studio in elaborazione
Resta sempre un caso morale gigantesco che coivolge prima di tutto la famiglia, poi la Fondazione Sciascia, poi gli amici e quindi i nemici, Di Grado e noi tutti che alla fine abbocchiamo. Pare che Sciascia avesse abbozzato il suo Parrocchie molto prima e avesse dato un titolo non brillante: IL SIGNOR T PROTEGGE IL PAESE. Per testimonianze irrefutabili, questo scritto ed altri che pare giacessero sparsi sui tavoli di lavoro del morente scrittore mai e poi mai dovevano venire pubblicati. Inece eccoli - o almeno quelli che sono stati prescelti - esposti nella Bblioteca Adelphi 447 con il titolo spurio ma non estraneo IL FUOCO NEL MARE.
Noi non crediamo di avere vincoli specifici di fedeltà allo scrittore nato a Racalmuto e morto a Palermo, ma ci sentiamo un poco in clpa nello sfruttare a nostro vantaggio o alle tesi che contro corrente disseminiamo quelle riservate pagine sparse, come dire ci pare di infrangere l'intimità di Sciasca,che sempre uomo molto schivo fu. Intanto ci dispiace scoprire che agli esordi il grande Nanà non si distingueva dai soliti principianti che pitoccano la raccomandazioncina di lancio presso il potente del momento. Sciascia - risulta chiaro - invoca udienza al Vittorini che manco lo degna di una risposta. Mi richiama episodi ribaltati degli anni '70: Padre Arrigo che si ebbe rifiutato il suo Svolta Pericolosa, o il Cacciato con la sua "La Lupa" o anche la querula Montedoro per il suo Petix rigettato ed altri che ignoro e che Giacomino Lombardo potrebbe tanto affabulatamente dirci se volesse.
Ma visto che l'inottemperanza alla ultima volontà dello scrittore è stata consumata, mi accingo all'intrusione per piluccarvi disveli o conferme di coserelle racalmutesi che mi stanno a cuore.
Comincio dal titolo: chi è quel signor T padrone del paese (e per paese - ovvio- intendiamo Racalmuto ancora tutt'altro che Regalpetra)? Inseguo, credo, correggo, trovo spunto e quindi retrocedo, avvilito, smetto. Alla fin fine però, ammesso e concesso che trattasi di un caleidospoio di personaggi veri reali protervi, allusivi,dimessi, arroganti, cattivi. pietosi, oranti, blasfemi
del paese del sale. mi pare che affermare essere la T del Tulumello, il barone grande, disvela tante oscurità dell'intrigato parto giovanile dello Sciascia scrittore.
Nell'Ottocento fu il barone "grande" proprio il Tululmello il vero padrone del paese, finchè non decadde. Sciascia parla di questo signor T nel 1947; ancora dieci anni dopo nelle Parrocchie Sciascia non sa che a smenbrare il feudo di Gibillini in lotti leggermente gravati da censo non furono, né potevano essere i Sant'Elia, ma proprio questo tenebroso, impalpabile signor T.
Sciascia abbozza a ridosso del 1947, la figura di questo improbabile Signor T non sappiamo se sostituto della nostra compatrona Maria Santissima del Monte o della negletta vera patrona e protettrice di Racalmuto la Sinibaldi Rosalia che ancor oggi intelletti pure acuti vorrebbero far nascere in questo folle paese nel mille e cento quando Racalmuto comincia ad avere certezza documentale solo dopo il 1200.
Non se l'abbia per offesa, qui Sciascia si mostra giovanilmente ignaro della vecchia triste realtà feudale racalmutese un territorio spartito in due subfeudi, quello agganciato al castello chiaramontano e l'altro al castello di Gibillini, per i racalmutesi, lu Castiddruzzu.
Ebbero storie diverse ed anche fortune differenziate. Il Castrum Rachalmuti che nel più antico diploma in cui mi sono imbattuto (presso l'Archivio Segreto Vaticano) viene registrato in Rachalchamuto sorge come effervescente universitas nel XIII secolo e resta ancora libero comune sino a che vien tassato o tartassato al tempo dei vespri Siciliani da nuovo venuto dal'avara povertà di Catalogna. Dopo, I Chiaramonte e quindi i Del Carretto, predaci masnadieri più genovesi che liguri,. Ai primi del '700 si scompagina questa signoria carrettesca che a malapena era riuscita a divenire comitale ed ecco i rapaci Gaetani di Naro agguantare questa malconcia contea di Racalmuto. Con gli sconquassi di fine secolo, con la riforma Caracciolo. Racalmuto entra nella modernità e sono le piccole crestomazie locali a impossessarsene: nascono lotte tribali tra i Tulumello (appunto il signor T) i Matrona, i Savatteri, i Borsellino, cospivui i Farrauto, mentre i baroni Grillo emergono ma subito si appannano. E da lì la vicenda del dominio racalmutese si snida contorta, illogica, miserabile e pretenziosa, sino ai nostri giorni.
Di queste intriganti origini Sciascia nel 1947 mostra di non saper nulla. In fin dei conti è ancora il giovinastro che al Circolo Unione. divertendosi alla spalle di incartapecoriti galantuomini, stacca la corrente elettrica di sera nel pieno di partite a carte ove si disperdono i pochi soldi di cui ancora costoro riescono a disporre. Corre il rischio di venire ignominiosamente espulso, anche perché in Galleria aveva scritto sgradevoli cose su questo Circolo ove davvero qualche signorotto locale vi aveva lasciato nella sua vita solo un'affossatura nell'accogliente poltrona di cuoio scuro. Per redimersi Sciascia scrisse nell'Illustrazione Italiana il più ipocrita corsivo che si possa immaginare e come cimelio di guerra con aristocratica cornice oggi continua a dare lustro al nobiliare sodalizio dell'Unione regalpetrese. .
Certo vi è anche l'altro feudo degradante dal castrum Gibillinorum. Con la riforma Caracciolo si spappola e un discendente da pecorai diventa un predace gabellotto e se ne appropria a dire il vero con una grintosa invesatitura feudale trasformando il nipote nascituro in barone grande appunto il signor T.
Anche questa beffa settecentesca sfugge al buon Sciascia e nelle parrocchie di Regalpetra ci propina una favoletta tutta caramellosa verso i decadutissimi feudatari di Sant'Elia su cui abbiamo celiato un po' nel nostro "La Signoria racalmutese dei Del Carretto" (vedasi scannerizzazione), e confessiamo qui che molto altro avremmo da aggiungere per i succhi gastrici che dopo ci sono fermentati dentro nelle ulteriori ricerche su questo grande imbroglio feudale, sfuggito totalmente al buon Sciascia.
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