LA VERA STORIA
DI RACALMUTO.
UNA GRANDE
MEMORIA DA RECUPERARE
Antichissima
è la storia di Racalmuto. Essa è appassionante, piena di intrighi, tutta
narrabile.
La
conformazione del suolo, quale oggi ammiriamo, risale a sette milioni di anni
fa: in pieno Pliocene. Sorsero allora dalle acque il Castelluccio, il Serrone,
la Montagna, le colline del Nord, e si definirono le valli, i valloni, i
declivi. L’altopiano di Racalmuto concluse il suo splendido maquillage che è la
gioia dei nostri occhi.
Nel
ventre racchiuse gesso ed alabastro, zolfo e salgemma, e giù nello sprofondo i
sali potassici. Lo stillicidio delle acque formò splendidi cristalli solforosi e salini che noi racalmutesi da
sempre chiamiamo “brillanti”.
Subito vi si sparse una flora
mediterranea e sopraggiunse una peculiare fauna. Anche animali preistorici,
oggi estinti, vi si adattarono, dopo essere trasmigrati dall’Africa. Archeologi
dilettanti ne hanno rinvenuto i resti e le testimonianze specie nella grotta di
Fra Diego.
In
quella grotta trovò ricettacolo il primo uomo, anch’esso venuto dal mare che
congiunge con il continente africano. Dopo, circa dieci mila anni addietro, un
popolo nuovo, i sicani, decisamente indigeno prosperò nelle contrade
racalmutesi. A Gargilata, sotto la grotta di Fra Diego, vi fu il maggiore
insediamento, come attestano le superbe tombe a forno di una necropoli oggi
negletta per incuria delle Autorità. Ma altri insediamenti, più piccoli, si
sparsero dappertutto: al Castelluccio, a Vircico, a S. Bartolomeo, a Garamuli, e
persino giù nel vallone del Pantano. Fu una civiltà di cui sappiamo ben poco:
argille, ceramica, tombe a forno e tholoi ci attestano però che fu civiltà
meravigliosa, evoluta, che va studiata. Critichiamo aspramente le Autorità
locali, provinciali, regionali, nazionali ed ora comunitarie per l’incuria che
dimostrano.
Attorno
al VI secolo avanti Cristo, i greci giunsero a Racalmuto e soppiantarono la
civiltà sicana. Era stata gente rodia che si era trasferita a Gela; da lì una
colonia si era attestata ad Agrigento (Agragas) e da Agrigento il dominio si
era esteso a Racalmuto. Monete greche – in particolari monete di Agragas con il
caratteristico granchio – sono state rinvenute a Racalmuto, a testimonianze di
quella grande presenza. La mancanza di scavi scientifici ci impedisce di
conoscere come quella sublime civiltà abbia trasformato il nostro paese. La
lingua greca vi si diffuse e vi restò per quasi mille e tre cento anni, fino al
dominio arabo. Noi pensiamo a quei greci di Racalmuto che potevano godersi lo
spettacolo delle tragedie di Sofocle, Euripide, Eschilo, etc. nella madre
lingua. Potevano ascoltare le intraducibili dolcezze delle odi di Pindaro. Fu
gettato un seme del bello e dell’arte che tutti noi racalmutesi, ovunque oggi
noi stiamo, portiamo nel sangue nel nostro DNA.
Roma
vi portò invece i mali dello sfruttamento coloniale. Non si parlava latino. Si
pagavano tasse in natura ed in denaro alla lontana Roma. Fummo stranieri e
vessati. L’odio per la capitale vi dovette essere allora; continua adesso.
Almeno c’è comprensibile distacco.
Subentrarono
i bizantini. Parlavano greco come i racalmutesi. Vi fu affinità almeno
linguistica. Monete di Eracleone e Tiberio II, rinvenute nel 1940 in contrada
Montagna, attestano vivacità economica e laboriosità dei nuclei bizantini del
nostro paese.
Poi
la parentesi araba (dall’880 d.C. circa sino al 1087 d.C.). Si tende ad
esagerare l’importanza della presenza araba a Racalmuto. Era poi una presenza
berbera. Sparuti nuclei di contadini, dunque, che seppero soprattutto far
crescere le verdure in orti sotto fontane perenni. Le verdure di Racalmuto sono
ancora ineguagliabili. Per il resto, nessuna traccia archeologica, nessun
documento scritto, nessuna teoria seria ci induce a credere in influenze
significative degli arabi nel nostro centro. Può darsi che future ricerche
archeologiche – in particolare sotto le torri del castello – ci restituiscano
ceramiche e segni di una civiltà che oggi ignoriamo. Qualche sintomo, a dire il
vero, va emergendo.
Arrivano
i normanni. Sono predatori. Ma sono pochi e tutto sommato ininfluenti. Ormai
nel territorio si parla arabo. I cosiddetti arabo-normanni sono disseminati in
varie parti a Racalmuto. Soprattutto a Gargilata, allo Zaccanello ed a
Garamuli. Affiorano a profusione ceramiche tipiche dell’epoca a testimoniarlo.
Quei nostri antenati sono operosi, coltivano la terra, impiano vigneti,
costruiscono palmenti, sanno convogliare le rade acque in gebbie. I vescovi di
Agrigento, in nome di un preteso lascito di Ruggero il Normanno, li vessano.
Esigono tasse, impongono balzelli, li costringono ad estranei riti cattolici.
Si distingue su tutti il vescovo Ursone. Gli arabo-normanni si ribellano.
Quelli di Racalmuto si uniscono a quelli del vicinato. In tutto il territorio
agrigentino abbiamo una rivolta che arriva ad imprigionare il vescovo. A
Palermo si è insediato Federico II. L’imperatore siculo-tedesco non tollera
rivolte, neppure quelle contro i vescovi che in cuor suo ha in odio. Disperde i
rivoltosi, anche quelli di Racalmuto.
Il
nostro paese langue. L’agricoltura si deteriora. Fame, peste, malattie,
spopolamento sono lo squallido retaggio di un altipiano, prima fiorente e
prospero. Non può durare. Il provvido Federico II consente a Federico Musca, un
nobile di Modica, di insediarsi là dove ora sorge Racalmuto. Siamo attorno al
1250. Federico Musca porta con sé una ventina di famiglie contadine. Esse
trovano alloggio nelle grotte sotto il Carmine e la Centrale, anche in quelle
attorno alla Madonna della Rocca. Nasce un nuovo paese. La vite ed il grano, i
mandorli e gli ulivi, le tradizionali verdure, una agricoltura ferace, insomma,
torna a fiorire nelle lande racalmutesi. Sorge la nostra nuova civiltà che oggi
ha residua sede nel paese dell’agrigentino ma che si è mirabilmente irradiata a
Buffalo come a New York, negli Stati Uniti come in Canada, in Francia, in
Germania, in tutta Italia, ad Hamilton come in America Latina. Un romanziere di
fama mondiale, Leonardo Sciascia, esalta quella civiltà con echi planetari.
Sotto
Federico Musca Racalmuto diviene una “universitas”, un comune libero. E’
naturalmente assoggettato a tasse e balzelli vari, ma ha cariche elettive, uno
statuto comunale e nomina propri “sindici” (amministratori comunali)
democraticamente. Il comune ha così modo di prosperare, godendo di una sorta di
libertà politica.
Ma
giunge in Sicilia dalla Francia Carlo d’Angiò: suo fratello è re di Francia e
sarà santo per la Chiesa. Tanto signore non è gradito a Federico Musca. Questi
si ribella e Carlò d’Angiò lo priva della signoria di Racalmuto affidandola ad
un napoletano: il milite Pietro Negrello di Belmonte. Era il 1271 come attesta
un diploma che si custodiva a Napoli, nell’archivio angioino, prima che i
tedeschi lo distruggessero nel 1943.
Il
signorotto partenopeo forse non mise mai piede a Racalmuto. Ebbe, comunque, poco tempo perché nel 1282,
con i famosi Vespri Siciliani, i francesi con Carlo d’Angiò furono cacciati via
dalla Sicilia.
Ma
con i nuovi padroni spagnoli, per i racalmutesi le cose non andarono meglio.
Tante imposte, sopraffazioni e soprattutto la perdita delle libertà comunali
resero la cittadina terra di conquista da parte di un insorgente feudalesimo.
Diversamente da quello che si dice – e si scrive – i primi signori di
Racalmuto, dopo il Vespro, non furono i Del Carretto ma i Chiaramonte. Costoro
erano insediati ad Agrigento. Si erano impossessati del feudo attraverso un
cadetto della famiglia – Federico Chiaramonte - e questo appare strano: non era
legale ma in tempo di ribellioni ciò potè agevolmente verificarsi.
Un
religioso – alquanto pruriginoso -, l’Inveges,
racconta ben tre secoli dopo che
Federico II Chiaramonte aveva una figlia di nome Costanza. Giunge ad
Agrigento un ligure, un uomo di mare che si fa chiamare Antonino del Carretto.
Dice di essere il marchese di Finale e di Savona. Federico II Chiaramonte
abbocca e gli dà in moglie la figlia Costanza, bellissima e molto giovane.
Appena il tempo di generare Antonio II del Carretto ed il sedicente marchese di
Savona muore. Il suocero in dote aveva però assegnato il feudo di Racalmuto. Il
feudo passa allora al figlioletto Antonio II che resterebbe poco in Sicilia: si
sarebbe trasferito a Genova (si badi bene: non a Savona) e là avrebbe fatto
fortuna. Ha diversi figli. Si distinguono Gerardo, primogenito, e Matteo.
Questi torna in Sicilia, si allea con i Chiaramonte, lotta contro i Martino
venuti dalla Spagna. Siamo alla fine del XIV secolo.
I
Chiaramonte soccombono nella lotta contro i Martino: Matteo cambia casacca, si
allea con i vincenti spagnoli e diviene “barone di Racalmuto”. A partire dal
1396 non v’è più dubbio che il nostro paese sia diventato una melanconica
baronia dei Del Carretto. E prima?
Dopo
il Vespro il paese era sotto il dominio dei Chiaramonte – e questo si è già
detto. Quella signoria durò sino a qualche anno prima dell’avvento di Matteo
del Carretto e cioè sino al 1392. Documenti dell’Archivio Vaticano Segreto –
ricercati, trovati e studiati dal dottore Calogero Taverna – lo comprovano. Si
parla e si scrive della signoria dei Malconvenant che sarebbero stati padroni
di Racalmuto ed avrebbero eretto la chiesa di Santa Maria nel 1108. Si scrive
su una dominazione degli Abrignano. Si afferma pure che i Barresi sarebbero
stati i feudatari del nostro paese – non si precisa però il periodo, arbitrariamente
qualcuno fornisce la data del periodo immediatamente prima del Vespro (1282).
Sono tutte tesi care agli storici locali. Ricerche e studi critici degli ultimi
tempi dissolvono tutto ciò definendolo “una serie di cervellotiche congetture”.
Tra gli eruditi locali è la guerra.
Nel
1282 (data del Vespro) a Racalmuto non c’erano più di quattrocento abitanti.
Nel 1404 la popolazione era raddoppiata: stavamo però al di sotto della media
dei grossi borghi del circondario. Peste e fame non erano mancate nel XIV
secolo: per scongiurare la peste del 1375 il signore di Racalmuto, Manfredi
Chiaramonte, chiede al papa perdono per le passate ribellioni politiche e per
ottenere l’indulto tassa i suoi feudi in favore del papa. Arriva a Racalmuto,
il 29 marzo del 1375, l’arcidiacono Bertand du Mazel: viene da Avignone, conta
i casolari del nostro paese ed applica una tassazione tripartita: tre tarì per
i ricchi, due per la classe media ed uno per i poveri. Si giunge alla cifra di
7 onze e 28 tarì: si erano contati 136 nuclei familiari (fuochi); molte case
erano coperte da paglia; la popolazione non superava le 700 persone. Il
documento, che si trova in Vaticano, ci fornisce una preziosissima descrizione
della Racalmuto del tempo, diversamente del tutto ignota.
Il Vaticano altra volta aveva tassato il paese
nel secolo XIV: veramente erano stati due religiosi e si chiamavano Martuzio de
Sifolono ed il presbiter Angelo de Monte Caveoso. Per le decime del 1308 e del
1310 avevano corrisposto, il primo un’oncia ed il secondo nove tarì. Il
Sifolono godeva delle prebende della chiesa di Santa Maria: ricerche recenti
inducono a pensare che si trattasse del convento carmelitano. In un affresco
del Convento di S. Angelo di Licata,
nell’orbita di un tondo a modo di frutto di un grande albero raffigurante
l’intera famiglia dei conventi carmelitani, sta scritto: «conventus Recalmuti,
anno 1270». Se l’indicazione è esatta, il Carmine è la più antica chiesa di
Racalmuto ed il relativo convento carmelitano risale appunto al 1270, agli
albori dunque della fondazione del paese da parte di Federico Musca, sotto gli
auspici di Federico II (†1250).
L’altra
chiesa, retta dal presbiter Angelo de Monte Caveoso è rimasta anonima. Il testo
in latino recita: «presbiter Angelus de
Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali, quod impendit in Casale Rachalamuti,
solvit pro utraque tt. ix», cioè: il sacerdote Angelo de Monte Caveoso pagò
per il suo ufficio sacerdotale che svolge nel casale di Racalmuti, per entrambe
le decime, tarì 9. Tutto fa pensare, dunque, che si trattasse di un monaco
venuto da Monte Caveoso, l’odierno Montescaglioso in provincia di Matera
(Basilicata). Noi pensiamo ad un monaco del convento fondato dalla contessa
Emma verso la fine del XII secolo.
Piccolo,
specie se adottiamo i parametri dei nostri giorni, Racalmuto era diventato
comunque un “casale” capace di attirare dalla lontana Basilicata un monaco che
riusciva a viverci bene. Da notare però che chi aveva le prebende del Carmine
viveva ancora meglio, se era costretto a pagare più tasse al pontefice di Roma.
Nell’uno e nell’altro caso, era sulle magre spalle dei racalmutesi che papa e
preti si appoggiavano per avere soldi ed oboli.
Il
XV secolo Racalmuto lo trascorre sotto l’egida dei Del Carretto. Matteo del
Carretto muore nel 1400; gli succede il figlio Giovanni che deve vedersela con
gli esosi Martino. E’ costretto ad esibire una nutrita documentazione e pagare
tante once per avere confermato il titolo di barone di Racalmuto. Vi riesce. E
buon per noi perché possiamo ora consultare presso l’archivio di stato di
Palermo quella documentazione ed avere preziose notizie sul nostro paese.
Giovanni I del Carretto a noi sembra un barone oculato, laborioso e in
definitiva attaccato al paese che sotto di lui cresce e si consolida. Ma lo
storico francese Henri Bresc la pensa diversamente ed è sicuro che il figlio di
Matteo finì male e dovette cedere la baronia agli Isfar di Siculiana. A
conferma della sua tesi, cita documenti spagnoli. Li cita in termini talmente
evasivi da impedirci, per il momento, riscontri convincenti. Siamo dunque
costretti a lasciare in sospeso la questione.
La
baronia ritorna, in ogni caso, ai Del Carretto: Federico, figlio di Giovanni I,
riceve l’investitura da Alfonso d’Aragona l’11 febbraio 1451; viene salassato,
deve corrispondere 20 once ogni anno, deve rendere omaggio nelle forme solenni,
deve rispettare i diritti di “legnatico” dei cittadini racalmutesi, non è
proprietario delle miniere, delle saline e delle antiche difese del luogo, deve
salvaguardare la libertà di pascolo dei paesani e degli equipaggiamenti regi.
In compenso ha il dominio assoluto sul feudo racalmutese che si estende però
alla parte nord-ovest del paese. La parte sud-ovest (Gibillini ed il
Castelluccio) costituisce un altro feudo (si diceva allora “stato”) ed
apparteneva per due terzi alla famiglia De Marinis di Favara. Il restante terzo
non si è mai saputo a chi appartenesse: solo nell’Ottocento vi è stata
un’annessione da parte della famiglia Tulumello.
Federico
Del Carretto fu un grande affarista: nel 1451 si associò con Mariano Agliata
per un’operazione speculativa sul grano simile a certi contratti a termine dei
nostri tempi (outright): i due consegnavano al Lomellina il vecchio frumento
delle annate 1449 e 1450 e si assicuravano il raccolto dell’anno in corso,
consegna a luglio prossimo presso il caricatoio di Siculiana.
Federico
del Carretto dovette essere molto esoso con i suoi vassalli racalmutesi se
questi nel 1454 si ribellarono violentemente. Il Del Carretto, intanto,
procedeva ad acquistare un altro feudo, quello di Rabiuni di Mussomeli, preso
da Pietro del Campo. Altri notabili racalmutesi erano diventati anche loro
facoltosi: uno di loro, Mazzullo Alongi, teneva in affitto il feudo di San
Biagio sempre a Mussomeli.per 14 onze annue, un castrato, un quintale di
formaggio ed una “quartara” di burro.
Verso
la fine del secolo Federico muore e gli succede il figlio Giovanni II. Forse
visse poco, forse il contesto politico era molto agitato, forse era propenso ad
evadere, fatto sta che non si sobbarcò alla procedura dell’investitura feudale
e non corrispose i balzelli alla corte reale. Qualche anno dopo il Barberi, un
ispettore regio particolarmente rigoroso, bolla i Del Carretto per questa
evasione fiscale. Intanto era succeduto il figlio di Federico, il celebre
Ercole Del Carretto ed anche lui incappa nelle censure dell’inquisitore: si era
ben guardato dall’ottemperare agli obblighi feudali dell’investitura. Ed eravamo già nel XVI secolo.
Racalmuto
nel XV secolo passa da 800 a 2500 abitanti circa: più che triplicata, dunque,
la popolazione. Non sarà stato tutto merito dei Del Carretto ma tale crescita
non è stata almeno impedita; depone a merito dei locali baroni. Non potè
trattarsi di mera crescita demografica: condizioni politiche, sociali ed
economiche attraevano, di sicuro, gente dai dintorni che trovavano migliori
possibilità di vita nella baronia dei Del Carretto.
Vi
fu però un fatto gravissimo che palesa una mentalità antisemita. Un ebreo fu
barbaramente trucidato a scopo di rapina. Era il 7 luglio 1474 VII Indizione,
l’efferato crimine era già avvenuto. Ma Palermo vigila e non consente crimini
dal vago sapore razziale. Il vicerè Lop Ximen Durrea dà allora commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi
a Racalmuto per punire coloro
che uccisero il giudeo Sadia di Palermo,
e di pubblicare un bando a Girgenti per la
protezione di quei giudei. Nei giorni precedenti il giudeo Sadia di Palermo,
abitante nel casale di Racalmuto, attendendo ad alcune sue faccende fu ferito
mortalmente da un tal Leone, figlio di mastro Raneri. Altri facinorosi del
luogo, congregatisi come in un branco, mi misero ad infierire contro il povero
giudeo. Lo colpirono varie volte alla testa, gli tagliarono la lingua, gli
ruppero costole mani e gambe, gli fracassarono i denti ed infine lo gettarono
in una fossa. Lo ricoprirono quindi di paglia e vi diedero fuoco. Mentre
bruciava gli tirarono pietre e terra. Gli ordini all’algozino (ufficiale di
polizia) furono precisi e perentori. Soprattutto, però, bisognava tentare di
recuperare “ uno gippuni in lu quali si dichi erano cosuti
chentochinquanta pezi d’oro” (una giacca nella quale si dice che erano
cuciti dentro 150 pezzi d’oro). Non sappiamo sei soldi furono recuperati,
pensiamo di no. Possiamo essere certi che davvero i responsabili, almeno i
caporioni, furono tutti individuati ed insieme a Liuni figliastro di mastro
Raneri finirono nelle carceri di Agrigento.
Passeranno
meno di vent’anni e nel 1492 la regina Isabella la spunta nel cacciare via
dalla Sicilia gli ebrei. Noi, in ogni caso, siamo convinti che solo gli ebrei
ricchi emigrarono (soprattutto a Napoli, pare): i poveracci non sapevano dove
andare. Cambiarono nome, cambiarono paese, non si circoncisero, divennero
marrani e continuarono a vivere in Sicilia. Tanti ne vennero a Racalmuto come i
tanti La Licata, Lintini, D’Asaro, Aiduni, Caltabiano, Caltavuturi, Camastra,
Castronovo, Castrogiovanni, Chiazza, Madonia, Milazzo, Modica, Monreale,
Montilioni, Nicastro, Noto, Petralia, Ragusa, Randazzo, Sicilia, Siragusa,
Termini, Terranova, Vicari e simili -
che costellano la nomenclatura dell’anagrafe del ‘500 - fanno
trasparire, sia pure con tutte le riserve e cautele del caso.
Gli esordi del XVI secolo sono
all’insegna del sacro e del miracoloso. Nasce la saga della Venuta della Madonna
del Monte. Narrarla comporta rischi: si può mancare di fede, di religiosità, di
rispetto. Si può scadere nella profanazione. Per questo ci rivolgiamo al grande
scrittore di Racalmuto, prendiamo a prestito la sua ineguagliabile prosa.
«Nel 1503, da Castronovo dove viveva –
esordisce il sommo Racalmutese – il nobile Eugenio Gioeni, secondo alcuni
afflitto da “filato ipocondriaco” (ipocondria), secondo altri da mal sottile,
noleggiò un vascello e, in buona compagnia, andò come in crociera verso il Marocco
… Cacciando un giorno in quelle terre d’Africa (non si sa precisamente dove),
per un improvviso temporale trovò, con i suoi compagni, riparo in una grotta,
il cui fondo – notarono ad un certo punto – era chiuso da un muro da mano umana
edificato. Parve loro una stranezza, se ne incuriosirono ; e si adoperarono ad
abbatterlo. Era piuttosto esile, per fortuna: ed apparve loro, splendente e
dolcissima, la statua di una Madonna col Bambino. Pesantissima: e vi tornarono
a prenderla con un carro, a portarla su quel loro vascello che subito, per
l’impazienza di portare a Castronovo la statua così miracolosamente trovata,
fece vela per la Sicilia.
Sbarcarono, come punto
più vicino a Castronovo, nella cala di Punta Bianca, presso l’odierna Porto
Empedocle; e da lì, caricata la statua su un carro trainato da sei buoi (le
tradizioni quanto più sono inverosimili, tanto più sono nei dettagli precise),
mossero verso Castronovo. Ma passarono, ahiloro!, per Racalmuto, vi si
fermarono a dissetarsi in uno spazio dove era una piccola chiesa dedicata a
santa Lucia. Era un caldo meriggio del mese di maggio: a vedere quella statua
coricata sul carro, vivida di colori, soavisssima, la gente del paese accorse.
Voci di stupore, invocazioni, preghiere: e ne giunse il brusio al conte Ercole
del Carretto, che stava a far pennichella in una sala del castello. Ne domandò
la ragione: e con scherani e paggi anche lui. Folgorato dalla bellezza della
statua, ne chiese il prezzo al Gioeni che quasi se ne offese. Il conte offrì
tanto oro quanto la statua pesava: ed ancor di più il Gioeni se ne sdegnò.
Ordinò ai suoi di riaggiogare i buoi e di riprendere il cammino verso
Castronovo: ma le ruote del carro, per quanti sforzi facessero i buoi pungolati
a sangue e i famigli, non si mossero. Credette il Gioeni i racalmutesi avessero
artatamente immobilizzato il caro, diede di piglio alla spada, il del Carretto
alla sua: ma mentre già le incrociavano la folla con tale impeto gridò al
miracolo che le spade si abbassarono e i due signori, commossi, finirono con
l’abbracciarsi. La Madonna aveva deciso di restare a Racalmuto, ospite di santa
Lucia – almeno provvisoriamente – e a dividere il patronato sul paese con santa
Rosalia. Più tardi, le si edificò una più vasta e ricca chiesa e, benché come
titolo ufficiale le restasse quello di compatrona, dimenticata fu santa
Rosalia. E non solo: le si dedicò, per tre giorni dell’ultima settimana di
maggio, una rutilante, fragorosa, insonne festa.»
Allo
storico è interdetto di mettere becco in cose tanto di fede e di alta
letteratura: egli si limita solo ad annotare che Ercole del Carretto non fu mai
conte, solo modesto barone. Santa Rosalia padrona di Racalmuto lo fu soltanto a
partire dal 1636. La Madonna del Monte da compatrona salì di grado nel 1848 con
una bolla episcopale di mons. Lo Iacono, vescovo di Agrigento (allora si
diceva: Girgenti) e divenne: «Patrona e regina di Racalmuto».
Sotto
il profilo strettamente storico, occorre dire che già nel 1540 la statua della
Madonna del Monte splendeva in una chiesa a lei dedicata, non ospite – o non
più ospite – di santa Lucia. Gli inviati del vescovo di nobile famiglia mons.
Pietro di Tagliavia ed Aragona sono molto burocratici ed accennano solo ad «una
figura di nostra donna di marmaro». Ma nel 1608, per il vescovo del
tempo, mons. Bonincontro, il simulacro è ora luccicante di ori, vivido di
colori come dice Sciascia, imponente ed oggetto di grande culto da parte dei
devoti racalmutesi. Per chi s’intende di latino, riportiamo il passo che
riguarda l’intera chiesa del Monte. Per tanti versi Sciascia – con la
tradizione che lui raccoglie - viene smentito:
«Visitavit
ecclesiam Sanctae Mariae Montis, ubi prius conservabatur Sacramentum
Eucharestiae, et erat ecclesia Archipresbitalis. Modo inservit d.e ecclesiae
pro Cappellano D. Joannis Macaluso, qui tenetur celebrare tres missas in
hebdomada et omnes dies festos, habet pro eius mercede uncias sex, quae
solvitur a confratribus confraternitatis ibi fundatis sub titulo dictae
ecclesiae, induunt saccis albis sine mozzettis.
Visitavit altare maius super
quo est imago marmorea S.mi Virginis, ornata et admodum deaurata.
che per dicto altare si
compri una croce saltim di legno
Ex
parte sinistra altaris maioris est altare S. Luciae, in quo est imago dictae
Sanctae de stuccho. Deaurata.
che
l'altare si faccia più lungo, e vi si compri una Croce.
Fuerunt
inventae quaedam reliquiae S.cti Crispini et Crispiniani, videlicet parvum
frustum ossis, quod habet autenticum documentum in quadam capsula lignea.
Mandavit
che
si faccia un reliquario di argento dove si mettano dette reliquie.
che
nell'altare di S. Margarita non vi si celebri mentri che non si accomada,
facendosi più grande.
che
per l'altare di S. Francesco si compri una Croci, et 2 candelabri.»
Ma la già nel 1686 la statua
era considerata anche dall’ordinario diocesano “miracolosissima”. Ed il vescovo
di allora, il francescano mons. Francesco Maria Rini di Palermo, era molto
propenso al culto mariano, ma era dotto ed esperto per abbandonarsi ad incaute
esaltazioni delle doti miracolose di una statua, sia pure della Madonna: segno
dunque che anche allora la “Bedda Matri di lu Munti” godesse degli intensa
devozione che oggi il popolo racalmutese
– ovunque si trovi – le tributa. Bene hanno fatto le autorità locali a spostare
la festa – che non piaceva a Sciascia – da maggio alla seconda domenica di
luglio: Chi può è felice di giungere a Racalmuto per godersi la festa, anche se
rumorosa nella notte, se “insonne”, come direbbe il nostro grande scrittore.
Quanto
merito abbia avuto in ciò il nobile Ercole del Carretto è arduo stabilirlo. Già
è dubbio che a reggere la baronia di Racalmuto nel 1503 fosse lui. Non sappiamo
la data della morte del padre Giovanni II del Carretto, non sappiamo la data
del suo insediamento: non vi fu comunque “investitura”. Fece però testamento e
sappiamo che morì il 27 gennaio 1517. Interessa poco che si sia sposato in
prime nozze con una tale donna Marchisa da cui ebbe un figlio Giovanni che gli
succedette. Dai pochi elementi biografici noti non sembra sia stato molto
solerte: per noi, il suo grande merito è stato quello di essersi trasferito a
Racalmuto, ove lo colse la morte. Tanto ci induce a pensare che o lui o suo
padre fece costruire l’ala del castello incassata tra le due torri. Questa
parte del fortilizio racalmutese va datata dunque tra la fine del XV e l’inizio
del XVI secolo, come peraltro dimostra lo stato dell’arte muraria che si
differenzia molto, specie per la disposizione delle pietre, sia dalle torri e
sia dal restante corpo centrale dell’attuale androne d’ingresso.
Il
merito di avere dotato una chiesa di Racalmuto con una statua di marmo - non
abbiamo altri esempi nelle locali antiche chiese, almeno sino alla metà del
‘700 – Ercole del Carretto forse l’ebbe davvero. Crediamo che però giammai pensò
di avere a che fare con una statua “miracolosissima”. Non è da escludere che
prima o poi verrà fuori qualche atto notarile (forse a Palermo) che chiarirà
molti aspetti dubbi della faccenda. Scrivevamo – e qui confermiamo – che: «Il
nostro spirito laico ci è d’intralcio nel chiarire questioni come questa, che
coinvolgono aspetti di sì rilevante delicatezza religiosa. Ci limitiamo a
pensare che Ercole del Carretto ebbe davvero a costruire la prima chiesa del
Monte (di una precedente chiesetta intestata a S. Lucia, non abbiamo alcun
documento probante) ed ebbe ad arredarla facendo venire da Palermo una statua
di marmo. Fu evento memorabile: quella Vergine marmorea, così somigliante alle
giovani madri di Racalmuto, brevilinee e rotondette, dovette impressionare e
sbalordire gli ingenui occhi dei contadini locali. Legarvi il senso del
portento, del miracolo, fu semplice e travolgente.»
Nelle
carte dell’investitura del figlio leggiamo che Ercole del Carretto fu “signore e barone della terra di Racalmuto
e tenne e possedette quella terra con il suo castello e fortilizio, nonché con
tutti i suoi diritti e pertinenze”. “Vi cambiò tutti gli ufficiali tutte le
volte che gli piacque”. “Ebbe a percepire o far percepire frutti, redditi e
proventi della baronia di Racalmuto quale vero signore e padrone”. “Tenne il
figlio Giovanni come figlio primogenito, legittimo e naturale e per tale lo
trattava e come tale lo reputava così come veniva ritenuto, trattato e reputato
dagli altri.”. “In qualità di signore e padrone della predetta terra e padre
del signor Giovanni, piacendo a Dio morì e fu seppellito nel castello della
terra di Racalmuto nel mese di Gennaio VI indizione del 1517, dopo avere
redatto solenne testamento per mano del notaio Giovanni Antonio Quaglia della
città di Agrigento il 16 del predetto mese di gennaio, ove ebbe ad istituire
suo erede universale il detto magnifico signore Giovanni”.
Sono espressioni rituali, ripetitive e non
forniscono molta luce sulla vita del barone racalmutese. Vi si coglie, però, il
senso di una signoria pesante, piena di imposte e di gravami per i racalmutesi.
Ad onta di ciò questi aumentavano di numero e d’importanza. Si andava
affermando anche una crescente prosperità economica: la statua di marmo e vari
imponenti edifici lo attestano. Al Monte si ammira ancora un pregevole retablo
di alabastro risalente a quell’epoca. Vi era dunque allora una
maestranza locale che sapeva lavorare quel difficile materiale gessoso: oggi
solo un paio di vecchi “mastri” lo sa fare. Finendo loro, finisce un mestiere
antico di secoli.
Ad Ercole succede Giovanni del Carretto, il
Terzo con tale nome.
Figura centrale
nello snodo dei feudatari di Racalmuto, fu anche colui che seppe portare
all’apice la signoria carrettesca della nostra terra. Alla morte del padre
s’insedia nel castello baronale con puntiglioso rispetto della liturgia
feudale. Invia a Palermo come suo procuratore il magnifico Artale Tudisco ed il
28 gennaio 1519 ottiene la rituale investitura.
Giovanni III del
Carretto, appena barone, si sarebbe macchiato di un efferato delitto - sia pure
come mandante - contro i Barresi di Castronuovo. Così racconta, oltre un secolo
dopo, un sedicente suo lontano pronipote, Vincenzo di Giovanni.
Ma sarà stato poi
vero? Si dà il caso che gli atti disponibili ce lo raffigurano religiosissimo, al limite del bigottismo,
prodigo con preti, monaci e chiese. Anche con il suo notaio, quel Jacopo
Damiano che finì sotto tortura nelle segrete del Santo Uffizio. Per eresia, si
scrisse. Per eccessiva accondiscendenza verso gli eccessi dissipatori del
barone sul letto di morte, pensiamo noi.
Il Baronio ci descrive Giovanni III ovviamente in termini
oltremodo elogiativi. Secondo quello storico di casa Del Carretto: «da Ercole
si ebbe Giovanni III, singolare figura per prudenza e per intemerata virtù.
Carlo V quando fu a Palermo lo coprì di mirabili onori. Di modo che, sia per la
propria che per l’avita nobiltà, fu degno di stare con grande onore tra i
Dinasti. Giovanni ebbe due figli: il primogenito Girolamo ed il glorioso Federico
che divenne barone di Sciabica.»
Dal
processo di investitura di Giovanni III Del Carretto emergono alcuni istituti
molto peculiari del diritto feudale della nostra terra di Racalmuto:
1. Diritto
dei baroni all’amministrazione della giustizia. Un secolo dopo, il pingue
vescovo di Agrigento Horozco cerca pretestuosamente di contrastarlo, fingendosi
paladino di un omicida, il chierico Jacobo Vella. Non vi riuscirà: il diritto
baronale era ben saldo e neppure un vescovo spagnolo potrà scalfirlo.
2. Diritto alla destituzione e nomina di tutte le
cariche, civili e militari, di Racalmuto. I Tudisco, i Promontorio, i
Piamontesi, i Neglia, i Puma, i Nobili, gli Acquisto, i Taibi, i Fanara, i La Licata, i Gulpi, i Rizzo, i Morreali, i
Vaccari, i Capobianco etc. hanno, tra il XIV ed il XVI secolo possibilità di
farsi apprezzare dai locali baroni: ne diventano fiduciari; spesso si
arricchiscono alle loro spalle; in ogni caso attecchiscono nella fertile terra
del grano. Poi tanti svaniscono nel nulla. Qualcuno resta tuttora, ma senza più
il ruolo di profittatori del regime.
3. Non è ancora molto evidente il diritto al terraggio ed al terraggiolo [prestazioni in natura da parte dei coltivatori delle
terre del barone, nel primo caso, e fuori la baronia, nel secondo].
4. Il mero
e misto imperio non viene ancora accordato: i Del Carretto lo conseguiranno
alla fine del secolo.
Giovanni
III del Carretto
dovette subire due processi d’investitura. Come dire un raddopio di imposta: il
primo nel 1519 (28 gennaio) ed il secondo l’11 marzo 1558.
Il
2 gennaio 1560 Giovanni del Carretto cessava di vivere: aveva tenuto saldamente
in pugno la baronia di Racalmuto per oltre quarantatré anni, un’egemonia
lunghissima specie se si tiene conto della striminzita vita media di quel
tempo.
Ebbe
a sposare una signora di riguardo, tale Aldonza, nome spagnoleggiante, di cui
sappiamo ben poco. Alla data della morte del marito era già deceduta: quoddam spectabilis Domina Aldonsia, la
si indica nel testamento.
Nulla
ha a che fare con la celebre Aldonza del Carretto, questa moglie di Giovanni
III: quella che dota il convento di S. Chiara è la nipote. Costei inguaierà
fratello, nipote e pronipote per il suo bizzarro disporre dei beni di “paraggio”
che le spettavano. Ma questa è storia del Seicento.
Se
in antico nel paese non vi erano più di due chiese, fragili e malandate, in
piena signoria di Giovanni III del Carretto, le cose cambiarono notevolmente.
Intanto la popolazione si accrebbe in modo considerevole. Nel censimento del
1548 il centro abitato enumera 896 fuochi (capi famiglia) e non si è lontani
dal vero se si afferma che la popolazione ascendeva a quasi 3.500 abitanti.
Dai 2.500 del 1505 ai quasi 3.500 abitanti del
1548 il salto fu rimarchevole: non poteva trattarsi solo di un normale
fenomeno; sotto il barone di Racalmuto si erano quindi determinate condizioni
di vita accettabili, da preferire a quelle dei feudi circostanti; contadini,
mastri e forse anche mendicanti ebbero a concentrarsi nei quattro quartieri che
ormai si erano stabilmente definiti: a) Santa Margaritella, tra l’attuale
Carmine, bar Parisi e la Guardia; b) San Giuliano, tra Guardia, tabaccheria
Fantauzzo, Collegio, Fontana e attuale chiesa di San Giuliano; c) Fontana o quartiere
fontis, l’altro spicchio di nord-est
tra la Fontana, il castello, la Matrice e la chiesa dell’Itria; d) quartiere
del Monte o montis comprendente
l’ultimo quarto a ridosso dell’omonima chiesa esistente anche allora.
Era
tutto suolo baronale; per ergervi una casa occorreva pagare uno jus proprietatis ai del Carretto; se
poi si era contadini e si andava a coltivare terre altrui nell’ambito del feudo
(o Stato di Racalmuto) scattavano tributi in natura; se la coltivazione
avveniva in feudi circostanti (Gibillini, Cometi, Grutticelli, Bigini, Aquilìa,
Cimicìa, ed altri ancora), il tributo raddoppiava: terraggio (quello intrafeudo) e terraggiolo
(quello extrafeudo) furono termini presto entrati in uso, a significare
balzelli che pur tuttavia si accettavano non essendo diverso altrove.
Un
vescovo agrigentino del tempo, il nobile Tagliavia nutrì eccessivo interesse
per la comunità ecclesiastica di Racalmuto. Nel 1540 mandò suoi pignoli
visitatori; tre anni dopo fece visita inquisitoria lui stesso. Poteva
considerarsi apparentato con il bigotto Giovanni III del Carretto, ma il barone
non viene neppure citato nelle relazioni episcopali che per nostra fortuna si
conservano nell’archivio vescovile di Agrigento.
In
tali atti vescovili viene descritta piuttosto diffusamente la condizione
dell’organizzazione ecclesiale di Racalmuto.
Un fenomeno
nuovo emerge con il suo peso sociale, economico e soprattutto bancario: quello delle
confraternite. Le confraternite cinquecentesche di Racalmuto nascono come
associazioni per garantire la “buona morte” che è come dire una onorevole
sepoltura. Il culto dei morti da noi è stato sempre presente, ossessivo,
dispendioso. Le confraternite vi speculano sopra e subito vengono in possesso
di disponibilità finanziarie e monetarie, cosa di gran rilievo in un’angusta
economia curtense. Esse assurgono a potentati economici molto simili alle
attuali banche: finanziano, danno in affitto gli immobili di proprietà (sia
pure relativa), danno in appalto la costruzione di chiese (fonte prima del loro
guadagno per le sepolture a pagamento che vi vengono fatte); inoltre, le fanno
riparare, e così via di seguito.
Non sono
corporazioni di arti e mestieri, anzi sono essenzialmente interclassiste. Il
prete vi svolge un ruolo, ma solamente religioso: è soltanto il cappellano
spirituale. Nasce da qui il detto tutto racalmutese: monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini. Come dire, i
preti ed i monaci nelle confraternite ci stano per celebrar messa, ma dopo
bisogna loro “stuccarici li rini”
beffarda espressione per specificare che ognuno deve poi girarsi su se stesso
per le mansioni e competenze proprie, in assoluta indipendenza. I preti infatti
non potevano inserirsi nella gestione economica, tutta affidata al governatore
laico ed ai deputati – pure loro laici - che ogni anno si eleggevano. Il
vescovo Tagliavia cerca d’irreggimentare il tutto, ma con scarso successo.
Gli aridi inventari episcopali del 1540 e del
1543 ci consentono comunque di fare una ricognizione critica - senza le grandi
sbavature cui gli storici locali indulgono - delle chiese veramente esistenti
all’epoca. Abbiamo innanzi tutto la vetusta chiesa di S. Antonio: è
parrocchiale, risale ad epoca immemorabile (noi pensiamo alla prima metà del
Quattrocento). Al tempo di Giovanni III del Carretto è fatiscente; nessuno
pensa a ricostruirla; la si lascia in abbandono ma alla fine la solerzia del
vescovo Tagliavia è tale che risorge a nuova vita e il culto in essa perdura
sino alle soglie del Settecento.
Monsignor
Pietro Tagliavia ed Aragona, nel tempo in cui fu vescovo di Agrigento curò
molto le visite pastorali. Racalmuto fu prima, nel 1540, assoggettato ad
un’ispezione sommaria la cui verbalizzazione è contenuta in cinque fogli ove è
riportata, in sostanza, un secco inventario dei beni delle più importanti
chiese di allora: Nunziata, Santa Maria di Gesù, Santa Margherita, Madonna del
Monte e San Giuliano. [1]
Tre anni dopo, il paese subì una più seria indagine da parte del vescovo in persona, che vi si recò il giorno
11 giugno 1543. Il taglio del resoconto è ora molto più articolato, e viene
fornito uno spaccato della vita religiosa locale di grande interesse.[2]
Al
centro della locale comunità religiosa è l’arciprete don Nicolò Gallotto (o de
Gallottis). E’ originario della terra di San Marco, diocesi di Messina; è anche
canonico agrigentino (“est etiam canonicus agrigentinus”). Non riusciamo a
sapere, però, se risiede in paese. Gode di metà delle rendite e degli
emolumenti, perché l’altra metà serve per il sostentamento di quattro
cappellani che accudiscono alla chiesa e amministrano i sacramenti per l’intera
popolazione (“dictus dopnis Nicolaus habet dimidiam omnium redditum et
emolumentorum ... alia dimidia est assignata quatuor capellanis qui serviunt
dicte ecclesie et administrant populo ecclesiastica Sacramenta.”).
Ricade
su Racalmuto l’onere del sostentamento del suo arciprete, cui spetta per antico
diritto (“ex disposictione”), il beneficio della “primizia”. E’ questo un
gravame tributario in forza del quale ogni fuoco (famiglia) è assoggettato alla
corresponsione di un tumolo di frumento ed un altro di orzo all’anno; le vedove
sono obbligate solo per il tumolo di frumento; i non abbienti sono esonerati
(”primitiam .. contigit dictus archipresbiter seu eius locum tenentes unaquaque
domo dicte terre et illam solvunt hoc modo: unaqueque domus solvit tumulum unum
frumenti et unum ordei, exceptuatis viduis, que solvunt tumulum unum frumenti tantum
singulo anno”.)
Nella
visita del 1540 era stato precisato che il Gallotto percepiva annualmente tale
primizia nella misura di 25 salme di frumento e 22 di orzo. Considerando una
salma formata di 16 tumoli, avremmo 400 fuochi di cui 48 quelli di vedove
capo-famiglia. La popolazione abbiente ascenderebbe quindi a circa 1600
abitanti. Ma siamo molto lontani dai dati disponibili per quell’epoca. Nel rivelo del 1548, sotto Carlo V,
Racalmuto risulta forte di 890 fuochi per oltre 3100 abitanti. Non crediamo che
vi fossero 490 case di indigenti; il numero degli esonerati e degli evasori
doveva essere molto elevato. Ed il fenomeno dovette essere duraturo. Un paio di
secoli dopo, nel 1731, l’arciprete Algozini dava i seguenti ragguagli sulla
primizia di Racalmuto, un diritto che evidentemente si perpetuava: «questa
chiesa non ha decime ma la Matrice solamente ha ogni anno in primizie, tolti li miserabili e
fuggitivi, formenti di lordo in circa salme quarantaquattro, in orzi salme
sedici in circa, dovendo pagare ogni capo di casa tum.lo uno di formento e
tum.lo uno d’orgio.» Tradotto in statistica demografica, abbiamo una
popolazione di 2800 abitanti, a fronte di una popolazione effettiva dichiarata
dallo stesso Algozini in 5134 anime suddivisa in 1200 famiglie. Sorprendono le
analogie e le concomitanze con il fenomeno elusivo del 1540. A meno che in
entrambi i casi si dichiarasse soltanto la metà (la dimidia pars di spettanza
dell’arciprete).
Oltre
alle primizie, l’arciprete Gallotto percepiva i proventi per quelli che
l’Algozini due secoli dopo chiama diritti di stola: i proventi cioè dei
funerali e dell’amministrazione dei servizi religiosi (“mortilitia et alia
provenientia ex administratione cure”).
Nel
1540 si constatava che la chiesa dell’Annunziata dell’omonima confraternita
fungeva anche da chiesa parrocchiale al posto della Matrice intitolata a S.
Antonio e non si aveva nulla da eccepire. Visitata per prima, se ne annotava la
doppia funzione: «Ecclesia di la Nuntiata
confraternitati et servi pro maiori ecclesia di ditta terra». E’
comunque alla chiesa maggiore che spetta il diritto delle primizie: essa, in
quanto “maior ecclesia”, «habet primitias videlicet salme 25 frumenti et salme
22 ordei in persona domini Nicolai Gallocti cum onere unius misse quotidie» Ma tre anni dopo, il vescovo Tagliavia ha di
che ridire: per lui, l’Annunziata è “ecclesiola” e quindi non può fungere da
chiesa madre; è un tempio «valde parvulum et angustum pro tanto populo”. La
vecchia matrice di S. Antonio è diruta; ma poiché essa sarebbe adeguata alle
esigenze di spazio dell’accresciuta popolazione, viene ordinato dal presule che
venga restaurata e riedificata. «Et quia .. ecclesia [maior] est diructa, et
hec que servit pro maiori ecclesia est valde angusta, ideo iussit provideri quo
dicta maior ecclesia restauretur et reedificetur.» Non si mancò di eseguire gli
ordini vescovili: sappiamo di certo che nel 1561 la chiesa Madre è proprio S.
Antonio.
Le
nostre notizie sull’arciprete venuto dalla diocesi di Messina sono tutte qui.
Non abbiamo neppure un appiglio per formulare un qualsiasi giudizio sulla sua
figura. Poté essere un bravo sacerdote, ma poté essere un semplice percettore
di benefici ecclesiastici. Dei quattro cappellani che lo coadiuvarono (o lo
sostituirono) non sappiamo neppure i nomi.
Le
carte episcopali richiamate a proposito dell’arciprete Gallotto contengono
accenni ad altri sacerdoti racalmutesi della metà del Cinquecento: fra loro
spicca don Francesco de Leo, vicario foraneo della terra di Racalmuto. Si sa
quanto importante fosse il ruolo del vicario che fungeva da rappresentante del
vescovo sul luogo. A lui venivano demandati i compiti esecutivi della
giurisdizione della Curia agrigentina, specie in materia penale. Il vicario era
uomo temuto e rispettato, forse ancor più dell’arciprete, che spesso si
limitava a percepire i frutti del beneficio ottenuto per entrature curiali e
non metteva neppure piede nella parrocchia di cui era titolare.
Il de
Leo era vicario, dunque, al tempo dell’arciprete Gallotto. Tra gli altri
compiti aveva quello di curare gli interessi del canonico don Giovanni Puiates,
titolare del beneficio di Santa Margherita. Naturalmente, anche questi si
limitava a percepire i pingui proventi racalmutesi senza interessarsi neppure
alla chiesa che sorgeva accanto a quella di Santa Maria di Gesù: a ciò pensava
il vicario d. Francesco de Leo ed era incarico che espletava encomiabilmente.
Il vescovo Tagliavia nel visitare, nel 1543, la chiesa di Santa Margherita la
trova «satis bene composita» ed il merito l’attribuisce al vicario, «hoc
propter bonam curam dopni Francisci de Leo, vicarii dicte terre.»
Del
solerte vicario, oltre a questa notizia, non sappiamo null’altro. Possiamo
giudicarlo, comunque, positivamente e tutto fa pensare che fosse racalmutese.
Si spiega così perché tenesse alla
vetusta chiesa di S. Margherita che, se è da dubitare che risalisse al 1108
come scrisse nel 1641 il Pirri, era pur sempre un luogo di culto di cui ad un
diploma del 1398. Il de Leo sembra avere care le tradizioni indigene. La
chiesa, varie volte rinnovata e ricostruita, era da tempo immemorabile sede di un
titolo canonicale agrigentino. «Ecclesia Sancte Margarite - si sa dalla visita
del 1543 - est titulus canonicatus» che al tempo spettava al cennato canonico
Pujades. I contadini racalmutesi dovevano corrispondere le decime al canonicato
della Cattedrale di Agrigento e non risulta che il beneficiario sia stato mai
un racalmutese.
Resta assodato che a Racalmuto il culto
di Santa Rosalia è ben antico. Non sembra, però, che vi sia qualcosa su S.
Rosalia nelle primissime visite pastorali agrigentine del 1540-3, dato che in
quella del 1543 si accenna solo alle seguenti chiese racalmutesi:
1)
Chiesa Maggiore, sotto il
titolo di S. Antonio;
2)
“Ecclesiola” sub titulo
Annuntiationis Gloriose Virginis Marie, da tempo sede di una confraternita e
dove era stato trasferito il Santissimo, chiesa adibita ormai al posto di
quella Maggiore, perché fatiscente;
3)
Chiesa di Santa Maria del
Monte;
4) Chiesa
di santa Maria di Gesù;
5) Chiesa
di Santa Margherita;
6) Chiesa
di San Giuliano;
Nella
precedente visita del 1540 abbiamo:
1) Chiesa
della “NUNTIATA”
2) Chiesa
di Santa Maria di Gesù (Jhù)
3) Chiesa
di Santa Margherita;
4) Chiesa
di “Santa Maria di lo Munti”;
5) Chiesa
di S. Giuliano.
Passando
al setaccio i radi accenni delle carte episcopali del 1540-1543 abbiamo che non
proprio recenti erano questi luoghi sacri:
la
Nunziata, visto che vi si trovava
una vecchia tunichella di damasco turchino ( Item uno paro di tunichelli una di villuto iridato cum soj frinzi di
varij coluri et l’altra di damasco turchino vechia);
Santa Maria di Gesù
col suo vecchio paramento di borchie stagnate (Item uno casubolo di borcati
vecho stagnato);
Santa
Margherita sia per quel che sappiamo dalle antiche fonti sia come testimoniano
gli “avantiletto” lisi (item dui
avantiletti vechi). Significativo invece che a S. Giuliano non v’era nulla
di vecchio.
Di
Giovanni del Carretto è consultabile il testamento ([3])
steso sul letto di morte: a raccoglierlo il notaio Jacopo Damiano, quello
finito sotto le grinfie del Santo Ufficio. La vita del barone viene in qualche
modo abbozzata.
In
epigrafe, la data: 2 gennaio 1650. Riguarda il “molto spettabile signor D.
Giovanni de Carrectis, domino e barone della terra di Racalmuto, cittadino
della felice città di Palermo, dimorante nel Castello della detta terra e baronia
di Racalmuto, che fa testamento dinanzi il notaio ed i testi”. “Sebbene infermo nel corpo, è tuttavia sano
di mente ed intelletto, con la parola ed i sensi integri”.
Il
testamento esordisce con una sorpresa: erede universale non viene nominato il primogenito
(Girolamo, futuro primo conte di Racalmuto), ma il secondogenito, “lo
spettabile signor don Federico de Carrectis barone di Sciabica, secondogenito
legittimo e naturale nato e procreato dallo stesso spettabile signor testatore
e dalla fu spettabile donna Aldonza consorte del medesimo”.
Ripete
in dialetto, il morente barone: “legitimo e naturali, procreatu da me e
dalla condam Aldonsa mia mugleri in
tutti e singuli beni, e cosi mei mobili e stabili presenti, e futuri, e massime
in la Vigna e loco chiamato di lo Zaccanello, con tutti soi raggiuni e
pertinentij, e suo integro statu, pretensioni, attioni, e ragiuni, frumenti,
orzi, cavalli, e scavi; superlectili di casa, massarij, boi et altri animali,
et instrumenti di massaria, vasi di argento manufatti esistenti in lo detto
Castello con li nomi di miei debitori ubicumque esistenti e meglio apparenti”.
Se
si è avuta la pazienza di scorrere questa specie d’inventario, si ha un’idea di
quanto ricco e bene arredato fosse il castello; vi era una frotta di servitù e
vi erano veri e propri schiavi (“scavi”).
A
don Federico vanno 200 once di rendita annuale, oltre alla definitiva proprietà
di mille once promesse a suo tempo dal testatore come dote assegnata nel
contrarre matrimonio con donna Eleonora di Valguarnera.
“Del
pari il prefato signor testatore volle e diede mandato che lo stesso spettabile
D. Federico erede universale abbia e debba sopra la restante eredità versare al
signor don Girolamo del Carretto la somma occorrente per le spese del funerale
quale dovrà essere celebrato in relazione alla qualità della persona dello
stesso spettabile testatore sino alla somma di once 100 da prelevarsi da quelle
600 once che stanno nella cassaforte (in
Arca) del medesimo testatore ed
essendoci più bisogno di più si aviranno da pagare communiter da entrambi
gli eredi don Federico e don Girolamo”.
“Del
pari il prefato testatore istituisce suo erede particolare il molto spettabile
signor D. Girolamo de Carrectis suo figlio dilettissimo primogenito, legittimo
e naturale nato dal medesimo Testatore e dalla spettabile quondam Donna D.
Aldonza sua consorte, cui va la baronia nonché i feudi della terra di Racalmuto
con tutti ed ogni giusto diritto, con le giurisdizioni civili e criminali, il
mero e misto imperio giusta la forma dei privilegi ottenuti nella regia curia,
con le prerogative sui feudi, sul Castello, sugli stabili e con tutti gli altri
diritti quali il terraggiolo, le
gabelle ed ogni altra consuetudine spettante alla predetta baronia. A questo
del Carretto suo indubitato figlio primogenito spetta pertanto nella detta
Baronia ogni pretesa, azione, ed imposizione. Gli competono altresì denaro,
frumento, orzo, servi, suppellettili di casa, buoi e messi ovunque esistenti,
nonché gli animali ovunque si trovino, come i frumenti nelle masserie, i vasi
d’argento esistenti nel Castello e tutte le ragioni creditorie con le eccezioni
che seguono”.
Giovanni
III morente pensa alla sua cappella privata nel castello e la dota: «Item
praefatus spectabilis dominus Testator voluit, et mandavit quod omnes raubae
sericae, et jugalia Cappellae existentes in Castro dictae Terrae quae
inservierunt pro Culto Divino, etiam illae raubae quae sunt, ut dicitur de
carmisino, et imburrato remanere debeant in Cappella dicti Castri pro uso dictae
Cappellae in Culto divino.»
“E
così il predetto testatore volle e diede mandato, ordinò e invitò come ordina
ed invita il detto spettabile don Girolamo suo figlio primogenito, futuro ed
indubitato successore nella detta Baronia affinché voglia e debba bene
trattare, reggere e governare tutti ed ogni singolo vassallo della predetta
terra e non permettere che vengano molestati da chicchessia, e ciò per amore di nostro Signore Gesù Cristo
e per quanto abbia cara la salute dell’anima del testatore.»
Non
crediamo che Girolamo I del Carretto abbia dato troppo peso alla retorica
raccomandazione paterna. Se ne dipartì anzi per Palermo e Racalmuto fu solo il
luogo da dove provenivano le sue cospicue disponibilità liquide, spese
soprattutto per ottenere prestigiosi quanto tronfi titoli dalla corte spagnola.
“Del
pari il testatore lascia il legato a carico di Girolamo di far dire tante messe
nel convento di San Francesco di Racalmuto. Là doveva pure essere eretta una
Cappella bene adornata per cui dovevano essere spese almeno 100 once.”
“Al
Convento dovevano pure andare le 7 once di reddito annuale cui era tenuto il
magnifico Giovanni de Guglielmo, barone di Bigini.”
Di
quella Cappella a San Francesco, nulla è dato sapere: crediamo che Girolamo del
Carretto aveva ben altro a cui pensare a Palermo per spendere soldi per una
tomba regale nel lontano e spregiato Racalmuto. Crediamo, anzi, che di
quell’eccesso di devozione sia stato considerato artefice ed inspiratore il
notaio. Come familiare del Santo Ufficio, Girolamo I del Carretto ebbe quindi
modo di incolpare il malcapitato Jacopo Damiano e farne un eretico che ebbe il
danno della privazione dei beni e la beffa del sanbenito. Leggere il commento di Sciascia per la letteraria
rievocazione di questa pagina purtroppo tragica nella sua acre realtà storica.
Il
morente barone dichiara di avere speso 130 once nella compera di legname e
tavole per il tramite di mastro Paolo Monreale e mastro Giacomo Valente.
Sancisce che devono essere bonificate 27 once per la costruzione della chiesa
di Santa Maria di Gesù e 11 once per completare il tetto “della chiesa di Santa
Maria di lu Carminu”.
Giovanni
del Carretto ha anche figlie femmine da dotare:
-
donna Beatrice del Carretto,
moglie di don Vincenzo de Carea, barone di San Fratello e di Santo Stefano (150
once in contanti da prelevare dalle casse del castello);
-
donna Porzia del Carretto,
moglie di don Gaspare Barresi (altro che lotta intestina con i Barresi,
dunque). Si parla di altre 50 once in contanti da erogare;
-
Suor Maria del Carretto,
dilettissima figlia legittima, monaca del convento di Santa Caterina della felice città di Palermo. Oltre alla
dote per la monacazione, altre 20 once a carico dell’erede Girolamo.
Il
notaio Jacopo Damiano fu forse anche un tantinello venale: introdusse una
clausola che, se non fu determinante, contribuì quasi certamente alla sua
rovina ed al suo deferimento al Santo Uffizio da parte dei potenti ed
ammanigliati del Carretto. La clausola in latino recita: «Item ipse spectabilis
Dominus testator legavit mihi notario infrascripto pro confectione praesentis,
et inventarij, et pro copijs praesentis testamenti, et inventarij uncias
quinque, nec non relaxavit et relaxit
mihi infrascripto notario omnia jura terraggiorum, censualium, et gravorum
omnium praesentium, et praeteritorum anni praesentis tertiae inditionis pro
Deo, et Anima dicti Domini Testatoris per
esserci stato buono Vassallo, et Servituri, et ita voluit et mandavit.»
Vada per le cinque once di parcella: cara ma tollerabile; l’esonero dal
terraggio e dai censi, no. Francamente era troppo. Ed a troppo caro prezzo
Jacopo pagò quella sua cupidigia. Un accenno veloce alle sue disavventure:
Jacopo Damiano, notaro fu imputato di opinioni luterane ma “riconciliato” nell’Atto di fede che si
celebrò in Palermo il 13 di aprile del 1563 (tre anni dopo la morte e la
redazione del testamento di Giovanni III del Carretto). Ebbe salva la vita, ma
non i beni né l’onore. Impetra accoratamente: «... per molti modi ed expedienti che ipso ha cercato, non trova forma
nixuna di potirisi alimentari si non di ritornarsi in sua terra di Racalmuto
[in effetti ci sembra originario di Agrigento, n.d.r.]. .... [ed i parenti, uomini d’onore] vedendo ad esso exponenti con lo ditto habito a nullo modo lo recogliriano,
anzi lo cacciriano et lo lassiriano andar morendo de fame et necessità ...».
Tanta
la beneficenza del barone morente (ma era compos sui, o il ‘luterano’ notaio
inventava?):
5
once al venerabile convento di San Domenico della città di Agrigento;
5
once alla venerabile chiesa di Santa Maria del Monte;
10
once al venerabile ospedale della terra di Racalmuto;
5
once alla venerabile confraternita di San Nicola di Racalmuto;
5
once alla venerabile chiesa di San Giuliano; inoltre poiché il testatore ha una
certa quantità di calce e detenendo una fabbrica di calce (“calcaria”)
esistente in territorio di Garamuli, dispone che se ne dia sino a concorrenza
di 500 salme per la chiesa di San Giuliano;
5
once alla chiesa di S. Antonio (che quindi è ritornata in auge);
5
once in onore del glorioso Corpo del Signore quale si venera nella Matrice.
Al
servo di provata fedeltà debbono andare ben 20 once per i tanti servizi
prestati; 10 once, invece, al servo (famulus) Francesco de Milia.
Il
barone è grato al clero; gli è stato vicino ed amico. Ecco perché raccomanda al
successore d. Girolamo del Carretto
«quod omnes et singulae Personae Ecclesiasticae dictae Terrae Racalmuti
sint, et esse debeant immunes, liberi, et exempti ab omnibus, et singulis
gabellis, et constitutionibus solvendis spectabili Domino eius successori,
videlicet à gabella saluminis, vini, carnis, granorum, et olei, et hoc pro usu
tantum dictarum personarum ecclesiasticarum, et ita voluit, et mandavit.»
I
preti debbono dunque essere immuni dai balzelli baronali come la gabella dei
salami, del vino, della carne, del grano, dell’olio: una sfilza di tasse sui
consumi che la dice lunga sull’assetto fiscale della realtà feudale di metà
secolo XVI a Racalmuto.
Il
barone resta legato alla sua terra; vuole essere seppellito nella chiesa di San
Francesco, vestito con l’abito di San Francesco (dobbiamo almeno ammettere che
alla fine dei suoi giorni, la sua fede era intensa).
Il
processo d’investitura del successore Girolamo I del Carretto ci attesta che in
gennaio del 1560 Giovanni III del Carretto cessò effettivamente di vivere; morì
in Racalmuto e fu davvero sepolto nella chiesa di San Francesco.
GIROLAMO
I DEL CARRETTO
Il
Baronio diviene ora piuttosto loquace. Ecco come descrive quello che fu
l’ultimo barone ed il primo conte di Racalmuto (cfr. § 78 op. cit.):
«A
Girolamo primo, il maggiore dei figli maschi di Giovanni, dunque ritorniamo. Su
di lui ebbe a scrivere distesamente in lettere inviate a Filippo II re di
Spagna, Rodolfo Imperatore nobile figlio di Massimiliano che la famiglia del
Carretto stimò moltissimo. Il re, dato che gli antenati di Girolamo vantavano
il titolo di marchesi di Savona, volle che il nostro Girolamo fosse chiamato
ed avesse in quel tempo il titolo di
conte di Racalmuto, lasciando intendere che in avvenire avrebbe amplificato la
gloria di tanta illustre famiglia con titoli di maggior risalto.
«
Le lettere del re, dove Girolamo è gratificato con il titolo di conte, sono da
riportare. Niente è più preclaro. Esse sono datate: 28 giugno 5 ind. 1577 e
recitano: “Filippo etc. A tutti quanti
etc. Avendo lo spettabile fedele ed a noi caro D. Girolamo Carretto dei
marchesi di Savona documentato l’insigne
virtù non disgiunta da grandi fortune della propria stirpe, abbiamo considerato
i tanti servizi che ai nostri predecessori, di felice memoria, sono stati dai
del Carretto prestati quando necessità l’ha richiesto; del pari abbiamo
considerato l’antica nobiltà e lo splendore della famiglia carrettesca, che non
soltanto in questo Regno ma in tante altre nostre province si è a diverso
titolo resa celebre e meritevole. E omettiamo di considerare gli altri celebri
uomini della medesima famiglia che meritevolmente sono assurti a preclare e
altissime dignità dello stato ecclesiastico. Volendo pertanto mostrarci grati
verso il lodato D. Girolamo Carretto etc.”
«Noto è per di più quanto l’imperatore Rodolfo
fu prodigo di lodi per iscritto quando riesumò la lettera del padre,
l’imperatore Massimiliano, per tornare sul fatto che si gratificasse Girolamo
con il promesso onore del marchesato. Ecco il testo della lettera:
«Rodolfo etc. Serenissimo etc. Premesso che
negli anni scorsi il fu imperatore Massimiliano, signore e genitore nostro
colendissimo di augusta memoria, ebbe ad inviare alla serenità vostra lettere
in favore del fedele al nostro Sacro Impero ed a noi caro Girolamo de Carretto
barone in Racalmuto dei marchesi di Savona, con le quali lettere benevolmente
si pregava la Serenità vostra affinché Girolamo del Carretto, i suoi figli ed i
suoi discendenti primogeniti successori nella baronia Rachalmutana, potessero
fregiarsi del titolo grado e dignità marchionale e volesse pertanto erigere la
detta baronia in marchesato; ne conseguì che la vostra Serenità decretò quella
baronia con il titolo di contea.
«Tuttavia il nostro divo genitore ingenerò in
D. Girolamo la speranza che in altro tempo gli potesse venire concesso il
titolo di marchese. Ed è per questo che il predetto Girolamo de Carretto conte
in Rachalmuto umilmente ci ha esposto che oggi ciò tanto desidera essendo noto
che egli discende dall’antica stirpe dei Marchesi di Savona, la quale ha
origini antichissime dal Duca di Sassonia.
«Ragion
per cui così alla fine egregiamente concluse l’Imperatore:
«Pertanto con fraterno amore preghiamo la
Serenità vostra affinché vengano restituite al predetto Girolamo le avite
prerogative, rinverdite dalle virtù dei suoi antenati; e così anche per la
nostra intercessione possa realizzarsi la sua antica speranza. Ciò, peraltro,
ci tornerebbe come cosa graditissima. Etc. Date in Praga il giorno 12 febbraio
1580.»
Siffatto
pasticcio epistolare non sortì effetto alcuno. La baronia “rachalmutana” di cui
si parlò nelle corti degli Asburgo ascese solo di un grado e divenne contea, ma
marchesato giammai. Diciotto anni dopo, nel 1598, i del Carretto tornarono alla
carica, ma invano. Il Baronio infatti prosegue:
«Esiste
un’altra missiva, molto ben fatta, del 1598. Fra l’altro vi si diceva: “Antica e regale è la famiglia dei del
Carretto che è stata fedele alla nostra Augusta Casa e che è stata bene accetta
ai nostri Antenati per molteplici meriti. Pertanto Girolamo del Carretto, conte
di Racalmuto, siciliano ed il suo figliolo Giovanni meritarono le grazie di
nostro padre Massimiliano Secondo. Anche noi li degniamo della nostra benevolenza
e volentieri ci adoperiamo perché sia loro concesso tutto ciò che possa
accrescere il loro prestigio; ne abbiamo ben ragione etc.”
«Da
quanto sopra è ben chiaro che Girolamo e
la famiglia del Carretto furono tenuti in gran conto dagli imperatori come le
citate missive, altri documenti che non ho citato ed autorevoli testimoni ampiamente comprovano.»
Le
note del Baronio rendono invece a noi chiaro che i del Carretto, giunti
all’apice della ricchezza con la baronia di Racalmuto, presero il largo e
andarono a dimorare a Palermo. Lì, la fatua e neghittosa nobiltà aveva solo
l’angoscia delle preminenze negli onori. Agli immigrati del Carretto, il titolo
di barone suonava stretto: si prodigarono in regalie, bussarono a varie corti
regali, impetrarono favori, ma non riuscirono a superare la soglia del titolo
comitale.
Il
Villabianca lesse il Baronio e vi si ispira quando redige questo profilo sul
nostro Girolamo I del Carretto:
«GIROLAMO nel retaggio di questo Stato dopo la morte
di Giovanni suo genitore, lo ridusse egli all'onor di Contea per privilegio del
serenissimo Rè Filippo Secondo, dato
nell'Escuriale di S. Lorenzo a dì 27.Giugno 1576, [4] esecutoriato in Palermo a 28 Giugno 1577. [5] Fu pretore di Palermo nell'anno 1559 [6], e Don Vincenzo Di Giovanni nel suo PALERMO
RISTORATO lib. 2 f. 138. giustamente l'annovera fra 'l chiaro stuolo de' Padri
della Patria mercé il lodevolissimo governo, ch'egli fece, procacciato avendone
gloria, ed ornamento. Presiedette altresì la Compagnia della Carità di essa Città
di Palermo nel 1549., e adorno videsi di distintissimi elogi fattigli da
Rodolfo Imperatore con le sue Imperiali lettere al Rè Filippo II. negli anni
1580 e 1598., rapportate per extensum da BARONE
loc. cit. lib. 3. c. 11 De Majest. Panormit. - Da esso fu dato al mondo [p.
205] GIOVANNI del CARRETTO, quarto
di questo nome. il quale fu il secondo C. di RAGALMUTO, e Pretore di Palermo
nel 1600. [7] di non minor merito di quello del genitore
come vuole il citato DI GIOVANNI nell'istesso luogo notato di sopra, avvegnachè
fu egli dotato di tanta prudenza, valore, ed abilità, che nella onorevol
carriera di reggere gli affari pubblici avanzò tutti gli altri cavalieri suoi
pari, e magnati suoi contemporanei.»
Sciascia
dileggia questo nostro barone assurto al rango di conte. «Il primo Girolamo - riecheggia il grande racalmutese [8] - fu invece, ad opinione del Di Giovanni,
uomo di grandi meriti. Per lui Filippo II datava dall’Escuriale di San Lorenzo,
il 27 giugno del 1576, un privilegio che elevava Regalpetra a contea. Ma sui
meriti di Girolamo primo non sappiamo molto: fu pretore a Palermo, e non credo
dovuta a “bizzarra opinione seu presunzione”, come invece afferma il Paruta, la
sollevazione dei palermitani contro la sua autorità. Né mi pare che sia da
ascrivere a sua gloria il fatto che per suo ordine, il giorno sedici del mese
di marzo dell’anno milleseicento, trentasette facchini abbiano subita la pena
della frusta: notizia che senza commento offre il già ricordato erudito
regalpetrese [alias il Tinebra, n.d.r.]».
Tutto bene, salvo il fatto che nel 1600 Girolamo primo del Carretto era già
morto da diciotto anni. L’abbaglio nasce da imprecise letture da parte del
Tinebra dell’opera del Villabianca.
Dai
processi ricaviamo questi dati biografici. Girolamo I del Carretto fu il
primogenito di Giovanni III, come si evince dal testamento redatto dal notaio
Jacopo Damiano il 2 gennaio del 1560. L’8 gennaio 1560 Girolamo s’insedia quale
barone di Racalmuto. Nel rito lo rappresenta il suo procuratore, il magnifico
Giovanni Antonio Piamontesi. La formula recita che il barone prese “l’attuale,
vera, naturale, corporale baronia del castello, dei feudi e del territorio di
Racalmuto con ogni diritto e pertinenza, con il mero e misto imperio, con le
giurisdizioni civile e criminale su tutto lo stato, risultato integro giusta la
forma dei privilegi baronali”. Il procuratore rispetta il meticoloso ed
emblematico rituale: “esibisce la chiave del portone del castello; di propria
mano apre e chiude quella porta; entra ed esce; si reca presso i feudi; ne
prende alcune pietre in segno di libera disponibilità di quelle terre; revoca e
rinomina tutti gli ufficiali locali: il castellano nella persona del nobile
Scipione de Selvagio; il capitano nella persona di Giovanni Piamontesi; il giudice
nella persona del nobile Marco Promontori; i giurati nelle persone di Cesare di
Niglia, Leonardo La Licata e Giacomo Caravello; il maestro notaio nella persona
del nobile Innocenzo de Puma”. Viene redatto pubblico atto. I testi sono: il
nobil homo Maragliano, il nob. Antonino de Averna, l’onorabile Antonuccio
Morriali e l’onorabile Gerlando de Pitrozella. Il notaio è ancora il povero
Jacopo Damiano che però si dichiara agrigentino.
Girolamo
I del Carretto muore nel gennaio del 1582. Sono ancora i processi d’investitura
a dirci che esternò le sue ultime volontà dinanzi il notaio Giacomo Devanti di
Palermo il 14 gennaio del 1582, ma il testamento fu aperto un anno dopo, il 9
agosto del 1583. Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria di Gesù fuori le mura
in Palermo proprio sotto quella data. Ne fa fede l’atto parrocchiale della
chiesa di San Giacomo alla Marina del 14 luglio 1584.
Sposa
di Girolamo I del Carretto fu una Elisabetta di ignoto casato.
Ma
come si è visto, i del Carretto non stanno più a Racalmuto: quella lontana
terra, quel loro ‘stato’ serve solo per approvvigionare di fondi questi nobili
accasatisi a Palermo. Nel castello racalmutese siede e dispone un
‘governatore’. In Matrice non abbiamo trovato neppure un atto che attesti la
presenza del barone ora conte di Racalmuto, magari come padrino in un qualche
battesimo. Qualche membro dei rami cadetti, sì, ma il conte giammai. Vi farà
ritorno solo Girolamo II del Carretto per venirvi trucidato (se ciò corrisponde
al vero) nel 1622.
Il
privilegio di Filippo II che erige a contea Racalmuto è una sfilza di vacue
formule da cui non riusciamo a cavare alcun briciolo di microstoria
locale. Non abbiamo qui note in
proposito da proporre.
Da
questo momento la vicenda familiare dei Del Carretto è cosa che solo di
striscio riguarda Racalmuto. Vale di più per la storia della città di Palermo.
Ciò
non vuol dire che non vi furono riflessi tributari su Racalmuto a seguito della
concessione dell’onore di farne una contea da parte di Filippo II a tutto
vantaggio di Girolamo I del Carretto. Anzi. I riflessi ci furono e gravi. Una
ricerca fra le carte del fondo Palagonia dell’archivio di Stato di Palermo ha
consentito di rinvenire documenti di quel tempo, estremamente significativi per
la riesumazione delle vicende vessatorie cui sottostettero i nostri antenati
racalmutesi del Cinquecento.
Il
carteggio illumina sull’esoso fiscalismo spagnolo ai danni dell’università
feudale ed ha tratti inquietanti circa la disumanità viceregia.
Nel
1576 si era abbattuto su Racalmuto una immane pestilenza che ebbe pure a
colpire l’Italia intera.
Del
pari sconvolgente dovette essere lo scenario racalmutese: leggiamo nel
carteggio che «per lo contaggio del morbo
che in quella s’ha ritrovato che sono stati morti da tre mila persone [a
Racalmuto] restano solamente ... due mila e quattrocento
delli quali la maggior parte sono fuggiti assentati e rovinati ...».
Nel
precedente Rivelo del 1570 Racalmuto in effetti contava 5279
abitanti; ma in quello del 1583 scenderà ad appena 3823: una flessione che
sinora nessuno era riuscito a spiegarsi e che Sciascia scarica sui del Carretto
e sulle sue tasse enfiteutiche del terraggio e del terraggiolo [Morte
dell’Inquisitore, pag. 181].
Confesso
che anch’io ero scettico su questo crollo demografico di Racalmuto prima della
consultazione dei documenti del Fondo Palagonia. Ancor oggi non è che creda in
pieno in questo tracollo: ci fu un’opportunità per sgravi fiscali e si cercò di
scontare la tragedia della peste racalmutese del 1576 con qualche beneficio tributario.
Tuttavia,
la flessione vi fu e forte. I nostri antichi progenitori parlano di un
dimezzamento della popolazione nel vano intento di intenerire gli agenti delle
tasse palermitani; ma per bocca del viceré don Carlo d’Aragona e della sua
corte Sucadello, De Bullis ed Aurello, costoro non se ne diedero per intesi. Le
“tande” - o più graziosamente “donativi” - andavano pagate sino all’ultimo
grano a Sua Maestà Cattolica il re di Spagna. Ed andavano pagate anche le tasse
arretrate, senza ulteriori indugi.
V’è
agli atti una secca e perentoria negativa alla seguente perorazione dei Giurati
racalmutesi:
«Ill.mo et Ecc.mo Signore, li Giurati della
terra di Racalmuto exponino à vostra Eccellenza, dovendosi per l’Università di
quella Terra molta quantità e somma di denari alla Regia Corte cossì per
donativi ordinarij, et extraordinarij et altri orationi [per oblationi ?] fatti
per il Regno à Sua Maestà, come per le
tande della Macina, non havendo quelli possuto satisfare per lo contaggio del
morbo che in quella s’hanno ritrovato
... , à vostra Eccellenza
l’esponenti hanno supplicato che se li concedesse à pagare quel tanto che detta
università deve alcuna dilattione competente [e che ] à detta Università
fossero devenute [condonate] li tandi maxime quella della macina che si doveva
pagare ..»
La
burocratica risposta palermitana è spietata: la decisione (provista) di Sua Eccellenza si compendia in un “non convenit” “non
conviene”. La tragedia racalmutese agli occhi palermitani si traduce in una
gretta questione di convenienza. L’abbuono di tasse non è ammesso, non conviene
alle esigenze del bilancio dello stato. Una storia dunque che si ripete; un
localismo, il nostro, quello di Racalmuto,
che ha valenza oltre il tempo, oltre la landa municipale. Altro che isola
nell’isola ..
Remissivamente
i giurati di Racalmuto nel 1577 accettano il loro fato e fatalisticamente
annotano:
[Ma
tale petizione non ha avuto esito] “per
lo chi attendo [attesa] la diminutione delle persone morti è stato per vostra
Eccellenza provisto quod non convenit quo ad dilactionem [ f. 228] e poiche l’esponenti per li
Commissarij che alla giornata si destinano contro loro, e detta città per
l’officio del spettabile percettore s’assentano, e non ponno ritrovare modo
alcuno di satisfare à detta Regia Corte e se li causano eccessivi danni, et
interessi supplicano Vostra Eccellenza resta servita concederli potestà di
poter fare eligere persona facultosa,
poiché pochi vi sono in detta Terra di poter vedere augumentare, e
raddoppiare alcune delle gabelle di detta università, e fare quel tanto che per
consiglio si concluderà, acciò potersi
sodisfare nullo preiudicio generato
ad essa università circa detta diminuttione, e difalcatione che hanno
supplicato doversi fare à detta Terra per detta mortalità, e mancamento di
persone, e resti servita Vostra
Eccellenza sia quello mezzo che si
concluderà quello che di sopra si è detto per detto consiglio concederli dilattione almeno di mesi due,
altrimente stando assentati non potriano effettuare cosa alcuna e detta Regia
Corte non verria ad esser sodisfatta ne tenendo detta università modo alcuno di
sodisfare, ne tener altro patrimonio ut Altissimus. ..”»
La
messa in mora della locale amministrazione
per ritardo nel versamento delle tande sulla macina scatena dunque la cupidigia
di commissari palermitani sguinzagliati nel malcapitato paese moroso ad
esigere, oltre alle imposte, pingui “giornate” (le attuali diarie per missioni)
e ad aggravare le esauste finanze locali
«con eccessivi danni ed
interessi».
Si
accordino - si chiede da Racalmuto - due
mesi di dilazione per trovare un
sistema di reperimento dei fondi ed assolvere il cumulo tributario.
Questa
seconda istanza viene accolta. Ma l’invadente autorità viceregia detta una
serie di disposizioni sui modi, tempi e luogo delle procedure per un nuovo
sovraccarico fiscale sulla cittadinanza racalmutese.
Il
carteggio qui va attentamente studiato raffigurando istituti, costumi,
organizzazioni pubbliche e territoriali del primo secolo dell’epoca moderna.
Hanno una originalità che non mi pare sia stata debitamente messa in luce dalla
cultura storica degli accademici.
Viene
fuori uno spaccato dell’organizzazione statuale che non può ridursi al mero
dato tributario (la gabella per assolvere gli oneri fiscali) ma che fa
trasparire una vocazione democratica impensata. Per sopperire alle necessità
tributarie, Racalmuto assurge al ruolo di Comune libero, democraticamente
organato, con una sua assise plebiscitaria, avente poteri decisionali.
L’ordine,
certo, arriva da Palermo, dall’autorità centrale, ma è ordine volto ad attivare
le istituzioni democratiche comunali. Con aperture sociali che gli attuali
consigli comunali sono ben lungi dall’avere, è il popolo che viene chiamato a
raccolta, è il popolo che decide sui propri ineludibili gravami tributari,
ovviamente sotto la guida e la direzione di quella che oggi chiameremmo la
giunta comunale: la giurazia.
Affascinano
questi passaggi delle carte palermitane:
vi diciamo, et ordiniamo
che debbiate in giorno di festa e sono di campana come è di costume congregare
il vostro solito consiglio sopra le cose contenute nel preinserto memoriale, e
quello che per detto conseglio seù maggior parte di quello sarà concluso, et
accordato, e sigillato lo trasmitterete nel Tribunale del real Patrimonio acciò
di quello fattone relatione possiamo provedere come conviene. - data Panormi
11. Martij 5^ ind. 1577. Don Carlo d’ Aragona - Petrus Augustinus Sucadellus ... conservatore [f. 229] Marianus Magister
Rationalis, de Bullis Magister Rationalis, Franciscus de Aurello Magister
Notarius, ..»
Il
Consiglio comunale si svolge nella chiesa dell’Annunziata - che anche allora,
molto prima che nascesse don Santo d’Agrò, era bene operante a Racalmuto - ed abbiamo anche il verbale consiliare che mi
pare opportuno rileggere, almeno nelle sue parti essenziali:
Racalmuti die 25.
Aprilis 5^ Ind. 1577.
Die festivo supradicti
Martij in Ecclesia Sanctae Mariae Annuntiatae dictae Civitatis existens in
platea publica.=
Perche ritrovandosi
l’università di questa Terra di Racalmuto debitrice in molta somma cossì alla
Regia Corte
è stato supplicato da
parte di detta Università per li Giurati di quella à Sua Eccellenza che per li
detti debiti se li concedesse dilatione competente per potersi ritrovare il
modo di quelle sodisfare, et in quanto à quelli della macina poiche avendosi fatto
offerta à Sua Maestà, et ordinatosi quella dovere pagare per poche di persone
di tutte città, e terre del Regno à raggione di denari novi per ogni tummino
[f. 230] che per il ripartimento e numero di persone che allora vi erano in
detta terra tocca à detta Università pagare in due tande once 24.5.11.2.
e vedendosi che tuttavia
detta Università non si vederà libera à tal debito supplicano detti Giurati
un’altra volta à Sua Eccellenza che resti servita concederli potestà di poter
eligere persone facultose, ò vendere et augumentare, e raddoppiare alcune delli
gabelle di detta Università, e fare quel tanto che si potesse per consiglio
concludere acciò si potesse detta Università liberare di tal debito et
interesse nullo prejudicio generato à detta Università sopra la diminutione, e
difalcatione che se li deve fare per detta Regia Corte stante le raggioni
predette come si contiene per memoriale alli quali s’abbia in tutto relatione
[f. 231] et essendo stato provisto per la prefata Eccellenza Sua e Tribunale del
Real Patrimonio che si congregasse sopra le cose contente in detto memoriale
consiglio, e quello si trasmettesse per poter provvedere come convenisse, per
ciò s’ha devenuto alla congregatione del presente consiglio come intesa la
presente proposta habbiano sopra le cose prenominate ogn’uno possi liberamente
dire il suo voto, e parere.
Il Magnifico Vincenzo
d’Randazzo uno delli Magnifici Giurati di detta Terra, e locotenente del
Magnifico Capitano di quella, è di voto, e parere che s’aggiongano onze quaranta
di rendita da pagarsi quolibet anno come meglio e per manco interesse di detta
Università si potrà accordare con quelle persone che vorranno attendere à tal
compra di rendita.
* *
*
Per
inciso, richiamiamo l’attenzione sul menzionato giurato racalmutese del 1577
Vincenzo Randazzo che sembra farla da presidente della giurazia. Viene indicato
con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola
borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina
era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego
La Matina, Vincenzo era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Ritornando al nostro tema del carteggio del 1577, resta evidente
che vi si trova uno spaccato della vita pubblica comunale, dal taglio
democratico, con istituzioni pubbliche che esulano dal diritto romano e da
quello del sorgente stato moderno; affiora qualche dato che fa pensare alla
tipica organizzazione greca della Polis, con la sua Ecclesìa, e con il ricorso al voto cittadino espresso in una
solenne adunanza tenuta nell’Ecclesiastérion.
Al suono della campana della Ecclesia dell’Annunziata, sita nel
centro della grande piazza di Racalmuto che dal vecchio Santissimo si allargava
nello spiazzo ove ora sorgono le torri campanarie della Matrice e si riversava
nell’attuale piazza Castello per risalire nel largo ove ora sonnecchiano i
palazzotti degli invadenti Matrona [la vaniddruzza
di Matrona].
Nel confrontare l’attuale assetto urbanistico con quello che l’ex voto del Monte ci fa
intravedere, c’è da esecrare la mania piccolo borghese degli arricchiti di
Racalmuto dell’Ottocento di piazzarsi con i loro casamenti sopraelevati sulle
case terrane (o al massimo solerate) nel bel mezzo della storica piazza dell’Università
di Racalmuto. E dire che riuscirono a farsi credere anche dalle menti più
elette del nostro paese come dei
benemeriti filantropi!
Certo marginale appare il ruolo dei Del Carretto in questa vicenda
fiscale. Quel che rileva è il ricorso pubblico al prestito, quello cioè che
oggi avviene tra i Comuni e la Cassa Depositi e Prestiti. Solo che allora per
Racalmuto siffatta Cassa DD.PP. era nient’altro che uno strozzino di Agrigento,
tal Caputo, ultra riverito ed adulato dal pubblico notaio.
Sembra opportuno tracciare il grafico della popolazione di
Racalmuto che tenga conto dei dati del carteggio del 1577.
La curva dell’andamento demografico della Racalmuto del ’500 si
avvalla vistosamente, come è ovvio, nell’anno della peste del 1576. Il crollo
demografico di quell’anno fu irreversibile (anche se fu dovuto più alla fuga che alla morte dei racalmutesi:
i superstiti quindi ebbero poi modo di ritornare nelle loro case di paese,
lasciando - riteniamo - quelle di campagna). Occorrerà aspettare il 1658 (un
secolo) per risalire a quota 5.165 e solo nel 1660 la popolazione supererà
quella del 1570 assestandosi sui 5488 abitanti.
Quanto alle finanze locali,
la crisi del 1577 fu in qualche modo tamponata; il bilancio comunale toccherà
nel 1593 un disavanzo di appena 28 onze, un tarì e quattro grani (460 onze d’introito ed onze 488, tarì 1 e grana
quattro d’esito). La forte pressione fiscale - tutta basata sulle imposte
indirette - finì di certo in una asfissiante strozzatura dei consumi da parte
dei poveri. I proventi dalle rinomate salsicce racalmutesi furono pressoché
nulli: pane, foglie, pilo, vino, formaggio, legname, pesci e qualche altra voce
diedero un gettito tributario che si volatilizzò essenzialmente per le spese
militari e per oltre la metà per ciò che era dovuto alla regia Corte a titolo
imprecisato. Inoltre si pagavano sei onze annue per “tande”.
[1])
ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO - "GIULIANA" - VISITA- DEL 1540 - f. 196 v - 198v.
[2]) Cfr. «LA VISITA PASTORALE
DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - tesi di
laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di
Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto
risulta trattato nelle pagine 207-218. Inoltre: ARCHIVIO VESCOVILE DI AGRIGENTO
- "GIULIANA" - VISITA 1542-43
- colonne 190v-193v.
[3] )
Archivio di Stato di Palermo - Fondo Palagonia - Atti privati n. 630 - anni
1453-1717 - ff. 44r - 56v.
[5] ) (b) [R. Cancell. ann. 1577. f. 476]
[6] ) (a) [DI GIOVANNI, Palermo Ristor. lib. 4. f.
242 retr.]
[7] ) (a) [Lapidi Senatorie che si veggono a porta
di VICARI, e porta di MACQUEDA]
[8] )
Leonardo Sciascia, Le parrocchie di
Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 17
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