VERSO L’AVVENTO DEI GRECI.
Cediamo
alla forte tentazione di formulare nostre personali congetture sull’evoluzione
sociale ed abitativa dei primordi racalmutesi. Se qualche abitante vi fu a
Racalmuto durante il Paleolitico Superiore, fu la grotta di Fra Diego ad
ospitarlo: quell'antro per esposizione, per capienza e per vicinanza a luoghi
fertili ed a valli boschive adatte alla cacciagione, si attaglia all'ospitalità
troglodita. Le testimonianze archeologiche più antiche sono però di gran lunga
posteriori e ci portano in piena cultura della 'Conca d'Oro' con le
caratteristiche «tombe del tipo a forno »
([1]).
Da
quell'era i nostri progenitori - siano sicani o altro - riuscirono a sormontare gli sconvolgimenti epocali
dell'Età del Bronzo in condizioni di relativo benessere, piuttosto pacifici ed
alquanto prolifici, come il diffondersi delle tombe per tutto il crinale
collinare sta a testimoniare. Caccia e risorse minerarie, ma soprattutto cerealicoltura
e pastorizia consentirono sopravvivenza ed anche sviluppo. A quanto pare,
l’ingresso nell’Età del Ferro fu loro fatale.
A
questo punto si ebbe una crisi per ragioni che ci sfuggono: forse per le razzie
dei Siculi, forse per difendersi dalle incursioni di popoli stranieri giunti
dal mare, i Sicani di Racalmuto preferirono ritirarsi entro le più sicure zone
montagnose di Milena.
Successivamente,
quando, per l'aridità della loro terra, i greci sciamarono per il Mediterraneo
e le genti di Rodi e di Creta, via Gela,
si insediarono nella valle agrigentina,
per i radi indigeni di Racalmuto fu il momento del loro melanconico
dissolversi.
I
moderni storici si accapigliano per
stabilire tempi, modalità e drammi di quell'esodo geco cui non si attaglierebbe
neppure il termine di colonizzazione, trattandosi di un'espulsione senza
ritorno. Sono però propensi a ritenere che quei greci subirono la violenza
della scacciata dalle loro famiglie contadine e, mancando di mogli, la
scaricarono sulle donne indigene di Sicilia, violandole con nozze coatte.
Un
doppio dramma - si dice - che, ci pare, Racalmuto non subì né nella prima
ondata di immigrazione greca, né in quella della seconda generazione. La zona
era lungi dal mare e lungi dalle rive sabbiose, preferite dai greci per trarre
in secco le loro imbarcazioni, magari come semplice auspicio per un (improbabile)
ritorno in patria. I rodiesi ed i
cretesi di Gela fondarono, accrebbero e
consolidarono la città akragantina. Allora il nostro Altipiano cessò di essere
libero territorio anellenico: erano giunti i tempi della famigerata tirannide
di Falaride. Nel sesto secolo a.C., per le locali popolazioni iniziò una
devastante denominazione greca. I cadetti greci di Agrigento, privi di terra e
di beni per il costume del maggiorascato del loro popolo, cercarono, forse,
fortuna e dominio nei dintorni e così anche Racalmuto cadde nelle loro mani. Si
attestarono certo nelle feraci contrade tra Grotticelle e Casalvecchio. I radi
reperti numismatici con la riconoscibile
effigie del granchio akragantino non
attestano solo l'inclusione di quel
territorio nella circolazione monetaria delle varie tirannidi dell'antica
Agrigento, ma soprattutto l'insediamento dei nuovi padroni. Da quell'epoca la
civiltà sicana indigena non è più testimoniata in alcun modo. I nuovi padroni
venuti da Agrigento presero certo la più gagliarda gioventù per trasferirla,
schiava, nella titanica costruzione dei templi. La gran parte, se non resa
schiava, fu senz'altro assoggettata ad una sorta di servitù della gleba.
Taluni, scacciati o fuggitivi, si ritirano con i loro sparuti armenti negli
inospitali valloni siti a tramontana. E
divennero pastori randagi e rudi, feroci ma liberi, anarchici e misantropi,
irriducibili ed incoercibili, simili a quei pastori che ancor oggi
sembrano mantenere le prische connotazioni di uomini fieri e ribelli. In tutto ciò sono da rinvenire le
radici della storia sociale racalmutese. La classe agro-pastorale nasce e si
evolve lungo millenni con sufficiente continuità e peculiarmente autoctona.
Sono i vertici ed i dominatori che vengono da fuori, arroganti ed estranei. Si
pensi che un ricambio in senso classista Racalmuto l'ha potuto registrare solo
ai nostri giorni. Soltanto gli anni ottanta del XX secolo sono propizi ad un
rivoluzionario avvento di amministratori con genuine ascendenze locali e
d'autentica estrazione popolare.
IL PERIODO GRECO
Tra il
570 ed il 555 a. C. Racalmuto non poté che essere pertinenza rurale della polis di Akragas, sotto la tirannide di
Falaride: costui assurge al potere cavalcando la tigre dei ribellismi sociali e
plebei dell'Agrigento di allora. Fu questo fenomeno tipico dei silicioti greci
di quel periodo.
Racalmuto
vi fu travolto di riflesso, per via dei greci nobili che poterono appropriarsi
delle terre del nostro altopiano. Frattanto nelle nostre plaghe ebbero a
moltiplicarsi i kyllyrioi, i semi
schiavi di cui parla Erodoto: gente che doveva lavorare per la vicina polis di Akragas, senza libertà di movimento,
senza diritti civili se non quelli di non potere essere venduti o allontanati
dalla terra che lavoravano, potendo conservare la propria famiglia e la propria
vita comunitaria. I reperti numismatici che talora si sono rinvenuti nel nostro
territorio sono i soli indici della loro presenza.
E'
certo che sino a quando non si faranno scavi come quelli che gli Adamesteanu e
gli Orlandin ebbero a condurre nel circondario di Gela attorno agli anni
cinquanta, o come quelli degli anni Ottanta guidati dal De Rosa a noi non resta
che avventurarci in malcerte congetture.
Nella
campagna di scavi del 1960, furono fatte importanti scoperte presso Vassallaggi,
in S. Cataldo, e si attribuì a quella località la nota cittadina di Motyon
della Biblioteca di Diodoro Siculo (Kokalos, VIII 1962 ). Tramontava
definitivamente il sogno accarezzato da Serafino Messana nel secolo
diciannovesimo di assegnare quel nome greco al nostro paese. La sua teoria
della 'metatesi' di Motyon che diventa «Casalmotyo e perciò Casalvecchio» - e
dire che Serafino Messana ignorava le teorie linguistiche del Ciaceri che vuole
Mothion una grecizzazione del preesistente 'Mutuum' - svanisce
inequivocabilmente. Tinebra Martorana già rifiutava quella teoria con
l'elegante 'non liquet' (non risulta) di
Filippo Cluverio. Oggi, liquet
(risulta) l'inattribuibilità di Motyon a
Racalmuto e dintorni: la località è
dagli studiosi concordemente ubicata attorno a S. Cataldo.
Quando
vi fu dunque l'attacco di Ducezio all'avamposto di Akragas, Motyon, nel 451 o nel 450 a.C., l'onta dell'invasione non
riguardò queste nostre contrade: per
quei tempi, S. Cataldo era a distanza considerevole: quei nostri antenati
dovettero però fornire grano e vettovaglie e vite umane in quella guerra tra
Akragas, sostenuta dai siracusani, e l'esercito di Ducezio, il
siculo-ellenizzato di Mineo. Per Racalmuto passavano di sicuro gli opliti
agrigentini. La rete viaria di allora non doveva essere granché diversa da
quella della fine del secolo XX.
Frattanto
Racalmuto, territorio rurale di Akragas, perdeva usi e costumi sicani,
dimenticava la madre lingua per storpiare un’aliena lingua dorica, e si
dedicava alla coltivazione dell'ulivo, alle vigne, alla vinificazione per i
padroni di Agrigento. Insieme naturalmente al grano, merce di scambio per i
traffici agrigentini con la madre patria greca o con i vicini cartaginesi. La
continuità degli autoctoni - pastori e contadini - persisteva certo, ma in via
sotterranea e ovviamente subalterna, priva di ogni esteriorità e senza lasciare
alcuna testimonianza per i posteri.
Racalmuto
continua a riflettere sbiaditamente la vicenda storica di Agrigento. Resta
pertinenza rurale, piuttosto disabitata, senza monumenti ragguardevoli, con una
popolazione sfruttata e vessata. Periferia agricola della Polis, dunque, al tempo degli splendori di Terone, il tiranno
agrigentino legato anche con vincoli di parentela con quello di Siracusa
Gelone. Pindaro esaltava, a pagamento, Agrigento come la più bella città dei
mortali. Racalmuto doveva fornire grano e tributi per consentire ai tiranni
agrigentini di equipaggiare le costosissime corse dei carri a quattro cavalli
nei giochi olimpici della lontana Grecia.
Dopo, chi vinceva commissionava le famose odi a Pindaro, statue a scultori
greci e profondeva doni ai santuari di Olimpia.
A Racalmuto, sulla cui economia agricola
quegli eventi ebbero a pesare, giunse, sì e no, una flebile eco, se qualche
signorotto di Agrigento ebbe a recarsi nelle proprie terre per refrigerarsi in
qualche sua villa sulle pendici del Serrone durante la canicola estiva. Alcuni
versi delle Olimpiche di Pindaro su quella vittoria col carro di Terone nel 476
a. C. ebbero ad incantare qualche nostro antenato, incolto ma sensibile
all'alta poesia.: «certo per i mortali
non sta/ fissa una soglia di morte,/ né quando un giorno figlio del sole/
s'acquieterà alla fine in pura felicità:/ flutti diversi, momenti alterni/ di
gioia e d'affanno vengono agli uomini» erano poi versi da avvincere anche
l'animo del contadino greco, intento a riverire il suo padrone, specie se
questi li recita mirando le stelle cadenti del cielo senza fine dell'estate
racalmutese. Ed in quel territorio circolavano anche le monete col granchio
agrigentino, testimonianza di commerci, esportazioni di grano e presenze
greche.
Sfiora
la locale società contadina la nebulosa
vicenda di Trasideo, figlio di Terone, «violento ed assassino», per Diodoro
Siculo. La sua cacciata da Akragas, per
il passaggio ad un regime democratico, fu forse neppure avvertita. Non sapremo però mai se Racalmuto fu
coinvolto nella successiva confusione che venne a determinarsi per lo
sconvolgimento nella distribuzione su nuove basi delle terre.
Dopo
il 427 a. C., Akragas si acquieta, entra nella riservatezza. Se Siracusa
coinvolge Imera, Gela e forse Selinunte nella sua guerra contro Lentini, a sua
volta sostenuta da Camerina, Catania e la piccola Nasso, Akragas si mantiene
neutrale e fa affari con tutti vendendo il suo grano ad entrambe le parti
contendenti e lucrandovi sopra per un benessere economico, di cui ebbe a
goderne anche Racalmuto, sia pure in minima parte. Sono queste, certo, ipotesi,
ma attendibili.
Atene
- con Alcibiade che credeva di potere fagocitare la Sicilia in un guerra lampo
ritenendola una terra di imbelli popolazioni bastarde - si avventura, nel 415
a. C., nella guerra contro Siracusa. Subisce, l'esercito ateniese, una
disastrosa sconfitta. Atene, con 40.000 uomini agli ordini del suo più esperto
generale, Demostene, ritenta l'impresa. Siracusa trova alleati a Sparta, a
Gela, Camerina, Selinunte Imera e persino tra i siculi di Kale Akte. Quelle
tragiche vicende che portano alla tremenda disfatta degli ateniesi trovano
risalto nelle memorabili pagine di Tucidide. Akragas, come al solito, sta a
guardare; ancora una volta è neutrale, alla stregua di Cartagine e del settore
fenicio della Sicilia. In quel trambusto, Akragas ha modo di prosperare con i profitti di guerra.
Racalmuto, come sempre propaggine rurale di quella polis, ne segue sicuramente le sorti, intensificando l'agricoltura
e la pastorizia. Ma, attorno al 406 a. C., con l'ascesa di Dionisio I alla
tirannide di Siracusa, per Akragas fu l'inizio del declino. Per converso,
Racalmuto poteva affrancarsi dal giogo della vicina polis akragantina.
Nel
406 a.C., fallito il tentativo di Ermocrate di impossessarsi di Siracusa,
Akragas iniziò il suo ciclo storico di colonia punica. Un esercito africano
numeroso e potente - anche se ben lontano dall'astronomica cifra di 120.000
uomini, come vorrebbe Diodoro - ebbe come primo bersaglio l'opulenta Agrigento.
Gli aspri combattimenti tra siracusani e cartaginesi durarono sette mesi,
nell'imbelle indifferenza dei greci agrigentini. Nel dicembre del 406, per
Akragas fu, però, la fine: fuggirono i cittadini a Leontini e la città fu
abbandonata. I cartaginesi si diedero ai saccheggi ed alla spoliazione delle
tante opere d'arte, ivi compreso - pare - il toro di bronzo di Falaride.
Racalmuto fu per quei tempi terra lontana: niente saccheggi dunque, anzi un
afflusso di cittadini agrigentini dovette verificarsi. Le disgrazie agrigentine
finirono col dare enfasi ad un risveglio demografico nel vecchio centro sicano
sito nel nostro fertile altipiano. Quegli agrigentini che vi avevano fattorie e
ville, ebbero di certo a preferire le note località racalmutesi all'angustia
dell'esilio in quel di Lentini.
Dionisio
il giovane, un ventiquattrenne rampante, si impossessava frattanto di Siracusa.
Trattava con i cartaginesi ed Akragas cadeva nella mediocrità dell'epikrateia africana. La popolazione
poteva ritornare a casa, ma per una umiliante sudditanza punica. Dal 405 al 264
a.C. la storia di Agrigento emerge solo per qualche barlume che le vicende
siracusane vi riflettono. E' comunque un
ruolo subalterno alla politica ed alle fortune di Cartagine: da una parte,
commercio, relativo benessere, vivacità economica; dall’altra, sudditanza
politica e remissività verso la civiltà africana d'oltremare. Una tassazione
gravava sulla popolazione cittadina - ora blanda, ora esosa, a seconda delle
esigenze cartaginesi.
Crediamo
che in tale contesto Racalmuto ebbe tempi non duri: i nuovi dominatori africani
erano gente di mare per penetrare nelle impervie e infide vallate racalmutesi.
Per altri versi, si apriva qui un mercato proficuo per quei tempi ed i suoi
prodotti agricoli potevano trasformarsi in moneta contante, idonea ad
un'economia vivace, se non addirittura prospera. Il male di Akragas si
ribaltava in buoni affari per Racalmuto.
L'archeologia
e la numismatica attestano qualcosa di più delle fonti letterarie: sappiamo che
artigiani greci e non greci furono chiamati a coniare le cosiddette monete
siculo-puniche. Tinebra Martorana scrive di monete con effigie di improbabili
scheletri e potrebbe trattarsi degli oboli di Motya o delle monete con la
spiga. Per noi, quei reperti numismatici attestano proprio la presenza dello
scambio cartaginese nelle terre racalmutesi di quei secoli, divenute epikrateia (provincia) cartaginese.
Sempre
il Tinebra Martorana ci testimonia del
rinvenimento di monete «di argento [aventi] da una parte un cavallo alato ed al
rovescio il capo armato di un guerriero». Trattasi senza dubbio di pegasi
siracusani che ci richiamano le dittature siracusane di Dione o di Timoleonte (357-317 a.C.). In quel
periodo, il territorio racalmutese non fu durevolmente assoggettato a Siracusa.
I segni monetari palesano dunque un libero scambio: grano, orzo, ma anche vino,
olio e prodotti caseari del paese prendevano la via dell'oriente siciliano
oltre a quella del mare africano. Ne derivò un tenore di vita evoluto da
consentire tumulazioni di lusso ed alla greca. Non possiamo non credere al
Tinebra Martorana quando scrive: «In contrada Cometi, .... si rinvennero sepolcreti d'argilla rossa,
resti di ossa, lumiere antiche, cocci di vasi» e le monete di cui abbiamo detto
sopra.
LA PARENTESI CARTAGINESE
Attorno
al 282 a.C. si affaccia sul proscenio della storia un tiranno agrigentino di un
qualche rilievo: Finzia. Fu lui a radere al suolo Gela e a trasportarne la
popolazione nell'attuale Licata: in questa località il tiranno costruì una
città in puro stile greco, cinta di mura e dotata di agorà e di templi. Racalmuto dovette essere terra subalterna a
Finzia e dovette contribuire quindi al sostegno finanziario delle mire
egemoniche del despota agrigentino. Fu però vicenda storica di breve respiro. Sparisce ben presto Finzia e
Akragas, ritornata debole e faccendiera, non sa ostacolare l'egemonia di
Siracusa.
Nel
280 a. C. Siracusa sconfigge Akragas. Cartagine, vigile ed interessata, arma un
imponente corpo di spedizione che presto raggiunge le porte di Siracusa.
Akragas ed il suo territorio - ivi compreso Racalmuto - si estraniano, come
sempre, dalla lotta armata ed assistono piuttosto indifferenti all'intrusione
di Pirro, quel re dei Molossi, passato alla storia per le sue risibili
vittorie.
Akragas
e Racalmuto, quale sua pertinenza, rientrano nella zona di influenza di
Cartagine e vi restano per quasi un
ventennio fino a quando la Sicilia fenicia incappa nelle mire espansionistiche della repubblica romana.
Nel
264 a.C. scoppia la prima guerra punica e la vicenda siciliana si avvia
melanconicamente a divenire un'oscura appendice della lontana e suprema Roma.
La Sicilia assurge all’inglorioso ruolo di provincia che secondo Cicerone: «prima docuit maiores nostros quam praeclarum
esset exteris gentibus imperare». Già, la Sicilia fa gustare per prima ai
Romani quanto fosse bello soggiogare popoli stranieri. E, ancora - dopo un
secolo e mezzo - Sicilia, Akragas (e ancor più Racalmuto) saranno per i romani
nient'altro che «extera gens»
[gentucola straniera] da dominare e da proteggere solo perché «ornamentum imperi».
Roma
conquistò Akragas nel 261: dopo un assedio di sei mesi, le scomposte furie dei
romani si sfogarono ignominiosamente sui poveri cittadini agrigentini. Né beni,
né donne e neppure gli stessi uomini furono risparmiati: 25.000 dei suoi abitanti furono venduti come
schiavi.
Sette
anni dopo, sono i cartaginesi a rimpadronirsi della città, dopo avere distrutto
la flotta romana che ritornava dall'Africa. A farne le spese è ancora una volta
la città di Akragas: i cartaginesi bruciano ogni cosa, abitazioni e mura.
Riteniamo
che la terra di Racalmuto dovette risultare alquanto decentrata per subire
direttamente le atrocità di quella guerra punica. Ma i riflessi dovettero
esserci, dolorosi e devastanti. Lutti per i parenti che si erano stanziati
nella vicina polis; distruzione di
beni; spoliazioni, rapine, banditismo, vandalismi ed altro.
Le
antiche fonti nulla ci dicono sui successivi due decenni: verso lo spirare del
secolo, Akragas e la vicina Eraclea
Minoa appaiono saldamente in mano dei
cartaginesi. Tra il 214 e il 211 a.C. un massiccio movimento di uomini armati -
si parla di 40.000 militari tra i quali 6.000 cavalieri - su 200 navi parte da
Cartagine per raggiungere la Sicilia. Punto di approdo è Akragas: sulle colture
raculmutesi si abbatte il gravame di apporti alimentari a quegli eserciti tutto
sommato stranieri. Nel 212 a. C. tocca a Siracusa cadere nelle mani dei romani
ed il grande Archimede finisce ucciso per mano militare: alla fine fu vacuo il
suo genio inventivo; lo specchio incendiario fu di ardita e micidiale fattura;
invento speculo, naves romanas incendit;
eppure i romani finirono per avere la meglio. Per i cartaginesi, nel grande
scontro con i romani, le sorti belliche volgono al peggio: i fenici ripiegano
su Agrigento, ultimo baluardo delle loro difese. Mercenari numidi consumano
l'ennesimo tradimento. Akragas cade ancora una volta in mano dei romani; ancora
una volta popolazione e beni diventano bottino di guerra per una vendita sui
mercati del mondo. Levino a Roma fa il
suo trionfale ritorno. Per Racalmuto inizia l'epoca di agro ferace per le distribuzioni
di grano nella lontanissima Roma.
Nessun commento:
Posta un commento