sabato 15 ottobre 2016



Descrizione del laboratorio sub 5) concertazione di iniziative volte al recupero del dialetto racalmutese, della tradizione musicale locale, del canto gregoriano quale nei secoli scorsi clero, sodalizi monacali e le peculiari confraternite racalmutesi salmodiavano come i tanti “libri cantorum” custoditi nelle chiese di Racalmuto comprovano ed in certo senso tramandano


 


Il titolo di per sé chiarisce e giustifica il tipo di laboratorio che s’intende porre in essere.


Si vuole innanzitutto salvaguardare il dialetto racalmutese che Sciascia tanto amo e spesso trasla nella sua opera letteraria: termini come “esperiente”, “mi stranizza”, “salinari”  catoneggiare”  ricorrono nei suoi lavori proprio nell’accezione del dialetto “veicolare” racalmutese.  Qualcuno vorrebbe polemizzare con il defunto Sciascia usando proprio il comune dialetto natale:


“ Littra a Nanà, Provessuri sabbenadica, - questo un esempio che ci pare molto esplicativo del concetto -


Occhiu di crapa - mi scusassi - mi pari chi avi l’occhiu tanticchia fanzu. Ddruoccu, Vossia dici cca è racarmutisi, sin’ad un certu puntu: che è racarmutisi - cioè - sino a lu nannu di sò nannu e cca iddru si chiamava Leonardo. Ma è propriu accussì, provessu’? Cuminciammu a diri ca lu nannu di so nannu si chiamava Caliddru, Caliddru com’a mia. ’N’talianu, mastro Calogero Sciascia. Si taliammu li libbra ca cci stannu ancora a l’Itria, vidiemmu ca iddu era uno di la mastranza, era piu e divotu e quannu murì, li missi griguriani a l’Itria ci li diciva lu parrinu Peppi Pirrera. Mastru Liddru Sciascia era racarmutisi originali: si marità lu 24 frivaru di lu 1802, sempre a Racarmuto cu na racarmutisa, la figlia di mastru Pasquali Scibetta e di la gnura Lillina Nalbone. Sò pà, nni lu 1802 era già muortu; ma sò matri, nò. Chista era una Alfano e si chiamava di nomu Nucenzia.


E lu patri di lu nannu di sò nannu, cu era? Si chiamava mastru Leonardu Sciascia. Omu ancora cchiù piu di lu figliu. Nzumma, ’un gn’era comu a Vossia, ca ci piaci dire di esseri scumunicato come lu fratacchiuni fra Ddecu.


Era piezzu grossu di la mastranza: zelatore, si firma o miegliu fu lu figlio Cicciu ca si firmà pi iddu e pi sso pà.


Si talia  ’n’antica carta di l’Itria unni si ddicidi pi la bona  morti (ccu li dovuti scongiuri), m’havi a dari raggiuni. ’Un ci l’haiu pi ora ccà ssa carta, ma la prossima vota cci la puortu.


 


Lu patri di lu nannu di sò nannu era anch’iddu racarmutisi, e racarmutisi era lu nannu: mastru Giovanni, sapi chiddu ca si marità, sempri a Racarmutu, cu la figlia di li Scibetta, gnura Anna e ca murì a 68 anni lu 28 di marzu di lu 1766; e fu seppellitu ’ntra la fossa cumuni a S. Franciscu. Faciennuci li cunti, happi a nasciri attorno a lu 1698. Chistu forsi nun gn’era di Racarmuto ma di Giurgenti. Sò pà: mastru Leonardo, maritatu cu la gnura Vicenza Quagliata, era giurgintanu e si nni vinni a Racarmuto ma nni li primi di lu 1700, ddu seculu inzumma chiamatu di li lumi e ca a Vossia pari ca cci piaci assà. Se nun mi cridi, taliassi chi scrivino li parrina di Racarmuto, in occasioni di lu matrimoiniu di lu figliu di ’ssù primu Scascia racarmutisi, lu capostipiti di la sò famiglia:


 


 


 1726 - 29.9.1726: SCIASCIA GIOVANNI M.° del fu m. Leonardo e Vincenza Quagliato vivente olim jugati Civitatis Agrigenti et Parochiae S. Petri, [sposa:] SCIBETTA ANNA.


 


Vossia è sicuru ca lu nannu di sò nannu era nadurisi e si chiamava Nardu, mastru Nardu. ’Un gn’è bberu, provessu. Lu ‘mbrugliaru. Sapi cu era ddru nadurisi? era chiddru ca nni li libra di la matrici è accussì scrittu:


 


../6/1799    Sciascia Giuseppe de' furono Onofrio di Buonpensiero e Giovanna [sposerà]Borzellino Anna di Vincenzo (al presente abitatrice di Buonpensiero) [e figlia di] Maria. Registro degli Sponsabili: pubblic. giugno 1799 - 16,23,24.


 


Lu zzi Peppi Sciascia, nadurisi - iddu sì -, cu la sò famiglia nun cci trasi propriu nenti. M’havi a cridiri provessu’. Mi scusassi e sabbenadica.


 


Liddru Taverna.”


 


                                                                                                                      


 


Editare periodici in stretto dialetto racalmutese sarebbe intento della nostra associazione.


Il laboratorio poi dovrebbe dare vita ad una schola cantorum di giovanissimi che diretti dai maestri che a Racalmuto non mancano riediti i tanto celebri canti gregoriani, nella versione del tesoro archivistico della Matrice in campo della secentesca editoria musicale.


 


Descrizione del laboratorio sub 6) coordinamento con i centri culturali di Grotte per il recupero della tradizionale teatralità di questa periferia agrigentina


 


Quanto abbiamo detto sopra sul punto, specie allorché abbiamo tracciato il budget, è del tutto esaustivo sulla latitudine dell’iniziativa: più che altro s’intende supportare il centro teatrale della vicina Grotte (terra anch’essa presente nell’opera sciasciana) sotto il profilo economico acciocché sia in grado di mettere in scena - in via permanente - il teatro dello scrittore racalmutese.


Nel 2000 verrà aperto quel gioiellino che è il teatro comunale di Racalmuto: sarà aperto alla lirica, che Sciascia non sembra avere amato più di tanto; dovrà ospitare la prosa, questa sì cara a Sciascia. Il Laboratorio Teatrale Luchino Visconti di Grotte sembra creato apposta per supplire alle carenze del genere che oggi si lamentano a Racalmuto. A Racalmuto, recitare stabilmente - come si dice - Sciascia sarà doveroso e dovrà avvenire nel Teatro prediletto dallo Scrittore. Supplent Cryptae! Supplisca Grotte.


In Occhio di Capra una sapida ironia: vi si legge “gruttisi. Grottesi. Di Grotte, paese a tre chilometri da Racalmuto; e più piccolo. I grottesi che venivano a Racalmuto erano derisi dai ragazzi con questa strofe, variamente scandita o cantata: “Grutti gruttisi/ cu li corna tisi/ scorcianu cani/ e fannu cammisi” [..] Si irrideva così alla povertà dei grottesi: e davvero il paese deve essere stato poverissimo; ma nella sua povertà, più vivo di Racalmuto. [ ...] E oggi, per l’intraprendenza commerciale di alcuni, Grotte è più ricco di Racalmuto.” Grato il paese celebra un premio dall’ammiccante nome di Racalmare. Vi ebbe un riconoscimento Vasquez Montalban. Con accondiscendenza ora la vedova Sciascia - lei così ritrosa - presiede il premio Racalmare: Racalmuto le è invece ostico, ma in fin dei conti, viene da lontano. (Dice il marito in Fuoco all’anima: “D. E poi ti sei sposato, presto se non sbaglio - R. Avevo ventiquattro anni. - D. Ed era insegnante anche tua moglie Maria? - R. Sì, a Racalmuto. D. Ma lei non è di Racalmuto. - R. No, ha vinto il concorso per insegnare lì, ma è originaria della provincia di Catania ed è nata a Petralia. Suo padre era maresciallo dei carabinieri, e allora si spostavano da un paese all’altro. - D. E l’hai conosciuta quando insegnavi a Racalmuto. - R. No, perché io, prima di fare l’insegnante, sono stato impiegato al Consorzio agrario di Racalmuto.)


I grottesi amano alla follia Sciascia. Antonio Carlisi scrisse nel 1995: “il nostro paese [cioè Grotte] ha sempre amato considerare Sciascia, oltre che di Racalmuto anche di Grotte: tant’è che il Consiglio Comunale, nella seduta del 27 giugno 1986, gli conferì la cittadinanza onoraria. Un amore verso la sua persona, che Sciascia ricambiò altrettanto amorevolmente, lasciando alla nostra comunità tanti bei ricordi. Come quando gli venne proposto di aiutarci ad istituire e addirittura a presiedere il Premio Racalmare e Lui, già conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, con la semplicità e la modestia di cui tanto si è parlato e scritto, ma soprattutto con quella dolce affabilità che lo distingueva, disse di accettare [...].”  Siamo scivolati sul patetico, ma tant’è: tanto quanto rende convincente una concertazione con Grotte per alcuni laboratori del Parco.


 


Descrizione del laboratorio sub 7) collegamento con il locale circolo Unione per un’ardita riesumazione dello sciasciano “circolo della concordia” con i suoi veridici personaggi, le sue atmosfere sociali, il suo scenario, le sue vetuste sale: un micromuseo in un normale e funzionante circolo quale continua ad essere;


 


Il Circolo Unione può considerasi la fucina ove si forgiò il giovanissimo Sciascia nell’approccio alla “blasfema ironia” che ne fece uno scrittore di peso mondiale. Si sa: ascoltava le salaci parodie di tal don Luigi Messana - velato appena dalle sembianze raffigurative di don Ferdinando Trupia - e prima in Galleria, poi nelle “Parrocchie” il parodistico sproloquiare su tutti e su tutto del socio nato solo per lasciare “un’affossatura” nelle poltrone del Circolo della Concordia divenne anima di un fare letteratura oltre il formalismo dei Rondisti, in cui Sciascia, adolescente, stava affogando. (“Ma a parte l’affezione che ho sempre avuto per l’opera di Savarese - ebbe una volta a polemizzare il Nostro - e specialmente là dove tocca i miti e le storie della terra siciliana, debbo confessare che proprio sugli scrittori “rondisti” - Savarese, Cecchi, Barilli - ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio.”)


Si è detto in sede d’inventario cosa s’intende fare per restituire quella realtà locale all’intelligenza dei vecchi e nuovi cultori di Sciascia. Pubblicazioni in CD-ROM, traslazione in Internet del ricco patrimonio fotografico del Circolo, restituzione dell’ambiente alla raffigurazione sciasciana, ristrutturazioni di sale ed arredi, come ai tempi della frequentazione del giovanissimo Sciascia.


Si vuole, in altri termini, un minimuseo compresente con il reale dimorare di nuovi soci, per tanti versi simili a quelli stilizzati ed ibernati nelle “forme ipotattiche” che Pasolini credeva di riscontrare in Sciascia. Un socio del Circolo Unione sta stendendo note e cenni storici esordendo: “ Il circolo Unione l’anno venturo, nel 1999, compie 160 anni: è il più vecchio circolo di Racalmuto, il più glorioso, quello maggiormente emblematico di una classe media con aspirazioni nobiliari. Oggi è di certo meno pretenzioso, più riservato, amante del pettegolezzo d’alto bordo - tra il politico, il sociale, l’irriverente, il caustico, il miscredente. A sera pochi soci ormai cercano di perpetuare il cicaleccio arrogante, impietoso ed ilare dei personaggi passati alla storia (letteraria) per la penna di Leonardo Sciascia. Ma di don Ferdinando Trupia, di Martinez, di Lascuda, di don Carmelo Mormino, del dott. La Ferla, di don Antonio Marino ormai neppure l’ombra. I loro eredi - quasi tutti professionisti affermati in Continente o a Palermo - hanno ritenuto di potere sbeffeggiare il circolo dei loro sbeffeggiati (da Sciascia) antenati facendosi espellere per morosità da una deputazione post-sessantotto, di estrazione non nobile e talora persino proletaria. La fuoriuscita dei virgulti degli antichi galantuomini  vorremmo dire è persino fisiologica.


A sera, ora, tocca alla facondia suadente e beffarda di Guglielmo S. mantenere viva la conversazione al circolo: gli fa eco il tranchant assiomatismo di Calogero S.; sorride con intelligente silenzio Gioacchino F.; fino a qualche anno fa scoppiava l’ira funesta dell’avv. Salvatore C.; al dott. Gioacchino T. il compito del divertito spettatore; Ignazio P. ascolta silente, ma si arrabbia se gli toccano la sua Democrazia; il Presidente non è faceto: se occorre stigmatizza; Salvatore S. arriva tardi, in tempo per un paio di sorrisi se Guglielmo S. è in vena nelle sue sforbicianti allusioni. Quando vado a Racalmuto, partecipo anch’io a tali dibattiti serotini: nessuno ha voglia di prendermi sul serio: provoco, sono provocato, insolentisco, vengo insolentito: la serata passa piacevole: val la pena di pagare quel piccolo contributo quale socio con “dimora precaria”.


Di tanto in tanto arrivano poesie in vernacolo: sono composizioni miserande, cattive, senza gusto: sono intollerabili. I soci però sembrano divertirsi lo stesso.


Leonardo Sciascia trasse motivi ed argomenti per il suo iconoclasto deridere i poveri galantuomini di Racalmuto. Vi era associato; lo eleggevano deputato e persino cassiere. Ma amava stroncare quei figuri nati effettivamente per lasciare “un’affossatura nelle poltrone del circolo”. Ebbe il cattivo gusto di morire lasciando in sospeso il pagamento dei “buoni” associativi: inflessibili i membri della deputazione non mancarono di verbalizzare nel 1992 la circostanza.


Lo scrittore è disinvolto nell’accennare alle gloriose origini del circolo: “Il circolo della concordia - annota quasi con prosa burocratica [2] - prima denominato dei nobili, poi della concordia poi dopolavoro 3 gennaio, sotto l’AMG sede della Democrazia Sociale (il primo partito apparso in questa zona della Sicilia all’arrivo degli americani e dagli americani protetto) e infine ribattezzato della concordia, pare sia stato fondato prima del 66, se appunto nel 66 la popolazione infuriata contro le sabaude leve, istintivamente trovando un certo rapporto tra la leva che toglieva i figli e i nobili che se ne stavano al circolo molto volenterosamente vi appiccò il fuoco; ma pare ne ricevessero danno soltanto i mobili, le persone si erano squagliate al primo avviso, le sale restarono superficialmente sconciate.”  


Quanto a storia locale ci reputiamo più fortunati di Sciascia e siamo in grado di retrodatare di almeno un trentennio la fondazione dello storico circolo. Se si spulcia l’Archivio di Stato di Palermo, Segreteria di Stato presso il Luogotenente generale, Polizia vol. 412, si rinviene il “Notamento dei Così detti Caffè e luoghi di riunione esistenti nei vari Comuni di questa Provincia ..., Girgenti, 26 agosto 1839.” Sotto tale data abbiamo dunque la consacrazione ufficiale del nostro circolo o se si vuole il riconoscimento giuridico. Scrive Carmelo Vetro  [3] “In provincia i sodalizi si registrano a Licata (due circoli), Palma, Racalmuto, Ravanusa, Bivona, Villafranca, S. Giovanni, Santa Margherita, Montevago, Sciacca, Naro, Canicattì, Alessandria, Campobello, Cammarata, Caltabellotta, Menfi, Sambuca, Burgio ed Aragona: tutti con i loro bravi regolamenti, autorizzati dalle autorità di polizia, ... E’ da dire che molti di questi circoli erano favoriti dall’autorità locale che in tal modo poteva registrare gli umori politici e gli orientamenti prevalenti. Non a caso parecchi sodalizi nascono negli anni Trenta dell’Ottocento dopo la tempesta politica del 1820-21 ed il tentativo borbonico di riavvicinarsi agli intellettuali e borghesi.” Siamo pressoché certi che il circolo sorgesse in piazza su un marciapiede “sopraelevato rispetto al resto della piazza, ove era vietato, per inveterata consuetudine, passeggiare alla ‘gente comune’ ... Si aveva così un effetto quasi grottesco, che sottolineava la gerarchia feudale, essendo i notabili una ‘spanna’ più alti degli altri”. Il Vetro soggiunge: “Un rigido cerimoniale regolava l’ammissione dei nuovi soci ai vari circoli.... si poteva essere ammessi riportando la maggioranza di “voti segreti per bussoli”, nell’assemblea dei soci. Ogni due anni venivano eletti quattro deputati, il più giovane dei quali faceva da segretario. Nelle assemblee avevano diritto di voto i soli contribuenti. Ai deputati erano affidati la “polizia interna” e il “buon ordine della conversazione. Nelle sere di gala la conversazione era illuminata “a cera”. Al circolo erano ammessi solo “gli associati, le loro mogli, i figli e le figlie nubili e fratelli conviventi nella stessa casa”. Infine gli ospiti non si  dovevano “permettere di discorrere e discutere di cose” che si allontanavano “dallo scopo di una onesta conversazione”. Parimenti vietata era la lettura di fogli, giornali, libri o stampe non autorizzati dalla polizia. ... I contribuenti avevano la facoltà di presentare alla conversazione “forestieri distinti e di loro conoscenza, chiesto il permesso ai Deputati, salvo alla deputazione di deliberare in seguito l’esclusione se non li avesse riconosciuti “meritevoli”.  ... Il circolo era provvisto dei “fogli officiali”   di Palermo e di qualche altro giornale letterario. Un cameriere ed un “bigliardiere” si occupavano di servire i soci con un vestito decente e a testa scoperta”. Un puntuale tariffario  stabiliva le quote da versare per i diritti di gioco. Le illuminazioni “a cera” erano ordinariamente previste nella sera di gala ed in talune ricorrenze. ... Leonardo Sciascia ci introduce nello spazio dorato, quasi senza tempo del Circolo della concordia di Regalpetra, dove vecchi e nuovi notabili vengono a celebrare il rito della fedeltà al passato ed alimentare inutili sogni di difesa dei propri privilegi. Il circolo è situato nella parte centrale dei corso: “Consiste di una grande sala di conversazione, con tappezzeria di color pesco e poltrone di cuoio scuro, una sala di lettura, tre sale da gioco”. I soci del circolo non sono, ormai, più i ricchi: “I ricchi si trovano nel circolo del mutuo soccorso, una società operaia che è venuta trasformandosi ...; il più ricco dei “don” non possiede più di dieci salme di terra” ma i soci del circolo della Concordia “continuano ad essere il sale della terra”. Anche qua si discute di politica “scienza di cui molti soci del circolo si sentono al vertice e fanno previsioni che, verificandosi poi fatti esattamente opposti, si possono considerare attendibilissime.” Dopo la politica, le donne. E allora “le mani si muovono a plasmare nell’aria grandi corpi di donne, donne si gonfiano nell’aria come mongolfiere. Non è più uno scherzo ora, tutti ci sono dentro, lo studente ascolta le confidenze del giudice di corte d’appello in pensione”. Nella rappresentazione letteraria la ritualità della “conversazione”, che autogratifica con la sua immobilità l’Olimpo paesano, dà quasi un senso alla stessa esistenza: ci si sente, allora, “lievi e giustificati, d’aver vissuto tutta la giornata soltanto per attendere, come una novità, come una grazia insolita e particolare, quest’ora che compendia le ragioni ideali del mondo, che chiarifica e motiva finalmente l’esistenza, rianima l’immoto flusso dei giorni, riattacca la morta gora dell’abitudine al canale della continuità”. Una continuità che nell’illusione di molti esercita, ancor oggi, come un fossile vivente, esercita il fascinoso richiamo di un’elitaria società che più non esiste.”


 Un Parco Letterario cui si concede un piede dentro un cosiffatto Circolo, appena appena rifatto il consunto maquillage,  sarebbe “fantasmatico”, termine che tal Onofri conia - a spese della ormai decennale spettralità di una Fondazione locale che si rifà a “Sciascia” - per la nostra vitalissima Racalmuto.


 


 


 Descrizione del laboratorio sub 8) compartecipazione maggioritaria in una società mista con il Comune cui demandare iniziative imprenditoriali nel campo del turismo locale;


 


E’ in fase di gestazione una società mista tra il Comune di Racalmuto ed i privati con intenti altamente sociali. La nostra associazione intenderebbe partecipare alla sottoscrizione del capitale sociale al fine di farne punto di sbocco di tante iniziative connesse al Parco Letterario, specie con particolare riguardo a quelle a sfondo turistico.


La società dovrebbe denominarsi SIRAC spa - Racalmuto ed avrebbe per scopo sociale:


“ogni iniziativa volta alla valorizzazione delle risorse artistiche, archeologiche, paesaggistiche, paleologiche, archivistiche ed affini concernenti, anche in via indiretta, il paese di Racalmuto. A tal fine potrà venire svolta ogni attività sussidiaria sia pure a carattere finanziario per la realizzazione di studi e ricerche e conseguenti pubblicazioni a stampa o su base informatica, come pure per il tramite di Internet.”


La contiguità tra Parco e tale società di capitali a partecipazione comunale è di tutta evidenza: sinergie tra le due entità sono facilmente ipotizzabili. Per la nostra associazione - non avente scopo di lucro - appoggiarsi su tale entità semipubblica è basilare per efficaci interventi in campi in cui non è agevole operare senza strutture societarie di natura capitalistica.


 


Descrizione del laboratorio sub 9)  costituzione di una società di capitali per rilanciare il vecchio progetto di una traslazione cinematografica delle “Parrocchie di Regalpetra” che il regista racalmutese Beppe Cino - discepolo di Rossellini - da tempo agogna di girare;


 


L’argomento è stato sopra adeguatamente rappresentato per doverne qui ripetere i tratti salienti. Un lancio cinematografico che renda visibile al grande pubblico la simbiosi tra Sciascia e Racalmuto avrebbe imponderabili effetti pubblicitari, quanto alla esplosione di flussi turistici di massa. Sembra ciò di tutta evidenza: sarebbe davvero un felice battesimo per il Parco letterario.


 


Descrizione del laboratorio sub 10)  attività traslativa dei disparati risultati conseguiti in CD-ROM o in siti Internet a disposizione del mondo dei navigatori informatici.


 


Si è detto in esordio della presente seconda sezione: tutta l’attività del Parco deve sfociare in elaborati informatici. Le scuole professionali di Racalmuto, Favara e Caltanissetta - al presente particolarmente operanti nella didattica del settore - potranno fornire tecnologie d’avanguardia, personale specializzato, docenti agguerriti nel campo della multimedialità ed in misura tale da assicurare la buona riuscita del progetto che qui si è illustrato.



 


SEZIONE III


 


Descrizione delle potenzialità imprenditoriali e di sviluppo locale, che devono contenere indicazioni sia sulle ipotesi di imprese che possono nascere attorno al Parco, sia sui soggetti che eventualmente possono costituire tali imprese.


 


Il Parco - ove finanziato - coopererebbe al sorgere della società mista SIRAC, una novità assoluta nel mondo addormentato della finanza locale siciliana. Con criteri di sana imprenditorialità la SIRAC sarebbe di sicuro in grado di attivare un turismo di massa a Racalmuto, determinando in vario modo un preziosissimo indotto per corone circolari di imprese similari di una nuova, efficiente imprenditorialità privata. Questa, oggi a Racalmuto, nell’agrigentino, nel nisseno, latita o si arrabatta maldestramente. Non vogliamo qui tornare su quanto detto con toni anche aspri prima, nella sezione introduttiva. A quelle note qui ci rifacciamo. Quelle note qui richiamiamo: un rinvio ricettizio, si direbbe in diritto


Giovani industriali racalmutesi, giovani artigiani, mostrano intenso interesse - e lo attestano formalmente - a questa nostra visione del Parco: richiamarsi a Sciascia che tanto sfruttò, letterariamente parlando, questo centro dell’altipiano di Racalmuto, è contropartita anche di natura economica. Sciascia che trasformò la misera Regalpetra de “la neve, il natale” in un apologo mondiale - arrecante a lui solo fortune cospicue - Sciascia, ora defunto, è tenuto a risuscitare la Racalmuto economica, con il turismo con un Parco al suo nome. Certo vi è una Fondazione a suo nome a Racalmuto, ma un suo corifeo - tal Di Grado - strilla su un foglietto locale: “... fra quanti hanno disertato ... i prestigiosi eventi promossi dalla Fondazione,  [tanti] ora lamentano scarse attività e presenze: ma quali? Frizzi e la carrà? Il poeta incompreso di Villafranca Sicula e il preside in pensione di Montalbano Elicona? E’ fatale. Il villaggio globale telemediatico e, all’inverso, l’eterno Strapaese delle sagre della ricotta (e della poesia) reclamano i loro idoli. Non li avranno, naturalmente: non dalla Fondazione, che non è una Pro-loco né un’azienda del turismo [da sottolineare e ricordarsene se si vorrà premiare un qualche parco, a questo alternativo, sotto l’egida di una tale Fondazione, n.d.r.], non è un assessorato allo spettacolo, né un ufficio di collocamento. Che cos’è allora? ... La Fondazione è un’istituzione culturale, un luogo di studio e di produzione scientifica.” Tanta spocchia che frattanto ha succhiato improduttivamente una decina di miliardi a carico dell’Erario, di quel mondo “della ricotta” che le tasse le paga, del disprezzato “villaggio globale telemediatico” e nulla ha prodotto. Si parla della giapponese Takeya. Chi è? Si accenna ad Heydenreich. L’euro ce ne svelerà forse la fisionomia. Invero, si è prodotto solo un libricino che stravisa, con lo stesso Sciascia, un’accusa di testardaggine ad un nostro secentesco frate (con propensioni verso il delitto di nefando) con un tenace concetto di ereticale sublimazione. Dieci miliardi spesi per cercare di capire quali furono i rapporti tra Sciascia ed il settecento o tra costui e (l’odiato) dilettantismo.


Il nostro Parco intende bypassare tale Fondazione (forse pronuba di un progetto concorrente), tale verginale concetto della supercultura.


Per contro andiamo cercando nella scuola, in quella professionale, le nuove spinte per una svolta economica a Racalmuto. Nei giovani neo-laureati - tanti e massicciamente disoccupati - vogliamo scoprire forze latenti per avveniristiche ricerche nel settore della psichiatria.  Vogliamo convogliare a Racalmuto quelle squadre di archeologi che hanno reso noto in tutto il mondo la contermine Milena. Racalmuto e Milena si adagiano nella stessa plaga sicana. Milena, assegnata nel secolo scorso alla provincia di Caltanissetta, si è potuta sottrarre alle angustie archeologiche dei responsabili agrigentini (propensi solo a discettare sulla Magna Grecia, sulle vie del sale dei Micenei, sui romani); ha investigato l’autoctono mondo dei sicani. Un monumento appare il lavoro testé pubblicato: si guardi la raccolta di scritti intitolata: Dalle Campagne alle Robbe - La storia lunga di Milocca-Milena. Ci piace qui citare passi dell’introduzione di Vincenzo La Rosa: “Il motivo del nostro interesse scientifico per il territorio alla confluenza fra il Platani e il Gallo d’Oro, era costituito [il 4 dicembre 1977] dalle scarne testimonianze micenee, segnalate un decennio prima da E. De Miro. [...] Ma la ricerca si è fatalmente allargata ai diversi periodi della preistoria, non disdegnando neanche età più recenti, almeno sino alla medievale. [..] Le ricognizioni di superficie ... rivelarono ben presto la funzione strategica dell’area, vero e proprio crocevia nei diversi momentidell’età preistorica.”


Ora Milena vanta uno schema geomorfologico interpretativo del territorio (e Racalmuto a ridosso, no); il suo fenomeno carsico sotterraneo è stato studiano (quello del tutto simile di Racalmuto, no); studiosi ci ragguagliano sui suoi lineamenti floristici e vegetazionali (per Racalmuto dobbiamo accontentarci delle belle ma vaghe fotografie di un dilettante). Sappiamo ora tanto dell’insediamento preistorico di Serra del Palco sito a Milena (gli analoghi di Piana di Botte, del Ferraro, di Fra Diego, del Castelluccio, del Canalotto, di Grotticelle giacciono ignoti e, come nel caso delle Grotticelle, frettolosamente sotterrati, per volontà superna dei BB.CC. di Agrigento, se per avventura e per lavori abusivi vengono alla luce.) Milena vanta scavi sistematici che hanno portato alla luce un insediamento neolitico a Serra del Palco con le sue belle ceramiche dell’età del Rame, che hanno consentito di studiare alcuni resti umani eneolotici provenienti dal deposito funerario di contrada Menta e dalla località Pirito, che hanno fatto luce sulla stazione di Mezzebbi risalente al Bronzo Antico, che hanno scoperto le tholoi di Monte Campanella, che hanno rinvenuta la nuova stazione preistorica allo zubbio di Monte Conca. Racalmuto, lì a due passi, deve per il momento accontentarsi della sbiaditissima corrispondenza dell’ottocentesco ing. Mauceri o di queste volenterose note di un dilettante:


L'immigrazione agricola di popoli che vengono fatti risalire al XVIII secolo a.C. venne documentata durante i lavori della ferrovia nel 1879. (Cfr. L. Mauceri: Notizie su alcune tombe  .. scoperte fra Licata e Racalmuto, in Ann. Inst. Corr. Arch., 1880). I pochi reperti fittili finirono dispersi nei sotterranei di un qualche museo siciliano. Le tombe a forno dei pressi della stazione ferroviaria di Castrofilippo sono del tutto sparite per la distruzione delle successive cave di pietra.


L'altro insediamento è quello che l'ingenuità delle cartoline illustrate locali definisce 'tombe sicane', site attorno alla grotta di Fra Diego. In mancanza di ufficiali campagne di scavi - che le competenti Autorità continuano a denegare, anche se la patria di le imporrebbe - dobbiamo accontentarci delle intuizioni dilettantesche e delle tante segnalazioni che dal '700 in poi si rincorrono. Il cospicuo numero di tombe a forno dimostra l'esistenza di gruppi estesi, dediti ai culti mortuari dell'inumazione in forma fetale, con i cadaveri forse spolpati a bagnomaria e forse legati per la paura di una vendicatrice resurrezione che i nostri antenati pare nutrissero. (Cfr. S. Tine': L'origine delle tombe a forno in Sicilia, in 1963, p. 73 ss.).


Quei cosiddetti antichi Sicani, installandosi attorno alla grotta di Fra Diego, avranno trovato il salgemma delle vicinanze e fors'anche lo zolfo, all'epoca sicuramente reperibile anche in superficie. Risale alla tarda età romana lo strambo passo di Solinoche il Tinebra Martoran riferisce - a nostro avviso fondatamente - al territorio di Racalmuto. Ma rispecchia, di certo, una tradizione millenaria. Solino scrive che il sale agrigentino, se lo metti sul fuoco, si dissolve bruciando; con esso  si effigiano uomini e dei (C.I. Solinus, 5\ 18;19). Ancora nel '700 il viaggiatore inglese Brydone andava alla ricerca di quei fenomeni. Sommessamente pensiamo che v'è solo confusione tra sale e zolfo, entrambi già conosciuti dai nostri preistorici antenati. Con lo zolfo si foggiavano statuette del tipo dei 'pupi', dei 'cani', delle 'sarde' di 'surfaro' che ai tempi della mia infanzia circolavano ancora.


Sale, zolfo e gesso Racalmuto li avrebbe ereditati dagli sconvolgimenti del, quando alle “grandi lacune terziarie progressivamente evaporate <sarebbe seguito> un processo di sedimentazione che avrebbe avuto per protagonisti non solo i principi della fisica e della chimica, ma addirittura  uno straordinario microscopico batterio, il desulfovibrio desulsuricans capace di nutrirsi di petrolio greggio e di rubare ossigeno al solfato di calcio dando luogo ad idrogeno solforato che, attraverso una normale ossidazione, avrebbe partorito lo zolfo nativo” (Pratesi e Tassi, Guida alla natura della Sicilia, Milano 1974, p. 21 ss). Ci diverte alquanto l'idea che le ricchezze della rampante borghesia ottocentesca di Racalmuto si debbano a quel geologico vibrione.”


 


Il Parco Letterario potrebbe davvero ovviare a queste (gravissime) indolenze delle autorità di settore: anche a Sciascia sarebbe piaciuto conoscere sulla base di campagne di scavi scientifiche le sue ancestrali origini, il suo vero DNA, il suo battesimo sicano. Forse non avrebbe congedato questa pagina - sublime letterariamente, ma vagola concettualmente - che così suona: “A Racalmuto sono nato [..] E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: “ho l’impressione che la mia nascitasia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”. Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora - in sprazzi, in frammenti - quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato conoscere (e tutto finisce, nel risalire il tempo, a un Leonardo Sciascia, nonno di mio nonno, che nei primi dell’Ottocento venne a Racalmuto dal vicino paese di Bompensiere per esercitarvi il mestiere di conciatore di pelli), ma anche tutta la storia del paese dagli arabi in poi. Ed ecco un fatto di per sé borgesiano, del Borges di natura e quotidiano: non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero. Ed è piuttosto facile scoprirne la ragione: la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi.”


Di sicuro avrebbe saputo che il nonno di suo nonno non era né Leonardo, né di Bompensiere, né conciatore di pelli. Era sì un mastro, pio e devoto, colonna della locale Maestranza, ma figlio  e nipote e pronipote di racalmutesi: si chiamava, manco a dirlo, Calogero ed il mestiere era ben diverso da quello di conciapelli. Gli archivi della Matrice che si vogliono rendere accessibili agli studiosi con un apposito laboratorio avrebbe fugato ogni incertezza genealogica. Il pessimismo sciasciano forse non sarebbe stato neppure scalfito, ma qualcosa di diverso il Nostro avrebbe di sicuro scritto: di meno allucinante, di meno confessorio dell’oscurità del suo profondo Ego.


La presente fioca potenzialità imprenditoriale del luogo può allora essere di insormontabile ostacolo ad un Parco Letterario di così pregnante validità?


Non mancano comunque imprese già operanti o in corso di costituzione che potrebbero efficacemente coadiuvare il Parco. Abbiamo accennato ad Infotar. Abbiamo parlato di ARCON. Stralciamo dallo statuto di INFOTAR: “ Art. 4. - La società ha per oggetto la produzione di strutture informatiche (hardware e software) con particolare riguardo all’edizione di ipertesti scientifici, storici, legali, didattici ed affini in cd-rom corredati da adeguati supporti a stampa. A tal fine potrà venire svolta ogni attività sussidiaria sia pure a carattere finanziario per la realizzazione anche in propri stabilimenti  degli elaborati in oggetto. La società potrà svolgere operazioni per il reperimento o l’investimento di fondi - nel rispetto delle leggi vigenti - sia in connessione dell’oggetto sociale sia per un più agevole conseguimento dello scopo. La società potrà quindi rilasciare fideiussioni attive e passive per l’ottenimento di finanziamenti e contributi pubblici e privati volti all’attività sociale. In collegamento, alla società non è interdetta ogni iniziativa di studio, ricerca anche archeologica , s’intende nel rispetto delle leggi e previe le debite autorizzazioni, volta allo studio ed alla valorizzazione della realtà archeologica, storica, archivistica e documentale sia di profilo laico che religioso avente riguardo a Racalmuto ed al suo territorio.”


La costituenda ARCON sarà un atelier racalmutese ad alta tecnologia informatica: si avvarrà di hardware e software per la confezione di capi di abbigliamento d’alta moda, ma soprattutto cercherà di creare articoli tessili d’antiquariato specie nel campo ecclesistico. Si legge nel testamento di una bizzarra benefattrice racalmutese, Donna Aldonza del Carretto sorella del conte Giovanni Del Carretto, di una ricca veste di stile spagnolo, regalata ad una serva, che val davvero la pena di ricostruire.


Dall’inventario di don Giovanni del Carretto, trucidato in quel di Palermo nel 1608, ARCON trarrà dati e suggerimenti per confezioni di costumi antichi. Trascriviamo passi da cui trarre i costumi predetti:


Inventarium bonorum repertoriatorum


in domo illustris d. Joannis del Carretto


Comitis Regalmuti & intro una Camera


 


Item un paramento di cojro dorato vecchio di pezzi quindici e piccoli.


Item un’altra littera con quattro tavole e dui trispiti ad un pede.


Et cinque matarazzi quattro pinti di tila azola bianca ed uno bianco pieno di lana siciliana.


Item  dui para di lenzuoli uno grosso ed altro sottile.


Item un altro paviglione di tila vecchio.


Item cinque frazzati tri biamchi, et una russa ed una virdi.


Item un pezzo di paramento nigro.


Item tri baulli russi con fodera gialna dentro la quale vi sono l’infrascritti robbi cioè:


Uno stuccio di testa d’ebbano.


Un paviglione di tila di lenza con suo intaglio lavorato di seta carmicina.


Item un altro paviglione di tela bianca con suo cappello.


Item un cortinaggio di raso carmicino frinzato d’argento consistente in pezzi dodeci con suo tornialetto incluso.


Item un stipo di legname verde dentro lo quale vi sono li robbi infrascritti.


Item un paviglione di tirzanello leonato con li suoi frinzi di sita di lo medesimo colore consistenti in pezzi cinque usato.


Item dui paviglioni di taffità, seu bagattelli di Napoli di diversi colori con li suoi frinzi bianchi di sita rusata virdi e gialna ed altri colori.


Item una culltra di tila d’argento bianca per tabuto.


Item un cortinaggio di tirzanello giallo vecchio con li suoi pezzi inclusa la cultra e tornialetto.


Item un altro cortinaggio di damasco foderato con sua frinza d’oro minuto consistente in otto pezzi inclusa la cultra e tornialetto.


Item un altro cortinaggio di damasco torchino con frinza di seta torchina ed argento usato consistente in otto pezzi come l’altri.


Item uno cortinaggio di damasco russso vecchio con suoi frinzi attorno di seta russa consistente in otto pezzi come l’altri.


Item una coperta di Tem.to di velluto nero con passamani d’oro fino e chiodi d’oro.


Item un paramento di bagattello di Napoli di diversi colori russo, verdi, usato.


Item quattro barrachani di cuttuni bianco torchisci usati.


Item un paviglione di mezza raxia murata con sui frinzi attorno consistente in pezzi cinque inclusi lo tornialetto, cultra e cappello.


Item cinque cappi di raxia nigri con suoi cappucci vecchi, uno gippone di panno di galbo di Fiorenza misto con li fasci attorno di raso murato straziato usato et una canzuna del proprio panno.


Item una cascia di tavole d’abito grande dentro la quale vi sono ventiquattro frazzate bianche e russe usate e vecchie.


Item un’altra cascia simile dentro la quale vi sono diversi strazzi di nessun valore.


Item un’altra cascia simile dentro la quale vi sono l’infrascritti robbi cioè li coxini di velluto nigro con li suoi giombi.


Item una coltra bianca di tila di lenza di battista usata.


Item un’altra cultra murisca vecchia.


Quattro casci di tavole veneziane di scritture.


Tri altre vacanti.


Quattro forceri seu baulli tri fo.ni ed uno di cojo nero.


Item diecisetti casacche di lo conti cioè sette di panno e dieci di seta e tiletta ed unocoijretto d’umbra foderato di tirzanello bardiglio dentro li quali vi sono li robbi infrascritti cioè tri vestiti di velluto nero di raso e tirzanello vecchi e straziati.


Item quattro camisi quattro para di calsuni, di tila usati e vecchi.


Otto para di peduni vecchi di tila.


Cinque casci di abito vecchi, quattro pieni di scritture ed una vacante.


Una fiaschera di cojo alleonato con 8 fiaschi di vetro dentro.


Item una balestra coperta di vacchetta gialna con suo coccano simile.


Una cucuzza con suo collo e coperchio di stagno tundu fatta a fiasco.


[112]


Quattro zagaglie dove sono appisi li casacchi.


Item quattro con la figura di scandarbeccho.


Uno scrittorio di nuci vecchio picciolo in altra stanza di detto guardarobba.


Item una buffetta grande di noce e cerasa con suoi piedi et item un letto di camino con suo cortinaggio di damasco giallo con finzi allionati con suo tornialetto in pezzi vecchi.


Un altro letto di camino vacante vecchio.


Item una lettica di camino indorata di velluto seu damasco russo e tila.


Item una sigetta di camino a mano.


Item due forzeri dentro le quali vi sono da uno trenta canni di tovaglie di tavola in pezzi sottili tessuti ad occhio, otto altri tovagli di tavola sottili ed ottanta stuiabocchi parti in lotto e parti per uno del medesimo modo.


Item quatro di tila di cera della cruci con sua guarnizioni.


Tre fiaschi di rame rosso di tenere acqua rosa.


Intra l’altra stanza longa della guardarobba:


Ventidue matarazzi di diversi tili, gravi, azzoli, e bianchi vecchi pieni di lana siciliana.


Item quattro trabacchi di nuci con suoi fornimenti.


Intro quattro casce di tavola di abito longhe:


Tre altre trabacche simili.


Intro tri altri casci intro le quali vi è una porta deorata.


Item una buffetta di nuci grossa pinta vecchia.


Due vanchi di tavola vecchi infoderati di cojo.


In primis dudici seggi di nuci con li coiri azoli retropuntati con li frinzi capicciola torchina usati.


Quattro altri seggi simili.


 


 


 


Item quattro lenzuoli di tela sottile  usati.


Item una tovaglia di tavola frandanisausata.


Item quattro tovaglie piccoli, una cultra di tila imbuttita bianca ed una cultra di taffità carmicino canciante, dui cannati e dui piatti di porcillana.


Item un baullo dui linzola di tela sottile, quattro cammisi, dui tuvagli di testa, un quatro dell’annunciata di capizzo di argento piccolo, ed un’altro quatretto, una capizzana, uno marzapano con cose minuti, una scatola con cosi di donna piccola.


In lo terzo baullo vi sono quindeci pezzi di tila grossa di circa canni 35.


Item uno cascione di tavola veneziana, quattro dentro la quali vi sono l’infrascritte robbe cioè una coperta di cocchio di velluto negro infoderato di plattina d’oro, un cappotto di raso pardiglio infoderato di tila d’argento, una borzetta di raso pardiglio infoderato di selba, una ciucca nigra, otto gipponi di seta ed altri cosi e guarnito d’oro, uno faudellino di velluto a fondo d’oro, una fakdetta tirzanello d’oro, una faudetta di tirzanello giallo, altro faudellino di tirzanello nigro alionato, una robba di velluto d’oro torchino.


Una robba di tirzanello lavorata nigra inforrata di taffità, una faldetta di tila d’argento bianca, con cottetto russo nigro interpato, un cottetto di tila d’argento bianco, un cottetto di raso bardiglio cappellato foderato di tirzanello zollino, una robba di taffità seu velo nigro, dui manti di donna di sita, una faudillino vecchio nigro, una cultra torchina e russa e taffità, una cultra di tila d’oro russo.


Item una robba di sita nigra, un pezzo di panno russo per commoglio. Item una cascetta di velluto torchino con passamani d’oro e piedi e cornici dorati dentro la quale ci sono li cosi infrascritti cioè: un cannistro di figlianda di diverse cose di tila bianca e sita lavorati consistenti in corticelli, tovagli, fasci, collaretti ed altri cosi minuti lavorati di sita ed oro. Item una scrivania di sita gialna e vecchia. Item un scrittorio d’ebbano lavorato d’avolio ed argento vacanti.


Item un’altra stanzia di detto guardarobba.


Item due matarazzi di tila azola e bianchi grossi pieni di lana siciliana, usati.


Item otto spati con suoi foderi e guardie tra li quali vi sono tre adorati e dui pugnali.


Item otto piomazzi delli medesimi di tila e lana.


Item una littera di vento distanti.


Item dui cento pezzi di libri di diversi sotti e storij grandi e piccoli.


Item un firriolo nero di panno di spagna usato.


Item una conca grande di fuoco alla napolitana con suo coperchio lavorata di rame rosso.


Item un’altra conca piccola del medesimo modo lavorata.


Item quindeci pezzi di panni di arazza cioè setti virdini e le otto signati di Mercurio.


Item dui tappiti di tavola usati cioè l’uno di lana e l’altro di seta.


Item cascia d’abito grande di dentro la quale vi sono l’infrascritti robbe cioè:


Item un paramento di damasco paglino e carmisino usato consistenti in pezzi undici. Item un altro paramento di damasco turchino con suoi zinefi di velluto del proprio colore. Item un paviglione di lanetta di Calabria gialna, con suoi zinefi attorno gialni e neigri in pezzi tre.   


Item sei portali ..torchini con l’armi di russo del Carretto usati. Item una copetta longa con la toppa alla tedesca. Item una piccola boffetta di plattina d’argento con li piedi di legname.


Item un’altra cascia d’abito di teniri paramenti dentro li quali vi sno diecidotto pezzi di cojro dorati tra piccoli e grandi.


Item dodici quatri con l’effigie di diversi personaggi piccoli in tila.


Item quattro littere di tavola con suoi trispiti ad un piede. Item un scarfatore di rame rosso.


Item dodici altri patretti simili.


Item un [116] bragiero d’argento gisillato di peso libb: 20.....................................come l. 20


asserisce mastro Giovanni Cappino stente essere ingessato con lo rame e ligno con una testa di coiro. Item un cortinaggio di panno di Cultrac con suoi frinzi di capicciola consistenti in cinque pezzi vecchio; item dentro un’anticamera che si va suso alo guardarobba.


In primis dodici quatri dell’effogie dell’Imperatori Romani. Item setti pezzi di cojo dorati tra piccoli e grandi vecchi strazzati.


Entro la retrocamera un paramento di panno di razza inverditia e personaggi vecchi consistenti in pezzi sei.


Item una trabacca di nuci vecchia picciola usata. Item un paviglione di damasco verde con suo cappello di velluto verde con li frinzi parti d’oro in li frinzi a lo cappello grande d’oro e sita virdi e a lipedi di lu pavigliuni frinzetta piccola.


Item tri matarazzi di tila bianca suttili pieni di lana siciliana, un paro di lenzuoli di tila sottili. Item una culta bianca di vento. Item dui frazzati bianchi usati. Item una littera con quattro tavole con suoi trispiti ad un piede. Item dui maratazzi di tila bianca pieni di lana siciliana. Item un paviglione di saja rosato vecchio. Item un altro paro di lenzuola,


Item una buffetta di nuci quatra con suoi piedi et un tappito sopra vecchio. Item dodici seggi di nuci vecchi di coiro. Item se quatri piccioli di diversi personaggi. Item dui quatri grandi cioè uno di San Francesco di Paola e l’altro di caccia e verdure. Item un lettro, quatro di sita gialna. Item un portale di panno verde.


 


Item una cascia di nuci ferrata e foderata d’abito dove vi sono riposti l’infrascritti robbi cioè:


In primis cinque para di coniali con suoi calsi dorati di raso stampato con li suoi trappi doderati di russo vecchi


Item un cappotto di murmorino usato.


Item un paviglione di tela bianca lavorata alli punti di sita carmicina e suoi fascetti di sita e di Napoli usata. Item un altro paviglione di tila bianca usato con suo gruppo. Item undeci cappelli inforrati cioè otto di feltro, tre lavorati, dui di tirzanello usati. Item quattro berrette di tela e villuto usati. Item sei monteri di seta vecchi. Item un vestito di Baratto usato. Item un cappuni di Giambilotto di levanti inforrato di velluto lavorato ed usato. Item firraiolo di rasetto nigro inforrato di taffità usato. Item un altro firraiolo di tiletta inforrato di taffità. Item un arbonus bianco murisco usato. Item una cascia di tirzanello di armari nigro foderata dell’istesso usato. Item un altro firraiolo di muc


ajale nigro usato. Item un altro firriolo di Buratino infoderato di taffità nigro usato.


Item un altro firraiolo di Giambello di levanti foderati di taffità seu baratto usati. Item un cammisolo alla guglia di seta carmicina lavorato allo petto di oro usato. Item novi para di calsoni di mocajali terzanello e gambilotto usati. Item venti gipponi usati di diversi drappi, site, mucajale terzanelle, russo e gambilotto, inforrato di tila bianca usati. Item un cabubo di lanetta di Calabria guarnito di passamani d’oro in foderato di panno di baetta russa. Item una robba di casa di panno di Barsalona inforrata la mettà di villuto nigro guarnita di passamano d’oro fino usata. Item una robba di casa fatta a firriolo di Macajali usato. Item un Agnus Dei di cira lavorato atorno di seta ed oro. Item un trucco foderato di panno verde con suoi piedi. Item quattro portali di Barsellota vecchi. Item un pezzo di panno di raso vecchio. Item un orologio di ferro con suoi fornimenti. Item una carrozza di nuci coperta di cojo di cavvhetta di Fiandra inforrata di velluto nigro nova tutta con suoi guarnimenti. Item un altra carrozza di nuci coperta di vacchetta di Fiandra nigra. Item una lettica di camino coperta di vacchetta ed infoderata di tila azola con li suoi fornimenti e selloni vecchi.


Item un’altra lettica di legname vecchia.


Item cinque selle vecchi con suoi freni e guarnizioni.


Item due selle di velluto vecchi con suoi guarnizioni e freni.


Item lo paramento di Vincenzo di Settimo per cui pignorato di damasco turchino.


Item novi piatti piccoli d’argento senz’armi novi.


 


Robba della Camera di Leonardo Campisi.


 


Item una maldrappa di punto dalla nuona memoria plana.


Un’altra di panno con la sua frinza nigra di detto Signore.


Un’altra di velluto nigro di d.° Signore con la sua frinza.


Un’altra di tiletta con la sua frinza della Nuona Memoria.


Un’altra maldrappa di villuto con sua frinza, parte lavorata. Un’altra di tila vecchia con li suoi passamani e frinze. Un’altra di velluto vecchio con suoi passamani. Una sella di velluto nuova guarnuta di passamano con suoi guarnimenti di velluto. con suoi giumbi della buona memoria. Dui selle nuove guarnute di velluto con due fascie con li suoi guarnimenti di coiro. Una sella bardiglia guarnuta di velluto con le sue staffe e con il suo guarnimento simile di velluto nigro. Item una sella vecchia con suo guarnimento di panno nigro con le staffe e maldrappa con suo freno di cavallo . . . . Item una sella di coiro invellutato di mezamina col suo guarnimento senza staffe. Un’altra sella di velluto nigra guarnuta con suo passamano d’oro, con suo guarnimento di velluto senza staffe. Altra sella alla giomenta con suo guarnimento e staffe con la sua coperta alla moresca.


Item una sella di coiro di posta; dui para di staffi alla giannetta; un guarnimento di tila vecchio; un guarnimento alla moresca con sue drappe di ramo dorate; due para di tavolette di velluto carmicino per cavalcare le donne. Due assettiti di velluto carmicino con la sua frinza simili per una lettica; quattro bandilori di damasco carmicino con li suoi giumbi e capi per detta littica; un paro di staffi nigri; cinque spati delli quali ne tiene una Liberanti per ordine del sig.re d: Vincenzo Sette Capardi, delle quali ne tiene una Marsilio con uno scuto dorato; un capizzuni; un coccano di scopettina; sei freni di coiro guarnuto per servizio; un fiasco di stagno; quattro per annivare acqua e vino. Item una sella di coiro vecchia con suo guarnimento; dui staffi vecchi; una cascia grandi pri teniri robba; due banchetti di ligno; dui selloni; altre due li tiene  il Principe di Rabia; quattro selle vecchi per diverse genti; dui bardoni per ammanzare muli; dui fusti di ligno; un fusto rotto di ligni; una sella di villuto vecchia con sua frinza; una sella bianca per cavalcare; una sella azzariata guarnuta; un’altra di velluto gialna.


Sei butti e dui carratelli.


Una cascetta per fiaschi.


Due landoni di ferro per stalla.


Dui para di ferri.


Dui catini grossi per detti.


Una catina di testali di cavallo.


Una botte di racina.


Un sopracollo di carrozza.


Un baullo vecchio.


Una lettica vecchia con sua scala.


Novi casci vecchi.


Tre altri casci piccoli.


Dui vasi di legno.


Quattro seggi vecchi.


Una sigetta guarnuta di sella bianca.


Quattro . . . bianchi vecchi.


Un letto con due matarazzi con due frazzate, una vecchia e l’altra minuta e linzola vecchi. Tre silleri dove stanno li selli.


Una tavola dove stanno li freni.


Dui tavoli dove stanno li lapardi.


Quattro puppi guarnuti d’oro e seta del coccio deorato.


Lo cocchio deorato; l’altro cocchio senza cartali, senza sopraceli, di coiro; due tovagli grossi.


 


Arcon e artigianato locale sapranno bene fronteggiare le richieste del Parco in tema di costumi ed attrezzi di foggia antica, consentendo la realizzazione dei musei di cui si è detto.


 



 


SEZIONE IV


 


Documenti che dimostrino la disponibilità alla concertazione locale e l’adesione da parte di più soggetti sociali, quali enti locali, associazioni di categoria, gruppi organizzati, associazioni culturali o di volontariato, ecc.


 


Si allega la documentazione richiesta, che ci appare del tutto idonea a corrispondere all’avvertita esigenza di estendere il Parco alle realtà sociali racalmutesi e a quelle dei centri del circondario. Si noteranno assenze di enti autarchici territoriali: è una esclusiale intenzionale. Evitare inquinamenti di ogni sorta è assillo di questa associazione, specie in un territorio non esente da infiltrazioni malavitose. Gli appetiti politici sono altresì fonte di preoccupazione: fomentare il clientelismo elettorale con fondi apparentemente destinati ad iniziative culturali o sociali è vezzo diffuso nelle classi dirigenti di queste parti. L’associazione vuole starne lontano, anche a costo di vedere vanificare il suo progetto che con tutta franchezza reputa meritevole di ogni attenzione.



 


 


NOTA FINALE


 


Purtroppo si è venuti a conoscenza del “concorso di idee” per un parco letterario molto tardi: pur di inviare la nostra adesione entro il termine di scadenza, si sono affrettati i tempi di lavorazione. Testi non ricontrollati adeguatamente, difetti formali, precipitose concertazioni appannano la formulazione della nostra proposta. Ce ne scusiamo e ce ne rammarichiamo. Vogliamo sperare nella comprensione e nella benevolenza dei nostri esaminatori. Pronti, comunque, come siamo a fornire ogni ragguaglio, a produrci nelle debite rettifiche a semplice richiesta. In ogni caso ringraziamo per l’attenzione che ci verrà riservata.


 


 




[1] Emerge come il feudo di Gibillini sia cosa ben diversa dalla contea racalmutese. Per Gibillini, s’intende il territorio degradante tutt’intorno al castello - oggi denominato Castelluccio - e non soltanto la contrada della omonima miniera, che forse un tempo non faceva neppure parte di quella terra feudale.
Il primo accenno storico a Gibillini risale al 21 aprile 1358 ;[1] il diplomatista così sintetizza il documento che non ritiene di pubblicare:
Il Re concede al milite Bernardo de Podiovirid e ai suoi eredi il castello de GIBILINIS, vicino il casale di Racalmuto e prossimo al feudo Buttiyusu [feudo posto vicino SUTERA, v. doc. prec., n.d.r.], già appartenuto al defunto conte SIMONE di CHIAROMONTE traditore, insieme a vassalli, territori, erbaggi ed altri dritti; e ciò specialmente perchè il detto Bernardo si propone a sue spese di recuperare dalle mani dei nemici il detto castello e conservarlo sotto la regia fedeltà: riservandosi il Re di emettere il debito privilegio, dopoché il castello sarà ricuperato come sopra.
Pare che Bernardo de Podiovirid non sia riuscito a prendere possesso di Gibillini: il feudo ritorna prontamente in mano dei Chiaramonte. Simone Chiaramonte è personaggio ben noto e fu protagonista di tanti eventi a cavallo della metà del XIV secolo. Michele da Piazza lo cita varie volte. Il fiero conte ebbe dire recisamente a re Ludovico “prius mori eligimus, quam in potestatem et iurisdictionem  incidere catalanorum”: preferiamo morire anziché finire sotto il potere e la legge dei catalani. Mera protesta, però; il Chiaramonte è costretto a fuggire in esilio presso gli angioini. Scoppia la guerra siculo-angioina che si regge sull’apporto dei traditori. Per Michele da Piazza, i chiaramontani, che pur vivevano nella loro tirannica fede, non contenti né soddisfatti di tanta immensa strage, da loro inferta ai siciliani, si rivolsero agli antichi nemici della Sicilia per spogliare dello scettro re Ludovico.
Nel marzo del 1354 i primi rinforzi angioini pervennero a Palermo e Siracusa. In tale frangente fame e carestia si ebbero improvvisi in Sicilia, favorendo gli invasori. Ne approfittò Simone Chiaramonte “capo della setta degl’italiani - secondo quel che narra Matteo Villani -   [promettendo] ai suoi soccorso di vittuaglia e forte braccia alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono”.[1] Prosegue Giunta [1] “queste premesse spiegano il rapido inizio dell’impresa dell’Acciaioli, il quale accanto a 100 cavalieri, 400 fanti, sei galere, due panfani e tre navi da carico, si presentò “con trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia”, sì da ottenere  festose accoglienze da parte dei Palermitani “che per fame più non aveano vita”, nonché il rapido dilagare della insurrezione a Siracusa, Agrigento, Licata, Marsala, Enna “e molte altre terre e castella””. Tra le quali possiamo includere tranquillamente Racalmuto e Gibillini.
Simone Chiaramonte muore a Messina avvelenato nel 1356, un paio d’anni prima del citato documento. Ma  da lì a pochi anni, Federico IV, detto il Semplice riuscì a riconciliarsi con i Chiaramonte e nel febbraio del 1360 accordava un privilegio tutto in favore di Federico della casa chiaramontana.
Il feudo di Gibillini appare sufficientemente descritto nell’opera del San Martino de Spucches .[1] Secondo l’araldista il feudo di Gibillini, quello di Val Mazara, territorio di Naro, da non confondersi con l’altro ancor oggi chiamato di Gibellina, appartenne, “per antico possesso” alla famiglia Chiaramonte. Fu Manfredi Chiaramonte a costruirvi la fortezza, quella che ora è denominata Castelluccio. L’ultimo della famiglia a possedere il feudo fu Andrea Chiaramonte, quello che, dichiarato fellone, ebbe la testa tagliata  a Palermo nel giugno del 1392, nel palazzo di sua proprietà, lo Steri.
Re Martino e la regina Maria insediarono quindi Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Caltanissetta. Il feudo divenne ereditario,  iure francorum, con obbligo di servizio militare e cioè con due privilegi, il primo dato in Catania il 28 gennaio 1392 (registrato in Cancelleria nel libro  1392 a foglio 221) [1]; col secondo diploma, dato ad Alcamo, li 4 aprile 1392 e registrato in Cancelleria nel libro 1392 a foglio 183, fu dichiarato consanguineo dei sovrani, ebbe concessi tutti i beni stabili e feudali, senza vassalli, posseduti da Manfredi ed Andrea Chiaramonte, dai loro parenti e dal C.te Artale Alagona, beni siti in Val di Mazara, eccetto il palazzo dello Steri ed il fondo di S. Erasmo e pochi altri beni. Nel 1397 ad opera del cardinale Pietro Serra, vescovo di Catania e di Francesco Lagorrica, il Moncada  fu deferito come reo di alto tradimento, avanti la gran Corte, congregata in Catania; ivi con sentenza 16 novembre 1397 fu dichiarato fellone e reo di lesa maestà ed ebbe confiscati tutti i beni. Morì di dolore nel 1398.
Subentrò  Filippo de Marino, fedelissimo vassallo del Re (1398); non abbiamo la data precisa della concessione; per quel che vale il de Marino figura possessore del feudo di Gibillini nel ruolo del 1408 dello pseudo Muscia.[1] 
 Il feudo pervenne successivamente a Gaspare de Marinis, forse figlio, forse parente. Da questi, passa al figlio  Giosué de Marinis che ne acquisì l’investitura il 1° aprile 1493 more francorum,  [1] per passare quindi a Pietro Ponzio de Marinis, investitosene il 16 gennaio 1511 per la morte del padre  e come suo primogenito. [1]  Costui sposò Rosaria Moncada che portò in dote i feudi di   Calastuppa, Milici, Galassi e Cicutanova, membri della Contea di Caltanissetta, come risulta dall'investitura presa  dalle figlie Giovanna e Maria il  22 settembre 1554 (R. Cancelleria, III Indizione f.96).
Succede Giovanna De Marinis e Telles, moglie di Ferdinando De Silva, M.se di Favara con investitura del 15 gennaio 1561, come primogenita e per la morte di Pietro Ponzio suddetto (Ufficio del Protonotaro, processo investiture libro 1560 f. 271).
 
Maria De Marinis Moncada s'investì di Gibillini il 26 dicembre 1568, per donazione e refuta fattale da Giovanna suddetta, sua sorella (Ufficio del Protonotaro, XII Indiz., f.479) .
Beatrice De Marino e Sances  de Luna s'investì di due terzi del feudo il 17 ottobre 1600, per la morte di Alonso de Sanchez suo marito, che se l'aggiudicò dalla suddetta Giovanna, M.sa di Favara (Cancelleria libro dell'anno 1599-1600, f. 15); peraltro v’è pure un’investitura di questo feudo, datata 7 agosto 1600, a favore di  Carlo di Aragona de Marinis, P.pe di Castelvetrano, figlio di detta Maria de Marinis (R. Cancelleria, XIII Indiz., f.160); un’altra investitura la troviamo in data 28 agosto 1605 a favore di Maria de Marinis per la morte di Carlo suo figlio (R. Cancelleria, III Indiz. , f. 491); dopo non ci sono investiture a favore dei Moncada.
Diego Giardina  s'investì di due terzi il 24 gennaio 1615, per donazione fattagli da Luigi Arias Giardina , suo padre, a cui  le due quote furono vendute da Beatrice suddetta, agli atti di Not. Baldassare Gaeta da Palermo il 5 dicembre 1608 (Cancelleria, libro 1614-15, f. 265 retro). Vi fu quindi una reinvestitura in data 18 settembre 1622, per la morte del Re Filippo III e successione al trono di Filippo IV (Conservatoria, libro Invest. 1621-22, f. 283 retro).
 
Subentra - sempre nei due terzi - Luigi Giardina Guerara con investitura del 28 febbraio 1625, come primogenito e per la morte di Diego, suo padre (Cancelleria , libro  del 1624-25, f. 214);  viene quindi reinvestito il 29 agosto 1666 per il passaggio della Corona da Filippo IV a Carlo II (Conservatoria, libro Invest. 1665-66, f. 119). Il Giardina  morì a Naro il 24  novembre 1667 come risulta da fede rilasciata dalla Parrocchia di S. Nicolò.
Diego Giardina da Naro, come primogenito e per la morte di Luigi suddetto, s'investì dei due terzi il 7 ottobre 1668  (Conservatoria, libro Invest. 1666-71, f. 89).
Luigi Gerardo Giardina e Lucchesi prese l’investitura il 9 settembre 1686  dei due terzi, per la morte e quale figlio primogenito di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1686-89, f. 17).
 
Diego Giardina Massa s'investì il 26 agosto 1739, come primogenito e, per la morte di Luigi Gerardo suddetto, nonché come  rinunziatario dell'usufrutto da parte di Giulia Massa, sua madre, agli atti di Not. Gaetano Coppola e Messina di Palermo, del 1° ottobre 1738 (Conservatoria, libro Invest. 1738-41, f. 58).
 
Giulio Antonio Giardina prese l’investitura dei due terzi il 3 dicembre 1787, come primogenito e per la morte di Diego suddetto (Conservatoria, libro Invest. 1787-89, f. 25).
 
Diego Giardina Naselli s'investì dei due terzi del feudo di Gibellini il 15 luglio 1812, quale primogenito ed erede particolare di Giulio suddetto (Conservatoria vol. 1188 Invest., f. 124 retro); non ci sono ulteriori investiture o riconoscimenti.
Ma a questo punto scoppia il caso Tulumello. Il San Martino de Spucches non segue bene le vicende feudali di Gibillini.  Comunque nel successivo volume IX - quadro 1454, pag. 221 - intesta: “onze 157.14.3.5 annuali di censi feudali - GIBELLINI - Cedolario, vol. 2463, foglio 204” ed indi rettifica:
Giulio GIARDINA GRIMALDI, Principe di Ficarazzi s'investì di due terzi del feudo di GIBELLINI a 3 dicembre 1787 come figlio primogenito ed indubitato successore di Diego GIARDINA e MASSA (Conservatoria, libro Investiture 1787-89, foglio 25).
1. - Quindi vendette agli atti di Not. Salvatore SCIBONA di Palermo li 22 luglio 1796 a D. Giovanni SCIMONELLI, pro persona nominanda annue onze 157, tarì 14, grana 3 e piccioli 5 di censi sopra salme 57, tumoli 11 e mondelli 2 di terre, dovute sul feudo di Gibellini; e ciò per il prezzo in capitale di onze 3500 pari a lire 44.625. Il detto Scimoncelli dichiarò agli atti di Notar Giuseppe ABBATE di Palermo che il vero compratore fu il Sac. D. Nicolò TOLUMELLO. Per speciale grazia accordata dal Re a 29 aprile 1809 fu confermato lo smembramento di dette onze 157 e rotte dal feudo di GIBELLINI già effettuate senza permesso Reale (Conservatoria, libro Mercedes 1806-1808, n. 3 foglio 77).
 
2. - D. Giuseppe Saverio TOLUMELLO s'investì a 7 giugno 1809 per refuta e donazione a suo favore fatte dal Sac. D. Nicolò sudetto agli atti di Notar Gabriele Cavallaro di Ragalmuto li 22 aprile 1809 (Conservatoria, libro Investiture 1809 in poi, foglio 40). Questo titolo non esce nell'“Elenco ufficiale diffinitivo delle famiglie nobili e titolate di Sicilia” del 1902. L'interessato non ha curato farsi iscrivere e riconoscere.”
 
[2] ) Leonardo Sciascia: Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’Inquisitore, Bari 1982, pag. 51.
[3] ) Carmelo Vetro - L’associazionismo borghese nella Sicilia dell’800: le case di compagnia - in Il Risorgimento, anno XLVI n. 2-3 - Milano 1994, pag. 301

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