Queste
ultime, secondo una nostra stima, erano in taluni periodi la metà di tutta
l’incidenza tributaria: andavano dalle decime arcipretali (chiamate primizie)
ai “diritti di quarta” della Curia
vescovile; dai gravami basati su un falso diploma del 1108 (quello di Santa
Margherita) in favore di un canonicato agrigentino che nulla aveva a che fare
con Racalmuto (sappiamo di canonici beneficiari saccensi) ai tanti balzelli per
battezzarsi, sposarsi in chiesa, avere il funerale religioso. Beh! la chiesa tassava
il fedele racalmutese dalla culla alla tomba.
*
* *
Il
lavoro di ricerca si appoggia e presume la pluriennale indagine che è stata
svolta sui libri parrocchiali di Racalmuto. Sono libri, ripetesi, che annotano
nascita e morte, battesimo e matrimonio, precetto pasquale di ogni racalmutese,
senza distinzione di classe sociale o di propensioni religiose, dal 1554 sino
ad oggi. Dapprima lo stato moderno non si preoccupò di questi aspetti anagrafici;
quando poi cominciò a farlo incontrò spesso - come avvenne per Racalmuto nei
primi anni dopo l’Unità - l’astio vandalico delle popolazioni inferocite e in
gran parte quelle note burocratiche finirono irrimediabilmente distrutte.
Ma
alla Matrice di Racalmuto, no. Solo una
mano sacrilega strappò qualche foglio, magari per provare l’indubitabile
origine racalmutese di Marco Antonio Alaimo, nato sicuramente a Racalmuto nei
pressi di via Baronessa Tulumello il 16 gennaio 1591, diversamente da quello
che attestano le pretenziose lapidi comunali e come invece afferma l’Abate d.
Salvatore Acquista nel suo saggio sul medico racalmutese del 1832, pag. 25.
Ed a
ben guardare quel libretto, sembra proprio lui - l’autore - il vandalico che ha
sottratto il foglio di battesimo di M. A. Alaimo. Mi riprometto di rintracciare
quel foglio tra quei cinque sacchi di scritti che l’esecutore testamentario
Giuseppe Tulumello depositò nella Biblioteca Lucchesiana il 24 aprile 1879. ([1])
* * *
Le
carte della matrice di Racalmuto sono un po' stregate: appaiono vendicatrici.
Basta che uno storico locale si sbilanci in ricostruzioni storiche che
prescindano dalla loro consultazione per scattare la vendetta: esse stanno lì
per sbugiardare il malcapitato paesano. Esigono rispetto, deferenza, assidua frequentazione e meticolosa attenzione.
Quando
il giovane studente in medicina - il Tinebra Martorana - si mise a scrivere improvvisandosi storico
locale, nella totale ignoranza dei libri parrocchiali, questi lo hanno
ridicolizzato smentendolo impietosamente specie nelle fantasiose saghe dei del
Carretto, della vaga vedova di Girolamo, nello scambio di sesso del figlio
Doroteo (che invece era una Dorotea longeva e per nulla uccisa dalla cornata di
una capra: voce popolare questa raccolta dal Tinebra). Dispiace che il grande
Leonardo Sciascia si sia fatto travolgere dal suo fidato storico e sia
incappato in spiacevoli topiche, specie nell’anticlericale attribuzione di un
nefando crimine al frate Evodio Poliziense - che davvero era un pio monaco e
che a Racalmuto, se vi mise mai piede,
ciò avvenne poche volte e per compiti istituzionali e conventuali,
limitandosi solo ad edificanti incontri con i suoi confratelli di S. Giuliano.
In ogni caso Frate Evodio Poliziense poté frequentare Racalmuto quando Girolamo
del Carretto - che secondo Sciascia fu fatto trucidare dal monaco - era poco
più che tredicenne.
Non
fu, poi, questo Girolamo del Carretto ad essere tiranno di Racalmuto in modo
“grifagno ed assetato” secondo il lessico del Tinebra, né fu lui (ma i suoi
tutori) ad accordarsi con i maggiorenti di Racalmuto per una promessa di
affrancamento in cambio di 34.000 scudi (vedi sempre il Tinebra); né egli è
colpevole del “terraggio” e del “terraggiolo” e di tutte quelle altre
nefandezze che sono l’humus
storico-culturale delle Parrocchie di Regalpetra o di Morte dell’Inquisitore.
Quando il conte morì non aveva ancora raggiunto l’età di venticinque anni e da
oltre un anno con atto di donazione tra vivi si era liberato di tutti i suoi
beni in favore dei due figli Giovanni - quello giustiziato poi a Palermo nel
1650 - e Dorotea ( e non Doroteo); egli, inoltre, aveva nominato
amministratrice e tutrice la giovanissima moglie Beatrice di cui, peraltro, si
conosce bene il cognome. Era, costei,
una Ventimiglia.
(E tanto grazie alle recenti scoperte
d’archivio del prof. Giuseppe Nalbone. Siffatte carte ci forniscono anche
notizie su Dorotea del Carretto, divenuta marchesa di Geraci che risulta
defunta da poco nel 1654 [pro comitatu Racalmuti et Baronia Gibellini, filii
filiaeque donnae Dorotheae Carrecto Marchionissae defunctae Hieratij et
praefati d.ni Joannis Comitis Rahalmuti sororis - f. 267 v.]. Il 1654 è l’anno
della restituzione da parte del Re di Spagna a Girolamo del Carretto dei suoi
domini racalmutesi con diploma emesso nel
Cenobio di S. Lorenzo il 28
ottobre 1654).
Anche
il pur meritevole Eugenio Napoleone Messana incappò in disavventure storiche
per avere disatteso le carte della Matrice. Si credeva incontrollabile e
storicizzò una frottola di famiglia facendo sposare nel ‘500 tal Scipione [o
Sypioni o Sapioni] Savatteri ad una inesistente figlia dei Del Carretto per
legittimare una inverosimile ascendenza nobiliare. Impietosamente - anche qui -
i libri di matrimonio e di battesimo della Matrice di Racalmuto danno i dati
anagrafici di detto Scipione Savatteri, oriundo peraltro da Mussomeli, di
rispettabile stato piccolo borghese, andato sposo ad un’altrettanta plebea
Petrina Saguna:
12/10/1586 - SAVATERI SCIPIONI DI PAOLINO E BELLADONNA
sposa SAGUNA PETRINA DI ANTONINO E MARCHISA.
Benedice le nozze: don Paolino Paladino -TESTI:
Montiliuni Gasparo notaro e cl. Cimbardo Angilo
Superfluo
aggiungere che quella “Marchisa” - madre di Petrina - è solo un singolare nome
e nulla ha a che fare con storie di nobiltà locale.
* * *
Se poi
consultiamo le tantissime carte dell’Archivio della Matrice sulle congregazioni
o sui pii legati e simili, abbiamo piacevoli sorprese sulla vera storia di
Racalmuto. Certo, svanisce nel nulla la vicenda del prete Santo d’Agrò che da
solo costruisce l’attuale Matrice: anche qui ci troviamo di fronte ad una
distorsione del Tinebra, che viene ripresa da Sciascia per una sua
impareggiabile rilettura. E’ però una rilettura che esplode in una irriverente
raffigurazione dell’incolpevole e probo sacerdote Agrò: questi viene immerso in
deliri erotici ed addirittura proteso in viaggi allucinati, deposto sulle
spiagge del deliquio sensuale, e, con immagine spagnola, sommerso nell’Alumbramiento onirico (vedi Sciascia:
Introduzione al Catalogo illustrato delle opere di D’Asaro, pag. 20).
E dire
che sarebbe bastato un fugace sguardo ad un atto transattivo degli eredi di
detto sacerdote - atto transattivo che
si conserva in Matrice - per fugare tali
infamanti sospetti e rispettare la verità storica sulla “fabbrica della
Matrice”; la quale ben due rolli - sia detto per inciso - seguono passo passo,
sino al primo ventennio dell’ottocento. Per lo meno si sarebbero evitate
ricadute che non si possono non lamentare in libri pubblicati non più tardi
dell’altro ieri.
* * *
Mi
rincresce davvero dover qui dissentire da quanto scrive lo scrittore nostro
compaesano sulla sua origine racalmutese. I registri parrocchiali - che il
grande scrittore invero disdegnò di consultare approfonditamente - forniscono
dati sulla genealogia di Leonardo Sciascia che vanno ben al di là del “nonno di
suo nonno” (cfr. Occhio di Capra, ed. 1990 pag. 12).
1690 circa
- SCIASCIA
LEONARDO M.°
29.9.1726
- SCIASCIA GIOVANNI
M.°
7.1.1754 - SCIASCIA LEONARDO
M.°
24.2.1802 - SCIASCIA CALOGERO
26.8.1810 - SCIASCIA PASCALIS
25.10.1884 - SCIASCIA
LEONARDO
27.3.1920 - SCIASCIA PASQUALE
8.1.1921 -
SCIASCIA LEONARDO
|
Sciascia
è racalmutese per lo meno a partire dalla fine del Seicento e non dai “primi dell’Ottocento” come amò
credere sulla scia di una sua metafora irridente all’irridente avversione locale
verso i “nadurisi” (Occhio di Capra, pag. 95). Là Sciascia ama inventarsi un
bisnonno appunto “nadurisi”. Per i racalmutesi: «Venire dal Naduri - cito
Sciascia - era come venire da una sperduta contrada di campagna: essere dunque
zotici e sprovveduti. Quasi peggio dei milocchesi. Dal Naduri è venuto a
Racalmuto il nonno di mio nonno, Leonardo Sciascia: da contadino che era stato,
a Racalmuto intraprese il mestiere di conciatore di pelli, pure
commerciandole”. Non so dove abbia appreso
queste notizie il grande scrittore: so solo, però, che i libri
parrocchiali lo smentiscono su tutta la linea. Da lì vien fuori un albero
genealogico di Leonardo Sciascia ben diverso da quello che tratteggiò lo stesso
Sciascia.
L’invocato
“nonno del nonno” era un apprezzato mastro locale, fedele appartenente alla
“maestranza” ancora esistente all’Itria. Di nome Calogero (e non Leonardo),
apparteneva ad una famiglia di mastri che in linea diretta ci conduce sino ad
un capostipite del Seicento di nome Leonardo, sposatosi con l’agrigentina
Vincenza Quagliato.
“Lapsus
della memoria” vorrebbe la famiglia - da me consultata. Può darsi: ma non può
neppure affermarsi - come è stato fatto - che il grande scrittore volesse
riferirsi al “nonno di sua nonna”, che in effetti si chiamava Leonardo
Sciascia. Invero, anche costui era
racalmutese, figlio di racalmutese, fratello di quell’Antonino Sciascia,
professore universitario, di cui parla il Tinebra ed a cui lo stesso Leonardo Sciascia teneva
particolarmente.
Mi si
perdoni questo mio insistere sulle origini racalmutesi dello scrittore. Il
«'lapsus' della memoria» mostra, a mio modesto avviso, un atto trasfigurante
occorso - o cui il grande scrittore ha indulto - per esigenze dell'intelligenza
ai fini di uno dei suoi raffinati aforismi. Se
voi - se noi - racalmutesi avete in uggia i 'nadurisi', ebbene allora io sono
'nadurisi'. E con ciò? Il dramma o la farsa di essere «un'isola» o
«un'isola nell'isola» o «un'isola nell'isola dell'isola..» etc. permane non so se
borgesianamente o
esistenzialisticamente.
Racalmuto
non ha una storia esemplare. E' una storia paesana, qualche volta violenta, tal
altra generosa, ma sempre entro le righe, in un pentagramma di invariabile
moderazione. L'unica sua gloria è Sciascia. Svetta e se ne distacca. Radicarlo
nella terra del sale, è un mio orgoglio ed una mia ambizione. 'Occhio di Capra'
sembrava smentirmi: le carte della Matrice mi rasserenano e suffragano la mia
convinzione.
Non
pretendo certo di scandagliare il mondo dei sentimenti verso Racalmuto del
grande Sciascia: viceversa, ho tentato di risalire la corrente pluricentenaria
di quella 'blasfema ironia' che Sciascia ritaglia per Racalmuto (Kermesse, pag.
54 ), convinto che da quelle antiche propaggini si diparte l'insondabile gene
atto a far sbocciare il genio inquieto ed irriverente dello Scrittore
racalmutese.
La storia di Racalmuto va
integralmente rivisitata. Non siamo certamente noi quelli che possiamo
espletare un siffatto improbo compito. Ma un tentativo vogliamo egualmente
esperirlo. Speriamo in una pioggia di critiche, rettifiche, approfondimenti,
completamenti. Chi avrà pazienza di leggerci noterà una dissacrazione della
storia racalmutese consolidata, anche se porta l’avallo del grande Sciascia.
Valga come provocazione. Sarà un progresso che dissolverà la solita favoletta
fatta di baroni e conti, jus primae noctis, preti affetti di satiriasi senile,
frati omicidi, contesse fedifraghe, terraggio e terraggiolo, chiese di
inaccettabile vetustà, ripicche di grandi (e mediocri) famiglie, sindaci e
podestà dediti all’omicidio ed allo stupro di minorenni, fascisti e
sansepolcristi ed una pletora di gesuiti, di papa neri, di santi e di venute
miracolose, di risse chiazzotte, di infamie municipali, di toponomi improbabili
e tradizioni sicane, di miniere e di illeciti arricchimenti: una paccottiglia
francamente indigesta. Zolfatai e salinai eroici noi non ne abbiamo mai
conosciuti; martiri per la libertà di pensiero non ci paiono possano allignare
tra i miasmi dei calcaroni solfiferi
o tra il picconare nelle viscere di Pantanella montagne di salgemma umido e
apportatore di nistagno. I bambini delle elementari si misero a riguardare
Racalmuto ed i loro “sguardi” ebbero l’onore delle stampe nel settembre del
1995. Con gli occhiali delle loro maestrine, i piccoli storici si addentrarono
nei misteri delle origini racalmutesi ed ebbero certezze su tutto: arabi e
conventi, chiese e monumenti, congregazioni e feste, miniere ed artigianato,
acque e sorgenti, strutture sociali e naturalmente una pletora di uomini
illustri (oltre 18). Sono, invero, ‘sguardi’ dignitosi ma quei bambini non potevano scrutare ciò che
sinora è occulto, ignoto, ignorato.
Il nostro ‘sguardo’ si avvale di
ricerche d’archivio, della consultazione di testi antichi, di recenti reperti
archeologici, di studi nuovi e di materiale epigrafico e numismatico vecchio e
nuovo. Troppo e poco, al contempo. Ma per l’avvio di una rivisitazione della storia (o microstoria,
che dir si voglia) di Racalmuto ci si potrebbe accontentare.
BREVE SINOSSI ARCHIVISTICA ARCHEOLOGICA E BIBLIOGRAFICA
Il nostro interesse per la storia di
Racalmuto ebbe inizio allo spirare degli anni ’Settanta ed esordimmo con alcune
ricerche presso l’Archivio Segreto Vaticano. Consultando le “relationes ad Limina”
dei vescovi agrigentini, c’imbattemmo immediatamente nella questione della
tassazione ecclesiastica di Racalmuto. Ne trattava il vescovo spagnolo Orozco
Covarruvias nell’agosto del 1598: in una tabella figurava l’arcipretato
racalmutese con proventi di ben 250 once annue ([2]). Le
ricerche d’archivio vennero, quindi, allargate ai libri e rolli della Matrice e
da qui ai fondi degli archivi di Stato di Palermo, Roma ed Agrigento, nonché a
quelli della Curia Vescovile di Agrigento. Il materiale acquisito ci ha portato
ad abbozzare una prima ricostruzione storica della natia Racalmuto, che col
passare degli anni si è via via modificata, aggiustata, integrata, corretta,
riformulata. Una fatica di Sisifo! Nello scrivere queste note iniziamo con una
versione che ci accingiamo a sunteggiare. Alla fine dello scritto, la nostra
narrazione apparirà invero già modificata. Non ce ne voglia l’eventuale
lettore.
La
primordiale presenza umana potrebbe venire
attestata dalla grotta di Fra Diego che ci riporta sino ai tempi
dell’uomo di Cro-Magnon (30 mila anni fa) ([3]). Ma
sono i Sicani quelli che per primi consolidarono il loro insediamento nelle plaghe
del nostro altipiano: le tombe a forno che suggestivamente fanno da corona alla
grotta di Fra Diego sono la palpabile testimonianza di quella civiltà
preistorica risalente a quattro mila anni fa.
Nel
1880, nel corso dei lavori per la costruzione della ferrovia Licata-Porto
Empedocle, si rinvenivano nel territorio di Racalmuto, a 10 km. da Canicattì,
altre tombe a forno con corredi di ceramica del secondo millennio a. C.,
sufficientemente investigati dagli archeologi dell’Ottocento. Purtroppo,
successive indolenze impediscono tuttora la seria conoscenza della ricca e
peculiare archeologia racalmutese.
Casuali
rinvenimenti di monete greche (con il granchio agrigentino o col cavallo alato
siracusano) comprovano presenze siciliote nella zona di Casalvecchio-Grotticelle.
L’iscrizione
latina in una “diota” della Roma repubblicana rievoca un intenso commercio
vinario di quel tempo ad opera di un mercante della “Famiglia” dei “Fuscus”.
Fa
spicco una serie di “tegulae sulphuris” (gàvite) rinvenute in varie località di
Racalmuto, una delle quali documenta l’esistenza di miniere di zolfo nei pressi
di Santa Maria durante l’impero di Comodo (180-190 d.C.), come si avventò a dire il Salinas.
Per
Biagio Pace, le Grotticelle sarebbero un ipogeo cristiano e l’importante
ritrovamento di un tesoretto di monete bizantine del VI-VII secolo d. C. nella
contrada della Montagna contrassegna un’operosa presenza cristiana sin dagli
albori della diffusione del verbo di Cristo in Sicilia.
Ultimamente
sono affiorate “strutture murarie abitative” molto latamente riferite ad “epoca
ellenistica-romano-imperiale” nella zona di Grotticelle il cui studio è
rinviato al tempo in cui i “programmi dei BB.CC. di Agrigento” potranno
snodarsi “con maggiore continuità”.
La
pagina più buia della storia di Racalmuto è quella del dominio arabo. Può dirsi
una storia quasi trisecolare completamente oscurata.
Di
certo sappiamo che, caduta Agrigento attorno all’ 829 in mano dei Musulmani,
quella che dovette essere la popolazione bizantina sparsa per il territorio
racalmutese finì sotto il dominio arabo. Di sicuro, verso l’840 i nuovi e più
stabili padroni furono i Berberi, gente della famiglia camitica della stessa
schiatta dei moderni marocchini. Distrussero costoro religione, usi, costumi,
tradizioni, cultura, superstizioni dei nostri progenitori racalmutesi di lingua
greca? Noi pensiamo di no.
Pochi,
di religione non missionaria, necessitanti di imposte a carico dei ‘rum’
(romani o cristiani che dir si voglia), alieni da commistioni ed in un certo
senso razzisti, non avevano alcun interesse a consumare genocidi nella nostra
landa o a imporre il loro modo di essere maomettani a quelli cui quella
‘grazia’ non era stata concessa, perché militarmente sconfitti. Allah non
poteva essere anche il Dio dei vinti. Ed i vinti servivano - come in ogni tempo
- per lo sfruttamento, per il discrimine sociale, per il supporto schiavistico
su cui, in modo mascherato e variegato, si radicano le leggi della economia.
Così
poté esservi convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano
testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul
luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e
vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si
assestarono nelle valli, vicino alle fonti d'acqua della Fontana, del Raffo ed
anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture
d'ortaggi, in cui erano maestri e che i rum
(i cristiani) ignoravano. Dai rum,
l'emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per
mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Forse
semplici congetture, ma ci appaiono fondate: i Berberi, insediatisi da
noi, introdussero sistemi di
coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi
autori riportati dall'Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e
zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l'attuale Fontana. ([4]). I
secoli dal Nono all'Undicesimo sono sicuramente secoli di dominazione araba
sull’intero altipiano di Racalmuto.
Un
documento greco del 1178, che purtroppo non può riferirsi al nostro paese,
diversamente da quello che sostiene l’autorevole Garufi, riporta un toponimo
che richiama l’etimologia araba di Racalmuto: Rachal Chammoùt. Nulla però può ricavarsi che possa tornare utile
alla storia (quella veridica) del paese agrigentino.
Per
quanto buia sia la pagina araba
racalmutese, arabo è indubitatamente il toponimo. Già nel XVI secolo il colto
Fazello attestava l’origine saracena di Racalmuto. «Castello saraceno - lo
definiva - dove è una Rocca edificata da Federico Chiaramonte». Più in là non
andava. Tra il 1757 e il 1760, il monaco benedettino Vito Maria Amico, nel suo
“Lexicon topographicum siculum” rivestiva purtroppo di patina scientifica la
funerea etimologia di paese “diruto,
morto” e simili. L’avv. Giuseppe Picone accenna ad una derivazione da due
termini arabi: Rahal (‘villaggio’ e sin qui correttamente) e Maut (‘della
morte’ e qua invece arbitrariamente). Il nostro Tinebra Martorana, con fervore
giovanile, vi correva dietro. Leonardo Sciascia, ovviamente poco incline alle
pignolerie etimologiche, vi dava plurimo ed autorevolissimo avallo.
Diviene
difficile per chicchessia procedere ora
alle debite rettifiche. Vi tentò, ma flebilmente, il compaesano gesuita padre
Antonio Parisi: «... emerge la probabilità, se non la certezza - scrive il
dotto gesuita - che fosse stato un Hamud [...]
a dare il nome all’abitato. Rahal, pronunziato Rakal [ ...]; Hamud,
pronunziato Kamud o Kamut [...] dava Rakal-kamut; ed a togliere la cacofonia si
soppresse il secondo “ka” e rimase “Rakal-mut” = Ralmanuto!».
Con la
sua indiscussa autorità, il Garufi debella la fantasiosa etimologia di
Racalmuto quale lugubre “Paese dei Morti”, come si è potuto vedere in
precedenza. Va detto che la lezione del Garufi, purtroppo, non è stata recepita
dai moderni storici alla Henri Bresc. Un grandissimo arabista contemporaneo si
è data la briga di riesaminare il toponimo. Non accetta la versione tradizionale.
E ci dà una nuovissima lettura: Racalmuto quale ‘paese del moggio’. ([5]) Per
il grande arabista, infatti, il paese: «deriva
dall'arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) 'sosta,
casale’ del Mudd <latino modium 'Moggio’». "Paisi di lu
Munnieddu", dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non
ha la configurazione. L'immagine potrebbe valere per il vicino monte
“Formaggio” di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che
suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Comunque sia,
almeno niente più accenni mortuari che ci tornano infausti. E’, dunque, un
passo avanti.
Dipanata
in qualche modo la questione del significato, nasce quella del periodo in cui
si ebbe ad affermare quel nome arabo. Fu durante il periodo della dominazione
berbera, come propende il p. Antonio Parisi? O va spostato nei tempi
immediatamente successivi alla caduta dell’Emiro di Girgenti, Hamùd (25 luglio
del 1087), oppure si collega alla
signoria di uno degli emiri di Naro, come noi siamo inclini a credere? Mancano
dati ed elementi per aggrapparsi ad una di queste ipotesi.
La
conquista da parte di Ruggero il Normanno del territorio agrigentino, nella primavera
del 1087, non pare abbia trovato un Racalmuto popoloso e prospero.
Un
piccolo barlume potremmo forse trovarlo nelle cronache del Malaterra. Facendo
anche noi ricorso alle congetture, una volta propendevamo ad identificare
Racalmuto in un toponimo, evidentemente corrotto nelle tante trascrizioni del
testo malaterrano, che si rifà ad un impreciso “Racel....”. Goffredo Malaterra
fu un cronista normanno dell’XI secolo. Il manoscritto malaterrano
che fu trafugato dall'Italia dallo spagnolo Zurrita, fu pubblicato a Saragozza nel 1578. Del
manoscritto originale si sono perse le tracce. Michele Amari ovviamente se ne
serve e riduce in Rahl il Racel
che si trova nel punto in cui si parla della conquista dell’agrigentino e che
potrebbe riguardare proprio il nostro paese: Racalmuto.
In
effetti il Malaterra parla di undici castelli nei dintorni di Agrigento
conquistati dal conte Ruggero «.. Platonum,
Missar, Guastaliella, Sutera, Racel ..,
Bifar, Muclofe, Naru, Calatenixet, [che nella nostra lingua significa
“Villaggio delle donne”], Licata, Remunisce». Tra Sutera. Bifara, Milocca, Naro
e Caltanissetta, quell’incompleto “Racel....” potrebbe essere proprio
Racalmuto. Ma il limite di mera
congettura, resta.
Incrostano
le origini di Racalmuto due falsi storici, peraltro in contrasto fra loro. Da
un lato, si indica Racalmuto insediato a Casalvecchio con questo improbabile
nome in lingua volgare sin dai tempi post-arabi; dall’altro, si vuole il centro
sito nei pressi di Santa Maria per volontà di Roberto Malconvenant, sin dal
1108.
L’Assessorato
Turismo Comunicazioni e Trasporti della Regione Sicilia nel n.° 39 del 22 dicembre 1991 de “L’Amico del Popolo”
si reputa in grado di affermare: «Distrutto Casalvecchio, come riferisce
Michele Amari, il nuovo centro abitato venne spostato di alcuni chilometri e
dagli Arabi venne denominato Rahal Maut...». Il passo dell’Amari non è citato
ed è quindi impossibile accertarne la correttezza del richiamo letterario. Noi
crediamo che ci si riferisca alla Storia dei Musulmani, vol. II, pag. 64. Là si
parla, invero, di Castel Vecchio ma è località a quattro miglia da Agrigento,
in arabo chiamata Raqqâdah
(Sonnolenta). Comunque la si giri, non mi sembra proprio che Racalmuto c’entri
proprio. Ritrovamenti archeologici provano magari insediamenti greci e romani
in quelle parti. Nulla di arabo finora è emerso. Men che meno reperti
attestanti presenze abitative collocabili nel Basso Medio-Evo.
L’arcidiacono Bertrando Du Mazel, che
ebbe a fare censimenti nel 1375 (29 marzo) proprio a Racalmuto, nella
documentazione rimessa ad Avignone, attesta l’esistenza di un centro abitato
(appena 136 “fuochi” in case per la gran parte coperte di paglia) che appaiono sparse nei dintorni della fortezza,
denominata “lu Cannuni”.
L’altro
falso è l’erezione di una chiesa nel 1108 là dove oggi stanno i ruderi di Santa
Maria di Gesù, su cui già abbiamo fornito accenni.
Del
tutto singolare è l’assoluta assenza di una qualsiasi località chiamata
Racalmuto nelle più antiche carte capitolari del vescovado di Agrigento per il
periodo che va dal 1092 al 1282. Si suol
dire che il silenzio nella storia equivale al nulla. In questo caso, però, si
deve ammettere che per un paio di secoli Racalmuto non fu tributario in modo
esplicito della potente curia agrigentina, né ebbe a pagare censi, canoni e
livelli agli ingordi canonici del capitolo della cattedrale di San Gerlando.
Basta scorrerle, quelle carte, per rendersi conto di quanto fiscali fossero il
prelato e la sua corte agrigentina sin dal tempo in cui Ruggero il Normanno
istituì - o si pensò che avesse istituito - quella diocesi affidandola al
santo, o santificato, consanguineo di Bretagna: Gregorio, uomo di bell’aspetto
e di copiosa dottrina, secondo quel che vogliono le cronache. Se nessuna terra
delle pertinenze agrigentine, che si richiami ad un toponimo che magari
vagamente rassomigli a Racalmuto, figura trubutaria in quel periodo, ciò lascia
intendere che non esisteva, almeno come centro organizzato suscettibile di imposizione.
Entriamo,
ora, nella storia documentata di Racalmuto.
Nei
primi decenni del XIII secolo, riusciva ad impossessarsi di Racalmuto tal
Federico Musca. Questi tradisce al tempo
di Carlo d’Angiò e costui lo priva del dominio di Racalmuto nel 1271 per
conferirlo a Pietro Nigrello di Bellomonte (vedi quanto segnalato prima.)
La signoria di tal uomo della corte napoletana durò però poco e, nel
corso del Vespro, Racalmuto appare un comune autonomo
[2] )
Archivio Segreto Vaticano. Relationes ad limina - Agrigentum - 18/A f.18
[3])
Cro-Magnon (Francia), località del
Périgord, nel dipartimento della Dordogne. Uomo di Cro-Magnon. Razza di Homo
sapiens sapiens, cui appartengono i resti scheletrici rinvenuti nella località
omonima e risalenti al Paleolitico superiore.
[4]) Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306, dal Kitab 'al Falah, Libro dell'Agricoltura
di Ibn 'al Awwam
[5]) Giovan Battista
Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - i nomi geografici italiani
- UTET 1990.
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