Un
vescovo discusso: il Trahina del ‘600
Mi
impongo uno stile moderato che invero non mi appartiene. Spuntati gli
aculei della polemica o di quella che di solito reputo tale , vorrei
tratteggiare la figuro del discusso vescovo agrigentino Traina, con
moderazione. Soggiungo che ciò non sarà facile: è personaggio
squallido, persino sordido e volere occultare il vero comporta
stridori e velami espressivi subito percepiti e quindi rifiutati.
Su
questo vescovo – catapultato ad Agrigento dal re di Spagna Filippo
IV il 2 marzo 1627 per starvi sino alla morte avvenuta il 4 ottobre
1651– non si è mancato di scrivere, ed in toni denigratori, già
lui vivo e poi, a parte una lugubre tavola bronzea appena rischiarata
in una cappella della cattedrale agrigentina, sino ai nostri giorni.
Già, perché ci ha pensato Andrea Camilleri ad infilzarlo in termini
di esecrazione e di condanna senza appello, nel “re di Girgenti”.
Il Camilleri – che testa di storico a suo stesso dire non è –
trasla dal 1648 al 1713 il presule ma le vicende episcopali narrate e
in modo perspicuo descritte e valutate sono proprio le dissavventure
del vescovo Trahina.
Denis
Mack Smith ha modo di citarlo due volte nella Storia della Sicilia
medievale e moderna – gradita a Sciascia ma vituperata da Santi
Correnti – e cioè a pag.260 (dell’edizione economica in nostro
possesso) per descrivercelo ricco e vorace: «Il vescovo di Girgenti
spese fino a 156.000 scudi per comprare il dominio feudale sulle
città di Girgenti e Licata» ed a pag. 270 (ibidem) allorché
ne sintetizza le traversie durante la rivoluzione (Camilleri è
invece prodigo di dettagli e note di costume): «a Girgenti il
vescovo si barricò nel palazzo episcopale per evitare di dover
cedere le sue riserve alimentari, ma la folla irruppe nelle sue
prigioni e lo terrorizzò finché si arrese; egli rivelò persino il
luogo in cui, nel giardino, teneva sotterrato il suo denaro.»
Abbiamo
sotto mano i «diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX,
pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale» a cura di
Gioacchino Di Marzo, vol. IV, Palermo 1869. Scorriamo la prefazione e
leggiamo (pag. VII): «Francesco Traina vescovo di Girgenti, avendo
frumento in gran copia fino a due mila salme, promette in prima di
venderlo al popolo e si accorda sul prezzo; ma di lì a poco
avvertito che il grano rincarasse, si asserraglia nel suo palazzo con
guarnigione armata di suoi canonici e preti, e ritrae la promessa:
onde correndo le genti affamate all’assalto, pongono ivi ogni cosa
a saccheggio, trovan fra nascondigli non men che quaranta mila scudi
in contante, uccidono il nipote del vescovo e parecchi famigli, e
lasciano appena a lui scampo di riparar nella terra di Naro. [Pirri,
Annales Panormi etc. nel presente volume, pag. 157 e seg.].» La
sintesi è esaustiva: Camilleri l’avrà mai consultata?
Il
Pirri, in effetti, ci ha lasciato gli «annales Panormi sub annis d.
Ferdinandi de Andrada archiepiscopi panormitani» auctore Abbate D.
Roccho Pirro, siculo, netino, ab anno 1646, in bel latino. Ma noi ci
avvaliamo della traduzione – vetusta ma singolare – del Di
Marzo.«Ma in Girgenti, - stralciamo da pag. 88 – a’ 9 del mese
stesso [maggio] (giorno per quella città solennissimo, che anche si
festeggia con corse), destossi a gran tumulto la plebe, bruciando le
scritture dell’archivio civile e criminale e liberando i carcerati
dalle prigioni. Perloché volentieri quell’arcivescovo scarcerò
quelli che erano nelle sue carceri, per tema di non tirarsi addosso
il furore de’ plebei. E intanto cercavano costoro arder la casa del
giurato La Sita assente in Palermo, ma ne venivano impediti, esposto
colà il Sacramento. Riuscivan però a bruciar quella di don Giuseppe
De Ugo, dottore in ambo i dritti, consultor dei giurati e sindaco
della città: ond’egli in prima se ne fuggì in una torre alla
spiaggia, e poi fu costretto esulare alla distanza di cento miglia.
Fu proclamata inoltre l’esenzion delle imposte.»
«Ma
inoltre que’ di Girgenti, - il Pirri dopo racconti e racconti a
pag. 157, ripiglia la vicenda agrigentina – non ancora dimentichi
del passato tumulto, bruciaron la casa del giurato Baldassare
Giardina, e quasi a mezzo anche quella di Corrado Montaperto pretore
della città. E il lunedì a’ 9 di settembre, vedendo il paese in
grandissima carestia di annona e di legna, radunarono il popolo, ed
espostagli una sì grave sventura, dichiararono sovrastare immenso
pericolo, se non si provvedesse la città di frumento, e che unico
scampo ci fosse nel loro vescovo , s’ei volesse dar grano a prezzo
di sei once la salma, siccome quegli che ricchissimo era, e fino a
due mila salme ne avea. Costui di fatti benignamente promise il grano
desiderato, per provvedere a’ bisogni del popolo. Ma udito poi
crescere il prezzo, indugiava ad adempir la promessa, sperando
venderlo a condizioni migliori, ed ordinava al suo clero che
consegnasse il frumento, di che si era provvisto. Chiamando intanto
alcuni canonici e preti, e tenendoli pronti alle armi con le sue
genti di famiglia, stava egli sulle difese nel suo palazzo, chiuse e
fortificate le porte di esso, per resistere agl’impeti feroci del
popolo. Perloché i popolani, vedendosi già ingannati dalle parole
di lui, creando alcuni lor capi, corsero tutti in arme con gran
tumulto al palazzo, per darlo in preda al sacco e alle fiamme. Ma i
preti e i famigliari di dentro ucciser tosto ad archibusate due di
quei furibondi. Al che quelle genti fecer grandissimo impeto contro
il palazzo; ed entrandovi, penetraron fin dentro alla stanza del
vescovo, dove il trovaron, insieme con suo fratello il sacerdote
Giuseppe, inginocchiato dinanzi al Crocifisso. Alcuni de’ più
accaniti sul primo entrare aveano ucciso a colpi di spada e di
archibusi il nipote del vescovo, il canonico Antonino Tomasino, il
secretario ed altri sette domestici, e gridavano volere uccidere il
vescovo stesso. Altri chiedevano soltanto il promesso frumento.
Altri, appuntando i pugnali sul petto de’ famigliari più intimi,
chiedevano ove fosse il tesoro del vescovo e tutto il denaro. Laonde
atterriti costoro dal timore della morte, indicaron ch’era nascosto
in tre luoghi, cioè nel giardino, nella stanza da dormire del
vescovo, e dietro una parete. Frugatosi colà in fatti, fu trovata
entro a forzieri una somma di quarantamila scudi, che tosto di là fu
tolta e portata in deposito appo alcune fidate persone e nel palazzo
della città. Ritennero indi il lor pastore in casa del canonico D.
Filippo Bucelli, menando al pubblico castello il sacerdote Francesco
Traina suo germano, insieme co’ suoi. Per la qual cosa il vescovo
fè intendere a tutti, che se gli avesser permesso di andare al
duomo, ei li avrebbe assoluti dalle censure, accordando inoltre il
frumento (che indi gli tolsero a forza) alla ragione di tarì 3.10
ogni tumolo, e dando dodicimila scudi d’oro del danaro rapitogli,
ed altre somme pe’ debiti del paese. Ma poi sen fuggì
nascostamente la notte, andando alla vicina città di Naro, nella sua
stessa diocesi. E allora i Girgentini destinarono di quel danaro
dodici mila scudi a provveder di grano la città per un anno,
chiedendo al vicerè che si dovesse fare il rimanente. Laonde il
vescovo, trovandosi in tanto pericolo, ed anche vituperato qual uom
di somma avarizia, fece donazione del tarì per salma del valore di
cinquanta scudi; al che si decise, piuttosto malvolentieri, per
racchetare la plebe e poter egli recuperare il danaro suddetto. Ma
poiché neanche ciò valse a ricondurre ne’ sollevati la calma, il
vescovo medesimo con molta diligenza riuscì a far prendere di
nascosto alcuni capi del tumulto, che furon portati alle carceri
della Vicaria di Palermo; ed implorò inoltre l’aiuto di D. Cesare
del Bosco capitano de’ cavalleggieri. Osando perciò costui entrare
con la sua forza in Girgenti, venne da que’ cittadini respinto e
preso. Onde essi, carceratolo in casa di Stefano Monreale, e postavi
una squadra di guardia, scrissero al vicerè lettere rispettosissime,
significando con tutta sommessione, che sarebbero pronti a liberare
il Del Bosco, ov’ei volesse levar di carcere i loro compagni, e
dare indulto pel cimenlese e per tutto ciò, ch’essi e non altro
scopo avean fatto che il pubblico bene. Il vicerè, costretto a
cedere a’ tempi, e dissimulando con apparente gioia l’interno
rammarico, consentì alla proposta con suo bando in data de’18,
confermato indi a 28’ del mese stesso, come più innanzi diremo.
«Frattanto
egli, prestando fede alle lettere de’ Girgentini, avea coà mandato
il capitano di campagna co’ suoi a ricevere il danaro del vescovo.
Ma quelli, mutando avviso, ricusaronsi a darlo. Avvenne però in que’
giorni, che una nave francese con dieci uomini di quella nazione,
navigando alla volta di Tunisi a comprare vettovaglie per la flotta
di Francia, sorpresa da venti contrari e dalla tempesta, ruppe nel
lido di Girgenti. Quei Francesi, essendo sospetti di peste, furon
messi in prigione per quaranta giorni. Ma ritrovata inoltre una somma
di duemila e cinquecent’once di oro, il mentovato capitano la portò
dentro a cassette al vicerè, che ordinò si dividesse in sussidio a’
soldati spagnuoli.»
Pare
sentire, se non la prosa, il racconto di Camilleri, fini nei minuti
particolare, a parte s’intende l’arbitraria traslazione degli
eventi dal 1647 al 1713. A noi, pare poi, che il Pirri non sia troppo
dolce di lingua nei confronti del vescovo Trahina. Quella taccia di
somma avarizia, sibila come una scudisciata. (Episcopus vero …
summae avaritiae nomine dedecoratus, e per chi ama il latino è frase
scultorea che il Di Marzo non rende adeguatamente). Nella “Sicilia
Sacra” il Netino sovrabbonda di elogi, almeno nella dedica, al
vescovo di Girgenti: «tuo nobilitatis genere, … tuis virtutum
laudibus, .. Praesul Illustrissime» , ti piaccia patrocinare la
nostra opera, aveva deferentemente chiesto il Pirri nell’agosto del
1640. Dopo vi fu un ripensamento? Influirono le vicende del 1647?
Saremmo tentati di rispondere di sì.
Oggi
non sono tanti gli estimatori del Trahina. Ma è certo che il presule
un formidabile difensore ce l’ha ancora tra l’attuale clero
agrigentino: monsignor Domenico De Gregorio, suo compaesano, almeno a
guardare agli antenati del presule. Saremmo ingenerosi verso la
cristallina onestà mentale del nostro stimato monsignore (è stato
anche nostro maestro di greco e di latino) se pensassimo o dicessimo
che nell’eccesso di stima gli può far velo l’afflato
campanilistico.
Altro
difensore ci risulta essere padre Biagio Alessi: accenna spesso ad un
suo lavoro di riabilitazione del vescovo. Noi, però, non siamo
riusciti neppure a sbirciarlo per dirne qualcosa. Fu comunque il
Mongitore a trascrivere l’elogiativo epitaffio della Cattedrale ed
a tramandare , almeno negli ambienti ecclesiastici, un giudizio non
sfavorevole sul vescovo a suo tempo sospetto di “somma avarizia”.
Per
quel che concerne i racalmutesi, ci corre l’obbligo di dire che il
celebrato medico della peste Marco Antonio Alaimo fu deferente verso
il vescovo Trahina. Gli dedicò anche una sua opera medica. Quando si
dice la piaggeria verso i potenti!
Il
vescovo Trahina, ad ogni modo, uscì piuttosto bene da quella
procella; + lo stesso Pirri che a pag. 223 ci informa che “vacando
l’arcivescovado di Palermo … [furono] proposti tre ad occuparlo,
cioè Vincenzo Napoli vescovo di Patti, Diego Requesenz vescovo di
Mazzara, e Francesco Trahina vescovo di Girgenti». «Fu eletto fra
essi il Napoli, che era il più vecchio»
.
Ma nella sua “Sicilia Sacra” il Netino fornisce notizie sul
presule agrigentino, come dire piuttosto burocratiche.
Disincagliandoci dal suo pregevole latino – ma latino – abbiamo
che FRANCISCUS TRAHNA, un palermitano oriundo o lui o i suoi antenati
da Cammarata, era riuscito ad entrare nelle grazie di Filippo III e
IV. Dalla corte regale viene dotato di mille aurei a carico della
mensa episcopale siracusana. Come vicenda di vago sapore simoniaco il
nostro comincia bene, ci pare di dovere annotare. Ma non basta:
subito viene proposto al presulato agrigentino uscito dalle vicende
non edificanti della rinuncia dell’arcivescovo reggino, il
palermitano Annibale Afflitto, non per banale questione di soldi
sembra capire dal Pirri ma per ambizione; non passò molto ed infatti
l’Afflitto finì a Catania, sede indubbiamente più prestigiosa di
quella agrigentina, ed anche più ricca. Un confronto? 14 mila scudi
aurei a Reggio, 18 mila ad Agrigento e ben 24 mila a Catania.
E tutto ciò dopo la morte del cardinale fiorentino Octavius
Rodulfus, avvenuta il 6 luglio del 1624 (folgorato dall’incipiente
peste, pensiamo noi.) Certo, è erroneo giudicare con gli occhi –
in fin dei conti eccessivamente moralistici – dei nostri giorni. E’
errore questo cui scivolano gli storici anche quelli minuscoli. Ma la
pagina del Pirri, latino a parte, non ci torna commendevole.
Il
re di Spagna dunque presenta l’oriundo cammaratese a papa Urbano
VIII. Sappiamo del processo concistoriale, ma il Trahina vi passa
indenne, anzi cum laude. Alle spalle le buone protezioni
vigilavano provvide. A consacrarlo, nella chiesa dei Frati Riformati
di San Francesco di Ripa, la domenica del 4 di marzo del 1627 è il
cardinale Cosimo Torres. Subito giungono le lettere apostoliche. Come
non bastasse, il neo-vescovo può trattenere la pensione dei mille
scudi della curia siracusana, imponendolo l’ottimo re ed annuente
il pontefice (optimo Rege id enixe efflagitante, summo vere
pontifice speciali praerogativa benigne annuente – e noi per
gli ablativi assoluti andiamo pazzi). Il 24 marzo prende possesso e
nomina Vicario generale il dottore in sacra teologia Gabriele Saleno
agrigentino, già cantore. Costui, ad esempio, l’abbia trovato
assiduo nelle carte episcopali che attengono a Racalmuto. A
visitatore viene prescelto un altro dottore in sacra teologia, il
canonico Filippo Marino. Succede a Corrado Bonincontro di morire. A
chi assegnare quell’appetibile canonicato. Il papa da Roma
l’assegna al romano Monaldo Monaldi. Dice il Pirri che non vi fu
lite, nulla fuit lis, ma l’accorto vescovo è sottile: la Dignità
non gli compete ma il Tesorariato (per noi profani, ciò vale la
prebenda) quella invece sì. e l’assegna al nipote Pietro Tomasino,
colui di cui abbiamo saputo sopra nella cronaca dei moti di Girgenti.
E per complicare le cose, ecco rispuntare M. Nicolò Rodolfo che
percepiva e voleva continuare a percepire l’annessa cospicua
pensione. E qui nasce controversia, naturalmente a Roma. L’intrigo
diviene comatoso. «Evocata ad sacram Rotam revocationis caussa,
adhuc controvertitur». Tralasciamo gli interludi in cui un
qualche ruolo burocratico ce l’ha anche il Netino.
E
finalmente il vescovo si dedica alla cura delle anime. Visita la
diocesi e per reprimere i costumi dei nostri avi indice il Sinodo il
14 ottobre 1630 che trova pubblicazione nel 1632 con i tipi di Decio
Cirillo di Palermo. Il librettino si conserva ancora, con amorevole
cura da parte di monsignor De Gregorio, presso la Lucchesiana.
Si
mette ad ornare la cattedrale e Pirri ne sottolinea le opere più
prestigiose. Rinviamo ai lavori accurati e puntigliosi di monsignor
De Gregorio per i dettagli. Restiamo sensibili alla costituzione di
un monte di pegni. Maliziosi come siamo, ci domandiamo: tutta bontà
d’animo e generosità?
Sei
candelabri d’argento tra cui potesse rifulgere il Crocifisso volle
del tutto nuovi. Ordinò un’arca argentea per San Gerlando. Ed il
palazzo vescovile – sempre quello dei moti – abbellì e
fortificò, cingendolo con un giardino alberato, fonte di gioia per
gli occhi, godibile “non sine delectatione”.. Scomoda il papa per
essere autorizzato ad insignire i propri canonici con ancora più
vistosi paludamenti: almuzi, rocchetto, mozzetta, fibule, tutto alla
grande, praestantiores spactabilioresque. Vanitas vanitatis,
omnia vanitas? Il vescovo (ed i canonici di allora) ovviamente non la
pensavano così.
Ampliò
il seminario e ciò meritevolmente. Ma i fiori non sono senza spine:
mentre si adoperava a tante meritorie opere, le molestie e le fiamme
dell’odio lo avvilupparono, dice il Netino. Lo accusarono presso il
papa Urbano VIII di non avere ottemperato all’obbligo della visita
triennale dei sacri limini e, soprattutto, di avere abusato della
giurisdizione ecclesiastica nella diocesi, massimamente a Cammarata,
in cui avevano dimorato i progenitori del vescovo, ed a Giuliana. Il
cardinale di Santo Onofrio, a nome del pontefice, trasmise il 25
febbraio 1631, un ordine epistolare al cardinale Doria arcivescovo di
Palermo con cui si convocava a Roma il Trahina.
A
Roma il Trahina andò e riuscì a farsi perdonare dal papa le proprie
manchevolezze: tanto almeno ci pare che sostenga il Pirri. Per quel
che si mostreà dopo a noi risulta qualcosa di dicerso. Per il
Netino, comunque, «summo cum honore, summaque bonorum omnium
laetitia, ac plausu brevi ad suam rediit Ecclesiam mense Majo» (come
dire nel 1631 come dire il vescovo Trahina).
Senonché,
non molto dopo, il 13 dicembre 14 indizione 1631, per disposto di un
prelato della Camera Apostolica, Marco Antonio Franciotto, il ducato
di San Giovanni, la contea di Cammarata, di Giuliana, di Burgio, di
Chusa e dopo di Racalmuto, tutte terre della diocesi di Agrigento,
vengono sottratti alla giurisdizione civile e criminale ed assegnati
a quella del Metropolitano di Palermo. Si infuria Filippo IV. Il
vicerè viene investito dalla Spagna con lettere scritte con animo
esacerbato, sature di indignazione per l’inqualificabile
vulnerazione dei diritti regali e con toni di malcelato disappunto.
La faccenda torna a Roma; si riaprono i termini del contenzioso.
Asserita l’istanza popolare (chissà come appurata) e data ampia
soddisfazione al vescovo agrigentino, si ottiene la riappacificazione
(o la si impone) tra il presule Trahina ed i vari signorotti
feudatari locali, imponendosi il totale riprisino dell’antica
giurisdizione.
A
questo punto il giudizio del Pirri nella “notitia” sulla Chiesa
agrigentina, si articola nei frusti lemmi della piaggeria: «noster
Antistes ecclesiasticae jurisdictionis defensor acerrimus, in
pauperes munificus, in subditos comes nunc in suae Cathedralis
sacello Divi Gerlandi, antequam ex humanis abiret, sibi tumulum
marmoreaum construi curavit.». Monsignor De Gregorio, acuto e pur
tuttavia diligentissimo storico della chiesa agrigentina mostra
ancora di dare pieno credito a siffatto giudizio terminale del
Netino. Il nostro contrastarlo è forse valso soltanto ad un
affievolimento dei toni encomiastici. Noi – anche per la
documentazione vaticana che dopo ci industrieremo di commentare –
ci radicalizziamo vieppiù in un fastidio morale avverso codesto
presule secentesco e, in definitiva, ci accodiamo alle stroncature
che il Camilleri – sia pure sotto false sembianze letterarie –
prodiga con sommo acume storico (ad onta del suo negare una propria
“testa di storico”) “in odium Agrigenti Episcopi”
Da
vivo il Trahina fa incidere sul suo sacello marmorea questo epitaffio
che noi tentiamo di tradurre:
«D.O.M.
DON Francesco Trahina palermitano, espertissimo nelle divine
lettere, appartenente all’antico ordine senatorio, per diciassette
anni al servizio degli invittissimi re di Spagna, Filippo III e IV,
con somma integrità morale e con irreprensibile vita in quanto ha
tratto con le cose sacre, insignito dell’episcopato agrigentino,
acerrimo propugnatore dell’immunità ecclesiastica, per la cui
difesa ebbe a soffrire infinite afflizioni, ampliò il seminario,
adornò con somma munificenza il tempio, e vi eresse il proprio
sacello. Sempre vigilò con tetragono animo e finalmente si
addormentò fiaccato solo nel corpo- Vixit annos …» E qui il Pirri
mette i classici puntini, essendo certa la morte ma non l’ora, come
recitavano le formule testamentarie dell’epoca.
Spetta
al Mongitore scrivere l’aggiunta come gli era d’abitudine. Vacua
e stravagante la segnalzione della consacrazione di Franciscus
Trahina Panormitanus, il 13 novembre del 1639, solemni ritu della
chiesa Divae Mariae de Misericordia Panormi fratrum tertii ordinis S.
Francisci.
Un
semplice accenno, quindi, ai moti del 1647 e subito un diffondersi
sui mercemoni comitali del Trahina. Le disavventure e le spoliazioni
popolari – delle gente meccaniche, e di piccol affare, direbbe il
Manzoni, non avevano neppure scalfito l’accanita locupletazione di
un tale alto prelato, originario di Cammarata, e per fortune
ereditarie pertanto non doviziosamente ricco. !20 mila scudi d’oro
non erano una bazzecola eppure dopo i furti il vescovo è in grado di
girarli al Re Cattolico – quando poi si nega l’espoliazione
spagnola della Sicilia, chissà perché non si tiene conto di
siffatti latrocini – e il dispendio solo per la vanagloria di
fregiarsi del titolo – peraltro non trasmissibile ereditariamente -
di feudatario della Civitas Agrigentina. Era il 1648, il mese di
novembre, addì 24.
Redige
testamento agli atti del notaio Francesco Giardina, il 3 ottobre
1650. I soliti legati alle chiese, qualnche beneficenza ai poveri,
appannaggi ai mansionarii della sua Cattedrale acciè fossero
diligenti nella recita del Sant’Ufficio. C’era al tempo la mania
di dotare orfane per il loro matrimonio. Il Trahina non vi si
sottrae. E un occhio particolare per le repentite: suffi
d’alumbramiento annoterebbe malizioso Leonardo Sciascia.
Per
la dotazione libraia del seminario, ben 20 once annue, e questo è
tratto naturalmente molto esaltato. Fu, invero, cosa commendevole. E
così il presule chiarissimo concluse l’ultimo suo giorno, il 4
ottobre 1651. Fu deposto nel sacello che si era costruito nella
cattedrale di S. Gerlando: oggi, come si disse, si riesce a leggere a
mala pena l’opaco scorrere di lettere bronzee nere sulle nere
tavole eburnee: il contorto latino dovrebbe scandire
immarciscibilmente la gloriosa ed edificante vicenda di monsignor
Francesco Traina, oriundo cammaratese.
Domenico
De Gregorio, nella sua Cammarata – notizie sul territorio e la
sua storia – è ancora nel 1986 circospetto sulla figura del
vescovo; in fin dei conti si limita a tre paragrafi che sintetizzano
solo le vicende del 1631, secondo l’asettica versione del Pirri.
(cfr. pag. 220-221). Dopo, nella monumentale opera sull’intera
chiesa agrigentina, il Traina troverà ampio spazio ed in termini di
plaudente valutazione.
Altro
laudator del vescovo è, impensabilmente, il Picone. Dopo
avere traslato nella sua impacciata prosa ottocentisca il racconto
del Pirri, quello dei Diarii sopra riportato, nella nota n. 5 di pag.
541 delle sue celebri (e celebrate Memorie), ha il destro di
commentare: «Ho voluto riprodurre la narrazione di quei tumulti,
quale ce la tramandano i diarii, e l’illustre Botta, ma non posso
non osservare, che la cagione di quelle sciagure non debba attingersi
alla pretesa avarizia di quel prelato, ma ad altra sorgente che la
storia non volle rivelare. Egli è un fatto incontrastato, che
Girgenti deve a quel vescovo la costruzione dell’arca d’argento,
ove furono raccolte le ceneri di s. Gerlando, la creazione e la
dotazione del Monte di Pietà, nel quale si mutua denaro a
lieve ragionata di frutti, la costruzione e dotazione dell’ampia
biblioteca del seminario e di questo il perfezionamento, la
ristaurazione del palagio vescovile, illeggiadrito da un giardino
piantatovi alla parte di tramontana (Pirr., Sic. Sacra, T.I,
pag. 772), oltre altri doni che egli largito aveva alla nostra
chiesa. Questi fatti venivano narrati dal Pirro nel 1640, otto anni
prima delle rivoluzioni sopra descritte, e dimostran men che avarizia
in quel vescovo, larga liberalità, ed animo generoso. - Il racconto
dei Diarii e di Botta, il quale dovette copiarli, o è
mendace, o deve far supporre in colui un radicale cangiamento di idee
e di sentimenti a sbalzi; il che ripugna alla verosimiglianza. La
generosità del Traina, e il mendacio di quel racconto saltano più
palpitanti e provati dal fatto avvenuto nello stesso anno 1648, in
cui, appena spenti gli avanzi di quei tumulti, egli comprova la città
nostra, contentandosi del semplice usufrutto, attaccato alla sua
cadente età, non avendo voluto trasmetterne la proprietà ai suoi
eredi. Io do dunque tutta la fede alla narrazione degli eccessi
consumati dal popolo, nissuna all’avarizia del Traina, cui ritengo
qual uno dei benefattori della città nostra, e bersaglio alle
calunnie inventate dai suoi nemici, che invidi di sue ricchezze, non
dovettero esser pochi».
Avremo,
dopo, modo di provare che la “storia – purtroppo – volle
rivelare” e ciò ebbe il tramite nell’indubitabile archivio
segreto vaticano. Niente meno! L’assonanza di giudizio tra il
nostro quasi racalmutese e l’esimio monsignore cammaratese –
entrambi sinergici per idee e per opzioni politiche e sociali e
chissà poi perché non tornato il primo, un secolo dopo, gradito al
secondo – è sorprendente. Per una variazione sul tema, mi si lasci
dire che il Camilleri prende il racconto sul vescovo del Re di
Girgenti dalla mediata narrazione del Picone, stravolgendo per le
sue necessità letterarie il costrutto storico.
Premettiamo
che per il momento ci assilla la questione della natura della
giurisdizione dei vescovi nella Sicilia feudale, in particolare in
quella del Seicento. La feudalità siciliana, dopo le graffianti
puntualizzazione di Mazzarese Fardella, resta un’incognita almeno
sotto il profilo giuridico. Cosa non di poco conto se si ha a cuore
la verità, almeno quella storica.
Gli
abusi giurisdizionali in cui sarebbe incorso il Traina e sui quali
ebbe ad interessarsene, con atteggiamenti ostili al vescovo, il
Vaticano non sono stati sinora adeguatamente investigati. Monsignor
De Gregorio – che pure è quel mostro di ricercatore che è e che
non indulge a semplicionerie – ci pare riduttivo quando afferma che
l’accusa del 1630 fosse quella di semplici “abusi di
giurisdizione in alcuni paesi”, di tal ché ad Urbano VIII fu
d’uopo “accettare la sua discolpa” anzi dovette il papa lodarlo
“per il suo governo e il suo modo di vivere”. L’epilogo fu
quello di “un accordo [raggiunto] con i baroni delle terre
suddette” [e cioè Cammarata, S, Giovanni, Giuliana, Burgio, Chiusa
e Racalmuto] e pertanto le dette terre “furono riportate all’antica
giurisdizione”.
Purtroppo
non fu così! Un fondo dell’Archivio segreto vaticano i cui indici
siamo riusciti a consultare solo a fine del 2003, e ciò perché
recentissimi, getta luce sull’incresciosa controversia tra il
Vaticano ed il vescovo agrigentino, che ci pare burbanzosamente
riluttante agli ordini romani, salvo, dopo, a dovere abbassare la
cresta e con scottature che si faranno sentire nelle successive
vicende dei moti – che la storia seppe tramandare in una luce non
tanto favorevole al Traina.
Il
fondo si denomina: Sacra Congregazione delle Immunità Ecclesiastiche
ed è tutto rubricato nell’indice 1182. Abbiamo consultato il reg.
2: 628v; 228-229; 425; 386-563-616-628-649-650; 326v; il reg. 3:
24-421v; 464v; 65v; il reg. 4: 83-100; 85v; 217v; il reg. 5: 169v;
191v; 298v; 301v; il reg. 13: 529v; il reg. 15: 16v; il reg. 18: 25v;
il reg. 21: 62v; il reg. 23: 55r.
L’esordio
è soft eppure si apre uno spiraglio su un contesto curiale
non proprio edificante: il clero locale è tutt’altro che
entusiasta del nuovo vescovo; già in dicembre nel 1627 la curia
romana deve chiamare il presule agrigentino per una difesa presso il
Vaticano; che informi almeno la sacra congregazione delle immunità
ecclesiastiche sul “memoriale dato per parte del clero di codesta
città” si scrive il 20 dicembre 1627; si vuol sapere “la verità
del contenuto di esso” memoriale, ma nel frattempo il vescovo “non
lasci difendere la esenzione degli ecclesiastici”.
Ci
pare che sia scattata la molla del dispetto. Ora sono gli ambienti
curiali agrigentini che sollecitano la congregazione romana delle
immunità a redarguire il cardinale arcivescovo di Palermo
(Giannettino Doria): i ministri di quella curia arcivescovile
“inhibiscono, anzi assolvono nelle cause di censure fulminate nelle
per occasione di giurisditione ò immunità ecclesiastica; il che
repugnando alla dispositione de Sacri Canoni ed agli ordini della
medesima Congregatione” necessita conseguentemente di un intervento
del cardinale Doria atto a non permettere “simile abuso
reintegrando ogni pregiudizio”. E’ il 24 luglio 1628 (S.C. I.E.,
reg. 2 f. 326v).
Se l’albagia del semplice senatore palermitano – in atto vescovo
a Girgenti – era quella che era; quella dell’arcivescovo di
Palermo la superava di gran lunga. Giannettino Doria fu personaggio
notevolissimo e le cronache del tempo ed i testi moderni (compreso
quello di Denis Mach Smith) lo citano spesso e volentieri nelle
storie secentesche siciliane. Anche noi lo abbiamo incontrato di
sovente nella microstoria di Racalmuto.
Eppure,
ancora nel 1629, il 20 febbraio (ibidem f. 424) il Trahina
costringe il papa a rispondergli contestualmente al porporato
palermitano per dipanare una contesa circa una “vigna posta nel
territorio ” di Palermo che il “vescovo di Giorgento”
pretendeva. Per il papa doveva incardinarsi un processo presso il
“tribunale archiepiscopale” e noi insinuiamo che non vi dosesse
respirare aria favorevole al presule di Agrigento. Il vescovo insiste
e fa recapitare un memoriale a Roma sul quale il cardinale è
costretto a fornire informazioni. (ibidem reg. 2, f. 386v del
18 novembre 1629).
Chi
la fa l’aspetti ed ecco infatti cominciare i guai del Trahina con
la curia romana: è datato 20 febbraio 1629 questo comando papale:
«Giurgento – vescovo. La Santità di Nostro Signore commanda che
V.S. in termini di doi mesi dalla presentatione di questa si ritrovi
in Roma per soddisfare all’obbligo dovuto alla visita de Sacri
Limini [si noti, non erano passati neppure due anni
dall’insediamento, quindi in epoca ben lontana dal triennio
tridentino e già il vescovo viene chiamato a Roma per un rendiconto
anzitempo, n.d.r.] che ha comminatione di tante pene [cosa
nota, ma è bene rammentarla, e v’è una punta più che
ammonitoria, n.d.r.] et assieme per dar giustificatione circa
li particolari rappresentati à S. Beatitudine per parte del marchese
di Giuliana, del duca di S. Giovanni et altri. Cossì esseguirà
inviolabilmente sotto altre pene arbitrarie della medesima Santità
di Nostro Signore. Con che a V. S. prego ogni bene.» Da notare che
siamo nel 1630, il 26 agosto.
Il
Trahina si sente protetto addirittura dal re di Spagna e mostra
indifferenza verso le missive tutto sommato di una semplice
congregazione vaticana; in fin dei conti a pontificare è un mediocre
famiglio curiale, un tal P. D. Paoluccio: anche allora come ora un
semplice usciere ministeriale si reputa più potente del suo ministro
o del suo prefetto cardinale, e quel che è bello è che tanti ci
credono davvero e vi cascano e quel che è più stupefacente è che
siffatte millanterie si traducono in sonanti fatti concreti. Quando
si dice, la banalità delle papali o regali o repubblicane
cancellerie.
La
pazienza vaticana, ad ogni modo, è proverbiale: a scuotere
l’indolenza (o l’indifferenza) del vescovo, la sacra
congregazione delle immunità ecclesiastiche accentua il tono ed il 5
di marzo del 1630 intima: «lasci in termine di doi mesi” la sede e
si rechi a Roma “per ricevere gli ordini di Sua Beatitudine e ciò
inviolabilmente, sotto pena di sospensione et interdetto da
incorrervi ipso jure passato il termine et anco d’altre pene ad
arbitrio del papa”. (ibidem, reg. 2 f. 563r). Il 2 settembre
il Trahina risulta ancora inadempiente ma pazientemente la curia
accorda altri due mesi di proroga. (ibidem f. 618v).
Ma
giunge il tempo del ravvedimento: monsignor Traina si veste d’umiltà
e scrive al papa adducendo ragioni e giustificazioni. Gli risponde il
cardinale di S. Onofrio notificandogli che il sommo pontefice ne ha
preso atto ma si è limitato a concedere solo un mese di proroga per
la visita e la rassegna della prima relatio ad limina
(ibidem, reg. 2 f. 649v del 1° novembre 1630).
Nel
terzo registro di quella sacra congregazione, al f. 25, abbiamo il
sunto di una missiva inviata al “signor cardinale Doria,
arcivescovo di Palermo”. Gli viene comunicato che finalmente il
riottoso Traina la visita dei “sacri limini” l’ha fatta ma ….
ma «abusandosi oltre delle proroghe ottenute, acciò eccesso tanto
grave non resti impunito ha la S. di N. S. comandayo il zelo, et
osservanza di V.E. verso questa Santa Sede, perché ella col dovuto
rigore, et servatis servandis dichiari il medesimo vescovo incorso
nelle pene di sospensione a divinis, d’inhabilità perpetua à
dignità ecclesiastiche, et altre pene sostenute in detta
Costitutione di Sisto Quinto de visitandis S,ti Petri et Pauli
liminibus 1con
procurare che detta dichiaratione et pene habbino effetto loro et
comandarrne poi … Roma 25 febbraio 1631 ( Sacr. Congreg. Immunità
Ecclesiastiche, reg. 3 ff. 24-24).
Per
quel che ne sappiamo – e siamo dilettanti per arrogarci easustività
di ricerca scientifica – una tale gravissima censura è passata
sotto silenzio. Che il vescovo Traina non abbia poi avuta comminata
formalmente la scomunica e la sospensione a divinis? Che il
cardinale Doria si sia intenerito verso il suo pur dispettoso
subordinato? E sì perché la diocesi di Agrigento era assoggettata
all’arcivescovado palermitano; il vescovo ne era suffraganeo.
Monsignor
De Gregorio ci ha fatto acutamente notare:
- non essere poi materia tanto grave un ritardo, che poi tale non era, nei doveri della visita dei sacri limini;
- il carattere tutto civico – e forse – pettegolo delle accuse che partono da duchi, principi, conti e baroni della periferica Agrigento;
- ad individuarli quei nobilotti di provincia erano in fin dei conti imparentati fra loro e quindi facili alla consorteria ostile e malevola verso un vescovo che peraltro mostrava doti spiccate di rigore nel governo della chiesa e nell’amministrazione della giustizia di competenza del presule. Privilegi, usurpazioni, ingerenze nobiliari venivano colpiti; naturale quindi che sfruttando due sponde a loro amiche, l’arcivescovo di Palermo – a sua volta imparentato con tanti di loro, ad esempio con i del Carretto racalmutesi – e i potenti ecclesiastici provenienti dalle loro prosapie che signoreggiavano nella curia romana, potessero mettere nei pasticci una personalità scomoda ed egemone quale il vescovo Traina, un non nobile in definitiva e che di agganci con le propaie localo poteva vantare solo quelli che gli derivavano dall’essere riuscito a fa sposare una propria nipote quindicenne ai Tommasi di Lampedusa.
Vero
è che la chiesa episcopale era sotto il regio patronato, ma la
composizione del capitolo – questa sorta di senato con diritto di
reggenze in tempi di vacatio – era varia ed i canonici
riuscivano spesso a sottrarsi all’autorità del vescovo ma spesso a
condizionarla. del regio La composizione del capitolo: Al tempo di
monsignor Traina abbiamo un decanato affidato allo spagnolo Jo:
Torresilla ; divenuto arcivescovo di Monreale nel 1644, gli subentrò
il palermitano Francesco Potenzano; l’arcidiaconato era appannaggio
del messinese Jo: Gisulfo; la dignità del tesoriere spettava a
Pietro Tomasino, parente del vescovo come si è visto; fra i canonici
emergono l’ispano La Ribba, e quindi il palermitano don Vincenzo
Valguarnera ed altri che gli studi di monsignor De Gregorio hanno
riesumato dall’oblio dei tempi.
A mo’ d’esempio riportiamo qui una nostra tabella dei preti che a
vario titolo officiarono a Racalmuto. Colpisce soprattutto la
quantità.
1
|
1632
|
GIUSEPPE
|
CICIO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1632
|
FRANCESCO
|
TAGANO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1632
|
SANTO
|
D
' AGRO'
|
BENEFICIALE
DELL ' ITRIA
|
4
|
1632
|
GIUSEPPE
|
SANFILIPPO
|
BENEFICIALE
E FONDATORE DELLA
|
|
|
|
|
CHIESA
DI S. NICOLA
|
5
|
1632
|
LEONARDO
|
D
' AMODEO
|
|
6
|
1632
|
G.BATTISTA
|
ACQUISTA
|
|
7
|
1632
|
FRANCESCO
|
CICIO
|
CAPPELLANO
|
8
|
1632
|
PETRO
|
RAFFAELI
|
CAPPELLANO
|
9
|
1632
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1632
|
FRANCESCO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
2
|
1632
|
DOMENICO
|
SFERRAZZA
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
ANNO
1634
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
ANTONINO
|
MOLINARO
|
VICARIO
-ARCIPRETE ,PRENDE POSSES-
|
|
|
|
|
SO
IL 12.3.1635
|
2
|
1634
|
LEONARDO
|
BERTUCCIO
|
CAPPELLANO
|
3
|
1634
|
PASQUALE
|
MACALUSO
|
|
4
|
1634
|
GIUSEPPE
|
TODARO
|
|
5
|
1634
|
PIETRO
|
CASUCCI
|
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MARTORELLA
|
CAPPELLANO
|
7
|
1634
|
ANGELO
|
CASUCCI
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
SUDDIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1634
|
G.BATTISTA
|
LO
BRUTTO
|
CHIERICO
|
2
|
1634
|
ANDREA
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
3
|
1634
|
SIMONE
|
SALVAGGIO
|
CHIERICO
|
4
|
1634
|
PIETRO
|
DI
ROSA
|
CHIERICO
|
5
|
1634
|
ANTONINO
|
LO
PORTO
|
CHIERICO
|
6
|
1634
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
CHIERICO
|
7
|
1634
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
ANNO
1639
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
TRAINA
|
ECONOMO
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
DIACONO
|
2
|
1639
|
GIROLAMO
|
SCIRE'
|
DIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1639
|
GIUSEPPE
|
D'ACQUISTA
|
CHIERICO
|
2
|
1639
|
GIUSEPPE
|
CASUCCIO
|
CHIERICO
|
3
|
1639
|
MICHELANGELO
|
D'ASARO
|
CHIERICO
|
4
|
1639
|
G.BATTISTA
|
BAERI
|
CHIERICO
|
5
|
1639
|
GIUSEPPE
|
LA
LATTUCA
|
CHIERICO
|
6
|
1639
|
ANTONINO
|
MACALUSO
|
CHIERICO
|
7
|
1639
|
FEDERICO
|
LA
MATTINA
|
CHIERICO
|
8
|
1639
|
MARIO
|
TURRETTA
|
CHIERICO
|
9
|
1639
|
GIOVANNI
|
PITROCELLA
|
CHIERICO
|
10
|
1639
|
GASPARE
|
TROISI
|
CHIERICO
|
11
|
1639
|
VITO
|
BURGIO
|
CHIERICO
|
12
|
1639
|
FILIPPO
|
DI
CHIAZZA
|
CHIERICO
|
13
|
1639
|
ANTONINO
|
MUNTILIUNI
|
CHIERICO
|
14
|
1639
|
FRANCESCO
|
GIUSTINIANO
|
CHIERICO
|
15
|
1639
|
PIETRO
|
CURTO
|
CHIERICO
|
16
|
1639
|
ISIDORO
|
D'AMELLA
|
CHIERICO
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
ANNO
1645
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1645
|
TOMMASO
|
TRAJNA
|
ARCIPRETE
D.S.T.
|
2
|
1645
|
GIUSEPPE
|
TRAJNA
|
ECONOMO
|
3
|
1645
|
FRANCESCO
|
TIGANO
|
|
4
|
1645
|
FRANCESCO
|
SFERRAZZA
|
|
5
|
1645
|
GIUSEPPE
|
D'AGRO'
|
|
6
|
1645
|
PAOLO
|
LA
MENDOLA
|
|
7
|
1645
|
VINCENZO
|
RIZZO
|
|
8
|
1645
|
SALVATORE
|
PITROZZELLA
|
|
9
|
1645
|
MARIANO
|
MALASPINA
|
CON
LICENZA DI PARROCO
|
10
|
1645
|
FRANCESCO
|
MACALUSO
|
|
11
|
1645
|
PIETRO
|
CURTO
|
ARCIPRETE
DI VENTIMIGLIA (DIOCESI PA)
|
12
|
1645
|
LEONARDO
|
MORREALE
|
COMMISSARIO
TRIBUNALE S.UFFIZIO.STD
|
13
|
1645
|
GIOVANBATTA
|
D'ACQUISTA
|
|
14
|
1645
|
FEDERICO
|
LA
MATTINA
|
CAPPELLANO
|
15
|
1645
|
CALOGERO
|
DI
PUMA
|
|
16
|
1645
|
GERLANDO
|
MORREALE
|
FONDATORE
CHIESA S. MICHELE
|
|
|
|
|
|
ANNO
1649
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
POMPILIO
|
SAMMARITANO
|
ARCIPRETE
|
2
|
1649
|
MARIANO
|
D
' AGRO'
|
BENEFICIALE
S. NICOLO'
|
3
|
1649
|
ANTONIO
|
MACALUSO
|
|
4
|
1649
|
SIMONE
|
LO
GUASTO
|
COMMISSARIO
SANTO UFFIZIO
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
GRILLO
|
DIACONO
|
|
|
|
|
|
1
|
1649
|
GIUSEPPE
|
LO
SARDO
|
CHIERICO
|
2
|
1649
|
NATALE
|
DI
ALFANO
|
CHIERICO
|
Ed
ai fini di tracciare un contesto di come potesse snodarsi nel ‘600
la grama vita di gente meccaniche ed agricole e quella religiosa
sotto l’occhio vigile del vescovo ci sia consentito questo excursus
su Racalmuto, uno dei paesi ribelli verso il vescovo Traina.
RACALMUTO NEL ‘600
1613:
- PIETRO CINQUEMANI RETTORE e poi nel 1614 ARCIPRETE
Viene
annotato, nel Liber in quo adnotata nomina etc (una silloge di
sacerdori e chierici defunti dal 1590 in poi che si custodisce in
Matrice a Racalmuto), al f. 1, n°. 11 «D. Pietro Cinquemani -
Arciprete 1614. » Gli atti della Matrice ce lo confermano ancora
tale nel 1615, ma l’anno successivo arciprete è don Filippo
Sconduto. Il 7 gennaio 1616 benedice, ad esempio le nozze di
Silvestre Curto di Pietro con Giovanna Bucculeri del fu Francesco
(vedi atti di matrimonio del 1616).
Don
Filippo Sconduto regge a lungo la nostra arcipretura, fino alla morte
avvenuta il 6 novembre 1631. (Cfr. Liber in quo adnotata .. f.
2 n.° 42). Sotto il suo arcipretato avvengono fatti memorabili,
tristi, lieti e rissosi: la famigerata peste è appunto del 1624; la
vedova del Carretto, vuole reliquie di S. Rosalia e manda 80
cavalieri a Palermo a prenderle, in una con una bolla che si conserva
in Matrice; torna a nuovo splendore la chiesetta dedicata alla santa
eremitica nel centro del paese.
* *
*
Ma
ritorniamo indietro, agli esordi del comitato dell’infelice
Girolamo II del Carretto. Arriva, frastornato, a Racalmuto nel 1608,
subito dopo la morte violenta e scioccante del padre. Ha quasi nove
anni; finisce sotto le grinfie del fratellastro Vincenzo del Carretto
che, per eccessiva benevolenza del vescovo Bonincontro, diviene
frattanto arciprete della importante comunità ecclesiale locale. Non
ci sembra un sacerdote molto degno. Non finirà la sua vita da
arciprete, ma come balio di Giovanni V del Carretto, dopo esserlo
stato del padre Girolamo II. Conclude la sua esistenza in stretta
intimità con la cognata donna Beatrice del Carretto e Ventimiglia,
almeno giuridica ed economica. Per il resto, chissà. Quel volersi
salvare l’anima, alla fine dei suoi giorni, con l’erezione della
minuscola chiesa dell’Itria, può fare ingrossare i sospetti, ma
può farlo assolvere: dipende dai punti di vista.
Vincenzo
del Carretto, arciprete, ma soprattutto “balio e tutore”
dell’illustre conte, deve vedersela con le procedure della
successione comitale, e non è agevole. Soprattutto sono esborsi
cospicui da approntare. Vincenzo del Carretto, non ne ha voglia o
possibilità. Tergiversa. I processi di investitura mostrano una
sfilza di rinvii a richiesta appunto di codesto strano tutore in
veste talare. Una proroga è del 2 maggio 1609; un’altra del 2
giugno; un’altra del 26 giugno; un’altra del 28 luglio; un’altra
del 2 settembre 1609. Ma a questo punto subentra l’abile e potente
Giovanni di Ventimiglia marchese di Gerace e principe di Castelbuono.
Il vecchio patrizio risiede - come la migliore nobiltà - a Palermo,
vigile sulla corte viceregia. Ha potere e lo dispiega per altre
proroghe a favore del suo nuovo protetto, il nostro Girolamo II del
Carretto.
L’arcigno
marchese di Geraci era stato il padrino di battesimo del piccolo
Girolamo. Abbiamo l’atto battesimale della chiesa parrocchiale di
San Giovanni dei Tartari in Palermo:
Die
28 octobris XI ind. 1597
Ba:
lo ill.ri et molto Rev.do don Francisco Bisso v.g. lo figlio delli
ill.mi SS.ri D. Gioanne et donna Margarita del Carretto et Aragona
conti et constissa di Racalmuto jug: nomine Geronimo; lo compare lo
ill.mo et excellentissimo don Giovanni Vintimiglia, la commare la
ill.ma et ex.ma donna Dorothea Vintimiglia et Branciforti.
Il
marchese va oltre: fidanza la figlia Beatrice con il suo pupillo.
Sono due bambini, ma l’impegno matrimoniale è inderogabile.
Girolamo
II ha meno di tredici anni; la sua futura sposa ha appena dieci anni
(nacque nel 1600 a credere ai dati anagrafici contenuti nel noto
cartiglio del sarcofago del Carmine). Il matrimonio avverrà comunque
attorno al 1616, quando il giovane conte era quasi ventenne e la
splendida Beatrice Ventimiglia sedicenne (nell’atto di donazione
di Girolamo II del 1621, la primogenita è appena di 4 anni -
Dorothea aetatis annorum quatuor incirca).
L’arciprete don Vincenzo del Carretto e la questione del terraggiolo
Don
Vincenzo del Carretto ebbe comunque modo di interessarsi alla
scottante questione del terraggio e del terraggiolo. Tuttora resta il
mistero (giuridico) di quei gravami feudali. Nel 1609, l’arciprete
pensa che una trasformazione del tributo comitale da annuale e
circoscritto ai coltivatori di terre nello stato e fuori di Racalmuto
in una rendita perpetua di un capitale costituita da un’imposizione
generalizzata su tutti gli abitanti, possa finalmente dirimere e
chiudere le annose controversie. Pensa ad un’imposta straordinaria
di 34.000 scudi che al saggio allora corrente del 7% potevano
fruttare 2.380 scudi, sicuramente molto di più di quel che rendeva
l’invisa tassazione tradizionale.
Non
sappiamo se l’idea fosse buona o iniqua; sappiamo però che fu un
fallimento. Sembra che vi sia stata una fuga di vassalli (soprattutto
mastri e gente che non aveva terra da coltivare); gli abitati feudali
vicini (Grotte, in testa) furono ben lieti di raccogliere quei
profughi che ovviamente non amavano essere tartassati. Anziché
l’imposizione dell’intero capitale, si tentò di ripartire i soli
frutti pari a 2.380 scudi ma annualmente. Anche questa via fallì.
Nel 1613, il vigile tutore e futuro suocero di Girolamo II pensò
bene di ritornare all’antico, ai patti stipulati nel 1580, di cui è
disponibile un fitto carteggio. Altro che frate Evodio o Odio che dir
si voglia; altro che insinuazioni sacrileghe alla Sciascia. Ci
ripetiamo, ma è pagina di storia, di microstoria se si vuole, che va
riproposta con il debito rispetto della verità, senza
anticlericalismi incolti.
In
una memoria del 1738 2,
quando lo stato di Racalmuto era stato arraffato dai duchi di
Valverde, i Caetani, la vicenda del terraggio e del terraggiolo
racalmutese ci pare molto bene inquadrata.
Ancora
nel 1738 i possessori dello stato di Racalmuto avevano il diritto di
esigere dai vassalli, che coltivavano terre fuori del territorio, il
terraggiolo nella misura di due salme per ogni salma di terra
coltivata, sia che si trattasse di secolari sia che si trattasse di
ecclesiastici. Il diritto si originava dalla transazione del 1580
intercorsa tra il conte ed il popolo. Era stata una transazione che
aveva dimezzato la misura del terraggiolo (da quattro a due salme di
frumento per ogni salma di terra coltivata).
Nel
1609 c’era stata la riforma che abbiamo prima specificata. Ma
poiché fuggirono da Racalmuto oltre 700 famiglie, nel 1613 si
ritenne di tornare all’antico.
La
questione si risolleva nel 1716, quando D. Luigi Gaetano sanzionò la
ridotta misura di due salme per salma relativamente al terraggiolo.
Vi
fu un ricorso presso la Magna Curia datato 23 settembre 1716. Il
fatto era che il Monastero di San Martino pretendeva l’esonero dal
terraggiolo per i racalmutesi che andavano a coltivare i feudi
benedettini di Milocca, Cimicìa e Aquilia. Ma questa è faccenda che
esula dai limiti di questo studio. In calce il documento in latino
per l’eventuale curioso.
Il
1613 è dunque data importante per la storia del terraggiolo (e
terraggio) di Racalmuto; quasi contemporaneamente (nel 1614) il
giovanissimo conte Girolamo II concordava con l’agostiniano di S.
Adriano, fra Evodio, la fondazione del convento di San Giuliano. Due
vicende distinte e separate: non relazionabili. Una era di natura
fiscale, un bene accolto ritorno all’antico; l’altra aveva un
profondo significato religioso, era un segno della pia devozione del
giovane conte, sorgeva un cenobio tanto a cuore dei racalmutesi sino
alla sua estinzione verso la fine del Settecento: gli agostiniani
furono confessori di fiducia di tanti peccatori incalliti che non
mancarono certo a Racalmuto. Le note sciasciane stridono con siffatte
vicende che una sia pur superficiale lettura dei documenti rende
chiarificatrici dei pii eventi, lungi da ogni blasfema ironia..
Fra Diego La Matina (secondo noi).
Un
anno prima della morte di Girolamo II del Carretto, nasce fra Diego
la Matina. Era il 1621 (e non il 1622, come vorrebbe Sciascia e come
disinvoltamente si continua a scrivere). Trattasi del povero
fraticello dell’ordine centerupino dei sedicenti riformati di S.
Agostino. Ebbe la sventura di finire in un convento che già nel 1667
(3)
si tentava di scardinare, almeno in quel di Racalmuto, per
disposizione vescovile. Visse da brigante ma finì sul rogo a
S.Erasmo in Palermo per un atto inconsulto di rabbia omicida. Morì
con ignominia, ma da tre secoli e mezzo non trova più pace, oggetto
di mistificazioni, magari letterariamente sublimi, ma sempre
mistificazioni.
Lo
si dice di Racalmuto, sol perché di sfuggita tale lo indica il suo
accusatore inquisitoriale. Gli si attribuisce un atto di battesimo
rinvenuto nei registri dell’Archivio della locale Matrice, ma per
una imperdonabile svista lo si fa nascere un anno dopo: nel 1622
anziché nel 1621 (ovviamente per scarsa consuetudine con le
datazioni indizionarie, ché diversamente si sarebbe saputo che la
chiara indicazione della quarta indizione corrispondeva appunto al
1621). E dire che in tal modo tornava l’età di 35 anni assegnata
al La Matina dal Matranga per il tragico anno della fine
raccapricciante del frate, avvenuta nel 1656. Ma lungi da noi il
sospetto che in tal modo Sciascia non avrebbe potuto irridere ai
vezzi astrologici del Padre Matranga (4).
Lo
si vuole ad ogni costo di ‘tenace concetto’ in materia di fede
per farne un martire del pensiero e si trascura quanto l’inquisitore
Matranga dice circa i vagabondaggi e le sortite ladronesche del
monaco agostiniano: scrive da cane il frate della Santa Inquisizione
- si dice - ma se deve definire il valore dell’eretico frate
racalmutese “la penna gli si affina, gli si fa precisa ed
efficace”. E così a Racalmuto è ora ‘fino’ attribuire a
qualcuno - a proposito e non - quella locuzione matranghesca.
Si
deve credere all’Inquisitore quando si arrabatta nel retorico
addebito al frate di colpe dello spirito (bestemmiatore ereticale,
dispreggiatore delle Sagre Imagini, e de’ Sagramenti ..
superstizioso ... empio ... sacrilego .. eretico non solo, e
Dommatista, ma di sfacciatissime innumerabili eresie svirgognato, e
perfido difensore). Non è invece più consentito dargli ascolto
quando accenna alle tendenze di fra Diego a vivere da ‘fuoriscito,
e scorridore di campagna, in abito secolaresco’ tanto da finire
nella maglie della giustizia ‘laicale’. Ora il nostro
grande Sciascia ama fare lo ‘sprovveduto’ e risponde di no al
quesito: «se nell’anno 1644, in Sicilia, un individuo pervenuto al
secondo degli ordini maggiori ma dedito a scorrere le campagne in
abito secolaresco, dedito cioè ai furti e alle grassazioni, potesse
invocare, una volta catturato dalla giustizia ordinaria, il foro del
Sant’Uffizio; o dalla giustizia ordinaria essere rimesso al
Sant’Uffizio come a foro a lui competente; o dal Sant’Uffizio,
per uguale considerazione, essere sottratto alla giustizia
ordinaria.»
Di
questi tempi bazzichiamo l’archivio segreto del Vaticano alla
ricerca delle notizie sul vescovo spagnolo di Agrigento Giovanni
Horozco Covarruvias y Leyva, finito all’indice nel 1602 per avere
scritto un’operetta in latino, ove malaccortamente il presule si
era sbilanciato ai fogli dal 119 al 230 «in diverse figure et
proposizioni» risultate indigeste alla potente e prepotente famiglia
dei del Porto del capoluogo agrigentino. (5)
Da un contesto di canonici libertini e concubini, maneggioni e
corrotti, affiora la figura di un canonico cantore e dottore, imposto
dalla curia papale per l’esercizio della giustizia della lontana
diocesi di Sicilia. Non è personaggio gradevole, ma della giustizia
del suo tempo - che è poi tanto prossimo a quello messo sotto accusa
da Sciascia - doveva pure intendersene. Dalle sue ammiccanti
relazioni alla Congregazione sopra i vescovi ci va di stralciare
questo illuminante passo: «Nella Diocese, che è molto grande, vi
sono molti chierici, e molti di essi si sono ordenati per godere il
foro ecclesiastico, già che alcuni hanno chi trenta e chi quaranta
anni e chi più, et hanno il modo ed habilità per ordenarsi, e tutta
volta non si ordinano, e quel che è peggio ogni dì ci fanno
incontrare con li superiori temporali e laici per defenderli delli
errori che commettono e disordini che fanno, vorrei sapere se
conviene à costoro assegnarci un tempo conveniente acciò si
ordinino, e, non lo facendo, dechiararli non essere più del foro
ecclesiastico che sarebbe liberarsi da molti inconvenienti.»
(6).
Alla
luce di queste considerazioni coeve, ci pare che al quesito posto da
Leonardo Sciascia sembra doversi dare una risposta del tutto opposta
a quella contemplata e suffragata dallo scrittore. Un contemporaneo
ebbe, pure, ad interessarsi di fra Diego, il dottor Auria di Palermo
nei suoi notissimi diari di Palermo. Sciascia lo segnala «come uomo
talmente intrigato al Sant’Uffizio, e così ben visto dagli
inquisitori, che era riuscito a far diventare eresia l’affermazione
che il beato Agostino Novello fosse nato a Termini». Quel dottore
acquista, però, tutta intera la fiducia quando ci vuol far credere
che il frate di Racalmuto sia finito nel 1647 (a ventisei anni) tra
le grinfie dell’Inquisizione essendogli stato trovato nelle
“sacchette” “un libro scritto di sua mano con molti
spropositi ereticali”. Ma di un tal crimine - veramente grave
per l’Inquisizione - l’accusatore Matranga tace. Per Sciascia,
l’accorto Inquisitore avrebbe taciuto «ché sarebbe apparso strano
il fatto che un “ladro di passo” avesse scritto un libro». E
dire che gli sarebbe tornato tanto comodo, potendo, per di più,
evitare l’imbarazzo di doversi arrampicare per gli specchi al fine
di conclamare la competenza del Sant’Ufficio.
Lo
scrittore di Racalmuto cercò quel libro per tutta la vita: non ebbe
fortuna. «Volentieri - scrisse con tocco blasfemo - [si sarebbe
dato] al diavolo con una polisa, avesse potuto avere quel libro che
fra Diego scrisse di sua mano con mille spropositi ereticali, ma
senza discorso e pieno di mille ignoranze». Credette che «gli
atti del processo, e il libro scritto di sua mano agli atti alligato
come corpus delicti, si consumarono tra le fiamme, nel cortile
interno dello Steri, il Venerdì 27 giugno del 1783».
Molto
più semplicemente, invece, se un libro eretico fosse stato
rinvenuto, sarebbe stato bruciato con tanto d’intervento della
Sacra Congregazione dell’Indice. Ma Diego La Matina - erculeo,
sanguigno, ‘ladro di passo’, appena ventiseienne - non pare tipo
da scrivere libri. Arriva al secondo degli ordini maggiori, il
diaconato: è quindi ad un passo dal sacerdozio che, tra messe e
prebende, era all’epoca anche un invidiabile traguardo economico.
Non procede, però: si ferma ed a ventitré anni si dà alla macchia
da ‘fuoriuscito’ e diviene ‘scorridor di campagna, in abito
secolaresco’. Sembrerà un’amenità, ma non lo è: la fuga dal
convento di S. Giuliano per l’avventura palermitana sarà stata una
fuga dallo scarso cibo del convento (e dalla dura disciplina) con cui
il gigantesco giovanottone, tutto appetito (in ogni senso) e scarso
cervello (non è in grado di approdare al terzo ordine maggiore), non
riesce a convivere. Per rendersene conto, basta scorrere la rigida
regola degli agostiniani del tempo.
Allora,
essere sorpresi a “scorridar campagne” non era una bazzecola.
Sempre in Vaticano, tra gli atti del processo di beatificazione del
contemporaneo p. La Nuza, gesuita, si rinviene la descrizione di un
evento che si attaglia al caso nostro. Alcuni compagni di religione
del padre La Nuza, dagli altisonanti nomi aristocratici, battevano le
campagne dell’Alcantara, in Messina, per loro cosiddette Missioni
che erano poi qualcosa di molto simile alle nostre predicazioni del
mese mariano. Si imbatterono in briganti di passo, alla fin fine
benevoli con loro, a riverbero della fama di santità del celebre
padre La Nuza. Presero, sì, qualcosa, ma i padri, in cambio di una
solenne promessa di non sporgere denuncia alcuna, ebbero salva la
vita. I gesuiti non mantennero la promessa. Appena incontrati i
militari di pattuglia, rivelarono la loro avventura. La caccia
all’uomo fu immediata e proficua. I ‘ladri di passo’ ebbero
subito segnata la loro sorte: furono senza indugio giustiziati sul
posto. (7)
Il
latrocinio di passo era crimine da condanna a morte. E tale rimase
anche ai primi dell’ottocento, sotto i Borboni, ad Inquisizione
cessata, pur dopo lo scioglimento del Sant’Uffizio da parte del
conclamato Marchese Caracciolo. Negli archivi della Matrice di
Racalmuto leggesi un atto di morte di un brigante datosi alla macchia
(così ce lo accredita Eugenio Napoleone Messana) che desta tuttora
grande raccapriccio: era il 23 novembre 1811 ed il ‘miserandus’
- un uomo di 42 anni - «susceptis sacramentis penitentiae et
viatici, necato capite multatus a Tribunali nostrae regiae Curiae
Criminalis, animam in patibulo expiravit, in medio plateae et
resecatis capite et manibus: corpus per me D. Paulo Tirone sepultum
[fuit] in ecclesia Matricis, in fovea Communi», come a dire che
il “povero disgraziato, confessato e ricevuto il Viatico, dopo
essere stato condannato alla decapitazione dal Tribunale penale della
nostra regia Curia, spirò sul patibolo in mezzo alla piazza, avendo
avuto tagliate testa e mani: il suo corpo, con l’accompagnamento di
me Sac. D. Paolo Tirone, fu seppellito in Matrice, nella fossa
comune.” (8)
Il
Matranga sostiene che il frate di Racalmuto aprì i suoi conti con la
giustizia, non certo, per questioni ideali, per eresia o per le sue
idee, ma solo perché datosi al brigantaggio in abiti secolari, pur
essendo già un diacono. A prenderlo fu la Corte Laicale che ebbe a
passarlo, per lo stato religioso del monaco, al Tribunale del Santo
Ufficio. Non abbiamo elementi per non credere al Matranga. Anzi, la
vicenda appare del tutto plausibile. Fu dunque una fortuna per fra
Diego La Matina potersi avvalere del Tribunale dell’Inquisizione,
diversamente i suoi giorni li avrebbe finiti subito, a 23 anni, nel
1644. I crimini commessi sono per l’accusatore P. Girolamo Matranga
fatti delittuosi ascrivibili alla ‘crudeltà’ del frate
agostiniano (giudizio che lo si rigiri come meglio aggrada, resta
sempre di censura morale) e a ’libertà di coscienza’, locuzione
oggi adoperata più per esaltare che per condannare. E Sciascia vi si
appiglia per la glorificazione di quel tipo di reo. Nel linguaggio
del tempo, quel modo di dire alludeva, però, solo alla sfrenatezza
dei costumi, a non avere coscienza morale, o ad averla sfrenata,
libertina.
«Siamo
convinti, - scrive Sciascia, nella “Morte dell’Inquisitore” op.
cit. pag. 222 - convintissimi, che nel giro di quattordici anni il
Sant’Ufficio poteva ben riuscire a fare di uomo religioso, che
dentro la religione in cui viveva mostrava qualche segno di libertà
di coscienza (l’espressione è del Matranga) un uomo assolutamente
religioso, radicalmente ateo». Lo snaturamento del pensiero del
Matranga è fin troppo scoperto. L’intento polemico e l’idea
preconcetta giocano un brutto scherzo allo scrittore, peraltro sempre
molto circospetto. Il Tribunale dell’Inquisizione era non migliore
degli altri organi di giustizia dell’epoca, ma neppure peggiore se
si faceva a gara nell’invocarne la competenza per sfuggire alle
corti laicali. Si leggano le pagine del Di Giovanni in “Palermo
Restaurato” così lapidarie nel descrivere le manfrine del conte di
Racalmuto Giovanni del Carretto per sottrarsi alle grinfie del
Viceré, conte d’Albadalista, e darsi in pasto all’Inquisizione.
La fece franca da un irridente assassinio. 9
E la
misera storia di fra Diego si chiude con un omicidio: del suo
aguzzino, si dirà, ma sempre uccisione era. Una tragica legge del
taglione venne applicata. Stigmatizziamo pure quell’esecuzione
capitale, ma parlare di martirio, è blasfemo.
La
mamma di fra Diego non ebbe motivo di scagliarsi contro la chiesa.
Era una terziaria francescana, intrisa di tanta pietà cristiana.
Morì, assistita dai frati racalmutesi, con esemplare forza d’animo
e tanto attaccamento al Cristo, senza alcuna voglia di ribellismo
eretico. Pianse, sì, il figlio, ma lo pianse come un infelice
peccatore, giammai come un eroico martire, dal “tenace concetto”.
L’archivio della Matrice è pieno di testimonianze al riguardo.
Andava opportunamente consultato. Ma era lettura ostica. Riandando
indietro nel tempo, un antenato di fra Diego La Matina fu Vincenzo
Randazzo, un giurato racalmutese che ebbe parte di rilievo nelle
tassazioni del 1577; nell’adunata presso l’«ecclesiola della
Nunziata» pare addirittura farla da presidente del consiglio
popolare. Viene indicato con il titolo di Magnifico, ma è plebeo,
forse appartenente alla piccola borghesia agricola, un “burgisi”
come si direbbe oggi. La madre di Diego La Matina era una Randazzo,
famiglia questa genuinamente racalmutese. Il padre di Diego La
Matina, Vincenzo, era invece figlio di un oriundo da Pietraperzia.
Tralascio
l’irrisolta questione della vera identità di fra Diego La Matina.
Non è per nulla poi certo che corrisponda al condannato a morte il
Diego La Matina battezzato da don Paolino d’Asaro il 15 marzo 1621
in base a quest’atto che va correttamente così letto:
Eodem
[nello stesso giorno del 15 marzo 1621 quarta indizione] DIECHO
f.[figlio] di Vinc.° [Vincenzo] et Fran.ca
[Francesca] La matina di Gasparo giug. [giugali o coniugati] fui
ba—tto [battezzato] per il sud.^ [suddetto e cioè don Paolino
d’Asaro] p./ni [patrini] iac.°
[ illeggibile secondo Sciascia, ma
in effetti Jacopo o Giacomo]
Sferrazza et Giov.a
[Giovanna] di Ger.do
[Gerlando] di Gueli.
Sovverte
ogni consolidata credenza sul frate dal tenace
concetto la presenza a Racalmuto nel
1664 (anno a cui risale la seconda delle numerazioni delle anime
della parrocchia della Matrice che ci sono state tramandate) - e cioè
a sei anni di distanza dell’esecuzione dell’agostiniano fra Diego
- di tal clerico Diego La Matina che ha tutta l’aria di essere lo
stesso che era stato battezzato nel 1621.
In
definitiva, la vicenda emblematica di fra Diego La Matina ci appare
un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo
scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista
secentesco e prese alla lettera accuse palesemente gonfiate. Un fra
Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e
comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta,
invece, - come si è detto - che un chierico di tal nome dimorasse
nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Il dato
della più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi
Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi, è
sconcertante: va indagato. Forse non si riferisce al frate
giustiziato a Palermo, ma un ragionevole dubbio lo inculca. Per nulla
al mondo stipuleremmo una polisa
con il diavolo per risolvere un tale rebus; porteremmo tanti ceri per
convenire con Sciascia sulla nobile eresia di fra Diego; temiamo
purtroppo che Sciascia abbia irrimediabilmente travisato i fatti
della veridica storia del turbolento fraticello di Racalmuto.
L’atto di donazione della contea di Racalmuto da parte di Girolamo II del Carretto
in favore del figlio Giovanni V del Carretto
Assistito
dal notaio racalmutese Angelo Castrogiovanni, Girolamo II del
Carretto si produce in uno strano atto di donazione ai suoi figli
della contea di Racalmuto e di tutti gli altri beni che possiede. E’
il 4 luglio del 1621. Non ha ancora raggiunto i ventiquattro anni.
Nomina la moglie “governatrice”. Il fratellastro don Vincenzo del
Carretto ha un ruolo preminente come esecutore delle volontà del
conte, ma non appare beneficiario di alcunché. Cosa mai sarà
successo? Forse è stato un trucco per aggirare le imposte spagnole,
sempre lì in agguato. Forse sentiva alito di morte dietro la nuca.
L’atto
viene nascosto dai gesuiti di Naro. Mistero, anche qui. Resta un
fatto provvidenziale: quando, l’anno successivo, un servo spara al
giovane conte una schioppettata - se concediamo fede totale alla
trascrizione settecentesca del cartiglio che si conserva (o si
conservava?) nel sarcofago del Carmine - quell’atto di donazione
universale torna molto acconcio. Il figlioletto Giovanni può
assurgere a conte incontrastato come quinto con tal nome. La sorella
- Dorotea - ha beni sufficienti per aspirare ad un matrimonio
altamente prestigioso. I due fratellini, carucci e distinti, vengono
ritratti dal pennello di Pietro d’Asaro nel bel quadro della
«Madonna della Catena» (le pretenziose note 10
di coloro che vi scorgono i ritratti di Maria Branciforti e di
Girolamo III del Carretto, quando sarebbero stati “promessi sposi”,
sono davvero inverosimili.)
Quel
sotterfugio della consegna dell’atto di donazione ai gesuiti di
Naro - quale si coglie nella varia documentazione disponibile - resta
in ogni caso inspiegabile visto che il 27 luglio del 1621 il rogito
era stato insinuato nella conservatoria notarile della Curia Giurazia
di Racalmuto sotto tutela del notaio Grillo. Un tocco di mistero in
più.
Il 2
aprile del 1619 era frattanto nato il primogenito destinato alla
successione nella contea. Nel cartiglio del Carmine il conte Girolamo
II è dato per ucciso da un servo sotto la data del 6 maggio del
1622. Stranamente, alla Matrice, il suo atto di morte suona così:
[Dal
Libro dei morti del 1614. Alla colonna n.° 83, n.° d’ordine 17 è
annotato:]
Die
2 dicto (maggio 1622), il ill.mo d. Ger.mo del Carretto fu morto et
sepp.to in ecc.a S.ti Fra.sci per lo clero.
Ecco
un ulteriore elemento d’incertezza che si aggiunge al quadro
tutt’altro che chiaro delle vicende feudali racalmutesi di questo
conte ucciso a soli venticinque anni. Don Vincenzo del
Carretto, ormai non più arciprete, che sembrava essersi eclissato
negli ultimi tempi della vita curtense racalmutese, eccolo ora
riapparire vigile ed intrigante accanto alla vedova Beatrice
Ventimiglia. Costei frattanto era divenuta principessa di
Ventimiglia, come unica erede del genitore, il citato Marchese di
Geraci. I documenti la chiamano principessa di Ventimiglia.
Sembra
donna energica. Dopo due anni dalla morte del marito, ne riesuma le
spoglie dalla tomba di famiglia di San Francesco e le tumula nel
grifagno sarcofago descritto da Sciascia al Carmine. I francescani
non le dovevano essere simpatici: i carmelitani riscuotevano, invece,
le sue preferenze.
Giovanni
V del Carretto non ha manco sei anni per avere un qualche peso: la
contea è ora davvero nelle mani della giovane ma volitiva vedova.
I tempi dell’interregno di Beatrice del Carretto Ventimiglia.
Non
erano passati molti mesi dalla esecuzione del giovane conte Girolamo
II che dei ladri audaci si erano introdotti nel castello per compiere
una vera e propria razzia. L’ordine pubblico a Racalmuto era
oltremodo precario: furti, abigeato, rapine nelle campagne (fascine
di lino, “vaxelli” di api, frumento, buoi “formentini”) sono
ricorrenti. La vedova Facciponti tutrice dei figli ed eredi di
Antonino Facciponti, disperata, non ha altro da fare che invocare le
sanzioni spirituali (una scomunica a tutti gli effetti) per gli
incalliti malviventi che la curia vescovile accorda di buon grado. 11
La curia invia il provvedimento al rev.do arciprete. Vi leggiamo dati
sul feudo di Gibillini, su quello di Laicolia. Sappiamo di furti alla
vedova di “molta quantità di filato, robbi di lana, robbi bianchi
.. denari et altre robbe, stigli di casa et di massaria”. Se da un
lato si ha il disappunto per siffatte malandrinerie, dall’altro c’è
la piacevole sorpresa di venire a sapere che sussisteva uno stato di
discreto benessere in diffusi strati della popolazione racalmutese
del Seicento.
Ma
la crisi dell’ordine pubblico, qui, investe addirittura l’avvenente
giovane vedova del conte. Sempre gli archivi vescovili ci
ragguagliano su un’altra scomunica, stavolta comminata ai ladri del
castello. Il 3 settembre 1622 12
altra missiva al locale arciprete (e qui è ribadito che non è più
don Vincenzo del Carretto, che peraltro è ancora vivo). “ Semo
stati significati da parti di donna Beatrice del Carretto et
Ventimiglia - recita il monitorio vescovile - contissa di detta terra
nec non da parti di don Vincenzo lo Carretto tutori et tutrici de li
figli et heredi del quondam don Ger.mo lo Carretto olim conti di
detta terra qualmenti li sonno stati robbati occupati et defraudati
molta quantità di oro, argento, ramo, stagni et metallo, robbi
bianchi, tila, lana, lino, sita, cosi lavorati come senza, et
occupati scritturi publici et privati, derubati debiti et nome di
debitori, rubato vino di li dispensi ... animali grossi et vari
stigli con arnesi, cosi di casa come di fori.” Un disastro dunque.
Don
Vincenzo del Carretto riemerge come tutore dei figli del
fratellastro. Affianca la cognata che in quanto donna, anche se
contessa, non ha integra personalità giuridica per l’ordinamento
del tempo. Ella necessita di un “mundualdo”, compito che ben
volentieri l’ex arciprete si accolla. Ed in tale veste lo
ritroviamo nei processi d’investitura del piccolo Giovanni V del
Carretto risalenti al 1621 (vedansi gli esordi dell’investitura n.
4074 del 1621 sotto la data del primo settembre 1621 13
). Ma non è da pensare che la volitiva vedova concedesse troppo
spazio al cognato anche se prete. Nell’anno di vita del conte
Girolamo II del Carretto successivo al bizzarro (almeno per noi che
scriviamo a distanza di quasi quattro secoli) atto espoliativo di
donazione universale, il potere di donna Beatrice del
Carretto-Ventimiglia è già esclusivo. Figuriamoci dopo che il poco
ingombrante marito si era fatto uccidere da un servo. La tradizione
tutta racalmutese di corna, di servi amanti, di perdoni adulterini
etc. un qualche fondamento ce l’avrà pure. Indulgervi, però, da
parte nostra, sarebbe fuorviante.
La
vedova riaffiora dalle ombre del passato con contorni netti allorché,
mietendo la peste vittime desolatamente, si decide di postulare al
potente cardinale Doria una qualche reliquia di Santa Rosalia, atta a
debellare il flagello in paese. Il culto di
Santa Rosalia è ben provato in Racalmuto, sin dal primo decennio del
1600, un quarto di secolo almeno anteriore alla discutibile
invenzione delle spoglie mortali in Monte Pellegrino al tempo del
cardinale Doria. In un appunto manoscritto del 15 ottobre del 1922
rinvenibile in Matrice, si riferisce - credo dall'arciprete Genco -
che Santa Rosalia sarebbe nata a Racalmuto nel natale del 1120. Le
prove documentali le avrebbe avute il canonico Mantione ma le avrebbe
distrutte per dispetto al vescovo riluttante a finanziargli la
pubblicazione di un suo libro. Tra l'altro, in quell’appunto
manoscritto leggesi che «fui il 13
ottobre 1921 nella Biblioteca Nazionale di Palermo ed ebbi il piacere
di leggerlo [un libro del Cascini] per summa
capita. » In
quel libro si parla di antiche iscrizioni e di chiese anche fuori
Palermo. Viene inclusa "quella
di Rahalmuto,
della quale non appare altro millesimo, che questo M.CC.
ed il muro è guasto"».
Il testo riportato dall’Arciprete
Genco non comprova certo che il 1200 fosse la data di costruzione di
quell'antica chiesa, essendo sicuramente abrase le successive lettere
della data, appunto per quel 'muro guasto'. II mio spirito laico mi
spinge ad essere alquanto scettico sull'attendibilità di tante
notizie contenute nel manoscritto: è certo, comunque, che di esse
ebbe ad avvantaggiarsi il padre gesuita Girolamo Morreale nel suo
"Maria SS. del Monte di Racalmuto" , stando a quel che si
legge nelle pagine 23, 24, 69, 97, 98, 99 e 101.
Senza dubbio la fonte storica sulla Chiesa di Santa Rosalia più
antica ed accreditata è quella del Pirri. (A pag. 697 abbiamo
un’esauriente notizia). Il passo, in latino, può venire così
tradotto: «A Racalmuto v'era una chiesetta [aedes] - antichissima -
che risaliva all'anno 1400 circa. Fino al 1628 vi si poteva vedere
dipinta un'immagine di santa Rosalia in abito d'eremita e portante
una croce ed un libro tra le mani. Purtroppo, è andata distrutta per
incuria di alcuni, ormai tutti presi dalla nuova chiesa dedicata
alla medesima Vergine, di cui venerano alcune reliquie, essendosi
peraltro costituita una confraternita denominata delle Anime del
Purgatorio. La chiesa ha rendite per 70 once.» Non saprei se la
nuova chiesa di Santa Rosalia sia sorta in altro posto oppure sopra
quella vecchia. Quella vecchia, nel 1608, collocavasi nel mezzo della
bisettrice Carmine-Fontana. Sappiamo che si trovava dalla parte della
parrocchia di S. Giuliano.
Per
uno studioso del luogo non vi sono dubbi: «la chiesa di Santa
Rosalia eretta nell’omonimo rione fu sempre la medesima dal 1593,
anno dal quale inizia la documentazione consultabile, sino al 1793,
anno di cessione dell’ “edificio” al sac. Salvatore Maria
Grillo.»
Di
recente, ricercatrici universitarie hanno ritenuto un rudere
(ampiamente fotografato) nei pressi della Barona essere l’antica
chiesetta di S. Rosalia. E’ tesi che respingiamo: la Santa Rosalia
del 1608 doveva ubicarsi nella parte sud-est di via Marc’Antonio
Alaimo, qualche isolato a ridosso dell’attuale Corso Garibaldi. I
documenti vescovili sembrano non dare adito a dubbi. Certo, c’è da
interpretare l’aggettivo “nuova” usato dal Pirri. Per “nuova”
chiesa si deve intendere un edificio nuovo ubicato altrove o il
riadattamento del vecchio stabile? Un interrogativo, questo, che non
ha ancora soluzione certa. Non si sa neppure dov’era ubicato il
rudere venduto al nobile sacerdote Salvatore Maria Grillo, e dire che
siamo nel recente 1793. L’abate Acquista parla nel 1852 di ben
quattro distinti luoghi di culto in vario modo dedicati a Santa
Rosalia. Il citato studioso locale non intende dar credito
all’Acquista.
Don
Vincenzo del Carretto si fa rilasciare un nulla osta ecclesiastico
dalla curia vescovile agrigentina, costruisce la chiesetta della
Modonna dell’Itria; la dota piuttosto consistentemente. Non gli
porta fortuna: tra il 1624 ed il 1625 scocca il suo ultimo giorno di
vita terrena. Crediamo sia una delle vittime del flagello endemico
che in quel biennio si abbatté a Racalmuto. Il giovane medico Marco
Antonio Alaimo - trasferitosi a Palermo - dava preziosi consigli ai
fratelli rimasti in paese. Non potevano avere - e non avevano -
grande efficacia.
Donna
Beatrice del Carretto esce indenne dalla peste del 1624. La troviamo
ancora solerte e dispotica nel 1626. Ella ha deciso che le reliquie
di Santa Rosalia, portate a Racalmuto il 31 agosto 1625, vengano
traslate da S. Francesco alla nuova (o rimessa a nuovo) chiesetta di
Santa Rosalia.
Nella
nuova chiesa di Santa Rosalia - che entra sotto la tutela della
locale Universitas - il culto della santa è intenso. Il comune si fa
carico di una lampada ad olio perennemente accesa. La delibera è
adottata dai giurati dell’epoca Francesco Fimia, Giacomo Montalto,
Benedetto Troiano e Francesco Lauricella. Ma non varrebbe nulla senza
il benestare della potente vedova. E’ il giorno 18 aprile 1626. “Ad
effectum in dicta ecclesia Sancte Rosalie detinendi lampadam accensam
ante magnum altare ubi est collocata Reliquia sancta dictae dive
Rosalie pro sua devotione et elemosina et non aliter nec alio modo”,
sanziona un comma della decisione comunale. “Praesente ad hec
ill.me D. Beatrice del Carretto et Xx.liis comitissa dictae terre
Racalmuti tutrice eius filiorum et affittatrice status eiusdem terre
Racalmuti”, soggiunge il documento. La contessa avalla ed autorizza
l’impegno giurazio: diversamente il tutto sarebbe stato senza
effetto. Va invece bene “quoniam predicta ipsa D. Comitissa sic
voluit et vult et contenta fuit et est”, giacché essa signora
Contessa così volle e vuole, fu contenta ed è contenta.
Per
di più “la predetta signora Contessa per la devozione che nutre
verso la suddetta chiesa di Santa Rosalia e la sua santa reliquia,
graziosamente concedette e concede quale tutrice e balia dei predetti
suoi figli, alla venerabile chiesa di Santa Rosalia ed alla
confraternita in essa esistente che si possa celebrare la festività
con fiera in luoghi congrui ed opportunamente benedetti, da
scegliersi dai signori Giurati. E siffatta festività e fiera
(festivitas et nundinae) volle e vuole, nonché ne diede incarico e
ne dà essa signora Donna Beatrice Contessa come sopra acciocché
siano franche, libere ed esenti dai diritti di gabella spettanti al
signor Conte della terra di Racalmuto. E l’esenzione vale per otto
giorni cioè a dire da quattro giorni dalla detta festa sino a
quattro giorni dopo». Un editto feudale con tutti i crismi come si
vede. Ma è l’ultimo atto della chiacchierata contessa Beatrice del
Carretto Ventimiglia di cui siamo a conoscenza che testimonia la sua
presenza a Racalmuto. Dopo, si sarà trasferita a Palermo. Il figlio
resta sotto la sua tutela sino al diciottesimo anno. Nell’archivio
di Stato di Agrigento sono conservati i documenti del convento del
Carmelo di Racalmuto. Vi si rintraccia una nota comprovante i diritti
del convento a valere sulle doti di paragio di donna Eumilia del
Carretto (argomento in seguito sviluppato). Vi si legge fra l’altro:
«Don Joannes del Carretto comes Racalmuti et Princeps de XX.lijs ...
concessit cum auctoritate donnae Beatricis del Carretto et XXlijs
Comitissae Racalmuti et Principissae XX.lijs eius curatricis seu
procuratricis» Era il 7 maggio 1636. 14
E già ad Agrigento imperversava il vescovo Traina.
GIOVANNI V DEL CARRETTO
Giovanni
V del Carretto non lascia traccia alcuna di sé a Racalmuto. Vi
nacque soltanto (6 aprile 1619); gli si danno quattro nomi: Giovanni
Francesco Carlo Giuseppe; i padrini non sono illustri: Leonardo
Scibetta e Giovanna La Conta; l’arciprete non reputa di
somministrare il battesimo, delega don Giuseppe Sanfilippo.
Nell’agosto del 1621 Girolamo II ritiene di abdicare a suo favore:
è un bambino di quattro anni. L’anno dopo è già orfano di padre.
Qualche anno ancora a Racalmuto e subito dopo il 1626 emigra a
Palermo, senza dubbio nella nuova residenza che il padre Girolamo
aveva un tempo comprato dai Vernagallo .
La
giovinezza di Giovanni IV a Palermo dovette essere davvero
scapigliata; ricco, senza veri freni inibitori, con una madre che
ormai non ha peso alcuno, con consiglieri predaci e compiacenti, è
proprio sulla via che lo porterà alla forca allo Steri nel 1650, per
una dubbia partecipazione ad un colpo di stato, in cui veramente
implicato era il cognato che furbamente se la squaglia in tempo.
Sciascia
sbaglia dati anagrafici ma non personaggio quando scrive «il terzo
[Girolamo, ma in effetti era Giovanni V del Carretto] moriva
per mano del boia: colpevole di una congiura che tendeva
all’indipendenza del regno di Sicilia. E non è da credere si fosse
invischiato nella congiura per ragioni ideali: cognato del conte di
Mazzarino per averne sposato la sorella (anche questa di nome
Beatrice [errore anche qui: invero si chiamava Maria Branciforte,
n.d.r.]), vagheggiava di avere in famiglia il re di Sicilia. Ma
l’Inquisizione vegliava, vegliavano i gesuiti: e, a congiura
scoperta, il conte ebbe l’ingenuità di restarsene in Sicilia,
fidando forse in amicizie e protezioni a corte e nel Regno. Una
congiura contro la corona era cosa ben più grave dei delittuosi
puntigli, delle inflessibili vendette cui i del Carretto erano
dediti.» 15
Ma
passando dalla letteratura alla storia, è bene attenersi a quello
che sul nostro conte scrisse Giovan Battista Caruso: 16«Rappresentava
il Giudice a costoro, che l'accennato conte del Mazzarino (il quale
avea nome D. Giuseppe Branciforte), essendo indubitato successore del
principato di Butera, che godeva la prerogativa di primo titolo del
regno e di capo del braccio militare, potea con l'appoggio de' suoi
parenti e de' suoi amici aspirare ad essere riconosciuto per principe
di tutto il regno, e così li persuase facilmente a scuoter dal collo
il giogo straniero in tempo, che, mancata la legittima successione
degli Austriaci di Spagna, e minorata di forza e di autorità la
monarchia spagnuola, poteano i Siciliani ristabilire l'antica gloria
della nazione, e godere come prima un re proprio ed interessato al
comune vantaggio.
«Di
tali false lusinghe ingannati gli accennati nobili, e più di ogni
altro il conte di Mazzarino, si unirono al consiglio degli avvocati e
pensarono davvero all'elezione di un nuovo principe nazionale [tutto
ciò per la falsa notizia della morte di re Filippo IV]. Al contempo
i due avvocati Giudice e Pesce tramavano [p. 117] in favore del duca
di Montalto, personaggio di maggiore importanza e che con più
simulazione aspirava al principato. Seppe egli da D. Pietro
Opezzinghi, suo confidente, i dubbi promossi per la successione al
regno di Sicilia ... Introdottone dunque col mezzo dell'istesso
Opezzinghi il trattato co' due avvocati e con gli altri lor
confidenti, e molto cooperandosi a tal disegno il celebre D. Simone
Rao e Requesens, cavaliere, che alla nobiltà della nascita
accoppiava una sopraffina politica e grandissima destrezza nel
maneggiare gli affari, avvalorossi una tal pratica a segno tale, che
si vide in breve accresciuto il numero de' congiurati con persone di
prima qualità, fra le quali il conte di RAGALMUTO, cognato di
quel del Mazzarino, D. Giuseppe Ventimiglia, fratello del principe di
Geraci, l'abbate D. Giovanni Gaetani, fratello del principe del
Cassaro, D. Giuseppe Requesens, fratello del Principe del Cassaro, D.
Giuseppe Requesens, fratello del principe di Pantelleria. D.
Ferdinando Afflitto, de' principi di Belmonte, D. Pietro Filingeri,
fratello del marchese di Lucca, e molti altri.
«[p.118]
Certo però si è, che, ito egli [il conte di Mazzarino] a trovare il
padre SPUCCES, uomo de' più stimati allora fra' Gesuiti, e
confidatogli tutto il trattato, lo richiese di consiglio e di aiuto.
[.....] Fu rispedito il MERELLI [genovese e spia] in Palermo con un
ordine [da parte del vicerè Don Giovanni] al capitano di giustizia,
che era allora don Mariano Leofante, ed al pretore della città D.
Vincenzo Landolina, di assicurarsi prima di ogni altro degli
avvocati. Il che riuscito ... servì ai congiurati di porsi in salvo
[e cioè] l'Opezzinghi, l'Afflitto, il Filingeri ed il Requesens ...
prima che don Giovanni d'Austria colà venisse; il che fu a' 12 di
novembre dell'intero anno 1649. Uscì ancor fuori dell'isola il conte
di Mazzarino per sua maggior sicurezza.... e ben potea fare l'istesso
il conte di RAGALMUTO suo cognato. Temendo però egli
d'incolparsi maggiormente con la fuga, lusingossi di non venir
nominato come complice da' due avvocati e dall'abbate Gaetano, caduti
nelle mani de' regi. Mentre però il Vicerè era ancora a Messina,
confessarono il Gaetani ed il Giudice tutto ciò, che sapevano
dell'accennata consulta; ed ancorché il Pesce ed insieme il
procurator Potomia negassero costantemente avervi avuto parte, furono
tutti condannati alla morte. Allora il Giudice, che di tanto male si
conosceva la prima cagione, dettò in difesa de' compagni una sì
eloquente orazione, che dal Ronchiglio consultore del vicerè venne
onorato l'infelice suo autore col titolo di Tullio Siciliano.
«Né
meno dell'eloquenza del Giudice fu ammirata l'intrepidezza e la
costanza del Pesce, il quale pria di morire scrisse alla madre una
moralissima lettera. Giustiziati costoro, fu ancor maggiore la
discussione del processo del conte di Ragalmuto, e
nella corte la compassione. Corse anche voce, che fosse a lui
facilitata dal viceré stesso la fuga, per non macchiarsi le mani nel
sangue di un sì nobile e principalissimo barone: ma non ostando a
ciò il segretario Leiva, gli fu concessa almeno la scelta della
morte. Contentatosi intanto il viceré D. Giovanni del castigo di
costoro, fu imposto silenzio alle accuse contro gli altri, de' quali
il numero era assai grande, e principalmente contro il duca di
Montalto, a cui la grandezza della casa, la quantità de' parenti, il
numero de' vassalli ed il pericolo di suscitare nuovi torbidi
servirono, per così dire, di scudo.»
La
cronaca dell’incarcerazione e dell’esecuzione di Giovanni V del
Carretto ce la fornisce un diarista palermitano: quel Vincenzo Auria
che Sciascia infilza impietosamente forse perché non tenero con fra
Diego La Matina .17
Non credo che se ne possa mettere in dubbio l’attendibilità
cronachistica. Seguiamolo, dunque:
«Martedì,
11 di detto [gennaio 1650]. Fu preso D. Giovanni del Carretto conte
di Ragalmuto, come uno dei capi principali della congiura. [v.
pag. 359]
«A
dì 14 di detto [gennaio 1650]. - [...] Ma se è vero ciò che si
diceva, egli [il Pesce] aveva consigliato il conte di Mazzarino, che
in caso della morte del re poteva farsi re di Sicilia, come primo
signore del regno, e che il conte, posto a cavallo con le genti del
conte di Racalmuto la notte di Natale di nostro Signore, doveva
occupare il castello ed uccidere gli Spagnoli. [v. pag. 364]
«Sabbato,
26 [febbraio 1650] di detto. Fu affogato privatamente dentro del
castello D. Giovanni del Carretto conte di Ragalmuto, e nell’istesso
modo il dottor D. Antonino lo Giudice. Il conte fu convinto da
testimonii d’avergli sentito dire, ch’egli rimproverava il conte
del Mazzarino della tardanza del suo trattato, e che gli aveva
promesso molte genti a cavallo de’suoi vassalli, per effettuare
quanto egli aveva machinato. Ebbe il conte di Ragalmuto molto tempo
da fugire e liberarsi del pericolo della vita; ma infatti, violentato
dal suo avverso destino, dimorava a Palermo e vi passeggiava, come
non avesse mai avuto nessuna parte ne’ disegni del conte del
Mazzarino. Onde fu stimata giustissima disposizione di S.A. e suoi
ministri, per non avergli perdonato la vita, usando sopra tutti
egualmente il meritato castigo.» [v. pag. 367]18
Forse
il conte qualche parola pietosa la meritava, ma Sciascia - come si è
visto - è stato inflessibile. E dire che forse fra quei vassalli di
cui Giovanni V disponeva a Palermo, pronti ad un colpo di stato,
c’era proprio fra Diego La Matina, allora un giovanottone scappato
dal convento ed abbagliato dalle chimere della capitale palermitana.
Ma a
parte questa storia di vassalli racalmutesi agli ordini di Giovanni V
del Carretto, non riusciamo a cogliere un qualche spunto che possa
legare la vita terrena del nostro conte con le faccende del nostro
paese.
Il testamento di donna Aldonza e le pretese del monastero di Santa Rosalia di Palermo
Tra
le altre sventure Giovanni V del Carretto ebbe quella di essere
pronipote della terribile donna Aldonza del Carretto, proprio quella
che passa per benefattrice di Racalmuto per avervi voluto il chiostro
femminile della Badia.
Donna
Aldonza era figlia, come si disse, di Girolamo I del Carretto, il
primo conte di Racalmuto che lasciò ben sei figlie femmine (la
stessa Aldonza, Diana, Ippolita, Giovanna, Eumilia e Margherita) e
tre figli maschi (Giovanni IV, Aleramo e Giuseppe). Sull’erede
Giovanni IV caddero i pesi del cosiddetto “paragio” - una
cospicua dote per ogni fratello e per ogni sorella. Pare che il
violento conte non se ne desse eccessivo pensiero. Snobbò
principalmente di dotare le sorelle specie quella zitellona che fu
donna Aldonza. Questa non glielo perdonò mai, pure sul letto di
morte. Redasse un testamento, tanto pio quanto subdolo verso l’inviso
fratello conte. Lo escluse, innanzi tutto, dal nutrito numero dei
suoi eredi universali,19
che invece limitò alle sorelle donna Diana, donna Ippolita, donna
Giovanna, donna Eumilia e donna Margherita del Carretto «...eius
sorores pro equali portione, salvis tamen legatis, fidei commissis,
dispositionibus praedictis et infrascriptis».
Dopo
aver fatto alcuni lasciti per la sua anima ed aver dato le
disposizioni per l’erezione del convento di Santa Chiara, si
ricorda del non amato fratello maggiore Giovanni in questi termini:
«..et perché a detta D. Aldonza ci competiscono li doti di paraggio
sopra lo stato di Racalmuto et beni di detto quondam suo Padre una
con li frutti di essi doti, pertanto essa D. Aldonza testatrici
declara volere detti doti di paraggio una con li detti frutti di essi
et volersi letari di quelli, in virtù di tutti e qualsivoglia leggi
et altri ragioni in suo favore dittarsi et disponersi, non obstante
si potesse pretendere in contrario, in virtù di qualsivoglia
testamento et dispositione, delle quali leggi in suo favore
disponenti, essa voli et intendi servirsi et usari in juditiarij et
extra, sempre in suo favore, conforme alle leggi et ragione di essa
testatrice tiene, le quali doti di paraggio, una con li frutti di
quelle, siano et s’intendano instituti heredi universali per
equale porzione atteso che di li frutti detti doti ni lassao et lassa
à D. Gio: lo Carretto conte di Racalmuto suo frate onze duecento una
volta tantum pro bono amore et pro omni et quocumque jure eidem Don
Joanni quolibet competenti et competituro et non aliter.
«Item
dicta testatrice vole et comanda che della liti la quale have fatto
di conseguitare la sua legittima che non ni possa consequire più di
onze 600, oltra di quelli li quali essa D. Aldonza testatrici si
ritrova havere havuto; li quali onze 600 essa testatrice lassao et
lassa à d. Gio: Battista et D. Eumilia del Carretto soi soro oltre
della loro portione [parte corrosa, n.d.r.] [di cui
alla] presente heredità modo quo supra fatta et hoc pro bono amore
et non aliter..»
Il
chiostro di Santa Chiara aprì i battenti poco prima del 1649. Ad
Agrigento (Archivio di Stato - inventario n. 46 Vol. 533) si
custodisce il “Libro d’esito del Venerabile Monasterio di S.
Chiara fundato in questa terra di Racalmuto dell’anno terza
inditione 1649”. La prima registrazione è del 24 agosto 1649.
Dalla morte della testatrice (1605) alla realizzazione dell’opera
passano dunque 44 anni. Se non vi furono latrocini, dovettero essere
spesi 4.400 onze, come dire due miliardi e mezzo circa delle nostre
lire pre Euro. Tutto quel tempo impiegato per costruire il convento,
ha dell’inspiegabile; ma alla fin fine le sorelle superstiti di
donna Aldonza (o i loro eredi) rispettarono la volontà testamentaria
della terribile virago. Nel chiostro, però, non andarono solo
giovanette chiamate dal Signore di bisognevoli condizioni economiche.
Verso la fine del Seicento vi può entrare una Lo Brutto. L’omonimo
arciprete annota nei libri della matrice: «Victoria
figlia di Giaijmo LO BRUTTO e della quondam Melchiora, entrò nel
monastero di Santa Clara per monacharsi di questa terra di Racalmuto
a 24 giugno 8.a Ind. 1685 in presenza dell'Ecc.mi Sig.ri d. Geronimo
e Donna Melchiora del CARRETTO conte e contessa di detta terra,
dell'ecc.mo Prencipino don Gioseppe et ill.mi donna Maria e donna
Gioseppa figli di d.i sig.ri eccell.mi - Dr don Vincenzo LO BRUTTO
Archip. di detta terra.»
Nel 1807 il convento è ormai luogo di preghiera (o di frustrazione) delle sole signorine di buona famiglia che i genitori reputano di non dovere sposare per esigenze di bilancio familiare. Dovevano bene ricordarsene i Matrona, i Savatteri, i Grillo, i Vinci, i Farrauto, i Cavallaro, gli Alfano, i Tulumello, i Tirone, quando con le leggi Siccardi, dopo l’Unità d’Italia, non parve loro vero di arraffare i beni della chiesa e di trasformare quel convento secolare in una fabbrica di San Pietro per sperperare soldi pubblici in nome del decoro della costruenda casa comunale. Ed oggi, la chiesa ove vennero sepolte quelle “poverette” è luogo di raduno pubblico e vi si fanno concerti profani, sopra le obliate ceneri di quelle monache. Neppure una lapide a ricordarle. (Basterebbe scorrere i libri di morte della Matrice per farne una doverosa ricognizione). Neppure un fiore. Neanche un segno esteriore, un monito. I soldi di donna Aldonza sono stati rapinati dai governi sabaudi. Anche a Racalmuto, alla fine, risultarono stregati, come la sua non molto pia donatrice testamentaria.
Il
fatto poi è che il testamento di donna Aldonza, per una sorta di
nemesi storica, viene riesumato a danno del nostro Giovanni V del
Carretto. Un documento del Fondo Palagonia ci svela l’arcano. 20
E’ il 10 ottobre del 1645: Giovanni V del Carretto ha ora 36 anni,
sta a Palermo, non crediamo che avesse voglia di fare dei colpi di
stato per far nominare re di Sicilia il cognato, il conte di
Mazzarino. E’ costretto a stipulare un contratto (in effetti una
transazione) con il dottore in utroque Giuseppe Bonafante. Su
questa figura di prelato vedasi il Nalbone. (21)
Si trattava in effetti del “procuratore generale e protettore del
venerabile convento di Santa Rosalia” in Palermo.
Costui
aveva ottenuto dal consultore Don Diego de Uzeda una “provvisionale”
datata 5 luglio 1643. L’ingiunzione seguiva ad una sentenza del 5
maggio 1643 che investiva in pieno il conte di Racalmuto. Questi
veniva condannato a pagare entro un mese al monastero di Santa
Rosalia di Palermo «dotes de paragio D. Aldonzae, d. Margaritae, d.
Eumiliae et d. Joannae de Carretto», le doti di paragio (quelle che
abbiamo prima citate) di quattro delle sorelle del trucidato conte
Giovanni IV del Carretto. E non era una bazzecola: si trattava di
once 7.687, diciassette tarì e tre grani. Un calcolo in moneta
attuale? era la cospicua cifra di quasi quattro miliardi e mezzo. Ma
che diavolo era avvenuto?
Come
si disse, anche sul letto di morte presso il tenebroso convento di
Santa Caterina, donna Aldonza del Carretto non si acquietò contro il
fratello Giovanni per la faccenda del paragio. V’era in corso una
causa: la vecchia non voleva che con la sua morte, la lite andasse in
nulla a favore del fratello. Stabilì dunque che il paragio, dedotte
duecento onze per tacitazione dei diritti del conte del Carretto,
finisse alle sorelle che istituiva sue eredi universali. In base ad
una clausola del testamento di Donna Aldonza, il destino del futuro
conte Giovanni V del Carretto viene segnato. E siamo nel giorno 31
marzo del 1605.
Nel
1625, sotto l’egida di un sacerdote troppo intraprendente, sorge
una sorta di monastero patrocinato e sovvenzionato dalle tante
sorelle del Carretto. Sia come sia, le doti di paragio di Donna
Aldonza, donna Margherita, e donna Eumilia vengono fagocitate dal
convento. Si sostiene che sarebbero state devolute per volontà
testamentaria in dote del chiostro palermitano.
Attorno
al 1635, l’indomabile prete Bonafante intenta causa, quale
protettore e procuratore del convento di Santa Rosalia in Palermo,
contro il sedicenne conte Giovanni V del Carretto. Si nominano
periti, si fanno conteggi, si tentano espedienti formali, ma il 15
luglio del 1643 don Diego de Uzeda, consultore di Sua eccellenza,
condanna irrimediabilmente il giovane conte ad una cifra enorme.
Sulla base delle ricostruzioni contabili di tal Gaspare Guarneri, il
conte - sui beni di Racalmuto - deve corrispondere a quell’alieno
convento di Santa Rosalia 7.687 onze, 17 tarì e 3 grani (abbiamo
detto circa quattro miliardi di lire). Il conte soprassiede, ma il 10
ottobre del 1645, la pretesa viene elevata ad onze 7.977.29.9.
A
questo punto il conte, un po’ più agguerrito, si rammenta di
paragi pagati, di biancheria pregiata fornita in dote, di altri
pagamenti a quelle tremende prozie. Sarebbero oltre mille onze da
decurtare dalla pretesa conventuale. Inoltre, chiede che si nominino
altri periti di sua fiducia. E’ una corsa ad ostacoli ...
giudiziari. Soprattutto si offre la cessione dei diritti di baglia di
Racalmuto. Questa offerta torna gradita agli organi giudicanti. Il
padre Bonafante annusa la trappola e si oppone. Le suorine
palermitane giammai sarebbero state in grado di conseguire quelle
tassazioni sui poveri e riluttanti racalmutesi.
I
diritti di baglia su Racalmuto erano ingenti: 823 onze annuali.
In
un arido documento palermitano v’è comunque uno spaccato delle
condizioni economiche di Racalmuto che va qui sottolineato. Ogni capo
famiglia doveva dunque corrispondere al conte 12 tarì per il tugurio
ove abitava; era lo jus proprietatis del feudatario che stava a
gozzovigliare nell’opulenta capitale panormitana. Non desta
meraviglia che i 1.500 fuochi (per una popolazione di oltre 5.000
abitanti) tenessero ad apparire alloggiati in dimore povere, non
idonee a sopportare quell’imposta catastale, ed erano abili nel
vantare titoli d’esenzione. Il prete Bonafede lo sa e non vuole
incappare nelle astiose incombenze esattoriali avverso evasori e
gente con pretese di ogni sorta di franchigia (preti, monache,
conventi, indigenti, confraternite etc.)
Non
accetta la cessione dei diritti feudali e congegna un accordo con il
conte: ridurre il tasso da 5 a 4%, ma il pagamento della rendita
annua (ma perpetua) dovrà avvenire sotto la diretta responsabilità
del conte e dei suoi successori e con la garanzia di tutte le entrate
feudali di Racalmuto. Giovanni V del Carretto sembra ora più
avveduto - o ha migliori consiglieri. Dice che gli sta bene il minor
tasso ed il diverso modo di pagamento delle rendite annuali, ma è la
sorte capitale che va tutta revisionata.
Contrario
in un primo momento è il sullodato sacerdote Bonafede. Ma deve, il
prete, fare buon viso a cattivo gioco. Si consegue l’avallo delle
superiori autorità. La conclusione è una soggiogazione da parte del
conte di Racalmuto per onze 160, 3 tarì e grani 7 annuali, in favore
del monastero di Santa Rosalia in Palermo. La mappa agricola di
Racalmuto c’è tutta: i gravami feudali messi in bella mostra; i
dati sui mulini dell’epoca hanno il fascino della rievocazione e
inducono ad un interessamento nei riguardi di questi antichi opifici,
spesso capolavori di ingegneria idraulica, che oggi, diruti ed
abbandonati, corrono il rischio di sparire per sempre.
L’intricato
carteggio si conclude con l’accordo transattivo che nel suo nucleo
essenziale contiene i termini giuridici della soggiogazione delle
predette 160 onze (più tre tarì e sette grani) nella ragione del 4
per cento di un capitale pari ad onze 4.002, 24 tarì e 14 grani. Vi
erano molte riserve: non credo che il monastero le abbia potute far
rispettare. Il conte Giovanni V morì di lì a cinque anni con le
modalità e per le vicende prima ricordate.
Ma
il censo annuale fu corrisposto e, quando in ritardo, con gli
interessi di mora, come sta ad indicare questo resoconto del 1693:
13 Le
onze 253.11.9. pagati al ven. monasterio di Santa Rosalia di questa
città per l'interusurio dell'anno 14^ ind. come per apoca in d.ti
atti a 30 sett. 1692: onze 253, tarì 1, grani 9.=
Alla
fine dunque il conte Giovanni V del Carretto dovette sobbarcarsi a
soggiogare 160 onze a valere sui diritti feudali racalmutesi. Circa
80 milioni di lire annuali prendevano il largo da Racalmuto per
finire nelle ingorde mani degli amministratori del monastero di Santa
Rosalia di Palermo. Nulla legava l’economia racalmutese a quella
claustrale di Palermo: pertanto un esborso a vuoto; un impoverimento
monetario della illiquida realtà curtense dei nostri compaesani del
Seicento. Si dirà: tanto sempre a Palermo andavano quelle imposte.
Se nelle tasche dello scervellato Giovanni V del Carretto o in quelle
del monastero, non v’era poi grande differenza. Magari il fine era
più nobile! Ma si racchiude tutta qua la giustificazione di
quell’asfissiante prelievo fiscale di mera natura feudale.
Giovanni
V del Carretto qualche contraccolpo finanziario lo ebbe. Ebbe bisogno
di alienare un feudo in quel di Cerami. Fu il barone Antonio Grillo
che comprò “il feudo di Donna Maria nel territorio di Cerami -
annota il San Martino de Spucches - avendolo comprato sub verbo
regio da Giovanni DEL CARRETTO, e se ne legge
l'investitura a 16 settembre 10 Ind. 1641 ....”.
Anagrafe di Giovanni V del Carretto – Contestuali vicende feudali racalmutesi
Sarà
il figlio a confermarci i dati anagrafici di questo conte.
Ex
dicto don Hieronymo natus fuit illustris don Joannes de Carretto et
de Viginti Milijs filius primogenitus qui duxit in uxorem illustrem
donnam Mariam Branciforte filiam legitimam et naturalem quondam
illustris don Nicolai Placidi Branciforte, principis Leonfortis, et
Catharinae Branciforte, Barresi et Santapau.
Nella
lontana Racalmuto, la vita scorre come può. Sotto l’arciprete
Filippo Sconduto inizia la controversia per sottrarre la contea
all’indesiderata giurisdizione dell’ingordo vescovo Traina e
passarla a quella del Metropolita di Palermo. Ci informa il Pirri:
dopo
il maggio del 1631, «paucos post menses litterae Romae 13 Decembr. ,
14 ind. exaratae mandato Marci Antonii Franciotti Apostol. Camarae
Auditoris advenere, quibus decretum erat, ut oppida Ducatus Sancti
Joannis et comitatus Camaratae, item et Juliana, Burgium, Clusa et
postea Rahyalumutum dioecesis Agrigentinae in criminalibus, et
civilibus causis ab ordinaria jurisditione subtraherentur et
Panormitano Metropolitae subijcerentur.»
Il
nocciolo della questione era dunque che San Giovanni Gemini,
Cammarata, Giuliana, Chiusa e Racalmuto ne avevano le scatole piene
delle pretese del vescovo Traina. Un delatore, canonico, ebbe a
scrivere in Vaticano che il prelato era talmente sordido ed avaro, da
avere accumulato montagne di denaro contante che deteneva in
cassapanche sotto il letto. La notte, preso da raptus estraeva
le casse, le apriva, e ci si curcava sopra. Questi paesi si
erano consorziati ed avevano adito le vie legali della corte
pontificia, chiedendo di passare da sottoposti di Agrigento a
sottoposti di Palermo. L’uditore della Camera Apostolica, Marco
Antonio Franciotto comunicava l’esito positivo in data 14 dicembre
1631, quando lo Sconduto, sicuramente ispiratore della lite, era già
deceduto. Noi abbiamo cercato di rintracciare in Vaticano questa
importante documentazione; ci siamo riusciti solo di recente, come
sopra si è visto Sappiamo dal Pirri che copia di esse si trova
presso l’Archivio Metropolitano della curia palermitana “in
registr....13 januar. [1632].” Tanto per chi avrà voglia di
cercarle. Inoltre, qualcosa abbiamo trovato nel Fondo Palagonia, ma
quei diplomi ci dicono poco. Disponiamo solo di una scrittura del 4
gennaio 1632 (A.S.P. Fondo Palagonia - atti privati - n.° 631 - anni
1502-1706). Il seguito della faccenda, così ce la racconta il Pirri:
«Quod
Philippo IV, summopere displicuisse, datis ad proregem litteris,
quibus animi sui acerbitatem, ac facinoris indignitatem ostendit,
ipsemet aperte testatur. Romae tandem causa agitata, inataque pace
inter Episcopum et oppidorum dominos, ad pristinum rediere locum
omnia.»
Filippo
IV, dunque, appena saputa la notizia, andò su tutte le furie: se ne
dispiacque proprio summopere, forte ma tanto forte che più
forte non si può, investì in malo modo il viceré a Palermo
scaricandogli la rabbia per quell’impertinenza dei paesi
agrigentini, caduti in un indegno crimine (indignitas facinoris).
Di fronte all’ira del re spagnolo, al viceré toccò prendere penna
e carta e supplicare la corte papale per una revisione della causa.
Forse il vescovo Traina - sicuramente non ignaro di tutti questi
maneggi - avrà profuso anche a Roma il suo copioso denaro (e già
perché anche allora Roma era ... Roma ladrona). Fatto sta
che immediatamente si ridiscute la causa presso la Camera Apostolica
ed ecco che Roma si rimangia tutto: impone la pace tra il vescovo
Traina ed i padroni oppidorum, dei paesi agrigentini: tutto
deve tornare come prima: ad pristinum rediere locum omnia.
Ma
chi erano i domini terrae Racalmuti? Sulla carta Giovanni V
del Carretto. Ma costui - come vedesi nella foto della copertina
della pubblicazione racalmutese su Pietro d’Asaro «il Monocolo di
Racalmuto», ove vi appare con la sorella Dorotea - era soltanto un
fanciullo tredicenne, peraltro trasferitosi a Palermo. Le carte del
fondo Palagonia ci vengono in soccorso. Furono i giurati -
espressione del potere feudale - a volere l’eversione dal vescovo
Traina: basta scorrere l’atto notarile riportato infra
per desumere gli artefici dell’incauta iniziativa: è l’intera
Universitas ma rappresentata e coartata dai seguenti notabili:
Universitas
terrae et comitatus Racalmuti Agrigentine dioecesis ex statu
temporalis dominis comitis dittae terrae Racalmuti legitime
congregata et pro ea Nicolaus Capilli, Benedictus Troianus, Petrus de
Alfano, et ar: me: dott. Joseph Amella uti jurati dittae terrae
Racalmuti
E’
stata l’intera Universitas Racalmuti, ritualmente congregata, e
rappresentata dai giurati, al tempo Nicolò Capilli, Benedetto
Troiano, Pietro Alfano ed il medico dott. Giuseppe Amella. Su costoro
comunque non si abbatté l’ira del re di Spagna. Anzi, nel 1639,
anno di grande miseria, un provvidenziale decreto viceregio impose
sgravi fiscali ed accordò altre agevolazioni ai borgesi
racalmutesi che si cercava di mettere in condizione di seminare
senza le espoliazioni feudali: (22)
Il
Viceré comunica ai Giurati delle terre di Bivona, Adernò, Termini,
RACALMUTO, Bisacquino, Castrogiovanni, Taormina,
Caltavuturo, Mazzara e Lentini le istruzioni emanate sul modo di dare
i soccorsi ai borgesi e massari.
(Trib.
del R. Patrimonio. Lettere viceregie e dispacci patrimoniali, di
Particolari, dell'anno indizionale 1639-1640, f. 48 e s.) - Il
margine si legge che la stessa lettera fu spedita ai Giurati di
Adernò, di Termini, di RACALMUTO, Bisacquino,
Castrogiovanni, Taormina, Caltavuturo, Mazzara. - A pag. 64 del
medesimo registro trovasi riportato la stessa lettera diretta ai
giurati di Lentini.
Philippus
etc.
Locumtenens
et capitaneus generalis in hoc Siciliae Regno nobilibus Juratis terre
Bibone Racalmuti fidelibus regi dilectis salutem.
Siamo
stati informati che per la povertà di borgesi, massari et
arbitrarianti della [contea di Racalmuto] non ponno attendere al
seminerio nè quello coltivare nè fare maysi per l'anno futuro
essendo detrimento al regno et convinendo che un tanto beneficio
universale habbia essecutione habbiamo commesso a voi il negotio
acciò con la diligentia necessaria compliate al dovere conforme
sarrà di giustizia osserbando quanto vi si ordina per l'infrascritti
istrutioni sopra ciò fatti del tenor seguente Videlicet.
Panormi
die octobris 4^ inditioni 1636.
Instructioni
fatti in detto anno sopra il seminerio attorno di far dar soccorso
alli borgisi. Si dovereranno con ogni diligenza informare delli
borgesi che sono in detta [contea di Racalmuto] dell'apparecchio che
habbiano di terre così per seminare come per ammaisare e della
bestiame che hanno per il seminerio presentato per li maysi futuri e
per il governo delli seminati e terre et si sono persone che,
essendo soccorsi, si serviranno veramente del soccorso per seminare e
governare li seminati et a quelli che saranno tali et haviranno
bisogno li farrete soccorrere dalli padroni et affittatori degli
feghi et terri delli quali essi borgesi hanno di apparecchio et in
caso che detti padroni et affittatori non siano abili a soccorrere
essendo habili di denari, farrete che coprino [comprino] li formenti
per dare li soccorsi et in caso chi padroni o affittatori siano
affatto inhabili a dar soccorso ne di formento ne di denari per
comprarli, farrete dar soccorso da persone facultuse habili a darlo
promettendo loro che se li terrà memoria del servito che in ciò
faranno nelle occorrenze et occasioni et che per la restitutione se
li daranno cautele bastanze preferendoli ad ogni altra gravezza
etiamdio delli terraggi [23]
et che per la restitutione non se li concederà per il pagamento di
detti soccorsi dilatione alcuna, declarandosi che essendovi borgesi
che avessero apparecchio o terre di ammaisare baronie, feghi, o terre
disabitate, questi ancora verranno esser soccorsi o di padroni o di
affittatori, o di facultosi del più vicino loco habitato con le
medesime prelationi nel pagamento di soccorso. Li borgesi che si
soccorrino per seminare doveranno dare pleggeria [malleveria]
di seminare quel soccorso che per tal effecto se li da sotto pena di
haver a restituire il soccorso datogli passato il tempo del
seminerio. E Voi passato il tempo suddetto, essendovene fatta
instantia, procedirete alla esecutione delle pene inremissibilmente,
nel tempo del raccolto haverete cura che il primo sia pagato il
soccorso preferendoli ad ogni altro debito quantunque privilegiato,
etiamdio a terraggi o a debiti di bolle che la recuperatione si facci
in prontezza e senza lite. Perciò vi ordiniamo che attorno il dar
soccorso alli borgesi et massari della [contea di Racalmuto]
osserverete et essequirete tutto quello et quanto nelle preinserte
instructioni del seminerio si dichiarando in ciò la diligenza
possibile a cui sortisca e passi innanti il servizio essendo di tanto
benefitio universale al regno e servitio di sua Maiestà che Voi
circa le cose premisse ve ni danno la potestà bastante et cossì
essequirete per quanto la gratia di S. Maestà tenete cara.
Datum Panormi 6 octobris, 8
inditionis, 1639. El Cardinal IOAN DORIA. Dominus
locumtenens mandavit, etc.
Erano
vane promesse, qualcosa di simile alle grida di manzoniana
memoria? Vox clamantis in deserto? Sia quel che sia il cardinale
Doria sembra più commendevole come luogotenente che come
dispensatore delle reliquie di Santa Rosalia. Nell’ottobre del
1639, i borgesi racalmutesi erano davvero in condizioni tali da non
avere più la semente per le loro chiuse? O era un piangere miseria,
veniale peccato ricorrente nel costume contadino di un tempo? Per
avere alleggerite le onnivore tasse?
Gli arcipreti di Racalmuto sotto Giovanni V del Carretto
A
Racalmuto, nella cura delle anime, allo Sconduto era succeduto il
sac. dott. Giuseppe Cicio che dopo un quinquennio cessò i suoi
giorni terreni (+ 6 novembre 1636). Il successore nell’arcipretura,
D. Antonino Molinaro (28 febbraio 1637) dura ancor meno. Subito dopo
muore don Santo d’Agrò (+ 22 luglio 1637) cui infondatamente
Tinebra Martorana, Sciascia e qualche altro ricercatore ancor oggi
vogliono assegnare il merito della moderna Matrice sub titulo S.
Mariae Annunciationis.
Il
Vescovo Traina, frattanto, seduto sulla sponda del fiume aspetta il
momento della sua vendetta. Finalmente può arraffare l’arcipretura
di Racalmuto, vi manda un suo parente da Cammarata: è anche per quei
tempi un giovanotto e risulterà di scarso discernimento. Si chiama
Traina come lui, di nome Tommaso. Vanta un dottorato, chissà se
effettivo. Ha solo 24 anni. Lo segue una caterva di parenti. Molti
sono religiosi e qualcuno finirà la sua vita terrena a Racalmuto
come don Filippo Traina (+ dopo il 1643); altri, i più, finita la
pacchia veleggeranno verso altri lidi, come Giuseppe e Michele
Traina. Particolare menzione merita codesto don Giuseppe Traina che
nel 1639 figura come economo della Matrice, incarico che ricopre nel
1645; nel settembre del 1652 viene indicato come pro-arciprete. Era
stato nel frattempo costruito il convento di Santa Chiara con il
lascito di donna Aldonza del Carretto, che vi aveva destinato taluni
pretesi diritti di mora per mancata corresponsione del “paragio”
da parte del fratello Giovanni IV e dei suoi eredi Girolamo II,
prima; e Giovanni V, dopo.
Don
Giuseppe Traina, pronubi l’arciprete ed il vescovo, diviene l’esoso
cappellano e confessore di quelle pie monache. Nei libri contabili,
reperibili presso l’archivio di Stato di Agrigento, v’è quasi un
pianto per le continue erogazioni che il convento è costretto a
sborsare in favore di questo prete venuto dai monti di Cammarata.
Varrebbe
la pena spulciare le varie note spese che appaiono nei libri
contabili dell’archivio di Stato di Agrigento, presentate dal
Traina al Convento per l’immediata liquidazione, pronto cassa; ma
non è questa la sede per siffatte ricerche di sapore
ragionieristico.
Il
giovane arciprete Tommaso Traina s’impania nella transazione con
gli eredi di don Santo d’Agrò: sobillatore ci appare l’esecutore
testamentario, don Dn. Franciscus Sferrazza, dichiaratosi Legatarius
dicti quondam Dn. Sancti de Agrò. Che cosa abbia disposto in
favore della Matrice don Santo d’Agrò, non mi è ancora dato di
sapere, non essendo stato rinvenuto il suo testamento, nonostante le
tante ricerche. Disposizioni in favore della sua tumulazione nella
chiesa madre - che in quel tempo risulta allargata dagli altari
centrali a quelli laterali, entrambi i primi a sinistra ed a destra
dell’attuale edificio - non dovevano mancare, ma dovevano essere
ambigue ed indecifrabili. Familiari diretti del defunto, sacerdote,
l’esecutore del testamento ed il giovane arciprete addivengono ad
una transazione, come da rogito notarile. Il rogito destò
l’attenzione di Tinebra Martorana, procuratogli pare - guarda caso
- da tal signor Salvatore Sferlazza. Come da quel magari incerto
latino notarile, il Tinebra abbia potuto raffazzonare quel po’ po’
di fandonie che leggiamo a pag. 143 delle sue Memorie è
arcano che non manca di sorprenderci. A dire il vero l’alumbramiento
più che nel casto sacerdote Santo d’Agrò sembra doversi cogliere
nei nostrani scrittori, passati e presenti.
Tralasciamo
qui di scrivere su Pietro d’Asaro, su Marco Antonio Alaimo - che
pure qualche attinenza, non foss’altro d’indole temporale, con il
Traina ce l’hanno - perché divagheremmo troppo, esulando appieno
dai limiti del presente lavoro, volto alla ricostruzione del cilma
storica al tempo del vescovo Traina. Non mancherà tempo per
restituire a Pietro d’Asaro quello che è di Pietro d’Asaro e
togliere a Marco Antonio Alaimo quello che una secolare letteratura
agiografica ha su di lui profuso in superfetazioni.
Il
30 agosto L’arciprete Traina muore a soli 35 anni. Gli atti della
Matrice segnano:
30/8/1648
Traijna Thomaso, arciprete, sepolto in Matrice, gratis;
ed il cappellano detentore dei libri annota:
Il
d.re D. Thomaso Traijna Sacerdote et Arciprete di. questa Terra di
Racalmuto d’età' d'anni 35 et mese cinque si morse et fu sepellito
in questa Matrice chiesa di detta terra. Gratis
Ove
giaccia in Matrice, si è persa la memoria.
Il
4 ottobre 1651, il vescovo Traina, dopo tante peripezie, fra le quali
una fuga notte tempo a Naro, cessa di vivere. Nella macabra cappella
funeraria della Cattedrale fece incidere, in orripilanti caratteri
bronzei, peracri ecclesiasticae
libertatis studio administravit. Chiamò
libertà della chiesa il suo pervicace attaccamento alle cose di
questo mondo, come la giurisdizione sui racalmutesi. Anche da morto
non si smentì. Denis Mack Smith, un protestante, non si
esime, a distanza di secoli, dal punzecchiarlo nella sua Storia della
Sicilia, ma di ciò già si disse.
L’interregno di Maria Branciforti
Eseguita
la pena capitale, i beni feudali di Giovani V del Carretto furono
prontamente requisiti. La Corte però non li trattenne: li concesse
alla vedova donna Maria Branciforti, quale tutrice di don Girolamo
III del Carretto e Branciforti. Con un privilegio di Filippo IV,
rilasciato nel Cenobio di San Lorenzo il 28 ottobre del 1654 e reso
esecutivo in Palermo il 13 novembre 1655, Racalmuto tornò in potere
dei del Carretto.
Il
privilegio di Filippo IV non evita di fare riferimento alla tragica
ma anche ingloriosa fine di Giovanni V del Carretto, ma alla fine
risulta più munifico di quel che ci si aspettasse. Al figlio di
Giovanni V del Carretto andrebbe anche il feudo di Gibillini, ma noi
crediamo che si sia trattato di un errore dei curiali di Palermo.
Donna
Maria Branciforti - evidentemente giovanissima - resta nel 1650
vedova ma con buone rendite specie per i beni paterni. Ma ci pare in
mano di usurai. La sua situazione economica è riepilogata in questo
documento che si conserva alla Gancia di Palermo:
(Anno
1651 vol. 609 - Archivio di Stato Palermo - Gancia - P.R.P.)
Donna Maria del Carretto e
Branciforte, contessa di Racalmuto, cittadina oriunda della città di
Palermo, relitta del Conte, figli don Girolamo di anni 3 e Anna
Beatrice. Rendite: don Nicolau Placido Branciforte, principe di
Leonforte, once 300 ogni anno sopra detto stato di Branciforte che à
raggione del 5% il capitale spetta onze 6000;
inoltre rende ogni anno
donna Margherita d'Austria onze 382 e tt. 5 per il principato di
Butera quale che tiene il capitale di onze 5277 per un totale di
11277 onze, 13 deve a d. Michele Abbarca della città di Palermo onze
2600 per tanto che ci ha dato; deve a donna Maria Morreale e del
Carretto onze 500 per tanto prestatoci.
Giovanni
V del Carretto lascia dunque due figli: Girolamo di anni 2 e Beatrice
di cui ignoriamo l’età.
GIROLAMO III DEL CARRETTO
Girolamo
III del Carretto può dirsi l’ultimo feudatario di Racalmuto della
famiglia carrettesca. Ebbe un figlio: Giuseppe; gli donò la contea
mentre era ancora in vita, sicuramente per ragioni fiscali; ma
Giuseppe era malaticcio; premorì al padre ed a Girolamo III ritornò
la contea di Racalmuto; Girolamo morì senza altri figli maschi; la
contea finì in mano alla moglie del defunto figlio Giuseppe; era
costei Brigida Schittini e Galletti che non seppe mantenere il feudo
racalmutese, finito - previa un’interposizione fittizia di una tale
Macaluso - in mano dei Gaetani.
Girolamo
III del Carretto nasce - crediamo a Palermo - attorno 1648. Con la
morte del padre, la vita in quella città dovette essere ardua. Così
la vedova con i due figlioletti ritorna a Racalmuto, mentre nella
capitale si infittiscono gli approcci per il recupero dei beni
feudali requisiti dalla corte spagnola.
Nel
1660, secondo una numerazione delle anime che si custodisce in
Matrice, i del Carretto costituiscono il 1625° “fuoco” di
Racalmuto con questa composizione:
1625
LA CARRETTA Xxa ECCELLENTISSIMO SIG. DON GERONIMO C.TO ECC.MA SIGNORA
DONNA MARIA C.TA ILLUSTRISSIMA DONNA BEATRICI CARRETTO C.TA
Girolamo
del Carretto è appena dodicenne; frequenta qualche scuola da qualche
prete locale; subisce l’autorità della madre che appare molto
volitiva. S’iniziano i lavori della Matrice e donna Maria
Branciforti è munifica nelle elemosine. La contessa, in effetti,
versa a spizzichi e bocconi la sua “elemosina” di cento onze in
ben 19 rate di disparato importo (da pochi tarì a 30 onze) lungo un
arco di tempo che parte dal 15 dicembre 1654 per concludersi il 10
marzo 1660.
Sembra
che dopo il 1660 la famiglia del Carretto si sia trasferita ad
Agrigento. Girolamo III del Carretto ha voglia (o necessità)
d’intrupparsi nell’esercito spagnolo per andare a fronteggiare
gli invasori francesi nei pressi di Messina nel 1674. Aveva 26 anni.
Non militò a lungo. Tornò a casa, si era sposato con una Lanza.
Decide di abitare nel suo castello di Racalmuto.
Il
San Martino-De Spucches è piuttosto esauriente nel fornirne il
profilo araldico:
«Girolamo
del CARRETTO BRANCIFORTE, figlio del precedente [Giovanni V], per
grazia speciale di Filippo IV ebbe restituiti i beni paterni e con
nuova concessione, data nel cenobio di S. Lorenzo, a 28 ottobre 1654,
fu nominato Conte di Racalmuto; il Privilegio fu esecutoriato nel
Regno, nell'anno IX Indiz. 1655, e propriamente il 13 novembre. In
base al suddetto privilegio egli s'investì a 14 agosto (R. Canc. IX
Indiz. f. 73). Si reinvestì, a 16 settembre 1666, per il passaggio
della Corona (R. Cancell. V Indiz. f. 180). Sposò, in prime nozze,
Melchiorra LANZA MONCADA di LORENZO, Conte di Sommatino, e di Aloisia
MONCADA; sposò in seconde nozze, Costanza AMATO ed ALLIATA di
Antonio, P.pe di Galati, e di Francesca ALLIATA LANZA (Villafranca).
Fu maestro di campo dell'esercito destinato a sedare la rivoluzione
di Messina (1674)24;
Vicario Generale Viceregio a Noto, Girgenti, Licata, Caltagirone;
Pretore di Palermo nel 1682; Gentiluomo di Camera del Re Carlo II a
10 agosto 1688.»
Dal
1682, dunque, risulta residente a Palermo; il richiamo della capitale
era stato anche per lui irresistibile. Ha voglia a Racalmuto di
mettere mano a riforme: affida il vecchio ospedale di San Sebastiano
ai Fatebenefratelli. Da allora si chiamerà di San Giovanni di Dio.
E’ leggibile una copia del privilegio di erezione di quella pia
fondazione. 25
Sono ricavabili questi estremi:
"COPIA
Della fondazione di questo nostro Convento..." "ANNO 1693"
Nell'anno 1693 l'Ill.mo Sig.r d. GEROLAMO DEL CARRETTO E BRANCIFORTE
Conte di Racalmuto e P.pe di VENTIMIGLIA accumulatavi la Pietà, e
Carità dell'Ill.ma D: MELCHIORA DEL CARRETTO e LANZA sua moglie".
...." Ill.mo d: GIUSEPPE DEL CARRETTO BRANCIFORTE, e LANZA suo
figlio. -Bolle Pontificie date in Roma il .. 13|2|1693 .. in Palermo
l'8\4\1693 ed in Girgenti il 20\8\1693".
Il
16 giugno 1670 Girolamo è residente a Racalmuto. Le muore una
figlioletta che viene così registrata nei libri della Matrice:
Domina
Joanna, Ignatia, Antonina Elisabetta filia Ill.mi et Ecc.mi D.ni
Hijeronimi Carretti et Branciforti comitis Racalmuti et principis
XXmiliarum, et ill.me et ecc.me D.ne Melchiorre eius uxor; duorum
annorum et mensium quatuor circiter, in domo palatii h. t. R.ti
animam Deo redidit, cujusque corpus sepultum est eodem die in ecc.sia
S.te Marie de Monte Carmeli in communione S. Matris Ecc.sie presente
clero, congregationibus confraternitatibusque et Senato. GRATIS.
Sappiamo che donna Melchiorra Lanza
morì a Racalmuto il 10 aprile 1701 e vi fu sepolta come attestano i
soliti libri della matrice:
10.4.1701
D. MELCHIORRA LANZA DEL CARRETTO UXOR HIERONIMI PRINCIP.A COMITISSA
RACALMUTI di anni 70 sepolta a S.MARIA DE IESU IN VENERABILI CAP. SS.
ROSARII. Assistita da D. FABRIZIO SIGNORINO ARCIPRETE. Morì in sua
propria domo.
Girolamo
III del Carretto sarebbe dunque rimasto vedovo a soli 53 anni. Tra
lui e la prima moglie vi sarebbero stati diciassette anni di
differenza. Questo, stando ai dati che riportiamo. Confessiamo, però,
di nutrire noi stessi forti dubbi: forse gli anni della contessa
defunta vanno rettificati in soli 50.
Girolamo
III del Carretto appare in vecchiaia fortemente litigioso, stando
almeno alle carte del Fondo Palagonia. Un atto soprattutto. 26
Il conte ha modo di dire di sé:
Ex
ditto d. Joanne natus est illustris don Hieronymus de Carretto et
Branciforte, cuius nomine et pro parte, illustris donna Maria de
Carretto et Branciforte cepit investituram de ditta terra, statu et
comitatu Racalmuti, pro ut per dittam investituram de ditta terra,
statu et comitatu Racalmuti pro ut per dittam investituram sub die
decimo quarto Augusti nonae indittionis 1656 per attum apparet et die
sua melius etc.
Il feudo di Racalmuto a fine del ’600
Ed
ecco come ci descrive il suo feudo, il nostro Racalmuto:
Item
ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente il
fegho nominato di Racalmuto sito e posto in questo Regno di Sicilia
nel Val di Mazzara consistente in salme setticentocinque tummina
quindeci, mondelli tre e quarti dui cioè in salme seicento
cinquantadue, tummina undeci e mondelli uno di terre lavorative e
salme cinquanta trè, tummina dui e mondelli dui di terre rampanti,
valloni, trazzeri ed altri inclusi in dette salme cinquanta tre,
tummina dui e mondelli dui, salme undeci di terra nel circuito, delle
quali e sita e posta la terra [134] che tiene il nome da detto fegho
è posto in menzo delli feghi nominati:
delli
Gibillini e feghi
delli
Cometi;
e
fegho delli Bigini;
del
fegho di Zalora;
del
fegho di Scintilìa;
del
stato e ducato delli Grotti;
del
fegho e principato di Campofranco;
e
fegho della Ciumicìa
e
altri confini ...
Non
v’era dunque dubbio che le terre usurpate dai sacerdoti racalmutesi
erano integralmente sotto la giurisdizione del conte.
Item
ponit et probare intendit non se tamen obstringens etc. qualmente le
contrate nominate di Bovo seu Montagna, Pinnavaira, della Rina seu
Scavo Morto, della Difisa, Jacuzzo, Zimmulù, Caliato, Serrone,
Pietravella, Saracino seu Molino dell’Arco, Menziarati e Culmitelli
sono delli membri e pertinenze del fegho e stato di Racalmuto ed
intra li limini e confini di detto fegho di Racalmuto come sopra
stimato e confinato conforme fù ed è la verità, notorio e fama
publica et nihilominus dicant testes quicquid sciunt, sentiunt,
viderunt vel audiverunt etiam extra capitulum ad intensionem
producentis et - - -
Non
sappiamo come sia andato a finire quel processo. Sorto alla fine del
Seicento, con tutta probabilità non era concluso alla morte del
litigioso conte. Il quale pare ebbe molto a litigare anche con il
figlio che pure aveva dotato della contea ancor prima della sua
stessa propria morte.
Girolamo
III del Carretto non era comunque un mangiapreti: sotto di lui
l’arciprete Lo Brutto - e con il suo esplicito e imperioso avallo -
aveva potuto costituire la “comunia” di Racalmuto con ben dodici
mansionari, adorni di fregi appariscenti.
Religione, clero ed altri aspetti nella Racalmuto post Giovanni V del Carretto.
Al
Traina, frattanto, era subentrato nell’arcipretura don Pompilio
Sammaritano, un semplice dottore in teologia. Porta con sé un
parente sacerdote, don Pietro. Lo nomina subito suo cappellano ed il
racalmutese p. Antonino Morreale viene giubilato e deve emigrare. Lo
segue uno stretto parente, forse un fratello, un tal Francesco
Samaritano sposato con Gerlanda e con una figlia, come ci tramanda il
primo censimento di Racalmuto conservato in Matrice. Già nel 1649,
il nuovo arciprete risulta dai registri della Matrice già in opera.
Nel 1660 è felicemente insediato in paese, ove ha messo su casa
servito da “un famulo” di nome Giuseppe ed una fantesca chiamata
Lizzitella. (il solito censimento è impertinente). Durante la sua
arcipretura piombarono a Racalmuto la moglie ed i figli dell’infelice
Giovanni V del Carretto.
La
contessa ha i suoi guai: deve risolvere i problemi del recupero dei
beni feudali che sono stati requisiti dal re per l’alto tradimento
del marito. Vi riuscirà. I fondi Palagonia contengono, come si è
detto, gli atti di questa avvincente vertenza feudale. Il dottore in
teologia è prodigo di consigli e sa essere di supporto morale.
Frattanto
giunge ad Agrigento il nuovo vescovo Ferdinandus Sanchez de Cuellar.
Il 28 novembre 1654 visita Racalmuto e subito mette in mora
l’arciprete per il latitare dei lavori della fabbrica della chiesa
della Matrice. Il giorno dopo si apre la contabilità dei lavori
edili, il cui pregevole rollo si conserva in Matrice:
LIBRO D'INTROITO ED ESITO di denari
per conto della fabrica della Matrice Chiesa di Racalmuto
incominciando dalli 29 di novembre 8a Ind. 1654,
reca in esordio per la penna di don Lucio Sferrazza. Il depositario
è il dott. don Salvatore Petruzzella, futuro arciprete. I primi
soldi, cioè le prime 12 onze, sono dal vescovo. Ma è un modo di
dire: si tratta delle feroci molte comminate dal vescovo in corso di
visita. E pensare che sotto il vescovo Traina le autorità diocesane
avevano latitato. A noi fa un certo senso leggere:
Dall'Ill.mo
et rev.mo Monsignor frà Ferdinando Sancèz de Cuellar Vescovo di
Girgenti hò ricevuto per mano di D. Alonso de Merlo suo mastro
notaro onze dudici quali d.o Ill.mo Signore ha dato d'elemosina alla
fabrica di d.a matrice chiesa dalle .. pene esatte in discorso di
visita in Racalmuto d. ........ onze -/ 12.
La
pia contessa, vedova sconsolata, è la più munifica nel contribuire
alle spese per la costruzione della Matrice: oltre 100 onze. Ma essa
è la nuova contessa di Racalmuto, a titolo personale: il figlio
Girolamo III riacquisterà la contea il 28 ottobre 1654, ma ne avrà
il diploma solo il 5 novembre 1655, previo pagamento di 200 onze e 29
tarì.
La
posa in opera delle colonne della Matrice - quelle di cui si parlava
nella transazione con gli eredi di don Santo Agrò del 1642 - avverrà
nel marzo del 1655. L’iter dei lavori è seguito passo passo e
studenti di architettura potrebbero utilizzare i rolli della
“Fabrica” per avvincenti tesi sulle chiese del Seicento
siciliano, quelle minori dell’entroterra contadino, come Racalmuto.
Il
Samaritamo muore il 6 gennaio 1664 a 66 anni. Gli atti della Matrice
riportano:
1664
SAMMARITANO Pompilio ARCHIPRESBITER 66 huius matricis Ecclesie
Viene
sepolto in Matrice, presente clero. Aveva avuto l’estrema unzione
da P. Antonio ord. S.
Marie Carmeli.
Gli
succede don Salvatore Petruzzella, finalmente un racalmutese; ma vive
poco: muore il 29 maggio 1666. Non ha il tempo per lasciare tracce
durevoli del suo apostolato.
E’
ora la volta dell’altro arciprete racalmutese: il dott. sac.
Vincenzo Lo Brutto e costui di tempo ce ne ha per lasciare un segno
profondo, al di là della lapide funerea che ancora è visibile nella
cappella centrale della navata laterale di sinistra (per chi entra)
della Matrice. Vanta un elmo chiomato, come se fosse stato un nobile
milite: debolezza del nipote che quella tomba volle.
Il
vescovo agrigentino Sanchez - si pensi quale ofelimità potesse
legare uno spagnolo all’amaro vivere contadino di Racalmuto - regge
la diocesi dal 26 maggio 1653 sino alla sua morte (+ 4 gennaio 1657).
Subentra Franciscus Gisulpfus (Gisulfo) - dal 30 settembre 1658 sino
alla morte (17 dicembre 1664); e poi Ignatius Amico ( 15 dicembre
1666 - + 15 dicembre 1668); Franciscus Ioseph Crespos de Escobar (e
ci risiamo con gli spagnoli) - 2 maggio 1672, + 17 maggio 1674.
Finalmente un buon vescovo per una cattedra durata vent’anni:
Franciscus Maria Rini (Rhini) - 10 ottobre 1676, + 14 agosto 1696.
Chiude il secolo un vescovo discutibilissimo: 26 agosto 1697 - + 27
agosto 1715 (fuori Agrigento, essendone stato espulso dalle autorità
civili per il suo atteggiamento provocatorio scaturente dalla nota
questione liparitana). Su tale controversia ebbe a scrivere Sciascia.
Il valore storico di quel pezzo teatrale fu denegato da Santi
Correnti: comunque, oltre al valore - indubbio - sotto il profilo
letterario, il testo sciasciano ci immerge nel clima politico e
sociale, ma anche religioso e morale di quel tempo. Fu davvero una
iattura il vezzo di preti e religiosi ammiccanti con Roma che
negavano il sacramento della confessione ai moribondi, sol perché
operava un interdetto dovuto all’incauto comportamento di alcuni
catapani che avevano tentato di applicare l’imposta di
consumo ad un munnieddu di ceci o di fagioli - non si è
capito bene - del vescovo di Lipari (nominato, pare, al solo scopo di
provocare un incidente per consentire al Papa di cassare la medievale
concessione della Legazia Apostolica).
Se,
un moribondo - ossessionato dalla sola paura dell’inferno per i
suoi tremendi peccati - in stato di semplice attrizione,
dunque, avesse chiesto un confessore e non l’avesse avuto per
l’interdetto dei fagioli, era destinato alla dannazione eterna?
Verrà mai data risposta a tale quesito? Ci serve per riconsuderare i
tanti, troppi, nostri antenati che tra il 1713 ed il 29 settembre
1728 morirono in tale ambasce a Racalmuto (cfr. registro dei morti
della Matrice).
Annotava
il canonico Mongitore - tanto sgradito a Sciascia - «a 13 agosto
1713. Il vescovo di Girgenti D. Francesco Ramirez, d’ordine del
pontefice, dichiarò scomunicati alcuni regi ministri, che concorsero
al sequestro delli beni del vescovo di Catania.» E soggiungeva: «a
13 settembre. Partì da Palermo D. Isidoro Navarro, canonico della
cattedrale, delegato della Monarchia, per levar l’interdetto dalla
città e diocesi di Girgenti. Entrò egli non da ecclesiastico, ma da
capitano; e armata mano levò il vicario generale il padre Pietro
Attardo, come pure altro vicario Giuseppe Maria Rini, che mandò
altrove carcerati. Mandò lettera circolare per la diocesi, che
s’aprissero le chiese e non s’ubbidisse a detti vicarii.» Le
carte della Matrice ci svelano che il clero racalmutese rimase ligio
ai dettami del vescovo Ramirez e snobbò il canonico-capitano di
Palermo. Più abile l’arciprete del tempo - Fabrizio Signorino -
che in cambio di una bolla della crociata (anche con effetto
retroattivo) poteva consentire cristiana sepoltura in chiesa: per i
non abbienti, pazienza, l’ultima dimora era quella all’aperto
a li fossi. Solo che quelli erano tempi davvero calamitosi e
tantissimi nostri antenati morirono con la paura dell’al di là per
un interdetto che non capivano ( e di cui non avevano responsabilità
alcuna) ed una sepoltura dissacrata dal vento, dal sole e dai cani
randagi.
Quelli
che venivano sepolti in chiesa “gratis pro Deo” godevano di
particolari privilegi: ma gli altri - la gran parte come si è visto
- finivano sepolti all’aperto, anche se ‘prope ecclesiam’
(vicino, ma non dentro); per di più i loro parenti erano talmente
poveri da non potere dare l’elemosina o il c.d. diritto di stola
all’immalinconito cappellano che accompagnava il feretro in quel
derelitto cimitero incustodito. “gratis, pro Deo”, la formula
latina, che era comunque un parlare e scrivere poco ... latino
(nell’accezione sciasciana).
L’arciprete
Lo Brutto fu in eccellente rapporto col vescovo Rini: si fece elevare
a chiese “sacramentali” S.Anna, S. Michele Arcangelo, il Monte.
E’ consultabile la bolla di elevazione della chiesa di S. Anna in
chiesa “sacramentale”. Del tutto analoghe sono le altre, come
quella: Datis Agrigenti die 17 Junii 1686 - fr. Franciscus Maria
Episcopus Agrigentinus - Can Lumia Ass. - Vincentius Calafato M.r
notarius.
Del
pari fece autorizzare l’istituzione della speciale congregazione
dei Filippini a Racalmuto, di cui parla il padre Morreale, ed al
presente oggetto di studio da parte di un ricercatore locale.
Istituisce la Comunia e ne fa nominare i mansionari.
Contro
la devastante peste del 1671 nulla poté fare il povero arciprete, se
non annotare in bella calligrafia la iattura capitata tra capo e
collo; e fu iattura per tanti versi: da quello economico a quello
sociale; da quello dell’umano vivere a quello del decomporsi morale
e spirituale; per il clero con tanti fedeli in meno e quindi tante
primizie assottigliate, per l’arciprete stesso, il cui gregge
veniva drasticamente ridimensionato; per l’Universitas che non
sapeva dove andare a racimolare le onze occorrenti, essendosi
contratta la tassa del macinato per morte di un quarto della
popolazione in un anno; per i suoi giurati che rispondevano dei
tributi alla Spagna con la clausola “solve et repete”; per il neo
conte Girolamo III del Carretto, salassato dal re per il tradimento
del padre Giovanni V del Carretto, dalla mala gestione dei suoi
antenati che non pagando i debiti di “paragio” erano finiti sotto
la mannaia delle condanne giudiziarie al pagamento degli arretrati e
della capitalizzazione degli interessi di mora relativi; ed in più
una sortita beffarda dell’uterina virago donna Aldonza del Carretto
e delle sue similissime sorelle, aveva finito con il dare in pasto
allo spietato convento di S. Rosalia di Palermo gran parte del
patrimonio dei conti di Racalmuto (come abbiamo già raccontato).
Girolamo
III del Carretto, esasperato, si rivalse sui ricchi preti di
Racalmuto - su quelli poveri, che erano tanti, nulla poteva: a sua
chiamata finiscono sotto il torchio della giustizia palermitana.
Girolamo
III del Carretto sembrò benevolo verso la locale chiesa quando fece
venire i padri Benefratelli perché accudissero presso S. Giovanni di
Dio ai malati di Racalmuto e li dotò: ma a ben guardare si limitò
ad assegnare loro le vecchie rendite del vetusto ospedale, la cui
memoria si perdeva nella notte dei tempi. Forse non si astenne
dall’incamerare alcuni lasciti che a suo avviso erano di dubbia
origine.
Girolamo
III aveva contratto matrimonio con una Lanza di Mussomeli, di cui
parla il Sorge nel suo studio su quella cittadina. Era una Lanza
decrepita per anni che riesce a partorire il figlio maschio Giuseppe,
quello che premuore al padre, ed una figlia femmina i cui discendenti
dopo un secolo consentono ai Requisenz di impossessarsi dell’ormai
esausta contea di Racalmuto.
Quanto
fosse addolorato l’ancor possente marito non sappiamo: di certo,
passò subito a nuove nozze. Per il momento non sappiamo fare altro
che dare la parola al Villabianca per la prosecuzione della storia di
Girolamo e Giuseppe del Carretto:
GIROLAMO
del CARRETTO e BRANCIFORTE, investito a 15. Agosto 1656, Fu questi
Maestro del Campo nella guerra di Messina e sostenendo tale carica
prese il Casal di Soccorso, avendo difeso coraggiosamente SAMMICI da'
Colli di Valdina, ed impedì lo sbarco de' Franzesi presso Melazzo
(c) [AURIA Cron. f. 211], onde poi insieme fu eletto Vicario
Generale nella Città di Noto, di Girgenti, Licata e Caltagirone. Fu
Pretore di Palermo nel 1682, Diputato di questo Regno, e gentiluomo
di camera del Ser.mo Rè Carlo II. pubblicato a 10. Agosto 1688 (e)
[AURIA Cron. f. 211]. Sposò nelle prime sue nozze MELCHIORRA
LANZA e MONCADA figlia di LORENZO C. di Sommatino, e poscia ebbe in
moglie COSTANZA di AMATO ed AGLIATA, figlia di ANTONIO P. di GALATI.
Dal primo suo letto coniugale venne alla luce GIUSEPPE del CARRETTO e
LANZA.»
L’arciprete
Lo Brutto morì il cinque febbraio del 1696. Risale al 20 settembre
1699 una relatio ad limina del Vescovo di Agrigento (e cioè
una delle relazioni triennali che i vescovi erano tenuti a fare alla
Sede Apostolica dopo il Concilio di Trento sullo stato della propria
diocesi). Là 27
troviamo un ampio ragguaglio sulla vita religiosa di Racalmuto e val
la pena di richiamarla consentendoci un quadro di raffronto con
quanto emerso dalla documentazione degli archivi statali.
''RECALMUTUM
- Cittadina (oppidum) di cinquemila abitanti sotto la cura di un
arciprete, la cui elezione ed istituzione sono da tanto tempo di
diritto comune. Costui ha per il proprio sostentamento quasi duecento
scudi. Nella chiesa maggiore si recitano quotidianamente le 'hore
canonice' da parte di sacerdoti vestiti con paramenti canonicali
(Almutiis insigniti). Vi sono cinque conventi di religiosi:
-
dei Carmelitani, con tre sacerdoti e due laici;
-
dei Minori Conventuali, con tre sacerdoti e un laico;
-
dei Minori di Regolare Osservanza, con 4 sacerdoti e 3 laici;
-
dei Riformati di S. Agostino con tre sacerdoti e due laici;
-
una casa addetta ad ospedale in cui stanno i frati di S. Giovanni di
Dio, al momento un sacerdote e due laici.
Reputo qui di rappresentare che questi religiosi, dopo avere
accettato di accudire all'ospedale, non hanno giammai pensato di
rinunciare all'istituto ospedaliero, e ne hanno percepito il reddito
dell'ospedale. Ed essendo esenti dalla giurisdizione del vescovo
ordinario, non vi sono forze per costringerli a rinunciare ai
proventi ed a lasciare i locali del convento.
Sorge
un monastero di monache sotto la regola del terzo ordine di San
Francesco ove servono il Signore otto professe corali; due novizie e
5 converse.
Oltre
alla chiesa maggiore ed a quelle conventuali prima segnalate, vi sono
quindici chiese, con quarantasette sacerdoti e trentasei laici.''
Sul
vescovo Ramirez non è poca la letteratura - e noi ne abbiamo fatto
sopra vari riferimenti. Ma qualunque sia il giudizio su questo
presule, una sua pagina è profonda ed illuminante. Vi si scorgono le
scaturigini della mafia.
1
) non ci pare pedissequa la citazione sistina; tanto almeno se
abbiamo ben capito il magistrale lavoro di Sergio M. Pagano e
Giovanni Castaldo sulle visite ad limina dei vescovi di
Piazza Armerina, pubblicato nell’Archivio Storico per la Sicilia
orientale, 1987 fasc. I-III. La dovizia di notizie, la perspicuità
delle note bibliografiche, la conoscenza diretta degli archivi
vaticani rendono quello studio basilare e concisamente esaustivo
sulle visite che ci occupano. Il profluvio di scritti e librario
desta smarrimento e propizia solo dispersiva erudizione. Pagano e
Castaldo ci danno la cifra colta nell’essenzialità del testo per
una circospetta ed avveduta lettura dell’immane mole cartacea che
inonda il ricercatore di microstoria della propria diocesi. Speriamo
che gli insigni autori congedino presto altri lavori su altre
diocesi, magari minori, magari non ricche di spunti storicistici
atti a suscitare gli interessi dei sommi quali, ad esempio il De
Rosa. Vero è che Pagano e Castaldo ci segnalano il Sindoni per
certi orientamenti sulla peculiarità ecclesiastica siciliana ma noi
non abbiamo trovato bussole adeguata nella ricerca sulla diocesi
agrigentina (nelle nostre frequentazioni dell’ASV nel tempo
passato) e su quella del nisseno (oggi oggetto delle nostre
attenzioni). Speriamo che vi ovviino Pagano e Castaldo.
2
) Archivio di Stato Palermo: Palagonia n.° 709 Anni 1613-1749
[n.°
3] Relationes Burgentium Terrae Racalmuti [f. 141-149]
3)
Vedasi la nota apposta nel Libro dei Morti del 1667 presso
l’Archivio della Matrice di Racalmuto. Il 26 agosto del 1667 muore
il padre fra Giovan Battista FALLETTA degli Ordine degli Eremiti di
Sant’Agostino della Congregazione di Sicilia all’età di 63
anni. Ad assisterlo è il confratello P. Salvatore da Racalmuto,
agostiniano, un frate in odore di santità, che solo in questi
ultimi tempi si cerca di farlo emergere dalle nebbie di un colpevole
oblio. Per volontà del vescovo agrigentino fra
Ferdinando Sancèz de Cuellar, invero in esecuzione di
disposizioni pontificie, il Convento di S. Giuliano di Racalmuto
andava chiuso, per carenza di uomini e di mezzi. Fra Giovan
Battista Falletta veniva pertanto sepolto nella Chiesa Madre,
anziché a S. Giuliano, dato che, come viene annotato: «stante
soppressione conventui Sacre Congregationis per decretum sub die 26
augusti 1667». Ma il Convento
riaprì e sopravvisse per un altro secolo almeno.
4)
Leggasi quanto almanaccato in Morte dell’Inquisitore a pag. 182
dell’edizione Laterza 1982. Per inciso, è tutt’altro che
provata la storia del priore agostiniano mandante dell’omicidio di
Girolamo del Carretto, avvenuto il 1° (e non 6) maggio del 1622,
ammesso che di omicidio si sia trattato e non della stroncatura per
“un morbo” del venticinquenne conte di Racalmuto.
5)
Archivio Segreto Vaticano - Sacra Congregazione dei Vescovi e
Religiosi - Anno 1602: positiones D-M.
6)
ASV - SCVR - anno 1601: positiones G-M.
7)
ARCHIVIO VATICANO SEGRETO - SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI - PROCESSI
nn. 28; 2169; 2170.
8)
ARCHIVIO PARROCCHIALE DELLA MATRICE DI RACALMUTO - LIBER MORTUORUM
1811. Dove fosse quella piazza ove veniva eretto il patibolo non
sappiamo con certezza: tutto però induce a pensare che si trattasse
della parte antistante l’attuale Piazzetta Crispi. Il toponimo
tradizionale del «cuddaro» sembra comprovarlo.
L’attribuzione di quel macabro posto alle male esecuzioni
dell’Inquisizione - come fa Sciascia - puzza alquanto di astioso
anticlericalismo.
9)
Vincenzo Di Giovanni - Palermo Restorato - Palermo 1989, libro
quarto, pag. 335. Per un approfondimento si leggano le splendide
pagine di C.G. Garufi: Fatti e personaggi dell’Inquisizione in
Sicilia - Palermo, Sellerio - pp. 255 e 262-263.
10
) Cfr. catalogo su Pietro d’Asaro “il Monocolo di Racalmuto -
Racalmuto 1985 - pag. 72.
11
) Archivio Vescovile di Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f.
230r-231 - die 24 januarii 1623.
12
) Archivio Vescovile di Agrigento - Registri Vescovi 1622-1623 - f.
412v - die 3 settembre VII ind. 1622.
13
) Archivio di Stato di Palermo - Protonotaro del Regno - Processi
investiture - busta n.° 1560 - proc. N.° 4074 - anno 1621-
14)
Archivio di Stato di Agrigento - Fondo 46 - Vol. 508 - f. 35,
15
) Leonardo Sciascia, Morte dell’inquisitore, op. cit. pag. 182 e
segg.
16
) Gio. Battista Caruso, Storia di Sicilia, pubblicata con la
continuazione sino al presente secolo per cura di Gioacchino
di MARZO Palermo 1878 - Vol. IV - LIBRO XIV [p. 116]
17
) Leonardo Sciascia, Morte dell’inquisitore, op. cit. pag. 177.
18
) Dal Diario delle cose occorse nella città di Palermo e nel regno
di Sicilia dal 19 agosto 1631 al 16 dicembre 1652, composto dal
dottor D. Vincenzo Auria palermitano, dai manoscritti della
Biblioteca Comunale a’ segni Qq C64a e Qq A 6, 7 e O - pubblicato
a Palermo nel 1869 da Gioacchino di Marzo (pagine citate nel testo).
19)
vedi testamento reperibile in Archivio di Stato di Agrigento - Fondo
46 - vol. 501.
20)
Archivio di stato di Palermo - Fondo archivistico Palagonia - Serie
Fondi Privati - UNITA’ n.° 636 ff. da 372r a 390r
21)
Da Giuseppe Nalbone: Santa Rosalia (dattiloscritto 1994): pag. 8:
«Che i del Carretto fossero devoti a S. Rosalia è anche dimostrato
dal fatto che le figlie del Conte di Racalmuto Girolamo, Margherita
e poi Diana, Ippolita, Giovanna, Emilia, fondarono in Palermo,
intorno al 1643, un Monastero intitolato alla Santa, sotto le regole
di S. Benedetto, eretto di fronte alla Chiesa Parrocchiale S.
Giovanni dei Tartari, e completato poi dal fratello Aleramo, nella
sede dove don Giovanni Bonfante sacerdote palermitano, nel 1625,
aveva già istituito sotto lo stesso titolo un conservatorio di
donzelle (Gioacchino di Marzo. Biblioteca Storica Letteraria vol.
XIII pag. 287)..
22)
Documenti per servire alla storia di Sicilia - SECONDA SERIE -
FONTI DEL DIRITTO SICULO VOL VII - PA 1911 - PAG. 129 XIII - Palermo
6 ottobre 1639, VIII Ind.
23)
terratico: la somma per l'affitto di un terreno. In Sicilia, il
terratico si corrispondeva in natura, con parte del raccolto del
grano.
24
) Giovan Battista CARUSO, Memorie Storiche di Sicilia,
volume II, parte III, pag. 132 e seguenti.
25
) Archivio di Stato di Agrigento - Soppresse Corporazioni Religiose
- Inventario n. 46 - fascicolo 532.
26
) ARCHIVIO DI STATO PALERMO Fondo archivistico Palagonia - Serie
Fondi Privati - UNITA’ n.° 631 ANNI 1502-1706 Pagine da 126 a p.
143v
27)
Archivio Segreto Vaticano: Agrigentum, relationes ad limina, B18 -
f. 314.
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