Padre Puma,
mio amico dal 10 ottobre
1945, fu un
grande uomo, né santo né demone. Sono oltre che suo amico amico della sua
famiglia. Non sono certo obiettivo per farne lo storico. Da amico affermo che
padre Puma da gran'uomo qual era ebbe grandi virtù e per le leggi fisiche degli
equilibri anche alcuni difetti: quei difetti che me lo rendevano molto simile e
quindi tra affini della mente e del pensiero abbiamo solidarizzato, facendo i
conti per oltre 60 anni. A qualche criticona faccio presente che la vecchiaia è
sì un morbus - che non lo auguro naturalmente ai miei nemici - ma è una
grandissima ricchezza, arricchisce incommensurabilmente. Padre Puma conosceva i
suoi polli, li faceva starnazzare e spesso pareva persino assecondarli. Padre
Puma ha fatto la storia della Racalmuto del dopo-guerra del '40: anzi è la
nostra storia recente. Si dà il caso che io più che dovere scrivere la storia
di Racalmuto da quasi un secolo in qua quella storia l'ho vissuta e vissuta
sulla mia pelle.
Nella
intervista che mi concesse nel 1995 (il 5 luglio), P. Puma con una voce
stentorea, mentre io zoppicavo, aveva due grandi suoi misteri da occultarmi:
l'intimo suo soffrire certe tentazioni cui credo che ben volentieri cedesse in
contrasto l'abito che portava e il dovere fronteggiare truci faccende di
famiglia che si erano anche listate a lutto per una feroce esecuzione d'indole
malavitosa.
Mi sono
ascoltata quella intervista. Il cipiglio loquace direbbe Bonanno camuffava ben
altri sgomenti esistenziali. Puoi essere prete quanto ti pare, resti
disperatamente uomo.
Riporto qui
di seguito i passi più trepidi, più sibillini, forse meno schietti.
Le
confraternite cinquecentesche
D.: In
effetti a Racalmuto sorgono nel 1500 sei o sette associazioni o congregazioni o
confraternite. Si chiamano confraternite per la buona morte come dappertutto,
perché curano la sepoltura dei morti. Ma, a ben guardare, sono organismi
economici, anzi, finanziari. Dispongono di un patrimonio immobiliare immenso.
Sono proprietari quasi monopolistici delle case di abitazione; fanno prestiti
ad interessi, sia pure conformi ai dettami della Chiesa: talora assurgono a
vere e proprie banche moderne. Queste confraternite racalmutesi hanno di
particolare due caratteristiche: 1) una loro laicità. C’è il cappellano, ma il
cappellano serve solo per dire la messa. Per il resto, c’è una lotta per
evitare che vi siano infiltrazioni ecclesiastiche nella gestione sociale ed
economica della confraternita, che è retta da un governatore e da rettori
laici; 2) vi sono associati indifferenziatamente confratelli di tutte le classi
sociali, dai cosiddetti "magnifici" (i moderni
"galantuomini") ai "mastri", ai "borgesi" e
persino ai "jurnatara".
Da ciò oso
desumere una duplice conseguenza:
a) una fede
religiosa del popolo di Racalmuto molto profonda, che si accompagna, però, ad
un anticlericalismo piuttosto viscerale. C’è la battuta a Racalmuto che dice:
«monaci e parrini, vidici la missa e stoccaci li rini».
b)
un’abitudine all’interclassismo, quasi l’interclassismo alla De Gasperi. Forse
nasce da qui se a Racalmuto mai vi sono stati contrasti sociali atti a
suscitare moti rivoluzionari, diversamente, ad esempio, da Grotte.
Dall’alto
della sua quarantacinquennale esperienza pastorale, lei che ne pensa?
R.: Prima di
tutto debbo precisare che la frase «monaci e parrini, vidici la missa e
stoccaci li rini», è diffusa dappertutto in Sicilia. Nasce nei tempi in cui la
stampa era espressione della massoneria e del suo anticlericalismo. Erano i
tempi delle leggi eversive: quando furono soppressi i monasteri e la manomorta
dei conventi. A Racalmuto, in definitiva, non vi sono state tensioni sociali
acute anche perché il popolo poté appropriarsi agevolmente dei beni della
Chiesa. Peraltro, il clero locale ha sempre parteggiato per la classe meno
abbiente. Vedasi la bella figura di padre Elia Lauricella. Abbiamo avuto anche,
a dire il vero sacerdoti alla Savatteri - nati magari in famiglie di massoni -
ma furono eccezioni, e comunque ininfluenti. I racalmutesi sono stati
anticlericali subendo l’astiosa propaganda massone, ma nel profondo sono stati
vicini ai loro sacerdoti, almeno quelli migliori come il padre Elia Lauricella,
morto in fama di santità.
Figure
singolari di sacerdoti racalmutesi si ebbero, ad esempio, a fine
dell’Ottocento. Guardiamo all’arciprete Tirone, uomo inflessibile, di profonda
cultura anche giuridica, sagace difensore dei diritti della Chiesa. Tanti beni
si sono salvati dall’espoliazione governativa per suo merito. E nello stesso
tempo, così legato alle autorità ecclesiali da venire prescelto nella
salvaguardia della fede fra i fedeli di Grotte, messi in subbuglio da taluni
preti finiti nello scisma, non tanto per ragioni di fede, quanto per interessi
materiali, legati al gius-patronato della locale arcipretura. Alla fine quei
sacerdoti scismatici tornarono nel grembo di madre chiesa e ad accoglierli è
stato proprio il padre Tirone.
Il vescovo
spagnolo Horozco e Racalmuto
D.: Passiamo
ad altro. Leggo nelle carte dell’Archivio Segreto Vaticano un furibondo
contrasto sorto tra il vescovo spagnolo di Agrigento, Giovanni Horozco
Covarruvias y Leyva ed il conte del Carretto. Entrambi si accapigliano per
impossessarsi dello "spoglio" dell’arciprete Romano. Siamo alla fine
del 1500. Non è detto che lei risponda alla domanda che sto per farle, che
potrebbe considerare impertinente. Ho avuto l’impressione che i vescovi di
Agrigento guardano a Racalmuto più dalla parte dei ricchi che dalla parte dei
poveri. Lungo i secoli sembra che si sia snodato, senza interruzione, un filo
conduttore - da Horozco al vescovo Peruzzo - benevole con i ricchi racalmutesi;
ostile verso i poveracci. Per converso il clero locale è stato in opposizione a
questa condotta ambivalente dei vescovi agrigentini. Quali le sue
considerazioni? Quali le sue controdeduzioni?
R.: Da
precisare che a Racalmuto il clero ha raggiunto la quota di n.° 52 componenti.
Quindi fu un clero molto forte. Vi sono anche i monaci. Se diamo uno sguardo ai
testimoni che hanno firmato il documento sulla fama di santità del padre
Lauricella, notiamo ben n.° 32 sacerdoti firmatari di quell’atto. Ciò dimostra
la solidarietà, coesione e serietà di quel folto clero del Settecento Racalmutese.
Che in siffatta compagine sacerdotale serpeggiasse ostilità verso i vescovi
agrigentini, non risulta. Risulta, invece, una estrema prudenza, una grande
cautela dei vescovi agrigentini nelle cose di Racalmuto, che hanno guardato con
circospezione ma anche con tanta carità. Si pensi all’autorizzazione accordata
dalla curia vescovile di Agrigento ad ipotecare i "giogali" preziosi
delle chiese racalmutesi, pur di sfamare il popolo nella tragica congiuntura
alimentare di fine Settecento. Più in generale, può affermarsi che in curia
vigesse una valutazione positiva del clero racalmutese, cui si lasciavano ampi
spazi di autonomia amministrativa; per contro, il clero racalmutese è stato
sempre ligio agli indirizzi episcopali in materia di fede e di morale.
Che vuol
dire essere arciprete a Racalmuto?
D.: Essere
arciprete a Racalmuto è identico che esserlo in qualunque altra parrocchia
dell’agrigentino?
R.: Bisogna
intendersi. Una volta l’arciprete era quasi un mezzo vescovo. Al suo
presentarsi ci si doveva togliere la "scazzetta" o la
"birritta". Era il grande datore di lavoro del luogo. Era il
distributore di messe ai tanti sacerdoti che non disponevano neppure di una
piccola chiesa (ed a Racalmuto di chiese ce ne erano tante). Oggi, l’arciprete
è alla stregua di tutti gli altri parroci. Un primus inter pares, magari, ma
niente di più. E questo a Racalmuto, come altrove.
Il belato
delle pecorelle
D.: Nei
confronti della Chiesa, le "pecorelle" racalmutesi belano più o meno
rispetto a quelle delle altre parti?.
R.: Beh! se
le pecorelle "belano" perché bramano pascoli più ubertosi, allora è
ben giusto che belino. Se poi è vezzo critico - molto diffuso in questo nostro
paese - allora bisogna rintuzzare quelle critiche. Oggi si parla molto di
dialogo. Quindi, con spirito di carità, la dialettica con il popolo di Dio deve
essere fervida, reciprocamente rispettosa, missionaria. Diceva papa Giovanni
«chi è dentro deve sforzarsi di guardare a quelli che stanno fuori; chi è fuori
deve sforzarsi di guardare meglio dentro. » Forse, se Sciascia si fosse
sforzato di guardare meglio dentro, non sarebbe incorso in quelle critiche...
diciamo, esagerate. Sciascia guardava alla Chiesa dal lato esterno. Anche la
Chiesa è un’istituzione, che nella sua componente terrena può venire
migliorata. Comunque, quelli che dall’interno ci produciamo, talora, in
critiche, tentiamo di migliorarla. A Sciascia, forse, di migliorare la Chiesa
con le sue critiche non importò granché. Diceva madre Teresa di Calcutta, a chi
parlava male della Chiesa: «Lei che cosa ha fatto per la Chiesa? Niente! Ed
allora?».
Sciascia e
gli eretici di Racalmuto: fra Diego La Matina, il notaio Jacopo Damiano e la
strega Isabella Lo Voscu.
D.: Detto,
tra parentesi, che Leonardo Sciascia, immenso scrittore, è stato secondo me, un
pessimo politico ed un massacratore della storia locale di Racalmuto, ho da
precisare che nei miei studi storici su Racalmuto, che modestia a parte, credo
che abbiano una qualche valenza, non ho mai riscontrato moti locali che
sapessero di eresia. La vicenda di fra Diego La Matina è tutta da studiare e va
totalmente revisionata rispetto all’abbozzo forzato di un testo come Morte
dell’Inquisitore. Il notaio Jacopo Damiano - notaio di fiducia del barone
Giovanni del Carretto negli anni sessanta del 1500 - ridonda, nei suoi rogiti,
di fervore religioso ed irreprensibile ortodossia. Ora si parla di una certa
Isabella Lo Vosco (o Bosco) come eretica. Costei, murata viva per dieci anni
dall’Inquisizione, appare più che un’eretica, una mondana che ai suoi tempi
destava scandalo, specie fra i famigli del Sant’Uffizio. Una questione dunque
di morale sessuale e l’ortodossia c’entrava ben poco. Quindi Racalmuto può
definirsi un popolo fedele alla Chiesa. Concorda?
R.:
Racalmuto è stato sempre fedele alla Chiesa e quando vi è stato il famoso
scisma di Grotte, nessun racalmutese è stato coinvolto. Né vi fu, da parte di
un qualche sacerdote o di un qualche laico, moto alcuno di simpatia o di
fiancheggiamento a quella ribellione di ecclesiastici grottesi. Quanto al
protestantesimo - che qua e là nell’agrigentino un qualche proselitismo è
riuscito ad avere - qui a Racalmuto esso è stato sempre rigorosamente bandito.
Qualche elemento viene ora da Agrigento, ma è fatto trascurabile. Il motivo?
Diceva il grande padre Parisi, eccelso predicatore - anche il Circolo Unione si
sentì in dovere di accoglierlo come socio onorario -, diceva dunque il padre Parisi:
è grazia della Madonna del Monte. La devozione alla Madonna a Racalmuto è stata
sempre profonda e radicata. Ciò l’ha preservato dall’apostasia. La bontà,
l’attaccamento alla chiesa ed altre doti del popolo di Racalmuto restano
comprovati dai tanti documenti d’archivio, che anche tu ed il prof. Giuseppe
Nalbone state studiando, con risultati conformi a questa valutazione.
D.: Ma
questo è un atto di fede, o di speranza o di carità verso i racalmutesi?
R.: Credo
solo che sia un atto di giustizia e di sincerità. Alla carità gratuita, non
bisogna indulgere. Cerco solo di essere obiettivo e sincero. Ma i momenti di
smarrimento che per avventura vi siano stati a Racalmuto vanno presentati con
altrettanta sincerità ed obiettività. Non sono comunque uno storico per avere
di siffatti problemi. Tocca a chi cerca la verità storica, essere veridici, a
qualunque costo. Amicus Plato, sed magis veritas, mi pare che un tempo si
dicesse, quando era di moda il latino. Ed oggi Sciascia appare tanto Plato!
* * *
Le opzioni
umane dell’arciprete
D.: Il 25
dicembre 1991 lei diceva: «fare cose utili, dire cose coraggiose, contemplare
cose belle: ecco quanto basta per la vita di un uomo». E per quella di un
prete?
R.: Per la
vita di un prete è immergersi nella preghiera. E’ entrare nel vivo della vita
dei propri parrocchiani. Sapere portare gli altri, con la forza dello spirito
di Dio, al Padre. Se questo si riesce a fare, si può dire che il prete è
riuscito. Se questo non riesce a fare, il prete, pur avendo avuto l’ordine
sacro, è sempre un fallito.
e quelle
dello spirito
D.: L’altro
giorno, quando è stato celebrato il suo quarantacinquesimo anno di sacerdozio,
lei pronunciò un’omelia memorabile. Ci sono stati tre passaggi che mi hanno
particolarmente colpito:
1) un oscuro
riferimento ad un deserto da attraversare;
2) un
ribadire, quasi con rabbia, «io sono comu l’ovu, ca cchiù si coci, cchiù duru
addiventa»;
3) un suo
non volere scegliere tra l’atteggiamento pratico e conservatore di S. Pietro e
l’atteggiamento speculativo ed innovatore di San Paolo.
Vuol
commentare?
R.: Io non
oso mettermi, sia pure lontanamente, a confronto con tali giganti della Chiesa.
Cerco di imitarli quanto più posso, essendo noi i continuatori della loro
missione. Quando faccio qualche battuta del tipo «cchiù mi cuociu, cchiù duru
mi fazzu» intendo sottolineare la mia ostinazione, il mio attaccamento, il mio
volere essere sempre più fedele al sì, a quell’eccomi pronunciato al tempo della
mia consacrazione sacerdotale. Voglio perseverare nella grazia che Dio concede
giorno per giorno, perché nell’amore di Dio si cresce
giorno per giorno. Nessuno può presumere di essere arrivato. Nessuno deve
adagiarsi. Ed allora ecco il cammino, che può essere un cammino nel deserto,
che può portare incontro al proprio Calvario. Sono tappe, anche dolorose, che
vanno ostinatamente raggiunte e superate, ad imitazione di Cristo. Con l’andare
degli anni, si riflette maggiormente. Ci si accorge di avere avuto dei difetti.
C’è bisogno di maggiore ostinazione, ma non basta la buona volontà: occorre la
grazia di Dio.
Come è
cambiato Racalmuto in quest’ultimo cinquantennio.
D.: In
questi quarantacinque anni, Racalmuto, sotto il profilo della fede, di quello
morale e di quello sociale, è migliorato o peggiorato?
R.: Anche
Racalmuto, come tutto il resto del mondo, ha subito l’influenza generale. Se
Berlino piange, Roma non ride e viceversa. Siamo in epoca di cosiddetta
planetarietà. Il mondo è diventato, davvero un paese. Il nostro paese è
diventato, in certa misura, il mondo, nel bene e nel male. A Racalmuto -
possiamo dirlo - un miglioramento c’è: lo Spirito Santo soffia dove vuole e sta
soffiando un po’ dovunque, anche a Racalmuto. Quindi i movimenti che nascono,
gli oratori che rinascono. Il bisogno di pace, il bisogno di associarsi, il
bisogno anche di rinnovarsi. Si avverte, e questo è già molto. Ma Racalmuto
subisce anche l’ondata deleteria del rilassamento dei costumi, del consumismo,
del materialismo.
D.: A
Racalmuto vi sono molto meno vocazioni di una volta. E’ un segno negativo, è un
momento transitorio, è un indice di un certo affievolimento della fede
religiosa?
R.: La
scarsità delle vocazioni è un segno di crisi, più che del sentimento religioso,
della famiglia. Oggi la famiglia è in crisi. I mass-media hanno operato
negativamente. C’è stata anche una crisi di fede: non si può negare. Un paese
antico come Racalmuto, ha risentito con un certo ritardo degli effetti
negativi. Noi preti dobbiamo puntare di più sulla catechesi, sull’istruzione
religiosa e sulla vita liturgica.
D.:
Racalmuto, il popolo di Dio di Racalmuto, è sincero con i sacerdoti, o no?
R.: Beh! Se
vedono un sacerdote che si muove, che agisce con serietà, con purezza
d’intenti, sì. Non si guarda più tanto al grado di cultura del prete, perché la
gente vuole ed esige un servizio all’insegna della charitas, dell’amore. Dove
non c’è amore, scatta la critica. Del resto il Vangelo lo dice: se il sale è
insipido, lo si calpesta; se il sale è buono, lo si apprezza.
D.: A
Racalmuto la fede è diversa a seconda del sesso, dell’età, delle classi
sociali?
R.: Sì. La
gioventù, ad esempio, è stata un poco più lontana. Ma qualcosa si muove in
senso positivo. Si è costituito un oratorio, si è costituita una consulta
giovanile. Cresce il richiamo associativo tra i giovani. Le donne sono più
vicine: ciò è stato sempre scontato. Una qualche indifferenza religiosa è atavica
fra gli uomini anziani. E qui l’asino zoppica. Dovremmo trovare la maniera come
mobilitare anche gli uomini. Abbiamo trovato delle difficoltà anche con questi
Centri d’ascolto familiari. Non solo qui a Racalmuto, ma anche in tutta la
diocesi. Mi ero permesso di suggerire qualcosa per interessare gli uomini,
specialmente la sera.
La morale
sessuale di Racalmuto
D.: Ho
l’impressione che la morale sessuale a Racalmuto sia stata una cosa molto
relativa e talora inquinata. Si levano dai documenti d’archivio sussurri e
grida che fanno intuire scelleratezze consumate qualche volta persino nel
chiuso delle famiglie. E’ un mio pessimismo o lei non intende accedere ad una
provocazione del genere?
R.: I
misfatti di sesso sono capitati ovunque. La verità è un’altra: siamo portati a
scandalizzarci oltre misura quando i fatti di sesso investono la vita
religiosa. Siamo portati a credere che tutto un edificio crolli. Ma non è
soltanto questo il succo della morale cristiana. E’ tutto l’insieme di atti, di
comportamenti. Ed allora è erroneo pensare che se si verificano peccati di
sesso, non c’è più religione. Assolutamente, no! Ci possono essere grandi
convinzioni e ci possono essere grandi cadute.
D.: Ma io
non mi riferisco alla sessualità dei preti. E’ un problema troppo grosso e
troppo grande per affrontarlo io. Mi riferisco, però, alla morale sessuale
corrente del cosiddetto popolo di Dio, che in questo mi sembra troppo poco
popolo di Dio, per quanto riguarda Racalmuto. E non tanto per un certo tipo di
sessualità, diciamo così sfrenata che può rientrare nell’ordine umano delle
cose, quanto per quell’andare al di là, oltre il pentagramma e pigliare certe
stecche. E non sono, secondo me, fatti isolati, ma palesano un certo costume di
vita che non va criticato - perché nulla che è umano è criticabile - ma
sicuramente non va ammirato.
R.: La
prevenzione è sempre il problema più difficile. Là dove la prevenzione è stata
praticata, si è evitata la frana. Laddove si è fatto di meno, certamente la
frana si avverte. Ora qui a Racalmuto occorre praticare un metodo preventivo -
ed io come sacerdote credo di averlo fatto nella scuole. Per quanto riguarda il
passato gli antichi nostri non ci davano un contributo, per premunirci dai mali
che oggi sovrastano. E’ certo, però, che la gioventù di oggi è più preparata e
più attenta rispetto al passato. Le coppie degli sposi sono più preparate. Vi
sono i corsi di formazione. Certo si suol dire che male comune, mezzo gaudio. E
l’opera nefasta dei mass-media, del materialismo dilagante, si fa sentire. E’
in atto una scristianizzazione subdola. La famiglia è stata minata nelle sua
fondamenta: vedi divorzio, aborto, etc. che per noi cristiani sono piaghe e
piaghe anche sociali.
D.:
Racalmuto ebbe certamente una cultura contadina, quindi chiusa e sessualmente
repressa e tendente agli eccessi. Questo, però, vale per la Racalmuto
antecedente agli anni ’50-’60. Dopo, in coincidenza con la sua arcipretura,
Racalmuto - se debbo giudicare dall’esterno - ebbe un salto di qualità. Certe
repressioni della società contadina non ci stanno più. Oggi, ci saranno ...
peccati, ma normali; prima, i peccati potevano invece apparire ... anormali.
R.: Io, nei
primi anni di sacerdozio, ebbi infatti a notare un periodo, definiamolo,
preconciliare. Vigeva allora quella moralità antica. Sembrava che stesse bene
per tutti. Ma apparvero subito le prime avvisaglie dell’incombente grande
corruzione. Abbiamo dovuto provvedere. In Azione Cattolica ed in altre associazioni
cattoliche abbiamo intrapreso ad affrontare problemi di morale che prima era
azzardato toccare. La questione sessuale, nelle scuole, io l’ho affrontata,
naturalmente con le dovute cautele e ... con le pinzette. Allora c’erano le
denunzie che si facevano con estrema facilità. Nelle scuole medie - ricordo -
c’è stata una preside che mi diceva: meno male che c’è lei a trattare questi
argomenti, perché gli insegnanti sono ostili a trattarli, per paura delle
denunzie. Il paese nostro era, comunque, un paese chiuso, un paese di montagna.
Appena si è affacciato, con i ragazzi che andavano a scuola, non appena
cominciarono a muoversi, vi furono le prime vittime che finirono subito ...
segnalate. Due periodi a confronto si ebbero, in ogni caso: quello preconciliare
e quello successivo in cui le cose cominciarono a vedersi con altra ottica.
D.: Continuo
sul piano della provocazione. Nel Settecento, mi è sembrato che ci fosse un
atteggiamento differenziato della curia vescovile nei confronti dei matrimoni
tra parenti. Quando si trattava di poveri, scattava tutto un processo con
l’adozione di provvedimenti che imponevano atti di mortificazione pubblica. I
fidanzati dovevano cingersi il capo con una corona di spine e in ginocchio
dovevano chiedere perdono sul sagrato delle chiese: dovevano così recitarsi in
ginocchio tanti rosari davanti a tante chiese. Veniva dato incarico al Vicario
Foraneo affinché vigilasse sul completo adempimento delle penitenze inflitte.
Quando, invece, si trattava dei cosiddetti galantuomini, i matrimoni tra
parenti, anche tra primi cugini, non solo non venivano osteggiati ma persino
favoriti. Ci si guardava bene dal comminare pubbliche penitenze come per i
poveri. E questo si trascina fino a certi conclamati gesuiti dell’epoca
contemporanea. Questa faccenda, al laico suona molto strana. Si domanda: ma che
ci stanno, secondo la curia vescovile, due morali matrimoniali: quella dei
ricchi e quella dei poveri? Per converso, il sacerdozio locale mi è apparso
piuttosto lungimirante ed equo.
R.: Che in
passato ci sia stato qualche inconveniente, è fuori discussione. La Chiesa, si
sa, dall’interno ha modificato certi atteggiamenti giuridici. Molti canoni sono
stati aboliti, molti canoni attenuati, molti canoni cambiati. Abbiamo un codice
nuovo, ben diverso da quello antico. La Chiesa ha dovuto modificare il suo
atteggiamento per stare al passo con i tempi. C’è stata una maturità popolare e
questa è stata registrata dalla Chiesa. Ricordo che nei primi anni di
sacerdozio, per i fuggitivi c’era il matrimonio in sagrestia. Era umiliante, ma
serviva anche da deterrente, per evitare gli abusi. Oggi la gente ha più
maturità, più coscienza. Una mea culpa ricade sui sacerdoti, che non erano
riusciti a far maturare religiosamente i propri fedeli. Ma c’era il peccato per
ignoranza della povera gente e bisognava correggerla per evitare il peggio. Le
ingiustizie? E dove non sono?
Vi è stata
una doppia morale matrimoniale?
D.: Durante
l’arcipretura Puma, ho avuto l’impressione - naturalmente sono un osservatore
non qualificato ed esterno - che le due morali matrimoniali, quella dei ricchi
e quella dei poveri, si siano finalmente unificate. Non posso dire altrettanto
per l’arcipretura del suo predecessore.
R.: Beh! ..
il mio predecessore ha avuto grandi virtù: sono stato con lui una vita.
Carattere forte, duro, qualche volta, ma a volte era necessario prendere
atteggiamenti e decisioni dure. Bisognava creare una certa coscienza. Andare ai
Sacramenti senza una preparazione, accostarvisi con leggerezza, erano malvezzi
da correggere, anche con durezza. Quell’arciprete andava giustificato. Avrei
preferito, invece, meno severità e più disponibilità verso la gente. A ciò ci
stiamo uniformando io ed i miei confratelli. Bisognava più convincere che
reprimere. Con l’amore si ottiene di più, come diceva don Bosco, della
rigidità.
Ricchi e
poveri, tutti uguali?
D.: Perché
negli alti prelati c’è una sorta di diffidenza nei confronti dei poveri ed una
sorta di intelligenza con i ricchi? Ci si scorda che nel Vangelo sta scritto «è
più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel regno
dei cieli»? Perché invece i parroci, l’arciprete, il basso clero che sono più a
contatto con il popolo, sovvertono quell’atteggiamento?
R.: Diceva
il servo di Dio padre Elia Lauricella: «bisogna avvicinare i ricchi e tenerseli
vicini perché facciano del bene ai poveri.». Credo che questa sia una strategia
intelligente, pastorale. Nel Vangelo non c’è scritto che si devono disprezzare
i ricchi. Certo non bisogna affiancarsi ai potenti sol perché sono potenti.
Occorre comunque stare in mezzo ai poveri, perché la Chiesa è dei poveri. Lo
diceva anche papa Giovanni: Ecclesia pauperum. Essere poveri non va considerata
una gran bella cosa. La maggior parte del mondo vive in povertà non per sua
scelta. Sorge il problema dell’aiuto che occorre approntare. Un aiuto verso i
fratelli poveri.
I vescovi
"rinascimentali" agrigentini.
D.: Premesso
che a me i vescovi rinascimentali non piacciono, mi pare che gli ultimi tre o
quattro vescovi agrigentini siano di tutt’altra paste. Non sono, di certo,
rinascimentali.
R.: Sì, I
vescovi di oggi sono diversi, perché è cambiato anche lo stile della Chiesa. I
trionfalismi di una volta sono sorpassati. Il tipo di cultura ecclesiale è
cambiato. Il vescovo ora è fratello fra i fratelli, per quanto riguarda i
sacerdoti. Il vescovo è ora un pastore: gira, si muore, entra a stretto
contatto con i fedeli della sua diocesi. Prima, invero, non era così. Ai tempi,
il vescovo aveva il potere, aveva autorità e quindi era il vertice. Oggi, con
il Concilio Vaticano II, il Pastore sta al centro: la Chiesa non è più
verticale, come si pensava una volta; la Chiesa è circolare. Al centro il
parroco con le varie entità come il Consiglio pastorale, presbiterale,
Consiglio economico. Prima il parroco era il deus ex machina e accentrava
tutto, mentre i laici erano scollati. Oggi il laicato ha ripreso il suo ruolo.
Rammentiamoci che il laicato ha i doni che abbiamo avuto noi sacerdoti: il
laico battezzato è sacerdote, fa parte del regno di Dio, ed ha anche l’ufficio
profetico. Quindi i laici predicano, annunciano la parola di Dio e mutano nel
tempo.
Il laicato
racalmutese
D.: A tal
proposito, c’è a Racalmuto un laicato fervido?
R.: Grazie a
Dio, sì. Anzi, addirittura qualche vescovo mi diceva: «fortunato, perché lei ha
collaboratori numerosi». Non possiamo cantare vittoria .. ma, tutto sommato, ci
è lecito un moto di soddisfazione. Sotto questo profilo, siamo a posto.
D.: Quando
nel 1960 ho dovuto emigrare da Racalmuto, per motivi di lavoro, ho lasciato un
paese povero, con grande miseria, con strade sporche, con case invivibili, oggi
- a parte il vezzo di piangere miseria, che è vecchia abitudine contadina - il
paese mi pare di gran lunga cresciuto, economicamente parlando. A questa
crescita economica - se vi è stata - si è accompagnata una crescita religiosa?
R.: Sì,
possiamo affermare con certezza che c’è anche una crescita religiosa. Ad
esempio, le varie parrocchie - che prima stentavano ed avevano vita grama - ora
sono fervide, con varie associazioni, con tante belle iniziative, vi si
celebrano incontri parrocchiali ed interparrocchiali. La consulta che già è
nata fra i giovani è efficiente. Abbiamo organizzato gli incontri anche col
Vescovo. Stanno sorgendo, anche, dei movimenti artistici, lirici. Tutte le
occasioni servono per essere anche noi presenti e dire una buona parola, anche
di incoraggiamento. Ciò dimostra che cosa? Una maggiore apertura ed una
maggiore coscienza da parte delle famiglie che incoraggiano questi ragazzi a
vivere la vita della parrocchia. Sarebbe auspicabile che le Amministrazioni
comunali concertino con le parrocchie attività a respiro annuale. Su questa
lunghezza d’onda ancora non ci siamo.
Fede e preti
a Racalmuto
D.: Trenta
quarant’anni fa, a Racalmuto - mi consenta una battuta - c’erano tanti preti ..
e poca fede; ho l’impressione che ora ci stia tanta fede ma pochi preti.
R.: Ih!
...ih! ... ih! [piccolo accenno al riso]. Vuoi forse dire che è scattato un
processo inversamente proporzionale? Beh! Io non vorrei giudicare il passato;
comunque mi consta che nel passato vi erano uomini di fede granitica. Se la
fede si deve misurare dalle opere, allora dobbiamo dire che in passato attività
se ne fecero. Le varie chiese che sono state costruite dalle varie maestranze
sono l’attestato più bello. Le varie opere caritative come la casa della
fanciulla, la Misericordia (quella della mastranza), il maritaggio dell’orfana,
furono edificanti iniziative dei nostri padri racalmutesi, atti bellissimi di
fede. Ecco, perché mi sembra un po’ azzardato avanzare riserve sulla fede degli
antichi di Racalmuto. Col cambiare dei tempi, certo cambiano le manifestazione
di fede. Anche oggi abbiamo tante belle manifestazioni di fede .. specie per
l’apporto dei laici che suppliscono alle deficienze numeriche di sacerdoti.
D.: Altra
domanda scottante... Come giudica le vicende politiche di Racalmuto?
R.: Beh! ..
Racalmuto ha avuto la mala sorte di avere subito amministrazioni poco accorte.
Forse elementi non preparati sufficientemente hanno potuto scalare i vertici
del potere locale. Ma contro le tristi vicende che abbiamo subito c’è stata una
reazione che dobbiamo definire sana. Si è cercato di ovviare alle varie piaghe
che si sono aperte. Ma dal punto di vista amministrativo, c’è stata una specie
di corsa .... ai beni, più che al bene comune. Ai beni, di vario genere. Quindi
il paese si è sviluppato piuttosto caoticamente. Ognuno ha cercato di fare a
modo proprio. Tanti hanno cercato di affermarsi con il potere. In case, sono
finiti i sudati risparmi dell’onesto lavoro dei racalmutesi, del lavoro degli
emigranti. In politica, qualcosa, molto deve cambiare: così il paese non può
migliorare.
[Questo
passo dell’intervista appare decisamente datato: si riferisce al tempo -
trascorso ormai da vari anni - in cui si è svolta la stessa intervista. Non vi
si può attribuire valore attuale o riferimento alla presente congiuntura
politico-amministrativa del paese, n.d.r.]
quarantacinque
anni di eventi
D.: In
quarantacinque anni di sacerdozio, ne saranno successi di tutti i colori.
Ricorda eventi belli, eventi brutti?
R.: Eventi
brutti? ... possiamo dire anno per anno. Eventi belli, dopo la guerra? ...
quelli a livello nazionale della ricostruzione. Riflessi sul posto, tanti. Poi
abbiamo avuto il nefasto blocco dell’attività edilizia. Dei tempi buoni, a
respiro nazionale, noi racalmutesi ne abbiamo usufruito, però, tutto sommato,
poco. La povera gente è rimasta delusa. Molti dovettero uscire fuori dal paese,
per trovare lavoro. Sono dovuti andare a cercare pane altrove. In Germania, ad
esempio. E’ stata un’emigrazione dolorosissima. La migliore gioventù è dovuta
emigrare. Andare negli Stati Uniti, in Canada. Qualcuno poté emigrare con
qualche documento parrocchiale ... vorrei dire un po’ ... truccato. Allora
c’era lo spauracchio del comunismo. Qualcuno doveva, per emigrare, rinnegare la
propria ideologia, che poteva risultare sgradita e fingere di professare quella
... gradita. Tutto questo non è stato bello. Abbiamo avuto le sciagure
minerarie del Belgio che hanno coinvolto anche nostri emigranti. Sono uscito
diverse volte: sono stato in Belgio, in Germania, due volte negli Stati Uniti.
Ho avuto modo di vedere i nostri emigranti nella loro nuova patria; ho potuto
scorgere il buono ed il cattivo, il positivo ed il negativo, della loro nuova
vita.
In
definitiva, il paese, dal punto di vista socio-economico, non possiamo dire che
sia migliorato di molto. Si è soltanto difeso.
D.: ....
sono convinto che se si sapesse la verità sui depositi bancari, sulla
sottoscrizione dei titoli pubblici, sulle disponibilità, addirittura, in valuta
estera, sui depositi postali, di Racalmuto, forse, il giudizio cambierebbe.
R.: Sì,
perché si tratta di un paese parsimonioso. Noi in definitiva discendiamo dai
giudei: risparmiatori, avvezzi alle banche, ai depositi. La gente nostra non è
abituata ad investire. Anche perché ha avuto diffidenza verso le istituzioni
finanziarie (e talora grosse fregature). Una diffidenza che ha investito anche
le istituzioni finanziarie d’ispirazione ecclesiastica.
D.: Padre
Puma, lei accennava alla grande emigrazione degli anni quaranta, cinquanta...
sessanta. Ne derivò un forte flusso di rimesse degli emigranti... mal
convertite in lire dalle banche. L’Italia ha potuto sfruttarle per costruire le
sue fortune, per cui oggi, nel bene o nel male, viene considerata la sesta,
settima ottava potenza economica del mondo. Queste rimesse degli emigranti, già
mal convertite in lire e finite in depositi bancari, sono state quindi
polverizzate dall’inflazione galoppante degli anni settanta. Lo Stato quindi è
doppiamente debitore nei confronti di Racalmuto. Non riesco a capire perché a
livello nazionale si vuole recitare il de profundis allo Stato assistenziale e
rompere con ogni forma di sovvenzione al Sud (e quindi a Racalmuto),
dimenticando che si debbono atti di risarcimento, di riparazione. Lei è
sacerdote e quindi le cose dell’economia le lascia agli economisti. Il suo
parere resta però sempre interessante: si tratta pur sempre delle condizioni di
vita dei suoi parrocchiani.
R.: Io - per
quello che ho potuto constatare, sentire, avvertire - debbo sottolineare che
qui la mano del minatore, del bracciante, dell’operaio, del commerciante, è
stata sempre defraudata. Il mare di rimesse dall’estero non ha lambito,
vivificato le nostre aride terre. Sono d’accordo, dunque, sul fatto che lo
Stato è fortemente debitore. Addirittura, se ci rivolgiamo alle banche per
prestiti, loro fanno gli indiani verso i racalmutesi. Le banche locali, già
assorbite da quelle colossali del continente, sono molto aperte a prendere (i
depositi racalmutesi), ma del tutto restie a dare (accordare prestiti,
finanziare, etc.). Noi non abbiamo avuto agevolazioni da parte delle banche.
Sono scesi come i predatori - mi dispiace dire questa frase - perché sanno dove
pescare. E qui hanno sempre pescato un po’ tutti. Nel vicino paese di Grotte,
invero, è stato diverso. I grottesi si sono serviti delle banche per i loro
investimenti, ma lì vige un’altra mentalità, diversa da quella racalmutese. Non
va sottaciuto il ruolo della Regione Siciliana. Essa ha comprato a poco prezzo
le miniere: ha fatto sorgere delle società alquanto speculative. Beh! Sappiamo
tutti come sono andate a finire le miniere racalmutesi. Quando si è finalmente
levata una voce di protesta, questa voce - voce nel deserto - è stata
soffocata.
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