L'importanza del processo per
diffamazione intentato dal generale Giallombardo contro il prof. Casarrubea è
estrema. Le carte processali andrebbero tutte quante riconsiderate magari
mimando un contro processo alla FONDAZIONE SCIASCIA.
Della colpevolezza o meno di
Ettore Messana si tratta. Se Messana dovesse essere quel CAPO BANDITO politico
che avrebbe voluto il comunista Li Causi e che pare vorrebbe rimarcare ancora
l'ex comunista Casarrubea, sarò il primo a desistere dalla mia intenzione di
far dedicare una importante strada ad Ettore Messana nel suo paese di origine
(anche se non ci è nato): RACALMUTO.
Se no, VOGLIO LA
STRADA.
Intanto estrapolo passi della
sentenza mezzo assolutoria e mezzo tartufesca (assoluzione per prescrizione e
non perché il fatto non sussista). di quel lungo dispositivo - credo redatto
dal PM - del 26 aprile 2006 (cose dunque di nove anni fa).
Ve li sottopongo al vostro
discernimento.
Per me è topico questo
passaggio:
"La tesi secondo cui FRA DIAVOLO fu ucciso
dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una colluttazione provocata dal primo, (pag.
27), ma “a freddo” in seguito ad un ordine telefonico, emerge, come detto, dalle
dichiarazioni rese da TERRANOVA e PISCIOTTA al processo di
Viterbo."
Su
questo punto esplicherò le mie considerazioni come dire quale contro PM del
processo. Ma rinvio il mio svolgimento del tema a tempi migliori.
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Infine,
giunto sul posto il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani,
il capitano GIALLOMBARDO, venne convocato presso l’ufficio del gen. Dei CC.
CALABRO’, per una riunione insieme all’ispett. di Pubblica Sicurezza MESSANA E
al colonnello PAOLANTONIO. Quest’ultimo, però, su richiesta espressa del
GIALLOMBARDO, non partecipò alla riunione.
Nel
corso di tale incontro l’ispett. MESSANA accusò il GIALLOMBARDO di avere ucciso
FERRERI nonostante avesse saputo dal col. PAOLANTONIO che il bandito era un loro
confidente ed anzi proprio per tale motivo. Seguì una lite durante la quale il
capitano contestò la veridicità di tale affermazione.
Successivamente,
nel corso dell’autopsia, alla quale assistette anche il GIALLOMBARDO, questi
ebbe modo di verificare che il FERRERI era stato attinto anche all’addome da un
pallettone del fucile da caccia sparato dal brig. CALANTONI nel corso del
conflitto a fuoco. I medici legali gli riferirono che il FERRERI sarebbe morto
comunque di peritonite a causa di questa prima ferita, come del resto annotato
anche nel processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947, redatto
dal G.I. dott. G. MACALUSO.
Nel
corso del suo esame da parte del PM e del difensore di parte civile, il gen.
GIALLOMBARDO ha fatto inoltre più volte riferimento ad una serie di documenti,
prodotti dalla difesa di parte civile all’udienza del 02.07.04. In particolare
il teste ha ricordato l’attestato di conferimento della medaglia d’argento da
parte del Presidente della Repubblica, l’elogio della giunta di Alcamo, la
lettera di compiacimento del generale dei CC, il Rapporto Giudiziario da lui
steso in data 01.07.47, in ordine al conflitto a fuoco, l’archiviazione in data
30.12.1948 del procedimento penale cui il GIALLOMBARDO fu sottoposto per la
morte dei banditi. (pag. 10)
Ma
rilevanti nuove circostanze, precisazioni ed anche contraddizioni, emergono in
sede di controesame del teste da parte del difensore dell’imputato.
In
primo luogo è infatti risultato che il confidente che avvertì GIALLOMBARDO
dell’incontro, cui doveva partecipare il FERRERI nei pressi di Alcamo, era un
appartenente alla mafia locale (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04,
pag. 35).
In
secondo luogo il teste ha chiarito che il Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, da
lui sottoscritto, era stato in realtà redatto dal suo superiore, maggiore
Marinesi Vincenzo (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.’04, pag.
50).
Rilevante
è inoltre la contraddizione emersa in ordine alle condizioni fisiche del
Ferreri, al momento in cui questi si fece notare dai gradini del magazzino: il
GIALLOMBARDO ha insistito nell’affermare che il bandito appariva perfettamente
sano (“era un grillo…un felino”) e che non sanguinava; ma nel Rapporto
Giudiziario è invece riportato che il FERRERI disse subito: “Non mi toccate,
sono ferito…” (cfr. trascrizione dell’udienza del 16.09.04, pagg. 93, 94, 95 e
del 14.10.04, pagg. 6, 33, 34).
Altro
particolare importante riguarda il momento in cui i carabinieri trovano FERRERI
e la consapevolezza del capitano GIALLOMBARDO, già da quel momento, di trovarsi
proprio di fronte al bandito. A tal proposito il teste dice: “Io coscientemente
sapevo di affrontare Fra’ Diavolo, perché sapevo di affrontare Fra’ Diavolo.”
(cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pag. 7). Nonostante ciò il
FERRERI non venne ammanettato durante il trasporto né dentro la caserma, perché
l’ufficiale aveva dato credito all’affermazione del bandito di essere un agente
segreto ( cfr. trascrizione dell’udienza del 14. 10. 04, pagg.
24-25).
Elemento
di assoluto rilievo emerso nel corso del dibattimento è che il Rapporto
Giudiziario del 01.07.1947, non solo è stato in realtà redatto dal maggiore
MARINESI VINCENZO e non dal firmatario dell’atto, ma riporta delle circostanze
false, relative proprio al momento critico dell’uccisione del bandito FERRERI.
(pag. 11)
In
particolare il gen. GIALLOMBARDO ha riferito che durante la colluttazione né il
maresciallo LO BELLO né il carabiniere GUERCIO gli diedero l’aiuto descritto nel
rapporto, ma anzi lo lasciarono solo: “Il maresciallo LO BELLO soffriva di
stomaco. Se l’era fatta addosso. Ed è andato via. E mi ha lasciato solo. Il
carabiniere GUERCIO dichiara che con il moschetto cercava di… Ma non è vero…non
poteva esserre armato in caserma…il moschetto si usa nelle perlustrazioni…
scappò pure lui”. Ne deriva che i due carabinieri non furono testimoni
dell’uccisione del FERRERI, contrariamente a quanto da costoro sostenuto nel
corso dell’indagine che seguì a tale fatto (cfr. trascrizione dell’udienza del
14.10.04, pagg. 55,59,60,61). Del resto il testre aggiunge che in realtà solo
sua moglie fu presente alla fase finale del confronto con il bandito (cfr.
trascrizione dell’udienza del 14 .10.04, pag. 63).
Infine
il GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso l’ufficio
del generale CALABRO’, precisa di aver espressamente richiesto che il col.
PAOLANTONIO non partecipasse a tale incontro, proprio perché sapeva che questi
avrebbe sostenuto di averlo per tempo informato dei rapporti esistenti tra
FERRERI e l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza (cfr. trascrizione dell’udienza
del 14.10.04, pag. 95).
Gli
elementi probatori introdotti dalla difesa dell’imputato, mediante escussione di
diversi testi e produzioni documentali, hanno fatto luce sullo stato della
conoscenza del fatto storico al momento della stesura del libro “Portella della
Ginestra- Microstoria di una strage di Stato” e sul metodo scientifico
d’indagine seguito dall’imputato, con particolare riferimento alla raccolta del
materiale utilizzato e alla verifica delle fonti, dalle quali esso è stato
prelevato.
Il
teste LUPO SALVATORE, professore ordinario di storia contemporanea presso la
Facoltà di Lettere dell’Università di Palermo e autore del libro “Storia della
mafia dalle origini ai nostri giorni”, ha affermato che FERRERI, secondo le
acquisizioni universalmente note ed accertate da atti giudiziari, era stato un
confidente dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza ed aveva (pag. 12) promesso
all’ispettore MESSANA di consegnargli GIULIANO (trascrizione dell’udienza del
06.05.05, pag. 12) .
Il
teste ha precisato che fonte molto autorevole sull’argomento è l’archivio
documentale lasciato da FRANCESCO SPANO’, capo dell’ispettorato interprovinciale
dopo MESSANA e maggiore collaboratore del prefetto MORI. L’ispettore, in
particolare sostenne, in documenti poi pervenuti al figlio ARISTIDE, che FERRERI
era uomo nelle mani della cosca alcamese dei RIMI, i quali indicarono
all’Ispettorato il FERRERI, come possibile tramite per arrivare a GIULIANO.
SPANO’ riteneva che VINCENZO RIMI era fiduciario per l’uccisione di FERRERI da
parte dei carabinieri, perché temeva che il bandito, arrestato,
parlasse.
Il
prof. LUPO ha inoltre spiegato che per la gran parte degli storici la fine del
FERRERI è da ritenersi “misteriosa” sia per le modalità della stessa sia perché
il bandito era un possibile testimone della strage di Portella della Ginestra e
forse addirittura conosceva i mandanti della stessa. FERRERI, infatti, aveva
riferito al colonnello PAOLANTONIO di una lettera ricevuta da GIULIANO, il
quale, dopo averla letta, disse: “Domani dobbiamo andare ad uccidere i comunisti
a Portella” (trascrizione dell’udienza del 06.06.05, pagg. 17, 21,
33).
Il
teste, infine, nella sua qualità di professore universitario e di esperto della
materia trattata, ha detto di ritenere che nel libro in questione siano stati
esaustivi la raccolta del materiale utilizzabile e lo studio delle fonti dalle
quali esso è stato prelevato e che lo scrittore abbia riportato una versione dei
fatti largamente condivisa nella comunità degli studiosi (trascrizione
dell’udienza del 06.06.05, pag. 23, 24).
Il
teste Barrese Orazio, giornalista ed autore del libro “La guerra dei sette anni”
sul bandito Giuliano ha riferito di aver seguito, negli anni Settanta, tutti i
lavori della Commissione parlamentare di Inchiesta sulla mafia, ed in
particolare, della sottocommissione Mafia e banditismo.
Egli
ha in particolare affermato che, in base ai suoi studi FERRERI era stato
presente il giorno in cui GIULIANO, tra il 27 e il 28 aprile 1947, aveva deciso
la strage di Portella, annunciando al resto della banda: “E’ venuta l’ora della
nostra liberazione”(pag. 13). Il particolare della sua presenza in tale
occasione, é infatti suffragata da diverse testimonianze rese durante il
processo di Viterbo e davanti alla Commissione Antimafia ( trascrizione
dell’udienza del 06.06.05, pag. 47, 48,68,69,70).
Il
bandito GIOVANNI GENOVESE, deponendo davanti al giudice istruttore del tribunale
di Roma, su tale circostanza aveva rivelato: “Il 27 o il 28 aprile 1947,…..sono
venuti a trovarmi GIULIANO con i fratelli PIANELLI ed il FERRERI SALVATORE…
verso le ore quindici è sopraggiunto SCIORTINO PASQUALE, il quale portava una
lettera….Hanno letto il contenuto della lettera….Dopo averla letta, la
bruciarono con un cerino… Egli allora mi ha detto: ‘E’ venuta la nostra ora
della liberazione… bisogna fare un’azione contro i comunisti: bisogna andare a
sparare contro di loro, il primo maggio a Portella della Ginestra…. Presenti
alla nostra discussione erano i fratelli PIANELLI ed il FERRERI” (vedi
documentazione allegata alla relazione conclusiva della Commissione parlamentare
di Inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, doc. n. XXIII, n.2, vol. IV,
deposizione di GENOVESE GIOVANNI, prodotta in copia all’udienza del
07.11.05).
Barrese
ha aggiunto che, dalle stesse fonti, testimonianze rese durante il processo di
Viterbo e davanti alla Commissione Antimafia, si evince anche la presenza del
bandito FERRERI a Portella, il giorno della strage.
La
circostanza è per altro affermata nella sentenza pronunciata dalla Corte d’
Assise di Viterbo: “Della presenza di costui fra i roccioni della Pizzuta al
momento della consumazione del delitto, non può davvero dubitarsi ”. ( Sentenza
del 3 maggio 1952 emessa dalla Corte di Assise di Viterbo contro Salvatore
Giuliano ed altri, pubblicata nell’ambito dei lavori della Commissione Cattanei,
Relazione approvata il 10.02.1972, prodotta in copia all’udienza del
07.11.05).
Venne
invece negata dal generale PAOLANTONIO, durante le sue deposizioni nelle citate
sedi istituzionali; questi sostenne infatti che il FERRERI in quel periodo stava
male, tanto che nei giorni successivi alla strage il bandito venne operato di
appendicite grazie a interessamento del PAOLANTONIO (trascrizione dell’udienza
del 06.06.05, pagg. 68, 69, 70 e testo delle dichiarazioni (pag. 14) rese dal
generale GIACINTO PAOLANTONIO al Comitato di indagine sui rapporti tra mafia e
banditismo, seduta del 25.03.’69, prodotto il copia all’udienza del
07.11.05).
Il
teste BARRESE quindi ha precisato che ciò che veramente rileva è che FERRERI era
stato a conoscenza della decisione di GIULIANO di compiere la strage: avendo,
come pare probabile, il bandito fornito tale informazione all’ispettore MESSANA,
quest’ultimo si era trovato nella difficile situazione di chi sapeva e non aveva
fatto nulla per evitare la strage, con tutte le conseguenti responsabilità. A
quel punto per l’ispettore sarebbe stato inevitabile decidere di eliminare il
suo informatore, il quale se arrestato, avrebbe potuto riferire di avere
avvisato il MESSANA del progetto di strage, potendo anzi vantare tale
informazione come titolo di merito (trascrizione dell’udienza del 06.06.05,
pagg. 55, 73, 74, 75).
La
deduzione in ordine al fatto che FERRERI avesse informato MESSANA dei
preparativi per la strage è fondata anche su quanto riferito dal senatore
GIROLAMO LI CAUSI. Questi, poche ore dopo l’eccidio si recò in prefettura, ove
era presente l’ispettore MESSANA, il quale ebbe a dire: “Per me la strage è
stata consumata da GIULIANO”. Alla richiesta di chiarimenti (“Come fa lei a
saperlo”?), lui non rispose (vedi copia del libro “Banditi, mandanti e governo
nella strage di Portella della Ginestra”, pag. 63, prodotta all’udienza del
0711.05). Il senatore per altro aveva sostenuto tale sua tesi anche nella seduta
parlamentare del 23.06.1949 (vedi stralcio della seduta, pubblicato durante i
lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e
delle altre associazioni criminali similari, doc. XXIII, n. 6 del 28.04.1998,
parte prima, prodotto all’udienza del 0711.05).
Il
giornalista BARRESE ha anche confermato quanto scritto nel suo libro e da lui
appreso dalla lettura delle deposizioni di PAOLANTONIO alla Corte di Assise di
Viterbo ed alla Commissione Antimafia: PAOLANTONIO “qualche tempo prima dei
fatti DI Alcamo…si era recato presso l’allora capitano GIALLOMBARDO per
informarlo dei rapporti che c’erano tra MESSANA…e Fra’ Diavolo” (trascrizione
dell’udienza del 06.06.05, pagg. 50, 57, 58). (pag. 15)
In
effetti il PAOLANTONIO sul punto aveva affermato: “FERRERI ci interessava ed
appunto per questo l’ispettore MESSANA disse: “Senti, FERRERI è ad Alcamo; può
darsi che GIALLOMBARDO lo peschi. Se ritieni sia il caso, avverti GIALLOMBARDO
che noi abbiamo questi contatti e quindi che, per lo meno, ci informi…”. Io
andai…. Il capitano GIALLOMBARDO, preoccupato di sue responsabilità poi ha
negato a qualcuno che gli ho parlato ed ho avuto contatti con lui…Io sono andato
e gli ho detto: “Capisci che se per te FERRERI è un merito, tanto per farti dare
un encomio, per noi è una pedina che ci deve portare a un obiettivo molto più
importante?” (testo delle dichiarazioni rese dal generale GIACINTO PAOLANTONIO
al Consiglio di Presidenza ed al Comitato di Indagine sui rapporti tra mafia e
banditismo, seduta del 22.10.1969, prodotto in copia all’udienza del
07.11.05).
Il
teste ARISTIDE SPANO’ , figlio del citato capo dell’ispettorato di Pubblica
sicurezza, ha confermato che in un documento del padre è scritto che VINCENZO
RIMI “fu il fiduciario per l’uccisione di FERRERI, perché temeva che FERRERI
arrestato potesse parlare” (trascrizione dell’udienza del 04.07.05, p.
13).
Egli
ha aggiunto che le ipotesi sulla fine del FERRERI erano tante, ma in ogni caso
il bandito doveva essere eliminato perché a conoscenza di segreti. La versione
ufficiale non pare al teste credibile.
RUTA
CARLO, autore del libro “Il binomio Giuliano-Scelba”, in merito alla fine del
FERRERI, ha ribadito quanto scritto nel suo libro e cioè che “in realtà si
trattò di un’esecuzione a freddo. Si parlò, in particolare, di un ordine
perentorio, pervenuto via telefono, dal Comando Regionale Carabinieri di
Palermo, che a sua volta dovette ricevere precise direttive da altre sedi. Fra’
Diavolo fu insomma il primo testimone di troppo ad essere stato soppresso dentro
un edificio dello Stato”.
Egli
ha spiegato di avere fondato il suo ragionamento sugli atti ufficiali, su testi
di altri autori ed anche sulla stampa dell’epoca (BESOZZI, ADELFI); in relazione
al presunto ordine telefonico, ha tenuto a precisare che non essendoci prove
certe (pag. 16) egli ha solo scritto “si parla di un ordine” (trascrizione
dell’udienza del 04.07.05, pagg. da 56a 60).
La
tesi dell’uccisione a seguito di una telefonata è riportata anche da Giuseppe
Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica”. L’autore infatti scrive:
“Ritengo, invece, che, dall’altro capo del telefono, siano arrivati ordini
perentori di chiudere per sempre una bocca che avrebbe dovuto svelare
inquietanti intrighi di Stato” (vedi copia del libro citato, pag. 34, prodotta
all’udienza del 07.11.05).
Del
resto è GASPARE PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo, a sostenere:
“Il capitano GIALLOMBARDO uccise Fra Diavolo in questo modo: prima sparò una
raffica di mitra all’auto su cui stavano Fra’ Diavolo, suo padre e i due
fratelli PIANELLI che tornavano da un incontro segreto con la polizia di Alcamo.
Solo Fra’ Diavolo rimase vivo e il capitano lo portò in caserma. Da lì telefonò
a Palermo e quando ebbe finita la telefonata, completò il suo lavoro”vedi copia
del libro “Storia di Salvatore Giuliano di Montelepre” di SANDRO ATTANASIO E
PASQUALE PINO SCIORTINO, pag. 134, copia del libro “L’impero del mitra di
SALVATORE NICOLOSI, pag. 507, nonché il libro “Portella della Ginestra” di
ANGELO LA BELLA e ROSA MECAROLO, pag. 97, prodotti all’udienza del
07.11.05).
Anche
TERRANOVA ANTONINO, nel corso del processo di Viterbo, sostenne che “prima
dell’uccisione del Ferreri vi fu una conversazione telefonica con Palermo ed io
seppi che di questa telefonata GIULIANO tutto aveva saputo. Con precisione come
pervenne tale notizia a GIULIANO può dirlo GASPARE PISCIOTTA”. (verbale delle
dichiarazioni rese da TERRANOVA ANTONINO al processo di Viterbo, prodotto
all’udienza del 07.11.05).
La
teste PIA BLANDANO HA RIFERITO CHE NEL 1995, PRESSO IL Tribunale di Roma, ha
aiutato il prof. CASARRUBEA a selezionare e fotocopiare documentazione relativa
al processo di Viterbo ed in particolare la sentenza, le deposizioni e i
documenti presenti nel fascicolo. Ha così confermato quanto in realtà si evince
facilmente dalla lettura del libro dell’imputato e delle relative note e cioè
che una delle fonti principali di tale testo è stata (pag. 17) la documentazione
afferente al processo di Viterbo sulla strage di Portella della
Ginestra.
NICOLA
TRANFAGLIA, professore di storia contemporanea all’Università di Torino e autore
del libro “Mafia, politica e affari: 1943-1992”, si è occupato anche dei
rapporti tra mafia e banditismo, utilizzando come fonti la relazione conclusiva
della commissione parlamentare antimafia presieduta da CATTANEI, in particolare
la relazione specifica del commissario BERNARDINETTI sul caso GIULIANO e sui
rapporti mafia e banditismo, nonché gli atti del processo di Viterbo ed in
generale tutti gli atti delle varie commissioni antimafia.
Il
teste, consultando anche documenti dei servizi segreti americani, desecretati
dal governo CLINTON, ha potuto comprendere che il bandito FERRERI aveva un
rapporto riservato con alcuni esponenti delle forze dell’ordine italiane e morì
perché sapeva troppe cose riguardanti la strage di Portella della Ginestra
(trascrizione dell’udienza del 17.10.05, pagg. 23, 24).
Rilevanti
a tal proposito appaiono alcuni stralci, riportati nel libro sopra citato del
teste, della Relazione della Commissione CATTANEI sui rapporti tra mafia e
banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MARZIO BERNARDINETTI: “La morte del
bandito FERRERI, uno degli informatori e uno dei protagonisti della strage di
Portella della Ginestra, già catturato e al sicuro in una caserma, per mano di
un ufficiale dei Carabinieri; la stessa morte di GIULIANO, colto nel sonno e
quindi inerme e innocuo per mano di un altro bandito: sono fatti questi che
sconcertano profondamente e danno adito alle considerazioni più severe e financo
al sospetto di collusione tra le forze di polizia ed i banditi… Certo si è che
anche la non chiara fine di FERRERI e lo stesso mistero che avvolge la morte di
PISCIOTTA non contribuiscono a chiarire quell’ultimo periodo di vita della banda
GIULIANO”. (vedi copia del libro “Mafia, politica ed affari:1943-1991”, pagg. 20
e 42, prodotta all’udienza del 07.11.05, nonché trascrizione dell’udienza del
17.10.05, pagg. 33, 34, 35).
Il
consulente tecnico di parte, dott. LIVIO MILONE, esaminati i documenti e le foto
dell’epoca, nonché gli atti del presente procedimento, ha ritenuto incompatibile
la versione del Generale (pag. 18) GIALLOMBARDO in ordine all’uccisione del
FERRERI con i dati medici e balistici emersi dagli atti ufficiali e dalle
notizie fornite dal Generale (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli
atti e trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e ss.).
In
particolare il consulente ha evidenziato alcune palesi incongruenze:
1)
il Gen. GIALLOMBARDO ha dichiarato di aver esploso al capo del FERRERI due colpi
di pistola cal. 6,35, ma il medico intervenuto per la visita esterna del
cadavere descrisse “una ferita d’arma da fuoco alla regione sopraciliare
destra”. I medici legali che effettuarono l’autopsia rilevarono due ferite al
lobo frontale destro, sneza però indicare alcun elemento balistico repertato; ma
i proiettili, a causa del loro piccolo calibro, avrebbero dovuto trovarsi
all’interno della scatola cranica. I dubbi sulle ferite alla testa sono
rafforzati dalla fotografia del cadavere del bandito.
2)
Il teste GIALLOMBARDO ha riferito che il FERRERI era stato attinto allo stomaco
da un pallettone sparato dal fucile da caccia del brigadiere CALANTONI. Ma dal
processo verbale di descrizione di cadavere del 28.06.1947 (vedi anche verbale
prodotto all’udienza del 07.11.05) risulta che anche la ferita all’epigastrio
era stata prodotta da proiettile d’arma da fuoco di piccolo calibro esploso a
breve distanza (vedi relazione di consulenza del 16.10.05, agli atti e
trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 64 e sgg.).
3)
Il generale ha affermato che il bandito, al momento in cui fu scoperto, non
appariva in alcun modo ferito e di avere appreso solo al momento dell’autopsia
che quest’ultimo era stato attinto allo stomaco da un pallettone del fucile da
caccia del brigadiere CALANTONI. Ma il tipo di ferite all’epigastrio,
evidenziate nel processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto
comportare una emorragia addominale di una certa intensità, una fuoriuscita di
materiale gastrico, di materiale ileale e fecale, tali da comportare il decesso
del FERRERI per peritonite (trascrizione udienza del 17.10.05, pag.
108).
4)
In ordine alla più volte riferita colluttazione tra il GIALLOMBARDO ed il
FERRERI, il consulente osserva che dai documenti (pag. 19) medico-legali
dell’epoca non si evincono escoriazioni e lesioni compatibili con tale racconto;
in ogni caso la grave ferita allo stomaco riportata dal bandito non avrebbe
consentito a questi di aggredire il capitano dei carabinieri (trascrizione
udienza del 17.10.05), pagg. 88,90, 107, 108).
5)
Il dott. MILONE ha anche confutato la tesi che il GIALLOMBARDO riferisce di
avere appreso dai medici legali dell’epoca e cioè che il pallettone sarebbe
stato fermato dal contenuto gastrico (una grossa quantità di pastasciutta) e che
quindi all’apparenza era come se il bandito avesse ricevuto un forte pugno; il
consulente esclude la rilevanza di un qualsiasi contenuto gastrico, ma in
particolare in questo caso le stesse lesioni indicate nel processo verbale di
descrizione di cadavere indicano che il pallettone (o proiettile) non è stato
trattenuto a livello gastrico (trascrizione udienza del 17.10.05, pagg. 104.
105).
Del
resto lo stesso GIALLOMBARDO, al processo di Viterbo, riguardo alle condizioni
fisiche di FERRERI al momento in cui fu scoperto dai carabinieri, aveva dato una
versione differente da quella fornita nel presente processo: “Quando fu fermato
da me il FERRERI ferito, egli mi disse di essere ferito…” (verbale della
deposizione di GIALLOMBARDO ROBERTO, pag. 2, prodotto all’udienza del
07.11.05).
Il
giornalista VINCENZO VASILE, autore del libro “Salvatore Giuliano un bandito a
stelle e strisce”, ha confermato quanto riferito dagli altri testi della difesa
in merito ai rapporti di FERRERI con l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e con i
carabinieri, alla presenza del bandito durante la strage di Portella e durante i
preparativi della stessa, alla inverosimiglianza della versione ufficiale sulla
fine del FERRERI.
Anche
lo scrittore GIUSEPPE CARLO AMRINO, nel suo libro “La Repubblica della forza”,
evidenzia: “Sta di fatto che uno dei possibili e più informati testimoni, il
bandito SALVATORE FERRERI…un confidente dell’ispettore MESSANA che aveva
partecipato alla riunione nel corso della quale era stata organizzata la strage
del 1° maggio, era stato eliminato dalla polizia con procedure analoghe a quelle
che sarebbero costate la vita (pag. 20) al povero anarchico PINELLI al tempo
della vicenda VALPREDA” (vedi libro citato, p. 91, prodotto all’udienza del
04.07.05).
Le
dichiarazioni dell’imputato indicate nei capi di imputazione, sia quelle dallo
stesso profferite nel corso della trasmissione televisiva del 30.04.1997 che
quelle riportate nel libro “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage
di Stato”, appaiono oggettivamente lesive dell’onore del querelante. Per
entrambi i reati ricorre la causa di estinzione della prescrizione ma, ai sensi
dell’art. 129 co.2° c.p.p., risulta evidente da quanto emerso dall’istruttoria
dibattimentale che il fatto di cui al capo b) non costituisce reato, in quanto
l’imputato ha agito nell’esercizio del diritto di critica storica e nei limiti
dello stesso.
Giurisprudenza
consolidata della Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’esimente di
cui all’art. 51 c.p. per i reati di diffamazione a mezzo stampa, individua i
limiti all’esercizio dei diritti di cronaca e di critica, che discendono
dall’art. 21 della Costituzione: “l’interesse che i fatti narrati rivestano per
l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; la correttezza
dell’esposizione di tali fatti, in modo che siano evitate gratuite aggressioni
all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; la corrispondenza
rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della
verità, principio comportante l’obbligo del giornalista di accertare la verità
della notizia e il rigoroso controllo della attendibilità della fonte” (Cass.
Pen. Sez. 5, Sentenza n. 5941 del 05.04.2000).
Ma
la Corte di Cassazione, con giurisprudenza ormai costante in tema di
diffamazione a mezzo stampa, distingue il diritto di critica da quello di
cronaca “in quanto, a differenza di quest’ultimo non si concretizza nella
narrazione di fatti, bensì nell’espressione di un giudizio e, più in generale,
di un’opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva,
posto che la critica non può che essere fondata su un’interpretazione
necessariamente soggettiva dei fatti. Ne deriva che quando il discorso
giornalistico ha una funzione prevalentemente valutativa, non si pone un
problema di veridicità delle proposizioni (pag. 21) assertive ed i limiti
scriminanti del diritto di critica, garantito dall’art. 21 Cost., sono solo
quelli costituiti dalla rilevanza sociale dell’argomento e dalla correttezza di
espressione, con la conseguenza che detti limiti sono superati ove l’agente
trascenda in attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale la
sfera morale del soggetto criticato, penalmente protetta”. (Cass. Pen. Sez. 5,
Sentenza n. 2247 del 02.07.’04).
Per
altro per la Suprema Corte è “giudizio di mero fatto quello avente ad oggetto la
qualificabilità di una data manifestazione del pensiero come cronaca o come
critica, fermo restando che nella seconda di tali ipotesi il limite del diritto
di critica è segnato solo dal rispetto dei criteri della rilevanza sociale della
notizia e dalla correttezza delle espressioni usate”. (Cass. Pen. Sez. 5,
Sentenza n. 20474 del 14.02.2002).
La
Corte è inoltre intervenuta più volte nell’individuare i confini del corretto
esercizio del diritto di critica storica, riconoscendo una più ampia tutela alle
affermazioni contenute in un’opera storica, in virtù del principio della libertà
dell’arte e della scienza, sancito dall’art. 33 Cost.: infatti “in tema di
diffamazione a mezzo stampa (art. 595 cod. pen.), l’esercizio del diritto di
critica storica postula l’uso del metodo scientifico che implica l’esaustiva
ricerca del materiale utilizzabile, lo studio delle fonti di provenienza e il
ricorso ad un linguaggio corretto e scevro da polemiche personali. Ne deriva che
il giudice, al fine di stabilire il carattere storico dell’opera, oggetto di
contestazione, deve accertare l’esistenza – quanto meno sotto forma di indizi
certi, precisi e concordanti – delle fonti indicate e utilizzate dall’autore per
esprimere i propri giudizi, con la conseguenza che è illegittima la decisione
con cui il giudice di perito pervenga alla affermazione di responsabilità il
ordine al delitto di cui all’art. 595 cod. pen., da un canto, limitando il
diritto della difesa alla controprova e, in particolare, impedendole di
pervenire alla prova storica dei fatti posti a fondamento della tesi sviluppata
nell’opera suddetta e, dall’altro, pervenendo ad una valutazione di offensività
di alcune frasi estrapolandole dal contesto, il cui vaglio è (pag. 22)
necessario per pervenire ad un giudizio obiettivo e completo e, quindi, per
stabilire se l’opera in contestazione ricada sotto la tutela dell’art. 21 Cost.
o sotto quella più ampia dell’art. 33 Cost.” (Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n.
34821 del 11.05.2005).
Anche
condivisibile giurisprudenza di merito ha individuato “i limiti scriminanti del
diritto di critica, che si fonda non solo sull’art. 21 Cost. che tutela la
libertà di manifestazione del pensiero, ma anche sull’art. 33 Cost. che
garantisce la libertà di creazione artistica e di ricerca scientifica, non
coincidono con quelli del diritto di cronaca, non potendosi pretendere il
requisito della verità richiesto per la sussistenza di quest’ultima scriminante,
proprio perché ogni ricostruzione di fatti passati è necessariamente soggettiva”
(Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).
Nella
fattispecie, quindi, appare in primo luogo necessario che le frasi di cui al
capo b) della rubrica siano valutate non estrapolandole dal contesto di un’opera
di oltre trecento pagine, ma vagliando l’opera nel suo complesso.
In
tal modo è possibile valutare se l’opera di Casarrubea debba essere considerata
solamente sotto l’aspetto della libera manifestazione del pensiero ovvero trovi
tutela anche nel più ampio ambito della tutela della libertà della ricerca
scientifica di cui all’art. 33 della Costituzione.
Ed
invero, nel libro di Giuseppe Casarrubea “Portella della Ginestra. Microstoria
di una strage di Stato” sono sicuramente ravvisabili il metodo scientifico di
indagine, la esaustiva raccolta del materiale utilizzabile, l’autorevolezza
delle fonti, diverse ed esattamente individuate, nonché la correttezza di
linguaggio e l’assenza di attacchi personale i polemici.
Dalle
lettura del libro si evince agevolmente inoltre che oggetto di studio è un
evento passato, esaminato nella sua ampiezza e sotto varie
sfaccettature.
Il
libro in esame ha ad oggetto la strage avvenuta l’1 maggio 1947 a Portella della
Ginestra. L’accadimento è affrontato, nel testo dell’imputato, in tutta la sua
complessità e cioè avendo riguardo al periodo storico in cui si verificò, al
contesto sociale e politico, ai fenomeni della mafia e del banditismo (pag. 23)
dell’epoca, agli eventi che seguirono alla strage, alle indagini di polizia ed
alle vicende giudiziarie del fatto principale e di quelli in qualche modo
connessi.
L’istruttoria
dibattimentale ha fatto emergere che l’autore ha seguito senz’altro un metodo
scientifico, basato su una indagine complessa, in cui persone, avvenimenti e
rapporti sociali sono divenuti oggetto di un esame articolato, che ha condotto,
su base di dichiarazioni e di elementi di fatto espressamente individuati e
puntualmente richiamati nelle note, alla formulazione di tesi, per altro
condivise da gran parte della comunità scientifica (trascrizione dell’udienza
del 06.06.05, teste LUPO SALVATORE, pag. da 17 a 24).
L’attività
di ricerca, raccolta e selezione del materiale utilizzato per realizzare l’opera
in questione, è stata La più completa possibile ( vedi le deposizioni dei testi
LUPO SALVATORE E BLANDANO PIA). Dalla lettura del libro emerge con chiarezza che
le fonti, da cui è stato tratto il materiale, sono essenzialmente atti
giudiziari di vari processi, che hanno avuto ad oggetto l’accertamento dei fatti
narrati, in particolare gli atti del processo svoltosi presso la Corte di Assise
di Viterbo nei confronti di SASLVATORE GIULIANO ed altri e la relativa sentenza
del 3 maggio 1952, gli atti del procedimento per l’uccisione di FERRERI
SALVATORE e degli altri quattro banditi, nonché atti di varie commissioni
parlamentari di inchiesta sulla mafia e sul banditismo e testi di altri autori
che hanno studiato la meteria.
Tutte
le fonti sono esattamente individuabili, in particolare mediante lettura delle
note in calce ad ogni singola pagina.
Il
linguaggio adoperato dallo scrittore appare sereno, pacato, scevro da astio
personale e mirato esclusivamente a favorire la migliore comprensione del
fenomeno descritto.
Il
testo in esame infine racchiude in sé aspetti anche solamente informativi, ma
essi sono funzionali alla successiva valutazione, nella quale gli avvenimenti
descritti vengono riletti in chiave critica, sulla base delle intuizioni logiche
e dei collegamenti che l’autore effettua tra i vari fatti (pag. 24).
L’opera
del CASARRUBEA può pertanto definirsi “libro di storia” e, in presenza
dell’offesa dell’altrui reputazione, può configurarsi operante la scriminante
del diritto di critica storica.
Occorre
tuttavia verificare se l’imputato, nell’usare le espressioni evidenziate nel
capo b) della rubrica, abbia rispettato i limiti del diritto in
esame.
Sostenere
infatti che in tali casi non si può pretendere il diritto della verità, “non
comporta affatto che il diritto di critica, anche nell’ambito della ricerca
storica, possa diventare strumento di aggressione dell’altrui reputazione. E’
sicuramente consentito, all’esito di una ricostruzione storica, formulare
conclusioni negative che suonino riprovazione morale dell’individuo, purché le
intuizioni storiche siano fondate su accadimenti dimostrati, tanto più
rigorosamente quanto più squalificante sia il giudizio espresso. Esulano infatti
dall’opera storica, proprio per l’imparzialità e l’obiettività che devono
caratterizzarla, mistificazioni e ricostruzioni della realtà mutilate e
deformate ad arte, o asserzioni e giudizi privi del necessario supporto
motivazionale, che presuppone la leale rappresentazione dei fatti riportati e il
controllo della corrispondenza alla realtà degli elementi addotti a fondamento
della propria opinione” (Tribunale di Milano, 29 marzo 1999).
Nel
caso di specie appaiono rispettati i limiti del corretto esercizio del diritto
di critica storica.
In
merito ai fatti descritti nel capo b) della rubrica, l’imputato affettivamente
ha scritto: “L’episodio in realtà accadeva in circostanze piuttosto strane
perché nell’imboscata cadevano oltre a FERRERI, il padre di questi,VITO, ANTONIO
CORACI e i fratelli SALVATORE E FEDELE PIANELLI, confidenti di PAOLANTONIO…
tanto più che, stando alle affermazioni di TERRANOVA Cacaova, prima
dell’uccisione di FRA DIAVOLO, che era rimasto ferito, vi era stata una
conversazione telefonica con Palermo, di cui era stato informato lo stesso
GIULIANO. FERRERI viene ucciso in quello strano conflitto a fuoco dal
GIALLOMBARDO, nonostante questi fosse stato avvertito dal (pag. 25) PAOLANTONIO
della funzione di questo confidente per la cattura di Giuliano… e quando il
bandito ferito, nella caserma di Alcamo, chiese di essere portato a Palermo, e
spiegò che era un “agente segreto” al servizio dell’ispettore MESSANA, perché
venne ugualmente ucciso, con una “esecuzione a freddo?”.
Tale
ricostruzione storica ed il conseguente giudizio sulla condotta tenuta nella
circostanza dal cap. GIALLOMBARDO, appaiono fondate su accadimenti dimostrati.
Si tratta per altro di intuizioni storiche largamente condivise dalla comunità
scientifica (vedi le deposizioni dei testi della difesa e le opere storiche
prodotte anche in copia) e di giudizi negativi espressi anche da organi dello
Stato (vedi sopra, pag. 15,Relazione della Commissione parlamentare Cattanei sui
rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, firmata dal senatore MAURIZIO
BERNARDINETTI).
Occorre
sottolineare che lo scrittore ha offerto una ricostruzione completa della morte
del FERRERI, riportando, anche se per confutarla, la versione ufficiale, citando
il Rapporto giudiziario redatto dall’allora capitano GIALLOMBARDO e indicando
persino l’onorificenza ricevuta da quest’ultimo a seguito dell’uccisione del
FERRERI ( vedi sopra, pag. 3,4,5).
Analizzando
i singoli punti della contestazione si deve osservare, in primo luogo, che il
termine “imboscata”, adoperato dallo scrittore per indicare l’operazione che
condusse al conflitto a fuoco con i banditi appare di per sé privo di una
connotazione negativa, indicando il fatto pacifico che i carabinieri si erano
appostati in attesa dei banditi, facendoli così cadere in una
trappola.
In
secondo luogo risulta dimostrato che TERRANOVA ANTONINO, durante il processo di
Viterbo, abbia riferito che, prima dell’uccisione di FERRERI, vi era stata una
conversazione telefonica, di cui era stato informato lo stesso GIULIANO.
L’episodio della telefonata è per altro confermato dallo stesso GASPARE
PISCIOTTA, davanti alla Corte di Assise di Viterbo (vedi sopra pag.
14).
La
circostanza che il PAOLANTONIO avesse per tempo informato GIALLOMBARDO dei
rapporti esistenti tra FERRERI e l’ispettorato di (pag. 26) Pubblica Sicurezza
emerge dalle deposizioni del primo davanti alla Corte d’Assise di Viterbo ed al
comitato d’indagine sui rapporti tra mafia e banditismo, seduta del 22.10.69
(vedi sopra, pag. 13).
Lo
stesso GIALLOMBARDO, ricordando la sua convocazione alla riunione presso
l’ufficio del Gen. CALABRO’, subito dopo la morte DEL FERRERI, ha precisato di
aver espressamente richiesto al Gen. che il Col. Paolantonio non partecipasse a
tale incontro, proprio perché già sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo
tempestivamente informato dei rapporti esistenti tra FERRERI e MESSANA (vedi
sopra, pag. 9) .
Mentre
e pacifico che FERRERI si fosse subito qualificato quale “agente segreto “, per
quanto attiene alla condizioni fisiche del bandito al momento del arresto, il
Gen. GIALLOMBARDO ha in udienza affermato di non essersi accorto che il bandito
fosse stato ferito gia nel primo conflitto a fuoco. Lo stesso generale però
aveva firmato il Rapporto Giudiziario in cui si dava atto che il FERRERI disse
subito di essere ferito; inoltre GIALLOMBARDO ribadì tale informazione deponendo
al processo di Viterbo (vedi supra, pag. 17).
Su
tale aspetto il CTP ha dichiarato che le ferite all’epigrastrio, evidenziate nel
processo verbale di descrizione del 28.06.1947, avrebbe dovuto comportare una
evidente emorragia addominale e una fuoriuscita di materiale gastrico, di
materiale ileale e fecale (vedi supra, pag. 16).
Infine
lo scrittore si chiede perché FERRERI, nonostante si fosse qualificato come
agente segreto, fu ucciso con una “esecuzione a freddo”.
Innanzitutto
l’autore riporta tale espressione tra virgolette, proprio per segnalare la non
originalità della stessa. Tale espressione era stata infatti già usata da Carlo
Ruta, nel suo libro “Il binomio Giuliano- Scelba” e da SALVATORE NICOLOSI, nel
libro “L’impero del mitra”. Lo stesso concetto è espresso anche da Giuseppe
Mazzola, nel suo libro “Banditismo, mafia e politica” (vedi supra, pag.
13-14).
La
tesi secondo cui FRA DIAVOLO fu ucciso dal GIALLOMBARDO, non a seguito di una
colluttazione provocata dal primo, (pag. 27), ma “a freddo” in seguito ad un
ordine telefonico, emerge, come detto, dalle dichiarazioni rese da TERRANOVA e
PISCIOTTA al processo di Viterbo.
Si
tratta di una intuizione storica che però è in contrasto con quanto narrato dal
querelante sul punto e con gli atti giudiziari relativi al procedimento penale
subito dal GIALLOMBARDO conclusosi con la sua archiviazione.
Tuttavia
il teste GIALLOMBARDO, nel corso della sua deposizione, è caduto in numerose
contraddizioni ed in inspiegabili incongruenze con atti ufficiali e
considerazioni logiche e medico-legali.
Egli
infatti sembra avere mentito in ordine alle condizioni fisiche del FERRERI al
moamento dell’arresto, forse per rispondere ai dubbi sulla possibilità di una
colluttazione provocata da un soggetto gravemente ferito; così invece
giustificando tali dubbi. Del resto o il bandito era gravemente ferito, ed
allora non poteva certo scatenare una lite dall’esito scontato, ovvero non lo
era, ed allora si trattava di un feroce e pericoloso bandito che non poteva non
essere ammanettato e chiuso in una camera di sicurezza ed anche in questo caso
non avrebbe potuto avventarsi contro il capitano. Inoltre in quest’ultimo caso
resterebbe il mistero su chi e quando avesse procurato al FERRERI la ferita allo
stomaco, in effetti descritta nel verbale di autopsia come procurata da
proiettile di piccolo calibro da distanza ravvicinata.
Il
generale ha inoltre affermato che non era stato informato dal PAOLANTONIO del
ruolo di FERRERI come confidente di MESSANA; ma, oltre alle contrarie
dichiarazioni rese dal PAOLANTONIO al processo di Viterbo, egli stesso è caduto
in contraddizione affermando di avere espressamente richiesto al generale
CALABRO’ che il PAOLANTONIO non partecipasse all’incontro previsto, perché
sapeva che questi avrebbe sostenuto di averlo informato di tale ruolo del
FERRERI.
Nel
corso della deposizione del querelante, come detto, è emersa anche la falsità
del suo Rapporto Giudiziario del 01.07.’47, non solo da un punto di vista
formale, in quanto in realtà redatto da un soggetto diverso dal firmatario e
comunque (pag. 28) non presente ai fatti, ma da un punto di vista sostanziale,
nella parte in cui attesta la presenza del mar. LO BELLO e del car. GUERCIO
durante la colluttazione con il FERRERI.
Come
conseguenza non sembra più utilizzabile dal GIALLOMBARDO, a sostegno della
propria versione, il provvedimento di archiviazione emesso dal Giudice
Istruttore di Trapani in data 30.12.1948, basato evidentemente proprio su tale
rapporto e sulle deposizioni dei due falsi testimoni.
Inoltre
tutte le sopra riportate considerazioni del consulente di parte non possono
alimentare i dubbi sul reale svolgimento dei fatti che portarono il bandito
FERRERI alla morte.
Del
resto accettando un’informazione da un confidente appartenente alla mafia, si
accetta il rischio di essere strumentalizzati dalla stessa.
In
conclusione, a fronte di una poco chiara versione dei fatti offerta dal
querelante, la tesi del querelante sulla fine del bandito FERRERI, impossibile
da documentare oggettivamente (poiché opinioni e giudizi possono essere
condivisibili o meno, ma non certamente essere veri o falsi), trova fondamento
in fonti certe ed appare plausibile e sostenibile.
In
assenza di testimoni degli ultimi momenti di vita del bandito, in considerazione
delle molteplici contraddizioni e falsità evidenziate, nonché del lungo lasso di
tempo intercorso dal fatto, non sembra oggi possibile ricostruire una verità
processuale sull’uccisione di SALVATORE FERRERI: la vicenda pertanto rimane
affidata al giudizio della storia e dei suoi studiosi.
Casarrubea
Giuseppe DEVE QUINDI ESSERE ASSOLTO DAL REATO ASCRITTOGLI AL CAPO B) perché IL
FATTO NON COSTITUISCE REATO, IN QUANTO COMMESSO NELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI
CRITICA STORICA.
Diversamente,
in ordine al reato contestato al capo a), non risulta dagli atti evidente, ai
sensi dell’art. 129, secondo comma c.p.p. che il fatto non costituisce
reato.
In
primo luogo si osserva infatti che le dichiarazioni contestate non sono
contenute in un libro di storia, ma sono state pronunciate dall’imputato nel
corso di un’intervista televisiva che non può certo essere qualificata come
opera letteraria tutelata dall’art. 33 della Costituzione. (pag.
29).
Le
gravi parole profferite, “eliminato a freddo”, “esecuzione”, “fatto
assolutamente criminale”, non hanno trovato adeguata spiegazione nel corso della
breve intervista.
In
sostanza, mentre il lettore del testo del CASARRUBEA ha la possibilità di
apprendere tutto il contesto storico ivi descritto, compresa la versione
ufficiale della vicenda, di conoscere le fonti su cui lo storico basa il suo
ragionamento, ed eventualmente di giungere a conclusioni diverse da quelle dello
scrittore, lo spettatore della trasmissione televisiva del 30.04.1997 ha potuto
solo ascoltare la tesi dello scrittore, presentata come unica possibile versione
dei fatti: in tal modo non sembrano essere stati rispettati i limiti del diritto
di cronaca o di critica, poiché appunto la te3si dello scrittore è stata esposta
come unica verità e poiché l’espressione “fatto assolutamente criminale”,
peraltro pronunciata al di fuori di un contesto più ampio, viola il sopra
descritto principio di continenza.
Ciò
posto, il reato ascritto all’imputato al capo a) della rubrica deve essere
dichiarato estinto per essere decorso il ternine di prescrizione previsto dalla
legge (artt. 157-160 c.p.), rilevato che si tratta di reato commesso in data
30.04.1997 e ritenute concedibili le circostanze attenuanti generiche prevalenti
sulle contestate aggravanti, in considerazione dell’incensuratezza dell’imputato
e della sua personalità.
P.Q.M.
Visti
gli artt. 157 e ss. C.p., 531 c.p.p.
DICHIARA
Non
doversi procedere nei confronti di CASARRUBEA GIUSEPPE in ordine al reato di cui
al capo A), essendo lo stesso estinto per sopravvenuta prescrizione;
Visto
l’art. 530 primo e terzo comma s.p.p. (pag.30)
ASSOLVE
CASARRUBEA
GIUSEPPE dal reato ascrittogli al capo b) perché il fatto non costituisce reato,
in quanto commesso nell’esercizio del diritto di critica storica;
indica
in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.
Partinico,
lì 27 gennaio 2006-06-29
Il
giudice
DOTT.
SALVATORE FLACCOVIO
Depositato
in cancelleria, lì 27 aprile 2006-06-29 Il Cancelliere
--
Postato da Blogger su Contra Omnia Racalmuto il 3/28/2015 06:28:00 PM
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