Carissimo Agato,
la tua prensile
sensibilità d’artista ti ha spinto a mirare (ed ammirare) plaghe, dirupi,
alberi, ulivi, mandorli, sommaccheti, vigneti dell’acre terra racalmutese: col
tuo singolare cappellino bianco, per ripararti dal sole di Sicilia, nelle
precorse estati hai osservato, scrutato e trasferito in tela o su tavola o
cartone il senso recondito del luogo che ti ospitava.
Tu ami
Racalmuto, i suoi colori, il suo sole, il suo imbrunire, il suo esplodere
cromatico a mezzogiorno, o il suo imbronciarsi per qualche passeggera nuvola
estiva.
Anche per te,
come per Bufalino, Racalmuto può essere un godibile piccolo lembo di paradiso.
Chi è creativo
vede nell’opaco o nell’occulto o nell’assurdo emblemi, messaggi, redenzioni,
richiami della memoria, a noi comuni mortali negati perché ciechi
nell’immaginare e sordi nel percepire. Capita così che Sciascia, seduto a sera
davanti al casolare della Noce, veda laggiù, circondante l’aprica “casina” dei
Matrona, «un paesaggio in tutto simile a quello che fa da sfondo all’Amor sacro
e all’Amor profano di Tiziano … Poi di colpo, come un ventaglio quella visione
si chiude: ed è la notte col suo pergolato di stelle e con la luna così vicina
che sembra la si possa colpire e far vibrare come un gong.» Agato Bruno sta, invece,
a dipingere la quaternaria pendice di Cozzo della Loggia, il retroscena
dell’altra cadente casina degli antagonisti Tulumello, anche lui immaginifico,
sognante, trasfigurante. Non per nulla Vincenzo Perna rinveniva in lui il pittore
che aveva attraversato e preservato «il rigoglioso, forte paesaggio
mediterraneo, ricco di esplosioni di colore» essendosi «misurato con gli
insegnamenti della grande pittura veneta rinascimentale e postrinascimentale da
Veronese e Tiepolo, catturandone versatilità di luce.»
Non mi intendo
di pittura se non per il solo epidermico goderne e non ho quindi legittimazione
alcuna per parlarne. Resto solo ammirato per il mio amico Agato, come lui resta
ammaliato dai richiami cromatici del mio luogo natio, da questa terra che in
otto secoli di memorie storiche da me investigate non sembra essere andata al
di là di uno stentato humus di sopravvivenza umana, di uomini attaccati alla
vita, come “erba abbarbicata alla roccia.”
* * *
Carissimo Agato,
mi sei sodale nella nostra ricerca del sociale, nella schietta lettura di
questo evolversi dell’umana vicenda, di questo contemperarsi impossibile di
irrefrenabili impulsi verso la globalizzazione totalizzante e di minimali
vocazioni localistiche: ne abbiamo discusso, d’estate, a Racalmuto; abbiamo
cercato di discettarne nella scuola da te presieduta.
Agato Bruno, per
me, è sempre sincero sino all’autocritica politica e credo che ben si ambienti
in questa terra racalmutese satura di contraddizioni, eppure vogliosa di genuinità
sino alla macerazione, sino alla tortura dello spirito. Per chi, come Agato, sa
anche “ri-guardare”, in grande, con ilare esuberanza cromatica, questi uomini,
spesso cupi, così diversi da lui, vengono sussunti ad intimo termine di
confronto, per quella necessità di contrapporsi a ciò che non ci è simile, che
si snoda nel fioco, nel rappreso, nel malinconico dissolversi.
Da qui, gli
spunti, gli umori, gli ammiccamenti, le volute pittoriche, gli onirici
“ri-guardi” per una godibilissima pittura, suggestiva, ammaliante che Agato
Bruno vuole esporre al Castello Chiaramontano a futura memoria – diremmo noi
maldestri fruitori di luoghi comuni – di questa singolare vicenda umana, di
questo approdo nel mondo sciasciano di uno spirito ilare e profondo, diverso
eppure convergente, di un ibrido sconcertante ma rilucente di mirabile malia.
E qui desisto.
Con l’augurio ed il grazie dell’amico
Calogero
Taverna
Estate, 2006.
Nessun commento:
Posta un commento