sabato 26 gennaio 2013
RACALMUTO NEL XV SECOLO
RACALMUTO NEL QUADRO STORICO DELLA SICILIA DEL ‘400
Poco abbiamo sul feudo racalmutese durante il ‘400: qualche
scisti documentale emerge dalle carte dei del Carretto. Un truce episodio di
antisemitismo getta sinistra luce sull’intolleranza razziale di Racalmuto a
ridosso dalla tristemente nota cacciata degli ebrei dalla evoluta Girgenti di
fine secolo. Il medioevo si chiudeva a Racalmuto con sinistri bagliori di
morte, con misfatti e depredazioni letali che richiamano il biblico Caino,
sotto un’intermittente signoria carrettesca – non si sa bene se diretta ed
insediata al Cannone oppure dimorante nel bel palazzo di proprietà a fronte
della opulenta sede dei vescovi agrigentini.
Pochi tratti della più generale vicenda storica possono
illuminarci del contesto in cui visse il contado racalmutese in quel torno di
tempo.
Sino al 1412 i Martino – con quel tragico succedere del
padre al giovane figlio morto in guerra per un empito di personale orgoglio
- mantengono un sia pur scialbo barlume
d’indipendenza della nazione siciliana. Poi, nel 1413, la successione di
Alfonso stronca ogni velleità indipendentista
- per unione personale del regno di Sicilia con quello aragonese, si
scrive. «Il ristagno della vita morale – catoneggia il De Stefano [1] - congiunto al mancato ricambio della vita
economica e sociale, aveva causato la corruzione politica. Baroni e città non
avevano acquistato la coscienza dello stato; la sovranità di esso si era
frantumata nell’anarchia baronale e nel municipalismo cittadino. La tendenza
anarchica del baronaggio fu aggravata dalla eterogeneità della sua costituzione
e dalle influenze esterne a cui era sensibile. Eccettuati pochi, e questi
stessi in rare occasioni, i feudatari rimasero sordi agli appelli dei sovrani e
passarono chi da una chi dall’altra parte dei pretendenti al trono siciliano.
Il vizio costituzionale del regno, la mancanza di equilibrio tra le forze
sociali e politiche, lo strapotere di un ceto, lo scarso sentimento del
pubblico bene in tutti avevano reso lo stato siciliano incapace di resistere
all’urto esterno. Il regno [..] di Sicilia non durò, e a stento, che
centotrent’anni, perché in esso più presto [rispetto a Napoli] giunse a
maturità la crisi interna e su di esso si fecero presto sentire gli influssi
della mutata situazione internazionale.»
La Sicilia perde la sua indipendenza senza eroismi, senza
azioni epiche, priva di ogni furore, di ogni empito vuoi ribellistico vuoi di
generosa dedizione. Il parlamento del
1413 si limita a chiedere che venisse in Sicilia l’aragonese o almeno un suo
figlio. Non fu esaudito. Venne persino disattesa l’istanza che almeno a
siciliano fosse affidato il governo.
Tralasciamo qui le brighe del Cabrera. Limitiamoci a
segnalare che nel 1415 venne il primo viceré, l’infante Giovanni, duca di
Peñafiel. Nel 1416 lo stesso parlamento siciliano tentò di acclamare proprio il
viceré, ma l’infante Giovanni rifiutò.
Sotto Alfonso il Magnanimo abbiamo un sottile gioco
terminologico che può abbagliare, ma la sostanza resta: scatta un sistema
impositivo in favore di un dominatore straniero che non s’incentra più sulla
“colletta”, sibbene – più graziosamente – sul “donativo”, con il che si voleva
far credere che si trattasse di erogazione volontaria per pubbliche finalità.
Era comunque un’imposta straordinaria che si aggiungeva al reticolo fiscale,
specie a livello locale, con l’aggiunta delle tante tasse religiose che curie
vescovili e strutture parrocchiali esigevano puntigliosamente.
Migliora l’ordinamento giudiziario e di polizia, ma la
condizione di pubblica sicurezza non sempre poté fare l’auspicato salto di
qualità. «Un complesso di cause - scrive
sempre il De Stefano [2] - l’impedì: la
concessione del mero e misto impero, prima provvisoria e limitata ai grandi
feudatari, con la riserva della necessità, per il suo esercizio, dell’atto
sovrano della concessione, dell’appello dei vassalli alla Magna Curia e del
rispetto della procedura; la difesa vigile e gelosa del privilegio del foro
locale da parte delle città demaniali, non solo per le cause civili ma anche per
le penali, e tanto per le cause riguardanti i singoli cittadini che il comune;
[…] la dilatazione del foro militare a spese del civile; i conflitti di
giurisdizione, gli abusi di autorità, l’influsso di parentele che legavano i
funzionari ai “gentiluomini” e ai principali cittadini; e, infine, il
privilegio baronale dell’«affidare», per cui “delinquentes, malfactores,
omicidas et debitores et bannitos et alios” si rifugiavano in “locki de baruni
et da loru non si po fari ne haviri justicia”.»
Con fermezza Alfonso contrastò i casi di eterodossia: resta
memorabile la decisione regia nel conculcare l’eresia che un minorita, nel
1434, andava diffondendo nel trapanese. Fu arrestato il minorita visto che
propalava «multa enormia concernentia contra catholicam fidem.»
Alfonso (1416-1458) ebbe il dominio della Sicilia per lungo
tempo, per quarantadue anni: morto il re, il successore, nel 1460, per
decisione sovrana annunciata alle Cortes, volle che l’Isola entrasse
formalmente a far parte della monarchia spagnola. Con nobiltà d’intenti, ma con
palese faziosità, il De Stefano [3] crede che la Sicilia vi entrò «forte della
sua coscienza autonomistica, con un’anima e un pensiero suoi propri saldamente
confermati che i secoli di quella appartenenza nulla tolsero o poco
modificarono del suo patrimonio spirituale. La cultura giuridica e l’erudizione
storica la tennero salda nelle sue istituzioni particolari; quella umanistica
conservò tenaci i suoi spirituali con la grande nazione italiana.»
Giovanni d’Aragona (1458-1479) resse una Sicilia ove
sommosse popolari causate da carestie e odi baronali (come il famoso caso di
Sciacca del 1459), nonché l’efferata uccisione della baronessa di Militello,
donna Aldonza Santapau, sgozzata nel 1475 dal marito Antonio Barresi, contrassegnarono
quei ventuno anni di regno aragonese.
Nel 1475 fu creato un organo speciale, detto deputazione del
regno, per l’esecuzione delle decisioni parlamentari. Solo che il potere del
parlamento andò sempre più decadendo e i rappresentanti dei tre bracci
(militare o baronale, ecclesiastico e demaniale) disertavano le adunanze e si
facevano spesso rappresentare dai loro delegati.
Succede a Giovanni d’Aragona Ferdinando il Cattolico
(1479-1516) che sposa Isabella di Castiglia e riuscì ad unificare la Spagna. Di
notevole personalità furono i viceré che inviò in Sicilia come Gaspare De Spes
(1479-1488), Ferdinando De Acugna (1489-1494) e Ugo Moncada (1509-1516).
Il Sant’Uffizio venne introdotto in Sicilia sotto il
vicereame di Gaspare De Spes, nel 1487, per iniziativa del frate Antonio della
Pegna. Al tempo del viceré Ferdinando De Acugna, con l’editto del 31 marzo
1492, si ha l’espulsione degli ebrei
dalla Sicilia, con danni gravi per l’economia e la cultura.
In tale contesto, Racalmuto fa raramente capolino, come si è
detto. La sua vicenda storica, in questa congiuntura, si fonde e finisce per
coincidere con quella tutta baronale dei Del Carretto. Almeno per la prima metà
del secolo, occorre mutuare le ricerche di Henri Bresc[4] per capire che cosa
ha significato il regime aragonese e come questo si sia riflesso sul baronaggio
(e di conseguenza su Racalmuto).
Con lo storico francese dobbiamo convenire che gli anni 1390-1416 introdussero nella storia del
feudalesimo una rottura evidente: le grandi signorie sono domate e solo due
conti, Ventimiglia e Centelle di Collesano e Cabrera di Modica tennero testa
alla monarchia. Il sogno feudale finisce: non si ha notizia, dopo il 1400, che
di rare donazioni che i signori della terra fanno ai loro fedeli. [5] Il
sistema feudale si semplifica; una sorveglianza efficace e puntigliosa sanziona
ormai ogni infrazione della legge sul feudo, affidata ad una burocrazia largamente
in mano agli spagnoli. La medesima disciplina regola i rapporti fra
l’aristocrazia feudale, città demaniali e chiesa; la Monarchia controlla
l’espansione dei patrimoni nobiliari; essa permette o proibisce a seconda dei
sui interessi strategici e, in ogni caso, fa pagare cara ogni sua elargizione.
Essa vigila sulle combinazioni dei matrimoni eccellenti. [6] La nobiltà
feudale, largamente rinnovata, e fortemente contrassegnata dall’elemento
catalano ad opera dei Martino, deve fronteggiare l’avversa congiuntura che
caratterizzò la fine del XIV secolo: una rendita decrescente che non compensa
più le usurpazioni facili delle rendite del Patrimonio reale, ora difese da un’amministrazione castigliana
strettamente legata alla casa d’Oltremare ed un indebitamento cronico in
crescita insopportabile a causa degli sperperi per doti insufflate. Nel
servizio reale la concorrenza dei giuristi e dei tecnici dell’amministrazione
limita i profitti ed i posti prestigiosi riservati all’aristocrazia regnicola.
Essa difenderà duramente i suoi privilegi e lotterà qualche volta ad armi
eguali, fornendo a sua volta chierici e letterati – conforme al modello
ispanico. [7]
Questi ostacoli, la rivalità di una giovane nobiltà
burocratica, l’impoverimento dei baroni, l’emergere di una classe di notabili
della piccola borghesia comunale, determinano un ripiegamento sui valori
sicuri, sulla terra e sul potere signorile.
Una buona gestione patrimoniale, il consenso generale della
pubblica opinione e della monarchia che vedono nella classe feudale l’asse
insostituibile della società e dello Stato, la ripresa economica dopo una pausa
di più di 50 anni,[8] permettono al feudalesimo siciliano di superare senza
troppo danno il punto di svolta dell’avversa congiuntura. Il prestigio è salvo
– e questo è l’essenziale; la ripresa delle rendite, cui seguono subito la
crescita demografica ed il grande movimento commerciale. All’inizio in modo
incerto e dopo con regolarità si risolve, a ridosso del 1450, la precaria
situazione economica della nobiltà fondiaria e del clero. I primi indici di
questo raddrizzamento si percepiscono nei feudi vicino Palermo, dove l’aumento
delle rendite dell’erbaggio è sensibile dal 1420. Poi s’estende ai feudi
dell’interno. [9] Nel 1513, Giovan Luca Barberi farà una descrizione
dettagliata d’una Sicilia feudale che ha ritrovato e superato largamente le
rendite descritte nel Rollo del 1336: in media, per 36 feudi non abitati nelle
due fonti che riportano la rendita –
sulla quale poggia l’imposta feudale -, l’aumento sarà del 113% : esso si
alzerà al 190% nel Val Demone e al 193,8% in Val di Noto; infine esso sarà
minore in Val di Mazara, dove il campione comprende senza dubbio dei feudi
minori e smembrati nel corso di questi due secoli. Una cosa è sicura: le
modifiche della geografia feudale sono, in effetti, numerose.
L’interesse
dell’aristocrazia feudale e delle famiglie della nobiltà urbana alle
rendite terriere non spiega solo la corsa ai
“latifondi” che riesplode, dopo la fase di stanca avutasi tra il 1350 ed
il 1390, quando solo una dozzina di donazioni di feudi ai monasteri aveva avuto
corso, e ritorna l’antico costume della rifeudalizzazione dei beni
ecclesiastici e dei patrimoni municipali. Feudatari e nobili di estrazione
modesta e con titolo recente rivaleggiano per ottenere una investitura di beni
ecclesiastici o l’assegnazione di un baglio. Essi spogliano puntualmente
vescovadi e monasteri delle relative rendite e si adoperano per la risoluzioni
di antichi contratti.[10] Ora hanno
maggior fiducia in loro stessi ed estendono la loro supremazia incrementando il
possesso delle terre, rafforzando a proprio beneficio i vincoli fondiari ed
accrescendo il peso dello stato feudale terriero.
Del pari, dopo una dura battaglia contro i loro vassalli, i
baroni titolari di “terre” abitate assicurano una amministrazione efficace dei
loro diritti sugli uomini. Usciti generalmente vittoriosi da questi conflitti,
la classe baronale estende il potere feudale su numerose “università”
demaniali: gabelle, diritti di giustizia, bannalità, tutto un patrimonio
strappato alla corte reale, in cambio di finanziamenti della lunga e costosa
impresa napoletana. Un obiettivo viene sempre più perseguito: quello di
ripopolare le “terre”. Ora, i baroni, dopo la parentesi della catastrofe
demografica, ritornano alla loro tradizione volta alla difesa dell’abitato
rurale; ottengono, così, un migliore sfruttamento della terra, un incremento
della rendita di quanto dato in gabella, una più redditizia gestione della
giustizia; e l’aumentato peso politico vale bene il sacrificio di qualche salma
di terra, per giardini o per le infrastrutture sociali occorrenti ai nuovi
abitanti.
Questa nobiltà che accetta la pace col re, non rinuncia né
al prestigio della cavalleria né al dominio violento. Se, nella mischia
feudale, le grandi famiglie cozzano fra loro, la nobiltà terriera tiene
comunque al suo stile di vita, alla sua autorità, ai propri vassalli, altera
del suo rango. Ma non si lascia andare alle “serrate”: questa aristocrazia
resta aperta all’ascesa dei nobili municipali e dei mercanti-banchieri.
Piuttosto: autorità, distinzione, prestigio attirano, affascinano. E il
rinnovamento delle famiglie permette la mobilità del capitale feudale e,
spesso, disinnesca gli scontri frontali tra le oligarchie municipali e
l’aristocrazia fondiaria.
Le suesposte considerazioni del Bresc trovano, invero,
riscontro nelle vicende racalmutesi per quanto ha tratto con il consolidarsi,
esplicitarsi ed evolversi della signoria baronale quattrocentesca dei del
Carretto. E di ciò abbiamo già detto a
sufficienza..
[1] ) Francesco De Stefano, Storia della Sicilia dall’XI al
XIX secolo, UL Bari, 1977, p. 68.
[2] ) ibidem, p. 73.
[3] ) ibidem, p. 83.
[4] ) Henri Bresc, Un monde méditerranéen. Économie et
société en Sicile – 1300-1450. – Palermo 1986 p. 865 e ss.
[5] ) Nel 1455 quella del feudo Paterna da Gilberto La Grua
Talamanca a suo fratello Guglielmo (ASP Cancelleria 104, f.179; 21.6.1455) che
è stata approvata dal re, e, verso il 1459, quella del feudo Taya ad Angelo Imbriagua fatta dal conte di
Caltabellotta (Barberi, 3,407).
[6] ) Oltre le autorizzazioni richieste dal diritto feudale
(per i matrimoni dell’erede unico del feudo), Alfonso, dal 1419 al 1454,
accorda a pagamento permessi nuziali: 100 onze promette al re Giovanni Torrella
per la mano della figlia di Giovanni De Caro, di Trapani, il 10.5.1443; ACA,
Canc. 2843, f. 131 vo). Quanto ai matrimoni sollecitati, su 50 candidati, 32
sono catalani, 5 napoletani, e solamente 12 siciliani (più un rabbino
siciliano); quasi tutti sono nobili, o per lo meno in carriera militare o sono
addetti alla corte. Le giovani date in isposa sono 28 (di cui 15 nobili), ma le
vedove sono 16 (di cui 9 nobili, e 6 ricche vedove di patrizi). Lettere
contraddittorie sono inviate, qualche volta successivamente, qualche volta lo
stesso giorno, in favore di diversi concorrenti: il 13.9.1451, il re approva
contemporaneamente il matrimonio di Disiata, vedova del marchese Giovanni
Scorna, con Roberto Abbatellis, Placido Gaetano, Galeazzo Caracciolo e Giovanni
Peris di Amantea!; ACA Canc. 2868, f. 55 vo - 56 vo.
[7] ) I dottori in legge provengono già di sovente, nel XIV
secolo, da cavalieri urbanizzati (Senatore di Mayda, Orlando di Graffeo,
Manfredo di Milite); il movimento continua nel XV secolo, a Messina (Matteo di Bonifacio,
Antonio Abrignali, Gregorio e Paolo di Bufalo), a Catania (Antonio del
Castello, Gualterio e Benedetto Paternò, Goffredo e Giovanni Rizari, Francesco
Aricio), a Sciacca (Iacopo Perollo) e a Palermo (Nicola e Simone Bologna,
Enrico Crispo). La nobiltà baronale rimane estranea agli studi universitari.
[8] ) Molte famiglie aristocratiche sicule-aragonesi tentano
una sistemazione in Terraferma: i Centelles-Ventimiglia a Crotone, per
un’alleanza matrimoniale con il marchese Russo, I Cardona di Collesano a
Reggio, i Siscar ad Aiello. La conquista del regno napoletano ha così permesso
di ridurre in Sicilia la concorrenza, all’inizio molto forte, tra
l’aristocrazia immigrata e le vecchie famiglie; cf. E. Pontieri, Alfonso il
Magnanimo, re di Napoli (1435-1458). Napoli, 1975, p. 87.
[9] ) Nel 1446 la locazione del feudo Giracello, a Piazza,
passa da 22 onze a 27; ASP ND N. Aprea 826, 17.12.1446, Notiamo che, nel 1431,
l’affitto non era che di 17 once: 58% d’aumento in 5 anni.
[10] ) Così per ottenere dall’arcivescovo di Palermo
l’enfiteusi perpetua di Brucato, i fratelli Rigio banchieri ed imprenditori,
offrono, nel 1465, un po’ di più del canone abituale (70 once e 140 salme di
grano, in luogo di 40 once e di 150 salme): incassarono così la differenza tra
la rendita in aumento ed il canone bloccato. ASP, Archivio Notarbartolo 227, f.
40 sq.
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