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sab 27/02/2016, 17:17
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Calogero Taverna
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“STORIA RELIGIOSA DI RACALMUTO”
Studi e ricerche
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PRIMA DELLA STORIA
Racalmuto si affaccia sulla ribalta della storia - quella almeno documentata - molto tardi: bisogna attendere il 1271 per imbattersi in un diploma angioino ove il casale della diocesi di Agrigento è segnato in termini tali da non lasciare troppi dubbi sulla esistenza del paese. Prima, affiorano solo cenni o spunti che soltanto in via congetturale possono portare a questo centro dall’incerto nome arabo di Racalmuto.
Il toponimo “Racel ...”, ad evidenza corrotto ed incompleto, che trovasi nelle cronache del Malaterra, è da riferire secondo alcuni a questo entro dell’agrigentino: di conseguenza esso sarebbe uno dei dodici borghi arabi soggiogati, violati e ricristianizzati dai lancieri di Ruggero il Normanno, nell’aggiramento per la conquista della Ghirgent di Kamuth. E Racalmuto nient’altro sarebbe che “Racal-Kamut”, Borgo o Fortezza di Kamuth - come del resto lascia trapelare la grafia del toponimo nel diploma del XIII secolo che si custodiva a Napoli, negli archivi angioini.
Altri si ostina a collegare una delle località descritte dal geografo Edrisi, Gardutah, con Racalmuto (come se si trattasse di una corrotta trascrizione del fonema dialettale “Racarmutu”). Altri come Eugenio Messana, invece, reputa che il toponimo Al Minshar sempre dell’Edrisi non sia nient’altro che il Castelluccio.
Non manca certo l’erudizione, ma ci troviamo di fronte solo a vaghe congetture.
Noi, invece, restiamo presi da quanto afferma un archeologo del valore di Biagio Pace che, forse un po’ troppo avvalorando il nostro Tinebra Martorana, propende per la tesi secondo la quale le Grotticelle, sotto la contrada del Giudeo, sarebbero state adattate, nei tempi bizantini prossimi al papa Gregorio Magno, ad ipogeo cristiano.
E sulle ali dell’entusiasmo archeologico, avremmo voglia di ritenere che quella crocetta che è marcata in una Tegula Sulphuris, di cui parla qualche archeologo, stia ad indicare una presenza cristiana a Racalmuto addirittura sotto l’imperatore Commodo. Quelle Tegule - così approssimativamente denominate dal Mommsen - venivano fabbricate e vendute nel quartiere ellenico di Agrigento, ma il loro uso riguardava di sicuro le miniere di zolfo di Racalmuto - quelle della zona di Quattro Finaiti e dintorni. Secondo studi attendibili, questo avvenne sotto l’imperatore Commodo. Forse un liberto cristiano fu inviato nelle officine zolfifere imperiali della nostra terra e nelle sue Tegulae - le antenate delle moderne ‘gavite’ - fece incidere il segno della sua fede: la piccola croce che non è sfuggita agli archeologi della nostra epoca. Se è così, la presenza cristiana a Racalmuto è antichissima, quasi una predestinazione, un pionierismo i cui meriti si sono protratti nei millenni. Racalmuto è stata una chiesa salda nella fede: giammai vi ha attecchito la mala pianta dell’eresia: qualche presenza massone alla fine dell’Ottocento ha rappresentato semplicemente lo snobismo di qualche ex seminarista alla ricerca di intime rivincite o di moti liberatori da psicoanalitici complessi. Diversamente che da Grotte, qui da noi mai si sono avuti fomiti scismatici e giammai si sono espanse sette eretiche. La vicenda emblematica di Fra’ Diego La Matina ci appare un fervido parto letterario del pur grande Leonardo Sciascia. Lo scrittore diede enfasi alle dubbie affermazioni di un cronista secentesco e prese alla lettera accuse palesemente rigonfiate. Un Fra’ Diego La Matina autore di libelli eretici è ipotesi infondata e comunque non potuta documentare dallo Sciascia. A noi risulta, invece, che un chierico di tal nome dimorasse nel 1660 e rigorosamente assolvesse al precetto pasquale. Lo attesta la più antica ‘Numerazione delle Anime’ che gli Archivi Parrocchiali della Matrice hanno tramandato sino a noi.
LE PROBABILI ORIGINI BENEDETTINE DI RACALMUTO
Non v’è dubbio sull’origine araba dell’attuale Racalmuto: il suo nome lo attesta inconfutabilmente, anche se non significa sicuramente Paese Morto o Distrutto o simili assonanze funeree. I modernissimi arabisti (Giovan Battista Pellegrini, in Dizionario di Toponomastica - I nomi geografici italiani - UTET 1990) sconfessano la vecchia lugubre etimologia ma si avventurano in una infondata interpretazione: Racalmuto - dicono - “deriva dall’arabo Rahl al Mudd = uguale Casalis Modi (Cusa 24, 25 e 221) ‘sosta, casale’ del Mudd <latino modium ‘Moggio’ “. “Paisi di lu Munnieddu”, dunque, alla siciliana. Ma di modii e mondelli Racalmuto non ha la configurazione. L’immagine potrebbe valere per il vicino Monte Formaggio di Sutera. Del resto, può escludersi qualsiasi vecchio fonema che suoni simile a Racalmuddo o Racalmullo ed analoghi. Nell’antico diploma, quello angioino che abbiamo citato all’inizio, la grafia - per noi molto eloquente - è quella di rachalchamut.
Uscendo dalle secche della toponomastica, sappiamo di sicuro che per un paio di secoli a Racalmuto ebbero il sopravvento i musulmani. Questi introdussero sistemi di coltivazione degli ortaggi alla stregua di quanto avviene ancor oggi. Certi autori riportati dall’Amari descrivono la coltura delle cipolle con porche e zanelle come tuttora si usa negli orti sotto l’attuale Fontana. (Michele Amari: Biblioteca Arabo-Sicula, Torino 1880 - pag. 305-306: dal Kitab ‘al Falah (Libro dell’Agricoltura di Ibn ‘al Awwam). I secoli dal Nono all’Undicesimo sono sicuramente secoli arabi per Racalmuto. Ma ebbe davvero a sparire il cristianesimo radicato nelle ‘massae’ attorno all’asse Casal Vecchio-Montagna dell’epoca bizantina? Pensiamo di no. Vi fu convivenza tra le due religioni e i due popoli, anche se mancano testimonianze per comprovarlo. Ma non ve ne sono neppure di segno contrario. Forse le tante lucerne funerarie ed i resti archeologici rinvenuti nelle zone del Giudeo potrebbero risalire a quei secoli arabi, e sembrano testimonianze cristiane.
Propendiamo a credere che gli indigeni bizantini di Racalmuto rimasero sul luogo al tempo della conquista saracena; essi continuarono a coltivare grano e vite nelle zone alte del territorio. I vincitori, intere famiglie di coloni, si assestarono nelle valli, vicino alle fonti d’acqua della Fontana, del Raffo ed anche di Garamoli e della Menta, in zone appunto propizie alle loro colture d’ortaggi, in cui erano maestri e che i Rum (i Cristiani) ignoravano. Dai Rum, l’emiro di Girgenti esigeva la tassa capitaria della Gezia, il soldo per mantenere il culto dei Padri e la fedeltà alla propria religione.
Un documento greco del 1178, se per avventura si dovesse veramente riferire a Racalmuto come autorevolmente sostiene il Garufi, proverebbe appieno queste nostre ipotesi.
In effetti, in quel documento greco del 1178 abbiamo il primo attestato storico sul toponimo di Racalmuto, e già siamo ai tempi di Guglielmo II, il Buono. Ebbe a pubblicarlo nel 1868 il grande paleografo siciliano Salvatore Cusa (cfr. I diplomi greci ed arabi di Sicilia, Palermo 1868, pag. 657-658 e pag. 729): vi si parla di una vendita a Berardo, priore di S. Maria di Gadera, di un fondo sito in rahalhammut, per il prezzo di 50 tarì. A venderlo, nel settembre di quell’anno, fu tale Pietro di Nicola Gudelo, insieme alla moglie Sofia ed ai figli Tommaso e Nicola.
Il toponimo Rachal Chammoùt ( ammu) figura scritto in greco e la vendita del terreno viene fatta al lontano monastero di S. Maria di Gadera, sito nei pressi di Polizzi Generosa. Per alcuni studiosi locali, affetti di laico attaccamento alle loro pretese origini musulmane, vi sarebbero le stigmate della sofferenza post-araba di Racalmuto. Terra ormai di schiavi, il suo circondario sarebbe stato spartito tra chiese e conventi e già dal 1093 avrebbe, per di più, subito l’onta dell’assoggettamento alle decime del Vescovo di Agrigento, di cui per volontà dell’invasore normanno era stato ridotto a territorio diocesano subalterno.
Racalmuto normanna ivi citata, invero, è terra piuttosto frazionata: il fondo in vendita confina con parecchi proprietari di terreni che non dovevano essere molto estesi: chorafion è il termine greco usato proprio per significare un fondo non vasto. I nominativi sono: a) Basilio Burrello, b) Martino di don Guglielmo; c) il fu Michele di Rosaneto, sacerdote; d) Niceforo Lipta; e) Rinaldo figlio del chierico Baldi; f) Nicola figlio del prete Michele; g) il fu Giovanni genero di Filax; h) Basilio Gudela.
La preminenza dei ceppi sembra greca, ma i Rinaldo ed i Baldi con i Martino fanno pensare a casati latini e normanni. Una mistura dunque di gente che sembra essersi ripartito il territorio saraceno del nostro paese. Vi si possono leggere i segni dei grandi sommovimenti feudali dei tempi di Margherita e di suo cugino Stefano Le Perche. Racalmuto che non figura mai nei diplomi della Chiesa Agrigentina, appare ora pertinenza di quel priore Berardo che ha tutta l’aria di un monaco benedettino. Forse ebbe ad impossessarsi per soli 50 tarì - cifra sicuramente esigua - di vasti possedimenti cui erano addetti i saraceni del luogo in condizioni di quasi schiavitù; tutto fa pensare che dopo vi mandò i suoi monaci per ergervi un convento e sfruttare le locali culture granarie. Nel 1308, a pagare le decime al Papa per Racalmuto abbiamo due nomi che nulla hanno a che fare con la nostra località, ma che proprio possono collegarsi con i monaci benedettini: Martuzio de Sifolono, titolare della chiesa di S. Maria, chiamato a corrispondere un’oncia per le decime di due anni (1308 e 1310), ed il prete Angelo di Montecaveoso, tassato per nove tarì in relazione all’ufficio sacerdotale che esplicava nel Casale di Racalmuto. Sono testimonianze postume che però sembrano condurci all’erezione del convento di S. Maria, divenuto francescano solo nel secolo XVI.
All’importante e fondamentale diploma del 1178 ci ha portato, dicevamo, il GARUFI, il grande storico cui fa ricorso Sciascia nella ‘morte dell’inquisitore’. Nel suo studio sui ‘Patti agrari e comuni feudali di nuova fondazione in Sicilia’ (cfr. Carlo Alberto Garufi, parte II dell’articolo, in Archivio Storico Siciliano, anno 1947, pag. 34) troviamo, infatti, questa illuminante nota: «soggiungo che l’unica e più antica notizia di Racalmuto, che ci permetta d’indagarne l’origine al di fuori delle cervellotiche etimologie di R a h a l m u t, casale della morte, si ha nella pergamena greca originale conservata tuttavia nel Tabulario di S. Margherita di Polizzi, la quale contiene l’atto di compra-vendita, dell’a. m. 6687, e. v. 1178, feb. ind. XII, di un fondo sito in Rachal Chammout. Sin dalle sue origini il casale fu denominato da Chammout, nome codesto di persona che per due volte ricorre fra i g a i t i testimoni saraceni nel diploma originale, greco-arabo, di Re Ruggiero dell’a.m. 6641, e.v. 1133 feb. ind. XIa ».
Purtroppo l’autorevole storico non ha avuto al riguardo nessun seguito. Non raccolse la tesi su Racalmuto Leonardo Sciascia e non seguono il Garufi storici come il Bresc o arabisti come il Pellegrini (come si è visto prima). Noi abbiamo tentato di confrontare questo documento con altro di analoga portata, alla luce di quanto scrive il Di Giovanni (ARCHIVIO STORICO SICILIANO - 1880: Memorie Originali - Vincenzo di Giovanni: Il Monastero di S. Maria la Gàdera poi Santa Maria de Latina esistente nel secolo XII presso Polizzi. - Pag. 15 e segg.), e francamente siamo rimasti molto dubbiosi sull’effettivo riferimento alla terra di Racalmuto.
Non si riferisca pure a Racalmuto, il documento tuttavia illumina sui processi di colonizzazione dei frati benedettini in quel torno di tempo. E benedettino fu certamente il primo convento che sorse a Racalmuto.
Un passo della Sicilia Sacra del Pirri testimonia della presenza benedettina a Racalmuto. Stralciando dalle colonne dedicate alla “Agrigentinae ecclesiae” (foglio 758 e segg.), veniamo resi edotti dal Netino che «Coenobium cum Ecclesia S. Benedicti prope viam, qua itur Agrigentum, & Rahyalmutum, de suffraganeis Ecclesiae Agrigentinae invenio excriptum in libro Capibr. Eccl. in Reg. Canc. fol. 211; puto id esse hodie Monalium Annuntiatae Musumellis. Olim enim erat coenobitarum eiusdem Ecclesiae Annuntiatae. Vide ibidem». [1] A dire il vero, l’abate Pirri si avvale dei Capibrevi del Barberi che risalivano ad un secolo prima. La descrizione del convento di monache benedettine sotto titolo dell’Annunziata interessa poco Racalmuto e resta una mera ipotesi quella del Netino che vuol far derivare il convento di Mussomeli da quello, già distrutto nel XVII secolo, che sorgeva nel nostro territorio. Quel che rileva è invece l’accenno ben preciso all’abbazia benedettina di Racalmuto. «Trovo scritto - ci par qui di dover tradurre il passo dal latino - nel Libro dei Capibrevi Ecclesiastici nei Registri della Cancelleria, foglio 211, che si ergeva un cenobio con una chiesa dedicata a S. Benedetto presso la via di congiunzione di Agrigento con Racalmuto e rientrava tra quelli suffraganei della Chiesa Agrigentina. Penso che esso sia lo stesso di quello che è oggi il convento di monache dell’Annunziata di Mussomeli. Una volta apparteneva a cenobiti della Chiesa dell’Annunziata. Vedi colà.» Eugenio Napoleone Messana colloca, anche sulla scia di alcuni ruderi archeologici di una cisterna, quell’importante abbazia benedettina al vecchio Campo Sportivo.
Siamo franchi, il Pirri nei passi citati non è né perspicuo né convincente. Se un convento benedettino vi fu a Racalmuto, esso dovette essere ben più antico del 1466, diversamente da quanto sembra ritenere lo storico di Noto. Ai suoi tempi - e siamo attorno al 1630 - non vi erano più memorie documentabili. Nella visita pastorale del vescovo Tagliavia del 1542-1543 non è dato di rintracciare alcun riferimento all’abbazia.
Nella prima decade del 1300 rinveniamo, invece, un sacerdote officiante a Racalmuto che ha tutta l’aria di un benedettino, oriundo di Montescaglioso in provincia di Matera. Trattasi delle decime pagate per gli anni 1308 e 1310 ai Papi di Avignone. I tassati di Racalmuto sono due, come abbiamo avuto modo di dire, ed uno di essi è palesemente designato con il suo nome di religioso: Angelo di Montecaveoso
Costui appare come il primo arciprete di Racalmuto, stando almeno ai documenti disponibili.
L’ipotesi, dunque, che Racalmuto si avvii all’attuale conformazione ad opera dei benedettini non è poi del tutto cervellotica. Dovette avvenire la colonizzazione benedettina attorno al Dodicesimo-Tredicesimo secolo, alla stregua di quanto desumibile dal documento greco di S. Maria di Gadera che abbiamo prima revocato. L’opera contadina e civilizzatrice dei frati per tanti versi ebbe a sopperire alla grave crisi determinata dalla repressione dei saraceni da parte di Federico II.
GLI ESORDI STORICI
Su interessate segnalazioni dei canonici agrigentini, il Pirri non aveva, attorno al 1630, dubbi che la più antica chiesa di Racalmuto fosse S. Margherita Vergine - che secondo postumi documenti appare contigua e collegata con la chiesa di S. Maria di Gesù - e che essa fosse stata fondata nel 1108 da Roberto Malconvenant. Purtroppo, la notizia si basa su un documento dell’Archivio Capitolare agrigentino, che, come ebbe a dimostrare Mons. Paolo Collura, si riferisce a ben altra località, molto probabilmente sita nei pressi di S. Margherita Belice. Sappiamo di certo che S. Maria di Gesù non è chiesa del XII secolo: dobbiamo risalire alla prima metà del XVI secolo per averne indubbi dati documentali.
I primi cenni sulla comunità religiosa di Racalmuto risalgono alle decime avignonesi del 1308 e 1310 che abbiamo già richiamate. Nell’abitato racalmutese vi erano almeno due chiese: quella parrocchiale retta dal cennato p. Angelo di Montecaveoso, e quella forse conventuale dedicata alla Vergine Maria, i cui carichi tributari ricadevano su un tal Martuzio Sifolone (divenuto poi il moderno Scicolone?).
Altra pagina storica insieme civile e religiosa è quella rinvenibile negli archivi avignonesi dell’Archivio Segreto Vaticano sulla presenza a Racalmuto dell’arcidiacono Bertrando du Mazel per numerare i fuochi, stabilirne la capacità contributiva e raccoglierne l’imposta per togliere l’interdetto che si originava dalla rivolta dei Vespri Siciliani. Era l’anno 1375.
Nel 1375 Racalmuto doveva essere un piccolo centro agricolo con non più di 900 abitanti. Nell’ARCHIVIO SEGRETO VATICANO è reperibile il resoconto delle collette redatto in quell’anno dall’arcidiacono du MAZEL (cfr. Reg. Av. 192). Questi era stato mandato in Sicilia per raccogliere il sussidio che doveva servire alla rimozione dell’interdetto per i Vespri Siciliani. Il sussidio andava ripartito in ciascun abitato per case, in rapporto alle condizioni economiche: 1 tarì per le famiglie più povere, 2 per le ‘mediocri’, 3 per le agiate e cioè ‘qualsiasi fuoco di ricchi abbondanti in facoltà’ (cfr. Peri I.: la sicilia dopo il vespro - Laterza, 1982, pag. 235). Il 29 marzo del 1375, il pio collettore (o suoi emissari) giungeva a Racalmuto e trovatovi 136 fuochi raccoglieva il ‘sussidio’ e scioglieva l’interdetto (cfr. AVS - Reg. Av. 162 f.419v). Dato che per ogni fuoco è calcolabile un nucleo familiare medio di 4-5 persone, ne deriva una popolazione di circa 610 abitanti, aumentabile sino a 7-800 se pensiamo ad evasori o a soggetti resisi irreperibili. In un secolo e tre quarti - dal 1375 al 1548, la popolazione di Racalmuto - se le nostre congetture e i dati del Tinebra-Martorana hanno una qualche attendibilità - si sarebbe accresciuta di quasi tre volte e mezzo. Nel successivo eguale lasso di tempo, la crescita si è invece limitata solo al 48,32%, che in ogni caso è tasso di sviluppo normale.
Che cosa sia avvenuto tra il 1375, quando Racalmuto era una modesta terra del potente Manfredi Chiaramonte, e la metà del XVI secolo non è chiaro. Il salto nell’intensità abitativa testimonia comunque un massiccio afflusso di forestieri.
Abbiamo motivo di congetturare che tanti sono giunti dalle terre marine vicine, fuggiti per la paura dei pirati. L’improvviso sviluppo della coltura granaria ha esaltato il fenomeno della immigrazione intensiva. I tanti La Licata sembrano convalidare la prima ipotesi. I molti cognomi di paesi e terre del circondario scandiscono la provenienza di numerosi agricoltori accorsi nei feudi racalmutesi che talora sostituiscono e talora si aggiungono ai patronimici.
Tanti immigrati nel campo dei mestieri, ma ancor più in quello delle mansioni pubbliche, acquisiscono come cognome di famiglia la peculiare attività o funzione svolta. I non pochi Xortino denunciano l’antica carica di maestri di xurta. I maestri xurteri erano al tempo di Carlo d’Angiò i soprintendenti alla sicurezza notturna. Se ne riscontra traccia in documenti del 1270 e se ne ha conferma nel 1282-1283 sotto Pietro d’Aragona.
Non è racalmutese il ‘segreto’ addetto alle gabelle, il magnifico Jacomo Piamontisi: il cognome - e l’incarico - lo denunciano straniero. Il ‘segreto’ era l’esattore dei dazi e delle gabelle ed era denominazione che risaliva al 1296.
Per avere un nome arabo (anche se per noi, il funereo senso di paese di morti andrebbe più gloriosamente cambiato in fortezza di Hammud vuoi in riferimento al mitico condottiero saraceno della caduta di Girgenti vuoi agli omonimi che si riscontrano tra i personaggi arabi del tempo dei normanni), Racalmuto dichiara nel XVI secolo pochi abitanti con nome di derivazione araba.
Se ci limitiamo ai Macaluso, Taibi, Alaimo, forse Burruano e simili, possiamo calcolare in meno di 150 gli abitanti di origine forse araba (su 2215 desunti dai registri della seconda metà del XVI secolo, circa il 6,68%). Forse tanti saraceni, convertitisi per convinzione o per convenienza, si sono mimetizzati assumendo cognomi oltremodo latineggianti. Lo stesso dovette verificarsi per gli ebrei. Costoro, dopo la cacciata della regina Isabella nel 1492 (cfr. G. Picone - Memorie storiche agrigentine, Agrigento 1982, pag. 515 e ss.) o sparirono del tutto a Racalmuto o seppero bene occultarsi: nei nostri dati di archivio, a partire da 50 anni dopo, troviamo un solo nominativo sospetto (Salamuni, cfr. atto di matrimonio dell’8 gennaio 1584 con Contissa vedova Magaluso) che per giunta proviene da Grotte.
Racalmuto non è quel centro che nel 1108, secondo il Pirri, sarebbe stato sotto la giurisdizione di Roberto di Malconvenant, al quale risalirebbe la dotazione della chiesa di S. Margherita Vergine. Gli studi del 1960 del Collura, prima citato, dissolvono quella tradizione, così gradita al Tinebra-Martorana o a Eugenio Napoleone Messana. Il documento che ha dato adito alla credenza che vuole la chiesa di S. Maria risalente appunto al 1108 è quello che si trova nell’archivio capitolare di Agrigento e che in un primo momento aveva indotto in errore lo stesso P. Collura.
L’analisi attenta fa luce sul fatto che trattasi di una ‘ecclesia Sante Marie virginis, que est in casali Rahalbiath’ la quale è gravata verso la curia vescovile di ‘incensi libra I’. Il Collura precisa che non si tratta di ‘Racalmuto, ma di un casale non lungi da Castronovo’ (cfr. Paolo Collura, Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092 - 1282) - Palermo 1961, pag. 65). La confusione, protrattasi nei secoli, si spiega forse con l’interesse della curia ad avvalorare certi censi in quel di Racalmuto. Né ancor meno può riferirsi a Racalmuto un altro privilegio che cita i Malconvenant ed è del 1108 (cfr. ib. pag. 25). Vi si premette che Roberto di Malconvenant aveva ordinato di fabbricare in un suo fondo una chiesa in onore di S. Margherita. Viene quindi precisato che Gilberto, un suo consanguineo, ne aveva curato l’erezione, previo assenso del vescovo Guarino e dei canonici. Ordinato poi chierico, gli viene concessa l’amministrazione dei beni della chiesa, ma è tenuto a versare tre libbre d’incenso alla curia agrigentina.
Annota il Collura: ‘’Non abbiamo nel testo del diploma elementi sufficienti per localizzare questa chiesa di S. Margherita, che probabilmente va identificata con quella ricordata nel doc. n. 27 «ecclesia sancte Margherite virginis, incensi libras III = c/o S. Margherita Belice» e che nella seconda metà del sec. XII pagava come censo tre libbre d’incenso. Tenuto conto che i Malconvenant erano signori del Feudo di Calatrasi (cf. Garufi: I documenti inediti etc. pp. 85-86) e di Bisacquino (cf. l.c. pp. 190-192) si sarebbe indotti a pensare che essa possa essere localizzata in quella zona; tuttavia la nota dorsale ci indica con chiarezza che si tratta di quella chiesa attorno alla quale nel sec. XVI fu edificato il paese di S. Margherita Belice (cf. Scaturro, I, p. 246)”.
Svanita la prova di un luogo sacro risalente al 1108, quel documento ci chiarisce almeno come in quel tempo potesse sorgere un centro agricolo, per esempio, in un castello saraceno che si vantava di risalire al buon Hammud quale è da pensare fosse Racalmuto.
Il Malconvenant dona ad un suo consanguineo delle terre con degli schiavi saraceni. Un parente, un militare in disarmo, vi costruisce una chiesa (una chiesa di S. Maria vi è pur sempre a Racalmuto: non risale al 1108, ma nel 1310 è operante ed il suo presule, martuzio de silofono, versa un’oncia al papa per le decime <cfr. ASV - Collect. 161 f96r>). Viene dal vescovo fatto chierico per amministrarla. Le terre di pertinenza sono vaste. Ad accudirle penseranno i saraceni. Così recita il documento agrigentino: ‘hec sunt nomina rusticorum, quos predictus Robertus Sancte Margarite donavit: alibithumen, hben el chassar, sellem eblis, mirriarapip abdelcai, maimon bin cuiduen, hii quinque’. Scomunica per chi vi attenta; benedizioni per chi ne accresce la ricchezza: ‘ Si quis - aggiunge il vescovo - vero ecclesiam Sancte Margarite Agrigentine Ecclesie omnino subiectam circa possessiones eius in aliquo defraudaverit, anathema sit; qui vero eam aut de rebus mobilibus aut immobilibus augmentaverit, gaudia eterne vite cum sanctis peremniter percipiat’.
Con siffatta benedizione, anche Racalmuto ebbe a prosperare.
Nel 1308 e 1310 anche un altro religioso pagava le decime a Roma. Era meno ricco, ma pur sempre tassato come risulta dalle Rationes Collectorie Regni Neapolitani - 1308/1310 (ASV-Collect. 161 f97v). «Presbiter Angilus de Monte Caveoso pro officio suo sacerdotali quod impendit in Casali rachalamuti solvit pro utraque (decima)......tt. (tarì) IX».
Si rammenti che 30 tarì formavano un’oncia. I frutti di S. Maria valevano oltre tre volte e un terzo quelli per la cura delle anime dell’intero villaggio o ‘casale’ secondo la precisazione del collettore papale. I religiosi di Racalmuto pagano, dunque, 39 tarì per due decime dei primi anni dieci del XIV secolo. Nel 1375, l’intero paese pagherà per liberarsi dall’interdetto 228 tarì, ripartiti tra 136 fuochi.
Dei saraceni, fatti schiavi e condannati alla servitù della gleba, si era frattanto persa la traccia. I pochi nomi che troviamo negli archivi del cinquecento, seppure eredi di quei primi contadini indigeni, hanno ora tutta l’aria di essere i benestanti del paese. Hanno cariche pubbliche. Dominano la scena e sono l’alta borghesia del paese.
Tra la borghesia cinquecentesca non vi è neppur traccia di quelle grandi famiglie che hanno dominato nell’ottocento. Né baroni Tulumello, né gentiluomini come i Messana, i Matrona, i Farrauto, i Picataggi, etc. I maggiorenti di allora quali i d’amella, i la lomia, gli ugo, i piamontisi ed altri si sono dopo volatilizzati da quel di Racalmuto. Alcuni loro eredi prosperano oggi, ad esempio, a Canicattì.
Verso la fine del 500, giungono a Racalmuto ‘mastri’ che vi attecchiranno ed oggi i loro discendenti costituiscono nuclei cittadini onorati e di larga diffusione. savatteri, buscemi, schillaci, rizzo, bongiorno, chiazza, sono fra questi, per fare solo alcuni esempi. Lo comprova un atto matrimoniale che riportiamo a mero titolo esemplificativo:
SAVATTERI (provenienza: Mussomeli 7bris XIIIe Ind.nis 1586 - Vincenzo figlio di Vito et Angila Carlino cum Margaritella figlia di Paulino et Belladonna SAVATERI dilla terra di Mussumeli, servatis servandis et facti li tri denunciatione inter missarum solenia et observato l’ordine sinodali et consilio tredentino, non si trovando inpedimento alcuno, contrassero matrimonio pp.ce in facie ecclesie et foro beneditti nella missa celebrata per me presti Francesco Nicastro, presenti li magnifici notari Cola et Gasparo Montiliuni et notaro Jo:Vito D’Amella et di multa quantità di personj».
IL QUATTROCENTO ECCLESIASTICO A RACALMUTO
Il quattordicesimo secolo vede i Carretto impossessarsi, prima, e padroneggiare, dopo, la Terra di Racalmuto. Come questa famiglia genovese (o di Finale Ligure) si sia impadronita di Racalmuto, facendone un personale feudo con mero e misto impero, è mistero ancor oggi non dipanato. Vi fu al tempo del figlio di Matteo del Carretto - all’inizio del secolo XV - una necessità difensiva di fronte alle inchieste di Martino e, in parte fondatamente, in parte capziosamente, si fecero risalire al matrimonio di una Costanza Chiaramonte con Antonio del Carretto le origini della baronia di Racalmuto in capo a quella famiglia proveniente da Genova. In un atto - mezzo falso e mezzo vero del 13 aprile 1400 ([2]) - abbiamo le ascendenze ed i titoli per la legittimazione baronale di Racalmuto. Lasciamo qui agli araldici ed agli storici il compito di far luce sulla questione, che inquinata com’è nelle sue più antiche fonti, difficilmente potrà essere del tutto chiarita. Ed è comunque questione che poco ha a che vedere con la storia religiosa del nostro paese: la storia che specificatamente ci interessa in questa sede.([3])
Quel che ci preme è qui sottolineare come proprio sotto Matteo del Carretto fu scritta e tramandata un’importante pagina di storia sacra locale. Al barone di Racalmuto si rivolgeva Re Martino per la traslazione del beneficio canonicale di S. Margaritella da un canonico fellone ad altro di Paternò, fedele alla causa dei Martino, pur soggetti a cocenti scomuniche papali. Si era conclusa la triste vicenda della ribellione dei Chiaramonte - che pur dovevano essere legati da vincoli di sangue ai del Carretto - ed era stata domata la resistenza palermitana di Enrico Chiaramonte. Il re aragonese, tra l’altro, cominciò a metter mano alla riforma ecclesiastica. In un certo senso ne aveva diritto per quello strano istituto tutto siciliano e peculiare che fu la Legazia Apostolica. Per la liberazione dai saraceni da parte dei Normanni, il Papa aveva accordato ai regnanti di Sicilia una inconsueta rappresentanza religiosa in forza della quale il legato del Pontefice anche in materia religiosa in Sicilia era proprio il re. E Martino ne approfittò per togliere e donare canonicati, prebende e riconoscimenti onorifici di natura ecclesiastica.
Anche Racalmuto, con il suo vetusto beneficio di S. Margaritella, entrò in questo aberrante gioco politico-religioso. Chiarisce bene la vicenda il documento che riportiamo, in calce, in una nostra traduzione dal latino ([4]):
Il documento fu ben presente a Giovan Luca Barberi che gli tornava comodo per ribadire l’autorità delegata dal Pontefice ai re di Sicilia per i benefici ecclesiastici. Sul passo del Barberi si basa poi il Pirri per assegnare il beneficio di S. Margaritella di Racalmuto ai canonici di Agrigento. Nel diploma si accenna solo al ‘canonicatus Sancte Margarite de Rachalmuto’: diversamente da quanto poi afferma Luca Barberi, quando scrive attorno al 1511, nell’originale non si fa accenno di sorta ad alcuna chiesa dedicata alla santa in Racalmuto. I benefici, sì, ma la chiesa è dubbia. Intanto si è certi che solo in prossimità del 1511 è provata l’esistenza in Racalmuto di una chiesetta del canonicato di Agrigento dedicata a S. Margherita. E prima?
Tanti collegano - come già detto - quella chiesa ad un diploma del 1108, ma ciò origina da una interessata tesi della curia agrigentina. Il beneficio può benissimo essere sorto a metà del XV secolo per accordo tra la curia vescovile ed i Chiaramonte, più verosimilmente Manfredi Chiaramonte, oppure per benevola concessione di quest’ultimo a peste cessata ed a suggello del concordato col Papa.
GLI EBREI A RACALMUTO
La presenza di ebrei a Racalmuto e la loro convivenza con la locale cristianità sono dati certi, ma non tanto per la contrada del Giudeo (Judì) o per il singolare nome di una lumaca (lu judiscu), quanto per quello che ci dicono i due fratelli Lagumina (di cui uno, Bartolomeo, è stato vescovo di Agrigento), nella loro monumentale opera sugli ebrei di Sicilia, prima della cacciata da parte di Isabella nel 1492. ([5])
Raccapricciante lo squarcio di cronaca nera che gli archivi palermitani ci hanno tramandato. Insieme, viene fornito uno spaccato degli usi e costumi racalmutesi in quel periodo. Era l’anno 1474 ed a Racalmuto veniva commesso un efferato crimine contro un ricco ebreo, dedito certamente all’usura. Trattasi di documento interessante e che va riportato integralmente sia per la singolarità della testimonianza sia pure per l’affiorare di antichi termini dialettali della nostra terra. [6]
In piena estate, il 7 luglio del 1474, il vicerè Lop Ximen Durrea dava, dunque, ordine all’algoziro (a metà tra il capitano dei carabinieri dei nostri giorni ed il sostituto procuratore) Olivero Raffa di recarsi a Racalmuto per indagare su una efferata esecuzione dell’ebreo Sadia di Palermo. L’orribile uccisione era avvenuta alcuni giorni prima ed era avvenuta quasi a furore di popolo. Artefice e sobillatore era stato tale Liuni, figliastro di mastro Raneri. Ma tanti altri lo avevano assecondato. Il povero Sadia di Palermo stava attendendo ad alcune sue faccende nei dintorni del Casale di Racalmuto, quando venne assalito, bastonato e quel che è quasi incredibile selvaggiamente mutilato. Tagliata la lingua, evirato, rottigli i denti, l’odiato ebreo venne buttato ancor vivo in una fossa e ricoperto di paglia venne dato alle fiamme.
Non sembra che tanto accanimento fosse ispirato da furore religioso. Dovette, dunque, trattarsi di rabbia per l’esosità dei prestiti e per l’inflessibilità nel loro recupero. Che Sabia di Palermo fosse ricco si desume dal fatto che sembra avesse cuciti nel ‘gippuni’ (giubbotto) qualcosa come 150 pezzi d’oro - una enormità per i tempi e le condizioni della Racalmuto di allora - e di quel denaro se ne persero ovviamente le tracce.
L’algoziro Raffa dovrà svolgere un’indagine di polizia, con prudenza ed acume. Dovrà appurare tutte le circostanze dell’atroce esecuzione del giudeo. Complici e fiancheggiatori dovranno essere individuati e perseguiti dal funzionario viceregio che non può delegarvi nessuno ma deve esplicare l’incarico recandosi di persona sul luogo del delitto. In particolare, conta scoprire se trattasi di moto criminale di singoli o se è lo sfogo di un latente tumulto popolare. Non va trascurata l’eventualità che addirittura si sia consumata una vendetta collettiva dell’intera popolazione racalmutese. Di tutto va fatta una puntuale relazione scritta. Quindi, sempre con prudenza ma inflessibilmente, andranno carcerati tutti i sospetti colpevoli e tradotti nella città di Agrigento, per essere affidati alle carceri del castello ivi esistente, per evitare ogni possibilità di fuga.
La città di Agrigento, invero, è nota per il suo antisemitismo e molti indulgono in vessazioni e ingiurie contro gli ebrei. E’ un costume non tollerato dal potere regio. L’algoziro abbia ben presente che gli ebrei sono servi della regia Camera e quindi non si devono né vessare né molestare. Chi ha accuse da rivolgere agli ebrei si rivolga alle sedi istituzionali e si astenga da ogni iniziativa privata. L’algoziro Raffa operi in stretto collegamento con le autorità locali agrigentine e quelle racalmutesi.
E’ uno spaccato del vivere sociale locale che trascende l’efferatezza del crimine e la condizione ebraica verso lo spirare del Medio Evo. Se tanta solerzia traspare nell’ordinanza viceregia nel perseguire gli imperdonabili criminali, ciò connota il fatto che normalmente l’ebreo poteva vivere e prosperare nell’assetto comunale come quello racalmutese. E qui vi erano ebrei operosi ed abbienti, non segregati, non chiusi in ghetti, non relegati allo ‘Judì’, come si è cercato di farci credere. Nel quattrocento, Racalmuto ha un buon assetto politico ed amministrativo. Già prima che arrivasse l’algoziro, il colpevole del crimine è individuato e, pensiamo, assicurato alla giustizia. Il messo viceregio dovrà limitarsi ad appurare le connivenze e gli aspetti di contorno. L’organizzazione è accentuatamente feudale: il barone (i Del Carretto) è all’apice del potere locale. E’ contornato da ufficiali pubblici. Non è però un potere assoluto. La corte viceregia sovrasta, controlla e vigila oculatamente.
Quanto alla questione ebraica, va annotato che a Racalmuto non vi erano significativi assetti organizzativi. Dobbiamo escludere che ci fossero Sinagoghe o scuole. Gli ebrei locali potevano far capo alle comunità ben strutturate e legalmente riconosciute esistenti nella non lontana Agrigento. E tanto, poi, si dimostrò provvidenziale. Quando nel 1492, gli ebrei furono cacciati da Agrigento, a Racalmuto - secondo noi - essi, ignoti ufficialmente, poterono mimetizzarsi e sfuggire al tragico esodo. Certo, dovettero convertirsi e rinnegare la loro fede. E questo lo fecero senza grossi tentennamenti. Non abbiamo casi di marrani racalmutesi, finiti sotto l’Inquisizione. Quel non glorioso tribunale ebbe interesse soltanto per due racalmutesi, ma molto di là nel tempo: alla fine del Cinquecento coinvolgerà un Jacopo Damiano - di un notaio di tal nome abbiamo atti custoditi in Matrice - e a metà del Seicento si abbatterà sul povero fra Diego La Matina per ragioni non ben chiare e comunque non collimanti con quelle della laica canonizzazione celebrata da Leonardo Sciascia.
IL SECOLO DELLA MADONNA DEL MONTE
La tradizione colloca nell’anno 1503 la venuta a Racalmuto della Madonna del Monte. La pia leggenda è talmente scolpita nei cuori dei racalmutesi da impedire ogni ricerca storica che suonerebbe falsa e blasfema. Noi quindi ce ne asteniamo. Facciamo nostra la seconda lezione dell’Officio sulla nostra prodigiosa Madonna: «a Racalmuto, in Sicilia, - vi si recita in latino - da tempo immemorabile, un prodigioso simulacro troneggia nel magnifico tempio dedicato alla Madonna del Monte, Madre di Dio. Secondo una costante tradizione, la statua in nessun modo poté venire rimossa dal Monte, ove era giunta per una sosta su un carro rustico tirato da buoi, proveniente dal litorale agrigentino per essere condotta nella antica città di Castronovo. E questo fu un mero portento.»
Francesco Vinci, in un una memoria del 1760, Don Nicolò Salvo, il padre Bonaventura Caroselli, Nicolò Tinebra Martorana, un anonimo nel 1913, Eugenio Napoleone Messana nel 1968, Leonardo Sciascia in una chiosa del 1982, ed altri che ci sfuggono hanno scritto sull’evento, quasi sempre con filiale devozione e con trepido attaccamento alla nativa terra di Racalmuto.
Un quadro storico puntuale e documentato ce l’ha fornito di recente il compianto gesuita locale P. Girolamo Morreale. Esso è esaustivo per chi pretende l’umana verità storica. Col suo candore l’ex-voto esposto nel Santuario del Monte rappresenta, pare dalla fine del Seicento, la nostra ancestrale devozione mariana; esso ci immerge nella concitazione del popolo racalmutese per l’arrivo nella parte alta del paese del carro trainato dai buoi con sopra il venerato simulacro della Madonna.
Nella visita pastorale del 1540 - la prima di cui si abbia notizia documentata - la gloriosa statua viene come inventariata, con stile del tutto anodino. Nell’Archivio Vescovile di Agrigento si rinviene il documento della visita fatta nel 1540 dai legati vescovili alla chiesa del Monte. Essa è chiesa non mediocre, con un corredo notevole. Non vi si scorge però nulla che possa richiamare alla mente un santuario prestigioso della Vergine. P. Morreale ([7]) ha come un moto di stizza quando vede il notista della Curia trattare apaticamente l’argomento. In seconda battuta, come se si trattasse di cosa di scarsa importanza, l’irriguardoso burocrate si limita ad inventariare il glorioso simulacro semplicemente come «una figura di nostra donna di marmaro». Non ci si può però meravigliare: il culto della Madonna del Monte esplode a Racalmuto solo a partire dai primi decenni del ‘700, dopo l’opera del p. Signorino.
La visita pastorale del Vescovo di Agrigento, datata 1540, è per altri versi un momento importante per la storia religiosa di Racalmuto. Abbiamo un documento storico basilare. Pur nel linguaggio non perspicuo ed arcaico, balza un quadro della struttura ecclesiale di Racalmuto.
Ci affacciamo, così, all’epoca moderna per la quale disponiamo di fonti d’archivio e documentali rilevantissime che vanno studiate ed interpretate con rigore scientifico, bandendo quel vezzo della visionarietà cui gli eruditi locali sono stati soliti abbandonarsi. La storia della comunità ecclesiale racalmutese appare ora circostanziata e colma di affascinanti spunti e di specificità di grande portata edificante. Si pensi al culto della Madonna, alla devozione verso S. Rosalia, alla veneranda figura di padre Elia Lauricella ed ai tanti servi di Dio della nostra epoca contemporanea.
[1] ) Il passo cui Pirri rinvia, recita: «Monalium Benedictonarum monasterium S. Annuntiatae est antiquissimum. Id olim erat Monachorum eiusdem ordinis: lego enim in lib. Cancell. Prioratum, sive Monasterium S. Mariae Annuntiatae ordinis S. Benedicti prope Misimerium Agrig. dioec. esse de jurepatr. laicorum, et fuisse datum à PP. Paulo II post obitum Augustini, Philippo Cappa cl. Panorm. ex litt. apost. 12. Aug. 1466. pont. an. 2 in lib. sec. Macri 4 Feb. 1467. 15 ind. Fol. 42. Capib. fol. 233. Hospitium habebat monachorum sub titulo S. Benedicti, hodie dirutum, juris Monalium harum ad p. 6. m. ab oppido Rahyalmuto. Moniales 22, cum unc. 236.»
[2]) Ci riferiamo allo scambio dei beni tra Gerardo e Matteo del Carretto. Il documento che utilizziamo è una fotocopia dovuta alle solerti ricerche del prof. Giuseppe Nalbone presso l'Archivio di Stato di Palermo (cfr. ARCHIVIO DI STATO - PALERMO - RICHIEDENTE NALBONE GIUSEPPE - REAL CANCELLERIA - BUSTA N. 38 - (Anni 1399-1401) pag. 177 recto a pag. 181 - Data 9/4/1993).
[3]) Resta a nostro avviso ancora insuperata la ricostruzione che della vicenda fa lo SPUCCHES nel quadro 783 del vol. VI (Avv. Francesco SAN MARTINO de SPUCCHES - La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni - 1925 - Palermo 1929 - vol VI). In particolare, ci riferiamo ai seguenti punti dell'opera:
«1. - Federico CHIARAMONTE, figlio terzogenito di Federico e Marchisia PREFOLIO, ebbe Racalmuto da FEDERICO di Aragona; lo affermano concordi tutti gli storici. Sposò questi certa Giovanna di cui si sconosce il casato. Egli morì in Girgenti; il suo testamento porta la data 27 dicembre 1311, X Indiz., fu pubblicato da notar Pietro PATTI di Girgenti il 22 Gennaro 1313, II Indizione. [XI IND.]
2. - Costanza CHIARAMONTE, come figlia unica di Federico suddetto, successe in tutti i suoi beni come erede universale del padre. In conseguenza ebbe il possesso di RACALMUTO. Sposò questa in prime nozze, Antonino del CARRETTO, M.se di Savona e del Finari (Dotali in Notar Bonsignore de Terrana di Tommaso da Girgenti li 11 settembre 1307). Sposò in seconde nozze Brancaleone Doria, genovese, col quale ebbe molti figli. Questo risulta possessore di RACALMUTO, (MUSCA, Sic. Nob. pag. 20). Costanza morì in Girgenti ... Il testamento di lei è agli atti di Notar Giorlando Di Domenico di Girgenti, sotto la data 28 marzo 1350, V Indiz.; fu transuntato in Catania, agli atti di Notar Filippo Santa Sofia li 24 novembre 1361 (INVEGES, Cartagine Siciliana, f. 228-229).
3. - Antonio del CARRETTO successe nella signoria di RACALMUTO, come donatario della madre, per atto in Notar RUGGERO d'ANSELMO da FINARI li 30 agosto 1344, XII Indizione. Sposò questi certa SALVASIA di cui si sconosce il casato. Nacquero da lui GERARDO e MATTEO. Il primo se ne tornò a Genova dopo aver servito Re MARTINO contro i ribelli; i beni di Sicilia li cesse al fratello.
4. - Matteo del CARRETTO suddetto fu investito della Baronia di RACALMUTO in Palermo, a 4 Giugno, IV Indizione 1392. (R. Cancelleria, libro dell'anno 1391, f. 71) [L'indizione è del tutto errata. Il 1392 cadeva nella XV Indizione. Occorrerebbe cercare meglio di quanto abbiamo fatto noi nella R. Cancelleria il citato documento che a dir poco è segnalato in modo impreciso]. .»
[4]) Archivio di Stato di Palermo: Real Cancelleria - Vol. 34 - p. 137 v. - 1398 [Ricerche del prof. Giuseppe Nalbone] «Martino etc. Al reverendo padre GERARDO DE FINO arciprete della terra di Paternò, cappellano della nostra regia cappella, predicatore e familiare nostro devoto, grazia etc..
I lodevoli meriti delle vostre virtù ci inducono ad elevare la vostra persona agli onori ed ai grati riconoscimenti. E così apprezziamo quelli che sappiamo essere i morigerati vostri costumi di vita di cui v’è generale stima e nei quali noi siamo pienamente fiduciosi, e pertanto per l’autorità apostolica in ciò a noi sufficientemente accordata, il canonicato di Santa Margherita di Racalmuto della diocesi di Agrigento con prebenda, redditi e i suoi debiti e consueti proventi - canonicato che si è reso vacante in atto per il nefando tradimento del prete Tommaso de Manglono, nostro ribelle al tempo della secessione contro le nostre benignità - fiduciariamente vi commendiamo e per grazia vi conferiamo, concediamo e doniamo in modo che possediate la prebenda, l’aumentiate, la teniate, ne usufruiate e l’amministriate con i suoi redditi e proventi che potrete destinare alla vostra comodità affinché in modo più consono - Dio permettendo - possiate trarne mezzi di sussistenza durante la nostra vita e finché quel canonicato ci resterà affidato dall’autorità apostolica.
Ai nunzi ed agli incaricati presso il venerabile eletto governatore della predetta maggiore chiesa agrigentina nonché al consesso dei canonici diamo incarico acché vi pongano e vi immettano nel materiale e reale possesso di quel canonicato, con prebenda redditi ed i suoi debiti e consueti proventi, per l’autorità delle presenti credenziali, oppure che ve ne rendano il possesso per il tramite di altri, non mancando di tenerlo intatto e di salvaguardarlo e di rendervelo quindi integro sia per quanto attiene allo stesso canonicato sia alla pertinente prebenda nei consueti termini giuridici.
Noi, infine, ci rivolgiamo e diamo mandato al nobile Matteo del Carretto barone di Racalmuto, nostro consigliere ed ai restanti ufficiali nonché alle altre persone del nostro regno che ci sono fedeli tanto presenti quanto future acciocché a voi ed ai vostri procuratori facciano rendere integralmente e pienamente la prebenda, i redditi con i consueti e dovuti proventi di pertinenza dello stesso canonicato, se desiderano e possono mantenere la nostra benevolenza.
Dato in Siracusa, l’anno del Signore, VII^ Ind. 1398.
.... Re Martino - »
[5]) CODICE DIPLOMATICO DEI GIUDEI DI SICILIA raccolto e pubblicato dai fratelli sacerdoti Bartolomeo e Giuseppe LAGUMINA - edito dalla SOCIETA' SICILIANA PER LA STORIA DI SICILIA - Documenti Storia di Sicilia - Serie I - DIPLOMATICA N.° 12 - Trattasi del terzo volume dei fratelli Lagumina . Palermo 1890. (pag. 145, documento n.° LIX - Palermo 7 luglio 1474, Ind. VII.)
[6] ) «Il Vicere’ Lop Ximen Durrea dà commissione ad Oliverio RAFFA di recarsi a Racalmuto per punire coloro che uccisero il giudeo Sadia di Palermo, e di pubblicare un bando a Girgenti per la protezione di quei giudei.»
«Ioannes etc. Vicerex etc. nobili oliverio raffa militi algoczirio regio fideli dilecto salutem. diviti sapiri comu quisti iorni prossimi passati sadia di palermo iudeu lu quali habitava in lu casali di raxalmuto actendendo ad alcuni soy fachendi li quali fachia in lu dictu casali fu primo locu mortalmenti feruto da uno liuni figlastro di mastro raneri et dapoy alcuni altri di lu dictu casali quasi a tumultu et furia di populu dediru infiniti colpi a lu dictu iudeu non havendu timuri alcuno di iusticia. Immo diabolico spiritu dicti tagliaro la lingua et altri menbri et ruppiro li denti usando in la persuna di lu dictu iudeu multi crudelitati et demum lu gettaru in una fossa et copersilu di pagla et gictaru foco petri et terra. la qual cosa essendo di malo exemplo merita grande punicioni et nui tali commoturi di popolo et delinquenti volimo siano ben puniti et castigati a talchi ad ipsi sia pena et supplicio et a li altri terruri et exemplo. E pertanto confidando di la vostra prudencia ydonitay et sufficiencia havimo provisto per sapiri la veritati e quilli foru a tali malici participi et culpabili. et per la presenti vi dichimo commictimo et comandamo che vi digiati personaliter conferiri in lu dictu casali et cum quilla discrepcioni lu casu riquedi digiati inquisiri et investigari cui dedi a lu dictu et li persuni li quali si trovaro a lu dictu tumultu et actu. et eciam si lu populu fra loru accordaru amazari lu dictu iudeu et cui si trovau presenti et partechipi a la dicta morti et delicto. et de tucti li sopradicti cosi fariti prindiri in scriptis informacioni et in reddito vestru li portariti a nui. comandanduvi chi cum diligencia et cum quilla discrecioni da vui confidamo digiati prindiri de personis tucti quilli foru culpabili et si trovaro alo dicto acto et quilli digiati minari in la chitati di girgenti et carcerarili in lu castellu di la dicta chitati in modo chi non si pocza di loro fuga dubitari. E perche siamo informati che a lu dictu iudeu fu prisa certa roba et intra li altri uno gippuni in lu quali si dichi erano cosuti chentochinquanta pezi d’oro farriti di lo dicto gippuni e di tucta l’altra roba libri et scripturi diligenti investigacioni et perquisicioni cui li prisi et in putiri di chi persuna sono. et trovandoli cum ydonia et sufficiente pligiria de restituirili ad omni simplichi requisicioni di la regia curia li restituiriti a li heredi di lu dictu iudeu. preterea perche multi audachi et temerari persuni li quali poco timino la iusticia presummino in la chitati di girgenti parlari et usari alcuni prosuncioni et adminanzi ac iniurij contra li iudei di dicta chitati di che porria suchediri inconvenienti et scandalu non senza disservicio di la regia curti. a li quali inconvenienti volendo debitamente providiri actento chi li iudei sono servi di la regia cammara et non si divino lassari indebitamente vexare ne molestari. vi comandamo chi eciam vi digiate conferiri in la dicta chitati di girgenti per li lohi soliti et consueti farriti voce preconis emictiri banno puplico sub pena vite et publicacionis bonorum et altri a vui meglo visti chi non sia persuna alcuna digia ne persuna cuiusvis condicionis et gradus chi digia palam vel oculte de die nec de nocte intus nec extra civitatem offendiri vexari ne molestari li dicti iudey. ne alcuno di loro tanto masculi comu fimini tanto grandi comu pichuli ne loru beni re facto verbo et opere. et chi lo capitaneo iurati gubernaturi di li iudei et altri officiali digiano ipsi iodey favoriri et defendiri contro omni persuna chi indebite li volissi offendiri et molestari. lu quali banno post eius pubblicacionem farriti reduchiri in scriptis ut appareat in futurum. et si alcuno volissi dimandari iusticia oy incusari alcunu iudeu digia compariri davanti di nui et farrimo debito complimento di iusticia. in modo chi cui havira commissu malificio et delicto sarra debitamente castigato. Nam in premissis et circa ea cum dependentibus emergentibus et annexis vi damo et conferimo plena bastanti et sufficienti potestati per presentes. per li quali comandamo a tutti et singoli officiali et persuni di la chitati nec non a lu nobili baruni officiali et persuni di lo dicto casali chi in la execucioni di li sopradicti cosi cum li dipendenti emergenti et quilli vi digiano obediri et assistiri ac prestari omni aiuto consiglio et faguri et loro brazo si et quociens opus erit et per vos fuerint requisiti nec contraveniant aut aliquem contravenire permictant ratione aliqua sive causa sub pena unciarum mille regio fisco applicandarum. vui vero in la execucioni di li dicti cosi vi haviriti et portariti in tali modo et omni quilla diligencia chi pozati meritatamente essiri inanzi nui comandatu. Dat. panormi die VII Iulij VIIe Indicionis M° CCCCLXXIIII°. post datam. constituimo a vui dicto nobili per vostri iornati et salario ad racionem de tarenis octo pro quolibet die dum in premissis legitime vacaveretis. Dat. ut supra.
Lop Ximen Durrea»
Cancelleria, vol. 130, pag. 332 - R. Protonotaro, vol. 73, pag. 160
[7]) Girolamo M. Morreale, S.J - Maria SS. del Monte di Racalmuto - Racalmuto 1986: pag. 29 «Le notizie più sicure e più antiche sulla Madonna del Monte le abbiamo dalla sacra Visita, fatta a Racalmuto dal vescovo o da un suo delegato, nel 1540 ... La statua è descritta con termini assai scarni, secondo lo stile inventariale: "Una figura di Nostra Donna di marmaro"» Pag. 30: «Poco dopo sono riportati gli ornamenti della statua: "Item uno panigliuni [rectius: pavigluni, n.d.r.] di cuttuni cum sua frinza di sita russa per [rectius: supra, n.d.r.] la Immagini [rectius: inmagini, n.d.r.] di marmaro di Nostra Donna et una cultra vecchia [rectius: vecha, n.d.r.] per la ditta Immagini [rectius: supra la ditta inmagini, n.d.r.] ... Item: uno panigliuneddo [rectius: paviglunetto, n.d.r.] a la immagini [rectius: inmagini, n.d.r.] di Nostra Donna .»
«Il titolo della chiesa è riportato nel paragrafo che la riguarda: "Visitatio ecclesie sancte Marie di lo Munti".
«Per la quantità di beni riportati nell'inventario, la chiesa del Monte è la terza dopo la Matrice e l'Itria. Si ha l'impressione di una chiesa periferica che ha appena il necessario: sono ricordati un solo paio di candelieri di legno e le 13 tovaglie di altare come biancheria sacra. Le due chiese centrali, Annunziata (Matrice) e l'Itria, invece appaiono bene attrezzate di parati sacri..»
A quest'ultimo proposito mi par di potere annotare: a) Il P. Morreale legge sicuramente in modo errato Jsu in Itria (la chiesa dell'Itria sorgerà a Racalmuto un secolo dopo); b) la chiesa del Monte figura dopo Matrice, S. Maria di Gesù ed anche S. Giuliano, al quarto posto, forse addirittura alla pari di S. Margherita; c) in ogni caso, trattasi delle prime cinque chiese di Racalmuto: le altre (ricordo ad esempio: S. Rosalia e S. Leonardo) non attiravano l'attenzione dei visitatori episcopali per la loro scarsa importanza. La chiesa del Monte, comunque, ha una buona dotazione di paramenti sacri, ha una cassetta per le elemosine ed un guardaroba per la sua prestigiosa statua di marmo, anche se viene indicata come vecchia (da ciò si potrebbe anche dedurre che la statua marmorea non è poi detto che sia quella che si venera oggi e che la chiesa del Monte è molto antica, forse più antica della stessa S. Maria di Gesù).
Altra importante fonte è : «LA VISITA PASTORALE DI MONS. PIETRO DI TAGLIAVIA E D'ARAGONA - parte II (Anno 1542-43)» - Tesi di laurea di Rosa Fontana, relatore Paolo Collura dell'Università degli Studi di Palermo - facoltà di lettere e filosofia - anno accademico 1981-1982. Racalmuto risulta tratttato nelle pagine 207-218. La visita è dell'11 giugno 1543 ed è successiva di tre anni a quella qui indicata. La Chiesa del Monte non vi figura perché il visitatore si limitò ad annotare a lato la vecchia visita.
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