, ndr] sta che al mio
paese, dove l’ultimo barone era morto una diecina d’anni prima che io nascessi,
l’ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e
di malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n’era un ricordo più
vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un
cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era
invaghito.
«Nonostante il rapporto di
dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era suo fratello), la
guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua
casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli
alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell’agguato, del colpo alle
spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma
inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto
minuzioso: ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse
ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo
una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto,
oltre di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel
sentire popolare la canna, forse perché data all’ecce homo come
scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente
destinate a suppurare, le ferite da canna).»
Parola d’onore: nelle carte
processuali, neppure l’ombra del delitto passionale. Per movente, si adduceva
la stizza per il bracconaggio dei conigli baronali e l’ira per la tracotante
insolenza della guardia campestre. Erano, poi, tempo d’abigeato e la lettera
anonima avverso i Tulumello – quando la guardia campestre Martorelli era già
morta e sotterrata – ce ne ragguaglia con insinuazioni maligne. Certo, ora la
nuova guardia comunale Leonardo Sciascia è tutta per il barone Tulumello: in
data 25 maggio 1896 si scriveva anonimamente al Cadronghi:
«Eccellenza. - Il sindaco Tulumello reduce dalle patrie
galere, tutto può ciò che si vuole. Fattosi padrino di un bambino del
marasciallo, se ci è fatto lama spezzata; con cui a mantenere le apparenze di
un paese tranquillo e di ordine, si occultano reati col qui pro quo. Il vice
pretore Alaimo informi. Così la mafia, vestita di carattere pubblico regna e
governa. Pertanto, un Michele Scimé, braccio destro del Tulumello, poté essere
assolto, sebbene colto in flagranza di abigeato di animali. Così i fratelli
Bartolotta - della greppia - non vengono inquisiti di animali, mentre vennero
nei loro armenti scovati animali rubati. Così Leonardo Sciascia disciplina
l'elemento cattivo che, sotto le parvenze di circolo elettorale, (sic) dove un
Tulumello è presidente, soffoca ogni libera manifestazione, come nell'ultima
elezione. CosìAlfonso Conte, dopo la villeggiatura fattasi col Sindaco,
dalle carceri di Girgenti, Catania e Palermo, gode oggi di una pensione
assegnatagli dal Tulumello, sì da fare il maestro didattico della malavita. Et
similia.»
L’abigeato
fu piaga che si protrasse sino alla prima metà del XX secolo: se si lasciava la
mula oppure l’asino in aperta campagna, spesso non si ritrovava più l’animale,
come oggi per la macchina, a meno che non si pagava un riscatto. I manutengoli
erano i soliti affiliati alle cosche protette dai soliti galantuomini. Nelle
inviolabili tenute di costoro trovavano più o meno provvisoria ricettazione. Mi
raccontano della tragedia occorsa al genitore del gesuita padre Scimé (Garibardi),
cui fu sequestrata la scecca mentre zappava certe terre della
Culma. La riebbe, pagando il riscatto, per l’intermediazione di un potente
dell’epoca, un galantuomo di tutto rispetto.
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