Un vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale , vorrei tratteggiare la figuro del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651– non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le dissavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il Pirri, in effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Ma noi ci avvaliamo della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel cimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.
«Frattanto egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti particolare, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.
Per quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; + lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»
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Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche. Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi – in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente – e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Saleno agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbia trovato assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato. Il papa da Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino, colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis caussa, adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.
E finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.
Si mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?
Sei candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores spactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la pensavano così.
Ampliò il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25 febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.
A Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostreà dopo a noi risulta qualcosa di dicerso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).
Senonché, non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti feudatari locali, imponendosi il totale riprisino dell’antica giurisdizione.
A questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie – prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo di tradurre:
«D.O.M. DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette anni al servizio degli invittissimi re di Spagna, Filippo III e IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le formule testamentarie dell’epoca.
Spetta al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639, solemni ritu della chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.
Un semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente - di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di novembre, addì 24.
Redige testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1650. I soliti legati alle chiese, qualnche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciè fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: suffi d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.
Per la dotazione libraia del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed edificante vicenda di monsignor Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.
Altro laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentisca il racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag. 541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli comprova la città nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».
Avremo, dopo, modo di provare che la “storia – purtroppo – volle rivelare” e ciò ebbe il tramite nell’indubitabile archivio segreto vaticano. Niente meno! L’assonanza di giudizio tra il nostro quasi racalmutese e l’esimio monsignore cammaratese – entrambi sinergici per idee e per opzioni politiche e sociali e chissà poi perché non tornato il primo, un secolo dopo, gradito al secondo – è sorprendente. Per una variazione sul tema, mi si lasci dire che il Camilleri prende il racconto sul vescovo del Re di Girgenti dalla mediata narrazione del Picone, stravolgendo per le sue necessità letterarie il costrutto storico.
Premettiamo che per il momento ci assilla la questione della natura della giurisdizione dei vescovi nella Sicilia feudale, in particolare in quella del Seicento. La feudalità siciliana, dopo le graffianti puntualizzazione di Mazzarese Fardella, resta un’incognita almeno sotto il profilo giuridico. Cosa non di poco conto se si ha a cuore la verità, almeno quella storica.
Gli abusi giurisdizionali in cui sarebbe incorso il Traina e sui quali ebbe ad interessarsene, con atteggiamenti ostili al vescovo, il Vaticano non sono stati sinora adeguatamente investigati. Monsignor De Gregorio – che pure è quel mostro di ricercatore che è e che non indulge a semplicionerie – ci pare riduttivo quando afferma che l’accusa del 1630 fosse quella di semplici “abusi di giurisdizione in alcuni paesi”, di tal ché ad Urbano VIII fu d’uopo “accettare la sua discolpa” anzi dovette il papa lodarlo “per il suo governo e il suo modo di vivere”. L’epilogo fu quello di “un accordo [raggiunto] con i baroni delle terre suddette” [e cioè Cammarata, S, Giovanni, Giuliana, Burgio, Chiusa e Racalmuto] e pertanto le dette terre “furono riportate all’antica giurisdizione”.
Purtroppo non fu così! Un fondo dell’Archivio segreto vaticano i cui indici siamo riusciti a consultare solo a fine del 2003, e ciò perché recentissimi, getta luce sull’incresciosa controversia tra il Vaticano ed il vescovo agrigentino, che ci pare burbanzosamente riluttante agli ordini romani, salvo, dopo, a dovere abbassare la cresta e con scottature che si faranno sentire nelle successive vicende dei moti – che la storia seppe tramandare in una luce non tanto favorevole al Traina.
Il fondo si denomina: Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche ed è tutto rubricato nell’indice 1182. Abbiamo consultato il reg. 2: 628v; 228-229; 425; 386-563-616-628-649-650; 326v; il reg. 3: 24-421v; 464v; 65v; il reg. 4: 83-100; 85v; 217v; il reg. 5: 169v; 191v; 298v; 301v; il reg. 13: 529v; il reg. 15: 16v; il reg. 18: 25v; il reg. 21: 62v; il reg. 23: 55r.
L’esordio è soft eppure si apre uno spiraglio su un contesto curiale non proprio edificante: il clero locale è tutt’altro che entusiasta del nuovo vescovo; già in dicembre nel 1627 la curia romana deve chiamare il presule agrigentino per una difesa presso il Vaticano; che informi almeno la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche sul “memoriale dato per parte del clero di codesta città” si scrive il 20 dicembre 1627; si vuol sapere “la verità del contenuto di esso” memoriale, ma nel frattempo il vescovo “non lasci difendere la esenzione degli ecclesiastici”.
Ci pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di Racalmuto.
Eppure, ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dosesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è costretto a fornire informazioni. (ibidem reg. 2, f. 386v del 18 novembre 1629).
Chi la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria, n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane cancellerie.
La pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o l’indifferenza) del vescovo, la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina (ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandayo il zelo, et osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus con procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).
Per quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica – una tale gravissima censura è passata sotto silenzio. Che il vescovo Traina non abbia poi avuta comminata formalmente la scomunica e la sospensione a divinis? Che il cardinale Doria si sia intenerito verso il suo pur dispettoso subordinato? E sì perché la diocesi di Agrigento era assoggettata all’arcivescovado palermitano; il vescovo ne era suffraganeo.
Monsignor De Gregorio ci ha fatto acutamente notare:
a) non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
b) il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica Agrigento;
c) ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci con le propaie localo poteva vantare solo quelli che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.
Vero è che la chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la composizione del capitolo – questa sorta di senato con diritto di reggenze in tempi di vacatio – era varia ed i canonici riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a condizionarla. del regio La composizione del capitolo: Al tempo di monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo: Torresilla ; divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno riesumato dall’oblio dei tempi.
A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra tabella dei preti che a vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce soprattutto la quantità.
1 1632 GIUSEPPE CICIO ARCIPRETE
2 1632 FRANCESCO TAGANO CAPPELLANO
3 1632 SANTO D ' AGRO' BENEFICIALE DELL ' ITRIA
4 1632 GIUSEPPE SANFILIPPO BENEFICIALE E FONDATORE DELLA
CHIESA DI S. NICOLA
5 1632 LEONARDO D ' AMODEO
6 1632 G.BATTISTA ACQUISTA
7 1632 FRANCESCO CICIO CAPPELLANO
8 1632 PETRO RAFFAELI CAPPELLANO
9 1632 GIUSEPPE TODARO
1 1632 FRANCESCO CURTO CHIERICO
2 1632 DOMENICO SFERRAZZA CHIERICO
ANNO 1634
1 1634 ANTONINO MOLINARO VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
SO IL 12.3.1635
2 1634 LEONARDO BERTUCCIO CAPPELLANO
3 1634 PASQUALE MACALUSO
4 1634 GIUSEPPE TODARO
5 1634 PIETRO CASUCCI
6 1634 GERLANDO MARTORELLA CAPPELLANO
7 1634 ANGELO CASUCCI
1 1634 GIUSEPPE GRILLO SUDDIACONO
1 1634 G.BATTISTA LO BRUTTO CHIERICO
2 1634 ANDREA MORREALE CHIERICO
3 1634 SIMONE SALVAGGIO CHIERICO
4 1634 PIETRO DI ROSA CHIERICO
5 1634 ANTONINO LO PORTO CHIERICO
6 1634 GERLANDO MORREALE CHIERICO
7 1634 VINCENZO RIZZO CHIERICO
ANNO 1639
1 1639 GIUSEPPE TRAINA ECONOMO
1 1639 FRANCESCO SFERRAZZA DIACONO
2 1639 GIROLAMO SCIRE' DIACONO
1 1639 GIUSEPPE D'ACQUISTA CHIERICO
2 1639 GIUSEPPE CASUCCIO CHIERICO
3 1639 MICHELANGELO D'ASARO CHIERICO
4 1639 G.BATTISTA BAERI CHIERICO
5 1639 GIUSEPPE LA LATTUCA CHIERICO
6 1639 ANTONINO MACALUSO CHIERICO
7 1639 FEDERICO LA MATTINA CHIERICO
8 1639 MARIO TURRETTA CHIERICO
9 1639 GIOVANNI PITROCELLA CHIERICO
10 1639 GASPARE TROISI CHIERICO
11 1639 VITO BURGIO CHIERICO
12 1639 FILIPPO DI CHIAZZA CHIERICO
13 1639 ANTONINO MUNTILIUNI CHIERICO
14 1639 FRANCESCO GIUSTINIANO CHIERICO
15 1639 PIETRO CURTO CHIERICO
16 1639 ISIDORO D'AMELLA CHIERICO
ANNO 1645
1 1645 TOMMASO TRAJNA ARCIPRETE D.S.T.
2 1645 GIUSEPPE TRAJNA ECONOMO
3 1645 FRANCESCO TIGANO
4 1645 FRANCESCO SFERRAZZA
5 1645 GIUSEPPE D'AGRO'
6 1645 PAOLO LA MENDOLA
7 1645 VINCENZO RIZZO
8 1645 SALVATORE PITROZZELLA
9 1645 MARIANO MALASPINA CON LICENZA DI PARROCO
10 1645 FRANCESCO MACALUSO
11 1645 PIETRO CURTO ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
12 1645 LEONARDO MORREALE COMMISSARIO TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
13 1645 GIOVANBATTA D'ACQUISTA
14 1645 FEDERICO LA MATTINA CAPPELLANO
15 1645 CALOGERO DI PUMA
16 1645 GERLANDO MORREALE FONDATORE CHIESA S. MICHELE
ANNO 1649
1 1649 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE
2 1649 MARIANO D ' AGRO' BENEFICIALE S. NICOLO'
3 1649 ANTONIO MACALUSO
4 1649 SIMONE LO GUASTO COMMISSARIO SANTO UFFIZIO
1 1649 GIUSEPPE GRILLO DIACONO
1 1649 GIUSEPPE LO SARDO CHIERICO
2 1649 NATALE DI ALFANO CHIERICO
Ed ai fini di tracciare un contesto di come potesse snodarsi nel ‘600 la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella religiosa sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito questo excursus su Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina.
RACALMUTO NEL ‘600
1613: - PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo adnotata nomina etc (una silloge di sacerdori e chierici defunti dal 1590 in poi che si custodisce in Matrice a Racalmuto), al f. 1, n°. 11 «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale locale. Non ci sembra un sacerdote molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano tutore in veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora resta il mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui è disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza anticlericalismi incolti.
In una memoria del 1738 , quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto. Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni blasfema ironia..
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere). Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ( ) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ( ).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ( ) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ammiccanti relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ( ).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella contemplata e suffragata dallo scrittore. Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro. Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ( )
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ( )
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio.
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica. Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente così letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente gonfiate. Un fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto
in favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte dietro la nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea. Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni. Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova.
I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 ). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto successivo al bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che il poco ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello in paese. Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino al tempo del cardinale Doria. In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro si parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto, della quale non appare altro millesimo, che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'. II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del Pirri. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che si trovava dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.
Per uno studioso del luogo non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere (ampiamente fotografato) nei pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da interpretare l’aggettivo “nuova” usato dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il citato studioso locale non intende dar credito all’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xx.liis comitissa dictae terre Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la sua presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XX.lijs ... concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et Principissae XX.lijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636. E già ad Agrigento imperversava il vescovo Traina.
GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti.»
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: «Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.
«Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più simulazione aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per la successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.
«[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.
«Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di scudo.»
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del Carretto ce la fornisce un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina . Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato, c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo
Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita) e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare. Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di nemesi storica, viene riesumato a danno del nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano. E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. ( ) Si trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato a pagare entro un mese al monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e mezzo. Ma che diavolo era avvenuto?
Come si disse, anche sul letto di morte presso il tenebroso convento di Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non si acquietò contro il fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del Carretto, finisse alle sorelle che istituiva sue eredi universali. In base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna Eumilia vengono fagocitate dal convento. Si sostiene che sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.
Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale. Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di Racalmuto. Questa offerta torna gradita agli organi giudicanti. Il padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e riluttanti racalmutesi.
I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i 1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi, indigenti, confraternite etc.)
Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto. Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta revisionata.
Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede. Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco. Si consegue l’avallo delle superiori autorità. La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in Palermo. La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il rischio di sparire per sempre.
L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani. Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per le vicende prima ricordate.
Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: pertanto un esborso a vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile! Ma si racchiude tutta qua la giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San Martino de Spucches - avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto – Contestuali vicende feudali racalmutesi
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.
Nella lontana Racalmuto, la vita scorre come può. Sotto l’arciprete Filippo Sconduto inizia la controversia per sottrarre la contea all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarla a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Chiusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione; ci siamo riusciti solo di recente, come sopra si è visto Sappiamo dal Pirri che copia di esse si trova presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Inoltre, qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ... Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del fondo Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impose sgravi fiscali ed accordò altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cercava di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali: ( )
Il Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus etc.
Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis salutem.
Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi futuri e per il governo delli seminati e terre et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [ ] et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete et essequirete tutto quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia. Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero in condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse?
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a sborsare in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito destò l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbramiento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione del cilma storica al tempo del vescovo Traina. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia, ma di ciò già si disse.
L’interregno di Maria Branciforti
Eseguita la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente requisiti. La Corte però non li trattenne: li concesse alla vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto tornò in potere dei del Carretto.
Il privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore dei curiali di Palermo.
Donna Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla Gancia di Palermo:
(Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;
inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed a Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tale Macaluso - in mano dei Gaetani.
Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del padre, la vita in quella città dovette essere ardua. Così la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:
1625 LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva. S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine. La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.
Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:
«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674) ; Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche per lui irresistibile. Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio. E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO 1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO e LANZA sua moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:
Domina Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et Branciforti comitis Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc.sie presente clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS. Sappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della matrice:
10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.
Girolamo III del Carretto appare in vecchiaia fortemente litigioso, stando almeno alle carte del Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. Il conte ha modo di dire di sé:
Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.
Il feudo di Racalmuto a fine del ’600
Ed ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
delli Gibillini e feghi
delli Cometi;
e fegho delli Bigini;
del fegho di Zalora;
del fegho di Scintilìa;
del stato e ducato delli Grotti;
del fegho e principato di Campofranco;
e fegho della Ciumicìa
e altri confini ...
Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - -
Non sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della contea ancor prima della sua stessa propria morte.
Girolamo III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia. Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo discutibilissimo: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ammiccanti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di cassare la medievale concessione della Legazia Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Verrà mai data risposta a tale quesito? Ci serve per riconsuderare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellente rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte di un ricercatore locale. Istituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi contratta la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposò nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi ed a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
Mi impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale , vorrei tratteggiare la figuro del discusso vescovo agrigentino Traina, con moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre 1651– non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni. Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”. Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è – trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le dissavventure del vescovo Trahina.
Denis Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa: onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri, Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il Pirri, in effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d. Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D. Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Ma noi ci avvaliamo della traduzione – vetusta ma singolare – del Di Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia. Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento. Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi, chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D. Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10 ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli, ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno, chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime, significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e dare indulto pel cimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18, confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.
«Frattanto egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo. Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’ giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione, navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’ soldati spagnuoli.»
Pare sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti particolare, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero … summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum laudibus, .. Praesul Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del 1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647? Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato campanilistico.
Altro difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.
Per quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si dice la piaggeria verso i potenti!
Il vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella procella; + lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo, cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra essi il Napoli, che era il più vecchio»
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Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche. Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta: subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi – in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’ errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere pontifice speciali praerogativa benigne annuente – e noi per gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Saleno agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbia trovato assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A chi assegnare quell’appetibile canonicato. Il papa da Roma l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino, colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti. E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis caussa, adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.
E finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il 14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.
Si mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà d’animo e generosità?
Sei candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla grande, praestantiores spactabilioresque. Vanitas vanitatis, omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la pensavano così.
Ampliò il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine: mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata, in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25 febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.
A Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel che si mostreà dopo a noi risulta qualcosa di dicerso. Per il Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).
Senonché, non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento, vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto. La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso. Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione (o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti feudatari locali, imponendosi il totale riprisino dell’antica giurisdizione.
A questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare – ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie – prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria “testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio che noi tentiamo di tradurre:
«D.O.M. DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette anni al servizio degli invittissimi re di Spagna, Filippo III e IV, con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino, acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario, adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come recitavano le formule testamentarie dell’epoca.
Spetta al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639, solemni ritu della chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S. Francisci.
Un semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente - di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di novembre, addì 24.
Redige testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre 1650. I soliti legati alle chiese, qualnche beneficenza ai poveri, appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciè fossero diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si sottrae. E un occhio particolare per le repentite: suffi d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.
Per la dotazione libraia del seminario, ben 20 once annue, e questo è tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4 ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire immarciscibilmente la gloriosa ed edificante vicenda di monsignor Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri. (cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di plaudente valutazione.
Altro laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentisca il racconto del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag. 541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti, quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento, ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I, pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli comprova la città nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non dovettero esser pochi».
Avremo, dopo, modo di provare che la “storia – purtroppo – volle rivelare” e ciò ebbe il tramite nell’indubitabile archivio segreto vaticano. Niente meno! L’assonanza di giudizio tra il nostro quasi racalmutese e l’esimio monsignore cammaratese – entrambi sinergici per idee e per opzioni politiche e sociali e chissà poi perché non tornato il primo, un secolo dopo, gradito al secondo – è sorprendente. Per una variazione sul tema, mi si lasci dire che il Camilleri prende il racconto sul vescovo del Re di Girgenti dalla mediata narrazione del Picone, stravolgendo per le sue necessità letterarie il costrutto storico.
Premettiamo che per il momento ci assilla la questione della natura della giurisdizione dei vescovi nella Sicilia feudale, in particolare in quella del Seicento. La feudalità siciliana, dopo le graffianti puntualizzazione di Mazzarese Fardella, resta un’incognita almeno sotto il profilo giuridico. Cosa non di poco conto se si ha a cuore la verità, almeno quella storica.
Gli abusi giurisdizionali in cui sarebbe incorso il Traina e sui quali ebbe ad interessarsene, con atteggiamenti ostili al vescovo, il Vaticano non sono stati sinora adeguatamente investigati. Monsignor De Gregorio – che pure è quel mostro di ricercatore che è e che non indulge a semplicionerie – ci pare riduttivo quando afferma che l’accusa del 1630 fosse quella di semplici “abusi di giurisdizione in alcuni paesi”, di tal ché ad Urbano VIII fu d’uopo “accettare la sua discolpa” anzi dovette il papa lodarlo “per il suo governo e il suo modo di vivere”. L’epilogo fu quello di “un accordo [raggiunto] con i baroni delle terre suddette” [e cioè Cammarata, S, Giovanni, Giuliana, Burgio, Chiusa e Racalmuto] e pertanto le dette terre “furono riportate all’antica giurisdizione”.
Purtroppo non fu così! Un fondo dell’Archivio segreto vaticano i cui indici siamo riusciti a consultare solo a fine del 2003, e ciò perché recentissimi, getta luce sull’incresciosa controversia tra il Vaticano ed il vescovo agrigentino, che ci pare burbanzosamente riluttante agli ordini romani, salvo, dopo, a dovere abbassare la cresta e con scottature che si faranno sentire nelle successive vicende dei moti – che la storia seppe tramandare in una luce non tanto favorevole al Traina.
Il fondo si denomina: Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche ed è tutto rubricato nell’indice 1182. Abbiamo consultato il reg. 2: 628v; 228-229; 425; 386-563-616-628-649-650; 326v; il reg. 3: 24-421v; 464v; 65v; il reg. 4: 83-100; 85v; 217v; il reg. 5: 169v; 191v; 298v; 301v; il reg. 13: 529v; il reg. 15: 16v; il reg. 18: 25v; il reg. 21: 62v; il reg. 23: 55r.
L’esordio è soft eppure si apre uno spiraglio su un contesto curiale non proprio edificante: il clero locale è tutt’altro che entusiasta del nuovo vescovo; già in dicembre nel 1627 la curia romana deve chiamare il presule agrigentino per una difesa presso il Vaticano; che informi almeno la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche sul “memoriale dato per parte del clero di codesta città” si scrive il 20 dicembre 1627; si vuol sapere “la verità del contenuto di esso” memoriale, ma nel frattempo il vescovo “non lasci difendere la esenzione degli ecclesiastici”.
Ci pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo (Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile “inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E., reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di sovente nella microstoria di Racalmuto.
Eppure, ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento” pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il “tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dosesse respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è costretto a fornire informazioni. (ibidem reg. 2, f. 386v del 18 novembre 1629).
Chi la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale: «Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri Limini [si noti, non erano passati neppure due anni dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione di tante pene [cosa nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che ammonitoria, n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane cancellerie.
La pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere l’indolenza (o l’indifferenza) del vescovo, la sacra congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5 di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per la visita e la rassegna della prima relatio ad limina (ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria, arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma …. ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandayo il zelo, et osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli liminibus con procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).
Per quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività di ricerca scientifica – una tale gravissima censura è passata sotto silenzio. Che il vescovo Traina non abbia poi avuta comminata formalmente la scomunica e la sospensione a divinis? Che il cardinale Doria si sia intenerito verso il suo pur dispettoso subordinato? E sì perché la diocesi di Agrigento era assoggettata all’arcivescovado palermitano; il vescovo ne era suffraganeo.
Monsignor De Gregorio ci ha fatto acutamente notare:
a) non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
b) il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica Agrigento;
c) ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci con le propaie localo poteva vantare solo quelli che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.
Vero è che la chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la composizione del capitolo – questa sorta di senato con diritto di reggenze in tempi di vacatio – era varia ed i canonici riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a condizionarla. del regio La composizione del capitolo: Al tempo di monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo: Torresilla ; divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno riesumato dall’oblio dei tempi.
A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra tabella dei preti che a vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce soprattutto la quantità.
1 1632 GIUSEPPE CICIO ARCIPRETE
2 1632 FRANCESCO TAGANO CAPPELLANO
3 1632 SANTO D ' AGRO' BENEFICIALE DELL ' ITRIA
4 1632 GIUSEPPE SANFILIPPO BENEFICIALE E FONDATORE DELLA
CHIESA DI S. NICOLA
5 1632 LEONARDO D ' AMODEO
6 1632 G.BATTISTA ACQUISTA
7 1632 FRANCESCO CICIO CAPPELLANO
8 1632 PETRO RAFFAELI CAPPELLANO
9 1632 GIUSEPPE TODARO
1 1632 FRANCESCO CURTO CHIERICO
2 1632 DOMENICO SFERRAZZA CHIERICO
ANNO 1634
1 1634 ANTONINO MOLINARO VICARIO -ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
SO IL 12.3.1635
2 1634 LEONARDO BERTUCCIO CAPPELLANO
3 1634 PASQUALE MACALUSO
4 1634 GIUSEPPE TODARO
5 1634 PIETRO CASUCCI
6 1634 GERLANDO MARTORELLA CAPPELLANO
7 1634 ANGELO CASUCCI
1 1634 GIUSEPPE GRILLO SUDDIACONO
1 1634 G.BATTISTA LO BRUTTO CHIERICO
2 1634 ANDREA MORREALE CHIERICO
3 1634 SIMONE SALVAGGIO CHIERICO
4 1634 PIETRO DI ROSA CHIERICO
5 1634 ANTONINO LO PORTO CHIERICO
6 1634 GERLANDO MORREALE CHIERICO
7 1634 VINCENZO RIZZO CHIERICO
ANNO 1639
1 1639 GIUSEPPE TRAINA ECONOMO
1 1639 FRANCESCO SFERRAZZA DIACONO
2 1639 GIROLAMO SCIRE' DIACONO
1 1639 GIUSEPPE D'ACQUISTA CHIERICO
2 1639 GIUSEPPE CASUCCIO CHIERICO
3 1639 MICHELANGELO D'ASARO CHIERICO
4 1639 G.BATTISTA BAERI CHIERICO
5 1639 GIUSEPPE LA LATTUCA CHIERICO
6 1639 ANTONINO MACALUSO CHIERICO
7 1639 FEDERICO LA MATTINA CHIERICO
8 1639 MARIO TURRETTA CHIERICO
9 1639 GIOVANNI PITROCELLA CHIERICO
10 1639 GASPARE TROISI CHIERICO
11 1639 VITO BURGIO CHIERICO
12 1639 FILIPPO DI CHIAZZA CHIERICO
13 1639 ANTONINO MUNTILIUNI CHIERICO
14 1639 FRANCESCO GIUSTINIANO CHIERICO
15 1639 PIETRO CURTO CHIERICO
16 1639 ISIDORO D'AMELLA CHIERICO
ANNO 1645
1 1645 TOMMASO TRAJNA ARCIPRETE D.S.T.
2 1645 GIUSEPPE TRAJNA ECONOMO
3 1645 FRANCESCO TIGANO
4 1645 FRANCESCO SFERRAZZA
5 1645 GIUSEPPE D'AGRO'
6 1645 PAOLO LA MENDOLA
7 1645 VINCENZO RIZZO
8 1645 SALVATORE PITROZZELLA
9 1645 MARIANO MALASPINA CON LICENZA DI PARROCO
10 1645 FRANCESCO MACALUSO
11 1645 PIETRO CURTO ARCIPRETE DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
12 1645 LEONARDO MORREALE COMMISSARIO TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
13 1645 GIOVANBATTA D'ACQUISTA
14 1645 FEDERICO LA MATTINA CAPPELLANO
15 1645 CALOGERO DI PUMA
16 1645 GERLANDO MORREALE FONDATORE CHIESA S. MICHELE
ANNO 1649
1 1649 POMPILIO SAMMARITANO ARCIPRETE
2 1649 MARIANO D ' AGRO' BENEFICIALE S. NICOLO'
3 1649 ANTONIO MACALUSO
4 1649 SIMONE LO GUASTO COMMISSARIO SANTO UFFIZIO
1 1649 GIUSEPPE GRILLO DIACONO
1 1649 GIUSEPPE LO SARDO CHIERICO
2 1649 NATALE DI ALFANO CHIERICO
Ed ai fini di tracciare un contesto di come potesse snodarsi nel ‘600 la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella religiosa sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito questo excursus su Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina.
RACALMUTO NEL ‘600
1613: - PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene annotato, nel Liber in quo adnotata nomina etc (una silloge di sacerdori e chierici defunti dal 1590 in poi che si custodisce in Matrice a Racalmuto), al f. 1, n°. 11 «D. Pietro Cinquemani - Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco (vedi atti di matrimonio del 1616).
Don Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f. 2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili, tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80 cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva in Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa eremitica nel centro del paese.
* * *
Ma ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608, subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale locale. Non ci sembra un sacerdote molto degno. Non finirà la sua vita da arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia, almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della minuscola chiesa dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore” dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano tutore in veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2 giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono. Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo, vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del Carretto.
L’arcigno marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die 28 octobris XI ind. 1597
Ba: lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo. Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni (nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni - Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora resta il mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva l’invisa tassazione tradizionale.
Non sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei profughi che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché l’imposizione dell’intero capitale, si tentò di ripartire i soli frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì. Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui è disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o Odio che dir si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va riproposta con il debito rispetto della verità, senza anticlericalismi incolti.
In una memoria del 1738 , quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580 intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel 1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si ritenne di tornare all’antico.
La questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino per l’eventuale curioso.
Il 1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S. Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non mancarono certo a Racalmuto. Le note sciasciane stridono con siffatte vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni blasfema ironia..
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come disinvoltamente si continua a scrivere). Trattasi del povero fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S. Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667 ( ) si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre mistificazioni.
Lo si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622 anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al 1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai vezzi astrologici del Padre Matranga ( ).
Lo si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione - si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale, dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti .. superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito, e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio, per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia ordinaria.»
Di questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia dei del Porto del capoluogo agrigentino. ( ) Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ammiccanti relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.» ( ).
Alla luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta a quella contemplata e suffragata dallo scrittore. Un contemporaneo ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle “sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia, l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più, evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo, sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico. Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida regola degli agostiniani del tempo.
Allora, essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola. Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un evento che si attaglia al caso nostro. Alcuni compagni di religione del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul posto. ( )
Il latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia (così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’ - un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum [fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa comune.” ( )
Il Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione, diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel 1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata, libertina.
«Siamo convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op. cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione. La fece franca da un irridente assassinio.
E la misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa. Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana. Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”. L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo. Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica. Riandando indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo, forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi” come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo, famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina. Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621 in base a quest’atto che va correttamente così letto:
Eodem [nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca [Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino d’Asaro] p./ni [patrini] iac.° [ illeggibile secondo Sciascia, ma in effetti Jacopo o Giacomo] Sferrazza et Giov.a [Giovanna] di Ger.do [Gerlando] di Gueli.
Sovverte ogni consolidata credenza sul frate dal tenace concetto la presenza a Racalmuto nel 1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego - di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo stesso che era stato battezzato nel 1621.
In definitiva, la vicenda emblematica di fra Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente gonfiate. Un fra Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla al mondo stipuleremmo una polisa con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto
in favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’ il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni. Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole, sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte dietro la nuca.
L’atto viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella - Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della «Madonna della Catena» (le pretenziose note di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”, sono davvero inverosimili.)
Quel sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in più.
Il 2 aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla successione nella contea. Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del 1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è annotato:]
Die 2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo conte ucciso a soli venticinque anni. Don Vincenzo del Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.
Sembra donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece, le sue preferenze.
Giovanni V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova.
I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi .. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di discreto benessere in diffusi strati della popolazione racalmutese del Seicento.
Ma la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del castello. Il 3 settembre 1622 altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et Ventimiglia - recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li figli et heredi del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n. 4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 ). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte Girolamo II del Carretto successivo al bizzarro (almeno per noi che scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di donazione universale, il potere di donna Beatrice del Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che il poco ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da parte nostra, sarebbe fuorviante.
La vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché, mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a debellare il flagello in paese. Il culto di Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del 1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino al tempo del cardinale Doria. In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922 rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco - che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto manoscritto leggesi che «fui il 13 ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere di leggerlo [un libro del Cascini] per summa capita. » In quel libro si parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori Palermo. Viene inclusa "quella di Rahalmuto, della quale non appare altro millesimo, che questo M.CC. ed il muro è guasto"». Il testo riportato dall’Arciprete Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere della data, appunto per quel 'muro guasto'. II mio spirito laico mi spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo "Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più antica ed accreditata è quella del Pirri. (A pag. 697 abbiamo un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima - che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che si trovava dalla parte della parrocchia di S. Giuliano.
Per uno studioso del luogo non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593, anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793, anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria Grillo.»
Di recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere (ampiamente fotografato) nei pressi della Barona essere l’antica chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da interpretare l’aggettivo “nuova” usato dal Pirri. Per “nuova” chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa Rosalia. Il citato studioso locale non intende dar credito all’Acquista.
Don Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano - grande efficacia.
Donna Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di Santa Rosalia.
Nella nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto, Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”, sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec ill.me D. Beatrice del Carretto et Xx.liis comitissa dictae terre Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.
Per di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia, graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera (festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la sua presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro: «Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XX.lijs ... concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs Comitissae Racalmuti et Principissae XX.lijs eius curatricis seu procuratricis» Era il 7 maggio 1636. E già ad Agrigento imperversava il vescovo Traina.
GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo. Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore: è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre. Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo aveva un tempo comprato dai Vernagallo .
La giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo.
Sciascia sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo [Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte, n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia, fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano dediti.»
Ma passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: «Rappresentava il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al comune vantaggio.
«Di tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più simulazione aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per la successione al regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D. Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri, fratello del marchese di Lucca, e molti altri.
«[p.118] Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto. [.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia, che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D. Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo [e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ... prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina, confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.
«Né meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la costanza del Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la discussione del processo del conte di Ragalmuto, e nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi servirono, per così dire, di scudo.»
La cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del Carretto ce la fornisce un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra Diego La Matina . Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità cronachistica. Seguiamolo, dunque:
«Martedì, 11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v. pag. 359]
«A dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato, 26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva promesso molte genti a cavallo de’suoi vassalli, per effettuare quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367]
Forse il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato, c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro paese.
Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo
Tra le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro femminile della Badia.
Donna Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita) e tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei suoi eredi universali, che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis, dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini: «..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia leggi et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali per equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don Joanni quolibet competenti et competituro et non aliter.
«Item dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore et non aliter..»
Il chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S. Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649. Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento, ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche. Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra, dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare. Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di nemesi storica, viene riesumato a danno del nostro Giovanni V del Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano. E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni, sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su questa figura di prelato vedasi il Nalbone. ( ) Si trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del venerabile convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale” datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5 maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi veniva condannato a pagare entro un mese al monastero di Santa Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d. Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte Giovanni IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e mezzo. Ma che diavolo era avvenuto?
Come si disse, anche sul letto di morte presso il tenebroso convento di Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non si acquietò contro il fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una causa: la vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in nulla a favore del fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del Carretto, finisse alle sorelle che istituiva sue eredi universali. In base ad una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31 marzo del 1605.
Nel 1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna Aldonza, donna Margherita, e donna Eumilia vengono fagocitate dal convento. Si sostiene che sarebbero state devolute per volontà testamentaria in dote del chiostro palermitano.
Attorno al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo, contro il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15 luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua eccellenza, condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme. Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10 ottobre del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri pagamenti a quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da decurtare dalla pretesa conventuale. Inoltre, chiede che si nominino altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli ... giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di Racalmuto. Questa offerta torna gradita agli organi giudicanti. Il padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle tassazioni sui poveri e riluttanti racalmutesi.
I diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In un arido documento palermitano v’è comunque uno spaccato delle condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato. Ogni capo famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta meraviglia che i 1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000 abitanti) tenessero ad apparire alloggiati in dimore povere, non idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano abili nel vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache, conventi, indigenti, confraternite etc.)
Non accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita annua (ma perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità del conte e dei suoi successori e con la garanzia di tutte le entrate feudali di Racalmuto. Giovanni V del Carretto sembra ora più avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che gli sta bene il minor tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite annuali, ma è la sorte capitale che va tutta revisionata.
Contrario in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede. Ma deve, il prete, fare buon viso a cattivo gioco. Si consegue l’avallo delle superiori autorità. La conclusione è una soggiogazione da parte del conte di Racalmuto per onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore del monastero di Santa Rosalia in Palermo. La mappa agricola di Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra; i dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici, spesso capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed abbandonati, corrono il rischio di sparire per sempre.
L’intricato carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4 per cento di un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani. Vi erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le modalità e per le vicende prima ricordate.
Ma il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per apoca in d.ti atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa 80 milioni di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per finire nelle ingorde mani degli amministratori del monastero di Santa Rosalia di Palermo. Nulla legava l’economia racalmutese a quella claustrale di Palermo: pertanto un esborso a vuoto; un impoverimento monetario della illiquida realtà curtense dei nostri compaesani del Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle imposte. Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era più nobile! Ma si racchiude tutta qua la giustificazione di quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo che comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami - annota il San Martino de Spucches - avendolo comprato sub verbo regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto – Contestuali vicende feudali racalmutesi
Sarà il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.
Nella lontana Racalmuto, la vita scorre come può. Sotto l’arciprete Filippo Sconduto inizia la controversia per sottrarre la contea all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e passarla a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr. , 14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini, Cammarata, Giuliana, Chiusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre 1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa importante documentazione; ci siamo riusciti solo di recente, come sopra si è visto Sappiamo dal Pirri che copia di esse si trova presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di cercarle. Inoltre, qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4 gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni 1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:
«Quod Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris, quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit, ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum omnia.»
Filippo IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris). Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa. Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già perché anche allora Roma era ... Roma ladrona). Fatto sta che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del fondo Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati - espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae Racalmuti
E’ stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto Troiano, Pietro Alfano ed il medico dott. Giuseppe Amella. Su costoro comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639, anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impose sgravi fiscali ed accordò altre agevolazioni ai borgesi racalmutesi che si cercava di mettere in condizione di seminare senza le espoliazioni feudali: ( )
Il Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò, Termini, RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate sul modo di dare i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib. del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci patrimoniali, di Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.) - Il margine si legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera diretta ai giurati di Lentini.
Philippus etc.
Locumtenens et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis salutem.
Siamo stati informati che per la povertà di borgesi, massari et arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al seminerio nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro essendo detrimento al regno et convinendo che un tanto beneficio universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il negotio acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli borgesi che sono in detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che habbiano di terre così per seminare come per ammaisare e della bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi futuri e per il governo delli seminati e terre et si sono persone che, essendo soccorsi, si serviranno veramente del soccorso per seminare e governare li seminati et a quelli che saranno tali et haviranno bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in caso che detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano affatto inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse habili a darlo promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza etiamdio delli terraggi [ ] et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria] di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di haver a restituire il soccorso datogli passato il tempo del seminerio. E Voi passato il tempo suddetto, essendovene fatta instantia, procedirete alla esecutione delle pene inremissibilmente, nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato il soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato, etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci in prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar soccorso alli borgesi et massari della [contea di Racalmuto] osserverete et essequirete tutto quello et quanto nelle preinserte instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la diligenza possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi circa le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì essequirete per quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8 inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus locumtenens mandavit, etc.
Erano vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale Doria sembra più commendevole come luogotenente che come dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia. Nell’ottobre del 1639, i borgesi racalmutesi erano davvero in condizioni tali da non avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria, veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per avere alleggerite le onnivore tasse?
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura, D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S. Mariae Annunciationis.
Il Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel 1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio” da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II, prima; e Giovanni V, dopo.
Don Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili, reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a sborsare in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore ragionieristico.
Il giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote, l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad una transazione, come da rogito notarile. Il rogito destò l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso - da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’ di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbramiento più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere nei nostrani scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione del cilma storica al tempo del vescovo Traina. Non mancherà tempo per restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il 30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della Matrice segnano:
30/8/1648 Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il 4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri bronzei, peracri ecclesiasticae libertatis studio administravit. Chiamò libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della Sicilia, ma di ciò già si disse.
L’interregno di Maria Branciforti
Eseguita la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono prontamente requisiti. La Corte però non li trattenne: li concesse alla vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo III del Carretto e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV, rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto tornò in potere dei del Carretto.
Il privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica ma anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine risulta più munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di Giovanni V del Carretto andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi crediamo che si sia trattato di un errore dei curiali di Palermo.
Donna Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650 vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in mano di usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo documento che si conserva alla Gancia di Palermo:
(Anno 1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna Maria del Carretto e Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;
inoltre rende ogni anno donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di 11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze 2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice di cui ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed a Girolamo III ritornò la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tale Macaluso - in mano dei Gaetani.
Girolamo III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la morte del padre, la vita in quella città dovette essere ardua. Così la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel 1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di Racalmuto con questa composizione:
1625 LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
Girolamo del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto volitiva. S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria Branciforti è munifica nelle elemosine. La contessa, in effetti, versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10 marzo 1660.
Sembra che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità) d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni. Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza. Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il profilo araldico:
«Girolamo del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654, fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze, Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca). Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione di Messina (1674) ; Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone; Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a 10 agosto 1688.»
Dal 1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale era stato anche per lui irresistibile. Ha voglia a Racalmuto di mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio. E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia fondazione. Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO 1693" Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO e LANZA sua moglie". ...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il 16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:
Domina Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni Hijeronimi Carretti et Branciforti comitis Racalmuti et principis XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc.sie presente clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS. Sappiamo che donna Melchiorra Lanza morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i soliti libri della matrice:
10.4.1701 D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS. ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua propria domo.
Girolamo III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però, di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa defunta vanno rettificati in soli 50.
Girolamo III del Carretto appare in vecchiaia fortemente litigioso, stando almeno alle carte del Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. Il conte ha modo di dire di sé:
Ex ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra, statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die sua melius etc.
Il feudo di Racalmuto a fine del ’600
Ed ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti, valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre, tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho è posto in menzo delli feghi nominati:
delli Gibillini e feghi
delli Cometi;
e fegho delli Bigini;
del fegho di Zalora;
del fegho di Scintilìa;
del stato e ducato delli Grotti;
del fegho e principato di Campofranco;
e fegho della Ciumicìa
e altri confini ...
Non v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.
Item ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone, Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt, viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem producentis et - - -
Non sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del litigioso conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il figlio che pure aveva dotato della contea ancor prima della sua stessa propria morte.
Girolamo III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo - aveva potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici mansionari, adorni di fregi appariscenti.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio Sammaritano, un semplice dottore in teologia. Porta con sé un parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649, il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera. Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice Giovanni V del Carretto.
La contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar. Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice: LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654, reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29 tarì.
La posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della “Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice riportano:
1664 SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione da P. Antonio ord. S. Marie Carmeli.
Gli succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce durevoli del suo apostolato.
E’ ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac. Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra) della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657). Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre 1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674. Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni: Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696. Chiude il secolo un vescovo discutibilissimo: 26 agosto 1697 - + 27 agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia. Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una iattura il vezzo di preti e religiosi ammiccanti con Roma che negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di provocare un incidente per consentire al Papa di cassare la medievale concessione della Legazia Apostolica).
Se, un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione, dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna? Verrà mai data risposta a tale quesito? Ci serve per riconsuderare i tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre 1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti della Matrice).
Annotava il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto 1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a 13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino - che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani randagi.
Quelli che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto - finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’ (vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino (nell’accezione sciasciana).
L’arciprete Lo Brutto fu in eccellente rapporto col vescovo Rini: si fece elevare a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte. E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r notarius.
Del pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al presente oggetto di studio da parte di un ricercatore locale. Istituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete, se non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi contratta la tassa del macinato per morte di un quarto della popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo III del Carretto sembrò benevolo verso la locale chiesa quando fece venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale, la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia origine.
Girolamo III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe, quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai esausta contea di Racalmuto.
Quanto fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo, passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da' Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo (c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e) [AURIA Cron. f. 211]. Sposò nelle prime sue nozze MELCHIORRA LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI. Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e LANZA.»
L’arciprete Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre 1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria diocesi). Là troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM - Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali (Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
- dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
- dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
- dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
- dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
- una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai proventi ed a lasciare i locali del convento.
Sorge un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e 5 converse.
Oltre alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le scaturigini della mafia.
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