1974
(P. Arrigo Giovanni: Svolta pericolosa, Messina 1969) e vi ingurgita una sua
dileggiante raffigurazione dello
scrittore Sciascia. Il libro s’intitola “Uomini d’onore - li curnuti”. In un
certo senso, si scorre la lettura deformante della vita racalmutese dal
fascismo alla democrazia cristiana degli anni ‘60. La vicenda fascista
racalmutese viene abbozzata, sia pure con la lente deformante dell’albagia
siculo-americano, in termini che vanno qui richiamati, magari per provare
quello che sicuramente il fascismo non fu.
«Giufà provò un senso di sollievo e di
orgoglio durante il regime del Duce, che diede una nuova realtà alla legge e
all’ordine. Le case di campagna erano sicure, ora, e le liti venivano composte
in tribunale. Si poteva rimanere in campagna durante la notte e se gli
agricoltori tornavano ancora ogni sera nella cittadina, ciò accadeva perché
erano soliti fare così, diceva Giufà. Se furti, rapimenti assassinii avvenivano
come in passato, essi erano posti a carico, ora, di un misterioso bandito che
si celava nelle numerose basse gallerie delle miniere già fallite e inattive.
Ciò nonostante, si riteneva che il regime del Duce avesse estirpato dal suolo
siciliano le radici di quel cancro ‘che definiva se stesso onorata società’; se
ne era così certi come si era certi che esso avrebbe recato onore, potenza e
gloria a tutta l’Italia, e fose anche alla Sicilia. [...]
«Ma non ci volle molto perché gran
parte di quei giovani fossero levati dalle strade e arruolati nell’esercito, a
causa dell’andamento della guerra. Anche Giufà fu arruolato nella milizia,
inizialmente come cappellano, per diventare poi centurione dei cappellani; ed
ebbe una bella uniforme, con tre galloni dorati, e un berretto ricamato d’oro e
d’argento, alto dieci centimetri, con un’aquila romana che stringeva tra gli
artigli - se la siguardava attentamente - una croce. Era stato lui a chiede di
esservi arruolato . Aveva previsto, come avrebbe poi scritto, ‘la grande
trasformazione che si sarebbe verificata nella nostra piccola dimenticata città
e che il sangue dell’antica stirpe di Roma si sarebbe fatto sentire ancora una
volta’. Gli scolaretti, in camicia nera e berretto con nappina, erano arruolati
in eserciti da burla, e armati di un fucile di legno facevano, ogni Giovedì,
sotto la guida di un insegnante di nuova nomina venuto dagli Abruzzi, delle
marce in campagna. Qui tagliavano foglie di cacto in lunghe strisce che
legavano insieme con piccole cinghie di cuoio, poi vi mettevano sopra, alta in
mezzo, la testa di un’ascia per indicare l’unità, la legge e l’ordine: la
severa umanità di coloro che indossavano la camicia nera. Tornavano poi nel tardo pomeriggio, cantando lodi alla
giovinezza e al Duce, il cui viso era dipinto ora sui muri delle case del paese
con il detto: ‘Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora’.
«In quegli anni egli [il sacerdote
cui Ben Morreale dà l’improbabile nome di Giufà, n.d.r.] si rallegrò dell’aria
festosa assunta dal paese. Tutti indossavano splendide uniformi e il
capostazione aveva ricevuto l’ordine d’indossare sempre la sua, che aveva
quattro o cinque galloni sul braccio. Il postino, il personale delle ferrovie,
il caposquadra delle miniere, gli impiegati, gli amministratori, tutti
possedevano l’uniforme ed erano istruiti dal capo centurione, un uomo grande e
grosso che diceva loro con voce severa, mentre stringeva le mascelle e li
guardava con occhio truce: - Dobbiamo salutarci reciprocamente, ovunque l’uno
veda l’altro. Capito?
«Il capostazione sogghignava ogni
volta che salutava Giufà e quando era al circolo dei nobili alzava il braccio
per salutare e poi lo ripiegava di colpo sull’altro emettendo con la bocca un
suono osceno: era un residuo del principio a cui si ispiravano gli uomi
d’onore: qualsiasi autorità, che non fosse la propria, doveva essere messa in
ridicolo.» (6)
Senza
veli e con pretese di resoconto storico, si dilunga sul periodo fascista
l’altro autore racalmutese: Eugenio Napoleone Messana. Stralciamo vari pasi
passi dal suo lavoro: «Racalmuto nella storia della Sicilia».
«Nel 1925 si fece la mascherata delle
elezioni politiche italiane (6 bis)
messa in scena dal duce. Malgrado il clima terroristco in cui si svolse la
campagna elettorale e la precisa sensazione che le cose potevano solo mutare in
meglio per il fascismo, Eduardo Romano ed i compagni comunisti di Racalmuto
ebbero l’abilità di raccogliere circa quattrocento voti. Questo fatto
impressionò i dirigenti del fascio locale e contribuì ad evitare persecuzioni
feroci, per tema di generare vittime, che poi avrebbero potuto essere causa di
disordini gravi. Non osarono nemmeno, infatti, provvedere con mezzi palesi
contro Edoardo Romano, per quanto avvenuto in teatro giorni dopo, durante la
serata inaugurale del Mortorio, eseguito quell’anno da una filodrammatica
locale, nella quale primeggiava Giovanni Agrò. (7 )
In quella serata era andato a teatro pure Edoardo Romano, perché la sorella
signorina, con la quale conviveva, era stata invitata dalle sorelle di Leonardo
Abramo ad andarci ed aveva accettato. Edoardo Romano non aveva trovato posto
nel palco ov’era la sorella con le Abramo e si era seduto in platea. Prima di
cominciare lo spettacolo l’orchestra suonò ‘Giovinezza’, l’inno fascista. Tutti
i presenti scattarono in piedi e si tolsero il cappello. Edoardo Romano rimase
seduto col capo coperto ed il sigaro in bocca. L’insegnante Emanuele Cavallaro,
don Niniddu, gli si avvicinò e con tono categorico gli ordinò - Alzatevi,
toglietevi il berretto e smettete di fumare!
Il Romano a voce altissima rispose - Non mi alzo, non mi tolgo il
cappello e non smetto di fumare! A questa risposta don Cesare Macaluso gridò da
un palco - Arrestatelo, arrestatelo! I carabinieri in servizio si erano mossi,
ma il popolo scattò a gridare - No, No! L’avv. Carmelo Burruano intervenne e
frenò i carabinieri, dicendo di lasciare perdere se non non si sarebbe potuta
più fare la recita. Non passò molto tempo però e Romano ebbe perquisita la
casa. Non trovarono niente, solo dei proiettili da caccia ed un fucile. Lo
denunziarono per detenzione non autorizzata di armi e munizioni, subì un
processo, lo difesero Cesare Sessa, Vincenzo Campo e Cigna, in pretura fu
condannato a due mesi e quindici giorni, in appello assolto per insufficienza
di prove. (8 )
«Le elezioni ebbero il risultato
che dovevano avere. L’onorevole Angelo Abisso conseguì dei grandi meriti in
quest’occasione. Il 31 gennaio 1926 Curatola infatti deliberò la spesa di L. 50
di contributo ad una medaglia d’oro, che la Sicilia aveva deciso di offrire a
questo deputato in segno di gratitudine per aver fatto le ossa al fascismo
nella regione. Più avanti lo stesso commissario deliberò ancora L. 200 di
contributo alla federazione dei fasci di Girgenti. Inoltre diede l’incarico
all’ingegnere Giammusso di Girgenti per redigere il progetto particolareggiato
di una rete fognante generale da costruire a Racalmuto e arrivò a deliberare L.
300 di acconto per tali lavori.
«La mascherata elettorale del 1925
si organizzò pure a Racalmuto in occasione delle ultime elezioni
amministrative, prima della costituzione della dittatura, o meglio durante le
more per la sua solidificazione. L’assassinio dell’onorevole Giacomo Matteotti,
capo dell’opposizione, aveva scosso la nazione. Il fascismo era lì per cadere e
sarebbe caduto se fosse intervenuto il re in difesa dei diritti statutari del
regno e contro la violenza, la criminalità e l’assassinio e se l’opposizione
non comunista avesse fatto appello alle masse, invece di ritirarsi
sull’Aventino in inutili discussioni. Mussolini allora diede la parvenza di rientrare
nella legalità convocando alle urne il popolo, prima per le votazioni
politiche, poi per le amministrative. Si trattò di sola parvenza, sia per la
legge Acerbo che truffò la maggioranza in pro del partito di governo, sia
perché le elezioni avvennero sotto il controllo bieco delle squadracce e dei
manutengoli assoldati dal fascio. Le persecuzioni, gli arresti, le violenze, le
intimidazioni avevano, fin dalla conquista del potere operata da Mussolini, in
combutta con Vittorio Emanuele III di Savoia, costretto al ritiro dall’agone
politico le forze più genuine del pensiero italiano e siciliano. La repressione
della delinquenza era servita come pretesto per reprimere gli esponenti dei
vari partiti, coinvolgendoli nelle inchieste e nei processi o a diritto o a
torto. (9)
«Ad Agrigento il prefetto Mori
aveva di già fatto sentire di che erba si fa la scopa a tutti i liberi
pensatori della provincia. Fingendo di lottare la mafia, che invece eludeva,
com’è suo costume i processi e passava dalla presenza palese alla presenza
nascosta nella vita pubblica, Mori era finito con l’abbattere il prestigio di
vari uomini politici e disperdere i seguiti elettorali. In questo clima nel
1926 si votò a Racalmuto, ma per chi?
«Per i fascisti che, dopo essersi
fusi coi nazionalisti locali, come avvenne in parecchie parti del regno, fecero
un’unica lista. Si presentò una sola lista, la fascista. Gli altri si
ritirarono e si misero in posizione di attesa. Non ci fu da preoccuparsi o
affaticarsi. Essendo una lista la vittoria era sicura, di campagna elettorale
democratica non ce n’era di bisogno. Bastava che si votasse, tanto il voto,
andava sempre a loro. I democratici del paese risero di sdegno allorchè si
accorsero che si doveva votare solo per una concentrazione di candidati, quella
ad ispirazione e composizione fascista. Il listone aggiusta tutto, fu definito.
«Il 18 luglio 1926, alle ore 12 si
insediò il consiglio eletto da questa pseudo votazione. Risultarono consiglieri
il dottor Enrico Macaluso, il dottor Achille Vinci, Oreste Cavallaro, Carmelo
Rosina, l’avv. Baldassare Cavallaro, Luca Giuseppe Brucculeri, l’ins. Giuseppe
Mattina, Giuseppe Tulumello, l’avv. Camillo Vinci, Antonino Restivo Ardilla,
Salvatore Sbalanca, Carmelo Romano, Calogero Scimè Giancani, Giovanni Salvo,
Giovanni Farrauto, Cav, Alfredo Falletti, Giuseppe Cinquemani, Giuseppe Sardo,
Calogero Burruano, Luigi Casuccio, Pietro Buscarino, Luigi Nalbone, Andrea
Petrone, l’avv. Salvatore Picone, l’ins. Antonio Muratori, Alfonso Puma, il
dottor Calogero Burruano. Sindaco fu eletto, con 18 voti su 29 presenti, il
dottor Enrico Macaluso. La giunta fu così composta: Baldassare Cavallaro,
Giuseppe Mattina, Salvatore Picone, il dottor Achille Vinci, Giovanni Farrauto
ed Antonino Restivo Ardilla. Il dottor Enrico Macaluso in tale data iniziò la
sua epoca nella vita pubblica ed amministrativa di Racalmuto. Dico epoca perché
tutto il periodo fascista, da allora in poi e fino al’arrivo degli alleati,
porta la sua impronta.
«Chi era Enrico Macaluso lo
sappiamo da quando al seguito di Marchesano abbiamo visto muovere la politica
in questa famiglia ed eleggero suo fratello Vincenzo, il farmacista vecchio,
consigliere comunale. [...]
«Gli antifascisti o i discendenti
dei vecchi esponenti della politica paesana che, o per dignità propria, o per
semplice disavvedutezza non prestarono l’omaggio deferente a lui, mentre
imperò, la pagarono cara. I Greco, cordai, dovettero trasferirsi altrove, non
poterono facilmente ambientarsi commercialmente, fallirono e si ridussero
all’elemosina. Salvatore Greco inteso Cinniredda dovette fuggire. Riparò in
America, precisamente nella Virginia. Là organizzò il partito comunista e gli
operai nel sindacato rosso. Si fece un nome dirigendo lotte terribili contro il
padronato. Subì un attentato e rimase ferito alla testa. Si salvò la vita per
miracolo. I Figliola si sparsero per la provincia perché per loro non ci fu più
pace a Racalmuto.
«Luigi Scimè, figlio del dottor
Nicolò, per aver dato la famosa lira per la corona a Matteotti, mentre
sosteneva un concorso, al secondo scritto, venne invitato a lasciare la sede di
esami e tornarsene a casa. Coloro chelo privarono di un diritto, non più tale
sotto il tallone fascista, risposero al giovane che chiedeva perché lo
mandavano via, di andarlo a domandare al suo paese. Eloquentissima allocuzione.
Un Cavallaro vinse il concorso di Commissario di pubblica sicurezza ma non potè
essere nominato per cattive informazioni date dal paese. Don Michele Di Naro,
il vecchio socialista, accerchiato dalle persecuzioni, in un momento di
scoraggiamento si suicidò, buttandosi sotto il treno. Era costui una persona
intelligentissima, poeta felice in vernacolo, lasciò la moglie e l’unico figlio
nella miseria. Vincenzo Vella fece una colletta e comprò alla vedova una macchina per fare
calze.
«Gli arresti e le condanne per gli
indizi fondati più sui rapporti personali con lui che sulla probalilità o
capacità di reato riempirebbero pagine e pagine se si dovessero riportare e
ridesterebbero rancori ormai sopiti dal tempo. Basti pensare che era pericoloso
andare a comprare medicine in altre farmacie, significava ripercussioni nel
lavoro o nella vita privata; non salutarlo incontrandolo valeva dar conto di sè
alla milizia o ai carabinieri, sotto forma di sovversivismo o altro aggeggio
del genere. Quando decise, per esempio, di ordinare ai contadini di non
rientrare più con l’aratro legato alla mula e l’asta che strisciava per terra,
perché il rumore lo disturbava, Nicolò Schillaci, ogni sera, cominciò a
rientrare in paese con l’asta dell’aratro alzata e la portava a mano fino a
quando arrivava a casa., tanto erano grandi il rigorismo e la paura che
incombeva don Enrico sulla popolazione. Trovò qualcuno però che gli diede filo
da torcere, anche se pagò bene le sue bravate. Una mattina, il lucchetto del
negozio Macaluso si trovò unto di sterco umano e con una scritta attaccata, ove
si leggeva:
«Qua la faccio/ qua la lascio/
merda al duce/ merda al fascio.
«Il grave oltraggio impose la
mobilitazione di tutte le forze per esperire le indagini. Risultò colpevole
Giuseppe Collura, lu casinieri, e fu arrestato. Quando lo stavano portando ad
Agrigento a San Vito, don Enrico, volle far mostra di un generoso perdono e gli
porse una moneta da L. 10, per comprarsi il tabacco in carcere. Il Collura di
rimando gliela buttò in faccia. Fu condannato, espiò la pena e tornò in paese.
Venne ad essere sospettato di un omicidio, che poi si venne a sapere che non
commise per avvenuta spontanea confessione del colpevole a letto di morte, e fu
condannato all’ergastolo. Durante il processo andò a testimoniare contro
l’imputato don Enrico. L’imputato vedendolo, dalla gabbia gli mollò uno sputo e
lo colpì sulla guancia. Allorchè, risultato innocente, il Collura fu scarcerato
e tornò in paese, Don Enrico ebbe paura perché il fascio era già caduto e si
lasciò assoggettare maledettamente. Collura diceva ‘ma parrinu’ e gli scroccava
soldi per vivere, fino a quando trovò una sistemazione decente e cambiò vita.
Aveva degli amici don Enrico che gli facevano corona la sera nel negozio
all’angolo del corso Garibaldi, e standogli da presso godevano di una
illuminata sicurtà, si rischiaravano della sua luce e brillavano di prestigio
ed autorità nel paese. Abbiamo presente quel negozio e quelle persone che la
sera stavano con un certo occhio a guardare i passanti della piazza con
superiorità regale e con l’altra a spiare glu umori del comandante per
assuefarsi al discorso ed all’espressione della sua faccia.
«I passanti vedevano quel gruppo
con distacco, il distacco della paura per le mezze figure, il distacco dello
sdegno per coloro che avevano saputo conservare gelosamente personalità e
dignità anche sotto il fascismo. Erano amici di Macaluso gli impiegati del
municipio dei tempi, l’ufficiale postale, un falegname, un muratore, Oreste
Cavallaro, Luigi Marchese, Giuseppe Mattina, Giuseppe Sicurella, Calogero Rizzo
e qualche altro il cui nome ci sfugge. Don Enrico atterrì la popolazione con la
sua azione intransigente tanto da fare di Racalmuto un paese senza volto e
senza prospettiva, addormentato nella crisi economica, morale e di valori
spirituali, rassegnato ad un amaro destino, separato dalla classe dirigente,
incline alla soggezione ed all’ipocrita acquiescenza esteriore alla volontà dei
tenutari del potere del paese.
«I difetti che produsse il Macaluso
nella società racalmutese furono i difetti necessari per potere subire con
serenità l’oppressione di una dittatura, quale la fascista, che tendeva a
spegnere le volontà agli uomini ai fini di una sola volontà, quella del capo a
Roma, come ad Agrigento ed in ogni recondito angolo d’Italia. L’opposizione al
regime a poco a poco si affievolì fino a ridursi ai frequentatori di una
bottega di merceria, gestita dal sig. Salvatore Giudice in via Matrona, case
Tulumello, e gli amici di un barbiere, Calogero Bellavia, inteso Nasone, che
aveva il salone in corso Garibaldi, accanto l’odierno negozio di generi
alimentari di Carmelo Brucculeri. La merceraia non vendette più perché nessuno
vi andava a comprare per paura di essere visto dal podestà. Il salone ridusse i
clienti, ma resistette perché divenne il salone dei soli nemici del fascismo.
La merceria era chiamata dai fascisti ‘La cucina del demonio’. Don Liddu Nasone
fu e rimase indicato come il sovversivo. Il Circolo degli Amici si chiuse in
quel periodo perché i suoi soci in maggioranza non si tesserarono al fascio.
Nuovi soci non ne entrarono più per paura del libro nero e si esaurì
lentamente. Macaluso fu infatti l’uomo del libro nero, lo diceva sempre di
annotarsi il nome di chi gli faceva sgarbo, per saperlo colpire al momento
opportuno. E siccome faceva sul serio seccava ai più di finire scritto là e si
preferiva ingoiare e stare alla larga, quando non si riusciva o non si sentiva
di fare il codino come gli altri. Non mancarono i ricorsi contro don Enrico,
spesso anonimi, avevano paura di farsi conoscere gli autori, anche se, a dire
della gente, si lasciavano individuare e risultavano buoni professionisti con
un decoroso passato politico alle spalle. Si attribuì all’avv. Carmelo Burruano
un ricorso, l’altro al farmacista Argento.
«Sindaco Don Enrico lo fu poco,
perché nel marzo del 1927 si sciolsero tutti i consigli comunali d’Italia ed i
comuni furono affidati ai podestà di nomina governativa, che si riduceva a
nomina del capo del fascio della provincia. Il podestà doveva rinnovarsi ogni quattro anni e doveva
essere collaborato dalla consulta podestarile nei centri grossi, nominata da
lui stesso, a cui venivano conferite le funzioni della giunta comunale. Nei
piccoli comuni il podestà aveva facoltà di delegare alla firma un cittadino di
sua fiducia per la continuità della vita amministrativa in caso di sua assenza.
La prima deliberazione podestarile di Racalmuto, come si rileva dagli atti
d’archivio del municipio, porta la data del 9 aprile 1927. Enrico Macaluso fu
sindaco per meno di nove mesi, poi diventò podestà per intrigo e
raccomandazione di Abisso. Alla firma delegò l’ins. Giuseppe Mattina fu Gaetano
il 5 novembre dello stesso anno. Da podestà diede meglio sfogo al suo carattere singolare, incline al ripicco ed alla
vendetta, pronto al pettegolezzo ed implacabile nell’odio e nell’amore,
pretenziodo di continue umiliazioni e di sciocche e melliflue deferenze,
fanatico e puerilmente capriccioso.
«Se ebbe dei difetti gravi ed
incancellabili, ebbe anche dei pregi encomiabilissimi. Fu onesto fino allo
scrupolo. Non rubò nè permise che si rubasse. Ebbe sacro rispetto per l’erario
e per tutto ciò che fosse patrimonio del pubblico. Non trasse profitto alcuno
dalla carica di podestà e di altre che ne ebbe. Fu infatti presidente del
Consorzio delle ‘tre sorgenti’ per molti anni, consigliere del Banco di
Sicilia, sciarpa littorio del partito nazionale fascista e console del Touring
Club italiano. Ebbe amicizia con tutte le autorità del suo tempo, sia civili,
sia militari, sia religiose, relazioni che seppe cattivarsi con la sua
straordinaria generosità nel donare. Non calcolò interesse pur di emergere e di
acquistare rispetti. In questo campo fu tale la sua prodigalità che può dirsi
di aver diviso il suo patrimonio, ed era considerevole, alla gente. Nessun
racalmutese può vantarsi di non essere stato un suo debitore. A chi andava a
comprare medicinali o radio, o, più tardi elettrodomestici, prima cucine, sedie
ed altro, quando chiedeva il conto lui rispondeva ‘Po si nni parla’. Il cliente
in altra occasione si dichiarava pronto a pagare e lui ancora rifiutava. Guai
ad insistere. Cambiava espressione e grave diveca: ‘I conti a casa mia li debbo
fare io’. Era la premessa di una rottura. La gente così facendo, volente o
nolente, gli restava vincolata, anche se non mancavano persone che si urtavano
di questo vincolo a cui venivano costrette senza la loro volontà. Lui però era
felice di poter dire che tutti gli dovevano o, nominando qualche persona che
gli mancava di rispetto, dire in farmacia davanti al pubblico, ‘perché nun mmi
veni a pagari primu’, quando non la mandava a chiamare e gli intimava
l’immediata soluzione del credito. Questa prodigalità sui generis finì col
ridurlo in cattive condizioni economiche e sarebbe morto all’elemosina se non
avesse posto riparo una ragazza, che a tarda età rese sua figlia adottiva e
salvò il salvabile. Il grosso però fu tutto venduto e i soldi divisi ai clienti
del suo esercizio e della sua farmacia.
«Nell’attività amministrativa don
Enrico pensò prima di portare a conclusione le opere avviate dai suoi
predecessori, ma con scarso risultato, perché, non ammettendo interferenze nell
sua volontà, finiva col provocare passiva reazione negli uffici o fra coloro
che dovevano necessariamente portare avanti le cose, quando non incontrava
opposizione dura, da cui scaturivano lunghi processi civili. Il progetto per le
fognature, per l’ammontare di L. 900.000 lo approvò il 19 marzo del 1927, ma le
fognature si fecero nel 1956, quando il fascismo era morto e sepolto e lui
relegato alla sola attività professionale. Collaudò l’esecuzione del contratto
con l’impresa elettrica Siculo Lombarda, redatto l’11 febbraio 1925, secondo il
quale si costruì in paese la centrale elettrica, nei pressi della stazione, con
motore generatore di corrente. Tale motore sfruttava l’acqua della Fontana a
mezzo di una pompa aspirante, che in fase eduttiva provocava una cascata
sufficiente alla generazione dell’elettricità necessaria a fornire luce agli
abitanti ed alimentare 384 lampade ad incandescenza sparse nelle vie
dell’abitato, di cui 14 nel corso Garibaldi. Tentò di realizzare il vecchio
progetto dell’edificio scolastico, redatto nel 1913 dall’ingegnere Stefano
Bianco per una spesa di L. 335.000, aggiornata nel 1919 e portata a L. 735.000,
nel 1922 ad 1.300.000, ma non vi riuscì perché provocò un giudizio civile col
proprietario del fondo ove doveva essere ubicato, nello spiazzale Palma.
L’edificio infatti potè sorgere solo nel 1936, dopo la sua caduta.
«Subito dopo la prima guerra
mondiale in Racalmuto si era costituito il comitato pro monumento ai Caduti,
stabilendo a presidente il sindaco pro tempore. Si erano raccolte selle somme
sufficienti alla costruzione mediante sottoscrizioni civiche ed offerte degli
emigrati di America. L’opera era in corso di realizzazione quando subentrò
Macaluso a presidente del Comitato. Egli cominciò a rivoluzionare il programma
precedente e si venne ad una clamorosa divisione fra i componenti in merito
alla forma ed all’ubicazione dell’opera. Questa divisione durò per sempre. Don
Enrico non mollava e quelli intralciavano il suo operato. Gli anni passavano ed
il paese era rimasto uno dei pochissimi d’Italia a non avere un ricordo degli
infelici giovani morti sul campo di battaglia.
«Intanto il 10 settembre del 1929
il podestà deliberava l’offerta di L. 100 del comune per contributo alla
lampada votiva per i caduti in guerra di Agrigento, non potendolo fare per i
racalmutesi sprovvisti di monumento.
«Quando si fece la nuova strada di
circonvallazione, oggi Filippo Villa, Macaluso comprò con i solde del comitato
e per conto del comitato un po’ di suolo edificabile di proprietà dei Baiamonte
a San Gregorio, prima adibito a mulino per l’epurazione della feccia di mosto.
Nel punto d’incontro fra la strada di circonvallazione ed il cosro Garibaldi
fece fare un recinto in filo spinato, che sarebbe dovuto diventare, ma non lo
fu mai, un’aiuola spartitraffico. Nel mezzo di questo recento vi fece piantare
un albero di pino, dedicato ad Arnaldo Mussolini, ma non crebbe e fu estirpato
secco nel 1950. Contava di costruire, ove oggi è l’Esso, sul suolo edificabile
dell’ex mulino, la casa del fascio ed il monumento ai Caduti. Gli anni
passarono e non sorse mai niente. Negli ultimi tempi della dittatura soltanto
le basi di un edificio. [...]
«Durante il podesterato del
Macaluso, i lavori pubblici furono curati dal di lui fratello Cesare, dottore
in agraria, addetto ai sindacati fascisti. Don Cesare era stato in Tripolitania
ed aveva visto le strade di là com’erano fatte, le famose strade a mac adam con
sottofondo in breccia aggregata con polvere di cava. Pensò d’introdurre questo
sistema a Racalmuto, furono divelti quasi tutti i selciati a ciottolato delle
strade e cambiate in mac-adam. La riforma ben presto risultò inidonea. La
friabilità delle pietre sabbiose ed il clima dell’Africa agevola la durata
delle vie fatte con questo sistema. Le rocce di Racalmuto non essendo nè
sabbiose nè friabili, non resistettero all’uso, si frantumarono e si cambiarono
in polvere di estate ed in fanfo d’inverno. In via R. Margherita e in Via Asaro
d’inverno era un problema passarvi. Se si andava su si dava un passo in avanti
e tre all’indietro con i piedi affondati nella mota. Se si andava giù si
rischiava di finire a terra con qualche scivolone. Meno male che macchine non
ce n’erano tante, se no gli sbandamenti sarebbero stati frequenti e disastrosi.
Le macchine allora erano rarissime, le prime Balilla e le Ardita le ebbero
Giuseppe Mattina, l’avv. Carmelo Burruano e l’avvocato Luigi Cavallaro, che era
funzionario del Banco di Sicilia. Poi si fornirono di macchina i Nalbone e si
fecero i primi autisti di piazza, Di Marco e Don Pietro Sedita.
«Macalus ebbe il culto degli alberi
e si devono a lui gli alberi che costeggiano la strada che va al padre Eterno e
la via Filippo Villa. Altri alberi costeggiano la via Macaluso e Ferdinando
Martini, fino al ponte Carmelo e fino alla Stazione ferroviaria. Ne restano
pochi perché sono stati, purtroppo, distrutti dai frontisti della strada,
dimostrando scarso senso civico. Lo spiazzale Canalotto, oggi occupato dalle
case degli zolfatai, sotto Macaluso fu attivato a Palco della Rimembranza e vi
sorsero tanti alberi dedicati ai Caduti. Durante l’estate vi si eseguiva ogni Domenica
sera un concerto bandistico e spesso proiezione cinematografica muta delle
pellicole in voga. La musica non suonò più al Canalotto, che cessò di essere
meta e ritrovo delle passeggiate estive, verso il 1935, in seguito ad un fatto
di sangue avvenuto proprio ai piedi dell’icona attaccata al muro di fronte,
lato Ovest. Vi fu assassinato il procuratore del registro Sciascia ed il
delitto rimase impunito, perché non si individuarono i colpevoli.
«Don Enrico fece restaurare il
teatro riportandolo alla primiera sontuosità, ma non riuscì ad evitare che
fosse adibito a sala di proiezione cinematografica. Dapprima era il comune a
gestirlo direttamente, poi si diede in appalto, sotto Mattina, a Parisi, indi a
Collura e a Bordonaro. Con gli appalti cominciò a rovinarsi il locale. I
gestori non avevano interesse a custodire l’iimobile, il quotidiano uso e la
vetustà a poco a poco lo resero inagibile.
«Curò il riattamento del municipio,
disimpegnando tutti gli ambienti a mezzo del corridoio che collega al salone
del lato sud, rimettendoci soldi di tasca propria ed impegnando architetti ed
artisti di vaglia. Dopo i patti lateranensi, nella consegna della congrua parte
alla chiesa, riuscì a tacitare l’arciprete di allora, Giovanni Casuccio, con la
restituzione dell’intero locale di S. Giovanni di Dio a soluzione dei diritti
su altri edifici del comune. Tale atto fu abbastanza lodevole perché servì a
conservare integra la proprietà al comune del municipio, del cimitero e della
chiesa di S. Maria e dell’ex orto delle clarisse, area oggi occupata dal
teatro. [...]
« Fra le opere meritorie della sua
amministrazione va ricordato l’acquisto dei locali dell’ex Castello del Conte,
Lu Cannuni, o palazzo Chiaramontano. Questo edificio era finito in mano ai
privati. Alla famiglia Presti la parte di sud est e di sud ovest; l’ingresso,
la porta centrale, il salone delle adunanze della Signoria, tutto il versante
di nord e le due torri in mano di Padre Cipolla. Ciò dopo che non fu più
adibito a carcere. Padre Cipolla ne voleva fare un educandato femminile
affidato alle suore domenicane, ma quando nel 1930 fallì, l’immobile, venduto
all’asta per L. 2000 (duemila), l’acquistò il Comune.
«Con gli impiegati non fu mai in
confidenza. Mantenne il distacco, ma ebbe garbo nei rapporti personali. Tutte
le mattine arrivava il primo al Municipio, entrava nel suo abinetto, lasciava
la porta aperta e così impegnava i dipendenti ad essere scrupolosi
nell’osservanza dell’orario. Col pubblico non fu mai tenero. Usò il confine e
l’isola, le vili armi della dittatura fascista, a discrezione [...]
«Un bel giorno .. dovette ingoiare
un rospo: venne privato della segreteria
politica e fu nominato in sua vece Tito Tinebra. Mobilitò le sue forze ed
ingaggiò battaglia. Cadde Tinebra e fu nominato il suo amico Giuseppe Mattina.
Si sentì appagato e riprese fiato ad esercitare le sue funzioni di tirannello
paesano.
«Il fascismo intanto si realizzava
con la sua pesante struttura anche nel paese. Nata l’opera Nazionale Balilla,
don Enrico si affrettò ad iscrivere socio perpetuo il comune l’8 gennaio 1928.
Nel 1930 l’iscrizione all’opera Nazionale Balilla diventò obbligatoria per
tutti i fanciulli e le fanciulle che dovevano frequentare le pubbliche scuole
elementari e per gli studenti di ogni ordine e grado. Cominciarono le
fastodiose adunate del Sabato e della Domenica, le sfilate estenuanti e le
parate stupide fra le vie imbandierate fitte e le bestemmie degli anziani. Le
donne scesero pure a sfilare, le maestre e le giovani. A Racalmuto la dirigenza
dei fasci femminili la ebbe sempre, nella qualità di fiduciaria, collaborata
dalle figlie del farmacista Argento, la maestra Piera Taibi. Le divise
omogeneizzarono apertamente i cittadini. L’opposizione però continuava nel
segreto a vivere, pur se divenne presto innocua all’arbitrio fascista. Il
giornale ‘L’Unità’ arrivava da parigi in un pacchetto con la scritta profumi.
Il fattorino postale Salvatore Morreale lo sapeva e portava il pacco a Giovanni
Facciponti, in un salone sopra l’attuale negozio di Falco. L’Unità si vendeva
una lira la copia, prezzo iperbolico per i tempi e la comprava Vincenzo Vella,
Eduardo Romano, Vincenzo Macaluso, Giuseppe Cutaia e qualche altro di nascosto,
sapendo che se fossero stati scoperti il confine non glielo avrebbe tolto
nessuno.
«Durante tutto il periodo fascista
continuarono ad essere comunisti, subire discriminazioni violente e non
piegarsi, affrontando fame e disagi, ma rimanendo a Racalmuto Vincenzo Macaluso
fu Stefano falegname, Salvatore Jacono calzolaio, Salvatore Dell’Aira muratore,
Eduardo Romano, muratore, Giovanni Lo Forte, Di Liberto Carlo, Luigi Leone,
Leonardo Abramo Vizzini, Alfonso Tirone Tiberio e qualche altro. Mantenersi
iscritto clandestinamente al partito comunista durante il fascismo era una
impresa non facile, si trattava rischiare la galera ad ogni istante e la rovina
della propria famiglia. Loro furono in continuo contatto con Cesare Sessa a
Raffadali. Per lo più vi si recava Eduardo Romano, col pretesto che andava a
badare alla campagna dell’avv. Vincenzo Campo, cognato del Sessa. Solo Sessa
rimase nell’Agrigentino a reggere le fila del partito comunista. Il dirigente
Scarfidi, in seguito ad un’aggressione subita a casa dalle squadre fasciste,
dalla quale scampò mediante l’intervento di un alto magistrato, al quale era
amico, che, quel giornoper caso, era andato a fargli visita e fu presente, era
fuggito e si era rifugiato in un convento. I comunisti di Racalmuto, spesso
Romano ed una volta anche Abramo, durante la dittatura andavano anche a
presenziare riunioni segrete a Palermo. Avvenivano in una casa in via
Albergheria ed erano presiedute dall’onorevole Pilato.
«Ad Eduardo Romano infine è da
attribuirsi il merito di avere salvato il grosso del partito, che poi furono
quelli che in maggioranza fecero l’abiura a don Enrico, dalle persecuzioni.
Infatti, allorchè alla caserma gli chiesero l’elenco dei tesserati, egli fornì
un elenco in cui comparvero i notabili e tutti i morti e gli emigrati. Un
plauso solenne vada pertanto a costoro vivi e defunti, che ebbero il coraggio
di professare le proprie idee affrontando ogni rischio. E ben ha fatto il
partito comunista nel 1961 ad offrire una medaglia di bronzo ed il diploma
degli otto lustri di fedeltà ai superstit, perché le nuove generazioni
potessero conoscere ed ammirare gli uomini tenaci e fermi nel loro credo anche
in clima di difficoltà e divieto. Da Racalmuto poterono avere quest’attestato
di riconoscenza, Salvatore Dell’Aira, Di Liberto Carlo e Vincenzo Macaluso.
Quest’ultimo alla memoria, per essere deceduto giorni prima. Don Enrico non
seppe mai queste cose e dire che aveva sempre fra i piedi Carmelo Romano, il
fratello di Eduardo che gli faceva l’amico e badava a tener lungi i sospetti
dalla sua casa.
«Lui seppe solo il borbottio della
bottega Giudice e del salone Bellavia, ma non potè mai eccpire alcunchè per
colpire con carcere e confine il titolare ed i frequentatori. [..]
«Il giovane che sin qua ci ha
seguiti ci darà, credo, dell’esagerato, ma prima di giudicare si informi e
saprà che il fascismo aveva un decalogo, i cui primi articoli o comandamenti
così dicevano - 1) Mussolini ha sempre ragione; 2) le punizioni sono sempre
meritate; 3) la Patria si serve anche facendo da guardia ad un bidone di
benzina, ecc. ecc.
«Quando vedrà che il governo
fascista imponeva il domma dell’infallibilità del suo capo, costringeva la
supina accettazione di ogni pena e poneva tutte le attività lavorative al
servizio della Patria, per attribuire il delitto di attentato alla sicurezza
dello Stato contro ogni inadempienza, si accorgerà che non siamo esagerati e si
meravigliera che un popolo di circa 45 milioni di componenti ha sopportato per
venti anni tanto obbrobrioso sistema. Coloro che avevano assaporato la libertà
democratica mal sopportavano tanta opprimente vuotaggine, ma guai a manifestare
la loro avversione, si rischiava il confine o la galera, il domicilio coatto o
una serie di legnate e sevizie nelle caserme. Ebbe considerevoli guai Edoardo
Romano, per esempio, perché a Giovanni Agrò che gli ingiunse un giorno al campo
sportivo di credere, obbedire e combattere, rispose: - Combattere sì, perché se
mi chiamano alle armi non mi posso rifiutare, obbedire altrettanto perché se
non ubbidisco mi costringono a farlo, ma credere no, perché nessuno può impormi
una fede. [...]
«Si nasceva figli della lupa e si
aveva una divisa da portare ed un moschetto. Si diventava balilla e la stessa
cosa, poi avanguardista, giovane fascista, camicia nera ecc. L’opera nazionale
Balilla era stata sostituita dalla Gil, gioventù italiana del littorio, che inquadrava
tutta la gioventù della nazione in un casermone rigurgitante odio ed abuso,
soverchieria e sbronzerie dei tanti megalomani dell’epoca. Per andare a scuola
si doveva presentare la tessera Gil, sia per le elementari che per le medie o
superiori, comprese le università, dove oltre al diploma di maturità si doveva
esibire il certificato di iscrizione al G.U.F., gioventù universitaria
fascista, e l’attestato di avere superato il brevetto sportivo. Senza la
tessera Gil non si poteva nemmeno lavorare. A Racalmuto potè rifiutarla un solo
giovane, Calogero Macaluso, figlio di un cugino di don Enrico, il quale da
solo, o per contatti con Eduardo Romano, diventò comunista. Costui fu raggiunto
dai tentacoli della piovra nera del fascismo e fu chiamato in caserma dai
carabinieri. Il maresciallo gli disse, fra l’altro, che lo avrebbe arrestato se
non prendeva la tessera. Lui ebbe il coraggio di ripondere: - mi arresti pure,
è necessario che i nostri compagni in galera ricevino il conforto delle nuove
generazioni. - Non fu arrestato perché don Enrico non volle subire l’affronto
di far sapere ovunque che un suo omonimo parente non era fascista.
«Nelle scuole si studiava dottrina
fascista e cultura militare fino alla università dove pure era la materia
obbligatoria di mistica fascista. Prima di andare soldati c’era il premilitare
obbligatorio, e qui a suon di nerbo i giovani diciottonni, ogni Sabato
pomeriggio, per ore ed ore dovevano stare a fare marce ed istruzioni. A
Racalmuto il premilitare si faceva al campo sportivo, lo faceva fare il
geometra Luigi Falletti, coadiuvato dal cadetto della milizia Luigi Di Marco e
qualche altro. Non so altrove, ma a Racalmuto la borghesia aveva un privilegio,
non faceva le istruzioni. Noi studenti facevamo gli elenchi al geometra
Falletti e stavamo ogni sabato a guardare. Ricordiamo la nausea e la ribellione
che provavamo quando vedevamo schiaffeggiare sonoramente i poveri giovani
contadini ed a volte anche bastonare, perché si muovevano sull’attenti o per
altro. La nausea ci veniva perché già ai nostri diciotto anni eravamo
organizzati da circa due anni nelle file clandestine antifasciste. Alla
formazione del nostro pensiero politico, impreciso partiticamente, ma
decisamente ugualitario, di sinistra e di pronta opposizione al fascismo,
contribuì, oltre la famiglia sempre antifascista alla quale apparteniamo, il
nostro insegnante di filosofia Ettore Centineo, che ci schiuse la mente alla
democrazia ed alla critica. Siamo entrati nelle organizzazioni allora operanti
in Italia per mezzo di Leonardo Sciascia [..] A lui si deve la formazione di un
gruppo di studenti antifascisti in Racalmuto e la coscienza della brutalità di
quel partito, nonchè della sua carenza ideologica fra gli studenti di ieri e
professionisti di oggi in questo paese. Leonardo Sciascia, convinto comunista
nel 1938 e 39, quando aveva 17 e 18 anni, riuscì a fare preziose cellule nel
paese, si ricordano Angelo Picone, Diego Paradiso e Salvatore Cavallaro, oltre
noi e qualche altro fra coloro che collaborarono nei limiti delle loro
capacità, compromettendosi magari, a prepare la resistenza contro il fascismo
ed a sabotare le organizzazioni della dittatura. [...]
«Feste nazionali sotto il fascismo
erano: il 23 marzo, anniversario della fondazione del fascio, il 21 aprile,
natale di Roma, l’11 febbraio anniversario del Concordato con la Chiesa, il 24
maggio, entrata in guerra, il 28 ottobre anniversario della marcia su Roma ed
il 4 novembre festa della vittoria. [..] Una mattina di festa nazionale il
dottor Giuseppe Cavallaro ebbe inferto dai fascisti racalmutesi un colpo
terribile, tale che tarò per sempre la sua salute. Il dottor Cavallaro era un
vecchietto senza figli, che ogni giorno con la moglie andava a trovare il
suocere e i cognati. Un giorno fu fermato in Via R. Margherita, davanti di
Pavia dai militi. Gli chiesero perché non portava la camicia nera quantunque
festa nazionale. Il povero dottore rispose di averlo dimenticato, essendo
uscito di premura per fare una visita di urgenza. I militi fecero l’addebito e
riferirono al segretario politico. Il dottor Cavallaro ebbe ritirata la tessera
d’iscrizione al partito nazionale fascista. Tale provvedimento significava la
rovina, infatti senza tessera non si poteva esercitare la professione
sanitaria, perché l’ordine dei medici lo vietava. Il dottor Cavallaro, sospeso
dall’esercizio professionale, si dispiacque tanto, anche se stava
economicamente bene, che si ammalò. Non si guarì più e morì alcuni anni dopo.
[...]
«La delinquenza però è bene che si
dica non finì proprio sotto il fascismo, e la stessa mafia non fu eliminata,
infatti ad essa, strumento di repressione contadina, si sostituì lo stato
autoriatario fascista, cioè non ve ne fu più bisogno e sembrò essere stata
debellata, ma debellata non fu tanto che rinacque così rigogliosa alla caduta
del regime, cessarono soltanto le efferatezze del dopo prima guerra mondiale
non la criminalità vera e propria. Al fascismo si diede a torto quel merito. Si
dimenticò che Sciascia, il ricevitore del registro fu assassinato nel 1935 e c’era
il fascismo, Federico Giancani ammazzato barbaramente nel maggio del 1937 e
c’era il fascismo, il latitante Ciciruneddu, Rizzo, non potè mai essere preso
dalle forze dell’ordine e fu ucciso da uno per la regola del tagione che
gravava sulla sua morte ed erano gli anni dal 1936 al 1939 e c’era il fascismo,
l’orificeria di don Carmelo Rosina fu scassinata, una prostituta fu trovata con
la gola recisa da un rasoio nella sua casa in Via Madonna della Rocca, l’altra
fatta a pezzi alla Acqua Amara presso la Torre di Baeri in pieno fascismo.
Abbiamo voluto citare i misfatti più eclatanti del periodo fascista, sorvolando
i minori, per dimostrare l’infondatezza di quest’affermazione, che, purtroppo,
si sente ancora ripetere nelle discussioni di piazza. Il fascismo usò metodi
repressivi atroci e questo è vero, mise la pena di morte e la esercitò e questo
è pure vero, ma l’una e l’altra non gli fanno onore. Non si scherza con la vita
degli uomini, ed essa è sacra e nessuno può toglierla per nessuna ragione. La società
può relegare fuori del proprio consorzio il tarato, il reo, ma non sopprimerlo,
non ne ha nessun diritto. La repressione poliziesca del fascismo poi era peggio
della fucilazione, si trattava delle torture di medievale memoria, praticate
nelle caserme dei carabinieri: nerbate fino al sangue, scosse elettriche, fare
ingerire acqua satura di sale, legare alla cassetta e tante e tante altre
barbarie. Basta dire che l’omicidio di Federico Giancani se lo accollarono
parecchie persone incapaci ed innocenti pur di non patire più le torture e poi
si vennero a trovare i colpevoli fuori dell’Italia, in Africa dove erano
riusciti ad imboscarsi.» (10)
6
) Ben Morreale - Uomini d’onore (Li
cornuti) - Mursia Milano 1976 - pag 56 e segg.
6
bis ) Evidente la topica di far ricadere nel 1925 le elezioni che si
erano invece svolte il 16 aprile 1924.
7 ) Qui lo
storico locale - che evidentemente si basa solo sulla ingannevole tradizione
orale - è poco convincente. Giovanni Agrò non poteva essere l’ispiratore della
filodrammatica locale di quei tempi (prima del 1926), per questioni a dir poco
anagrafiche. Quanto al “mortorio”, quella rappresentazione sacra
si è svolta a Racalmuto nel 1923 (tempo in cui di “Giovinezza” non se ne
suonava l’inno) e nel 1946 e 1950 (quando il fascismo era morto e sepolto).
Ciò, almeno stando all’informatissimo Salvatore Restivo che ricostruisce la
stora delle recite al teatro comunale di Racalmuto nel n.° 3 di Malgrado tutto del settembre 1994, pag.
6.
8 ) Le annotazioni sono qui alquanto
agiografiche. In sacchi dell’immondizia
stanno custoditi, presso il castello di Racalmuto, atti delicatissimi tra i quali i processi
verbali della locale caserma dei carabinieri. In quelli relativi al 1925
abbiamo trovato il seguente processo che riguarda appunto il Romano: « n.° 207 - processo verbale di denuncia di
Edoardo Romano quale responsabile di omessa denuncia di armi e munizioni -
L’anno 1925 - addì 31 ottobre - [viene fatta perquisizione domiciliare]
...avendo avuto fondati sospetti .. che [fossero detenute armi] nell’abitazione
del nominato Romano Edoardo fu Calogero e di Restivo Maria nato a Racalmuto il
12-11-1892 ed ivi residente in via Duilio 2, capo mastro muri fabbro.. pericoloso comunista.
»
9
) La ricostruzione storica del periodo, farraginosa quanto zeppa di ingenuità
polemiche e di palesi sviste, non è in alcun modo accettabile, come abbiamo
puntualizzato in precedenza. Valga solo come testimonianza del becero
antifascismo dell’immediato dopoguerra a Racalmuto.
10 ) Eugenio Napoleone Messana - Racalmuto nella storia della
Sicilia - Canicattì 1969, pag. 368 e segg.
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