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Mia zia monaca sembrava l’esperta di bombardamenti. All’improvviso a Racalmuto, sul cielo di Racalmuto, cominciarono a volteggiare aerei, pareva che giostrassero: in picchiata e poi s’inerpicavano, rumori assordanti. Le sirene che preannunciavano aerei già in sorvolo, che dovevano segnare la fine ed invece gli apparecchi militari americani ancora lì stavano, dal Castelluzzo alla montagna, da dietro il Serrone sino al mare e dal mare in paese. Luccichii, lampi in cielo. Mitraglie che dannatamente crepitavano lassù in alto, senza senso … fortunatamente. Veramente non ce ne davamo più apprensione, tutto divenne consueto, insenso ma non preoccupante. Mia zia sosteneva che quando suonava la sirena nel rifugio dovevamo andare … ma rifugio a Racalmuto non c’era. Almeno di notte, disse mia zia sotto in cantina dovevamo dormire. Scendemmo tutti i parenti stretti nella nostra cantina che era ampia ed aveva archi di supporto che secondo mia zia ben potevano proteggerci da improvvisi lanci di bombe. Cunzarunu letti. Per noi bambini era più un divertimento che un rifugiarsi. La novità appariva gradevole, spezzava la monotonia dei giorni a scuola chiusa. Mia nonna paterna, però, non volle venire: nella sua alcova, quella antica alla siciliana si sentiva più al sicuro. Mio zio Pietro la seguì. Mia nonna Concetta venne un paio di notti, non si trovava a suo agio. Se ne tornò nel suo catoio. Mia zia monaca non poté lasciare la mamma sola e melanconicamente andò a dormire nel mono ambiente della mamma. La festa evaporava. Giunti così ai primi di luglio mio padre decise che il tempo orami era caldo e ben si poteva andare “ fori” a la Curma. Si prese il solito carretto; il carrettiere, il solito, sistemò tanta di quella roba su quei pochi metri quadrati del tavolato del carro che sembrava un miracolo. Le lunghe tavole del letto matrimoniale di mia nonna – che su quello ancora dormiva con me bambino accanto a farle compagnia - fuoriuscivano dietro, con i trispa a cavalcione. Il marito le era morto da oltre trent’anni. E lei vedova rimase con il nero del lutto perennemente addosso. Jppuni nero, falletta nera, calze nere, scarpe – ineleganti tappini – nere; il fazzoletto largo in testa come soggolo, però, era bianco, candido. Aveva la dentiera ed ogni sera se la levava. Io bambino non capivo e ormai vi avevo fatto l’abitudine. Quando a tarda età mi sono messo a rimembrare ed a cercare di capire mi sono chiesto che tipo di femminilità vivevano tutte queste vedove in giovane età; e di allegria la retriva società siciliana poco gliene concedeva; divenivano proprio asessuate, neppure discorsi alacri si concedeva. Tante, quasi tutte assurgevano però a matriarche, il dominio dell’intera famiglia avevano e le maggiori vittime erano le altre donne del clan; i maschietti ci guadagnavano, un occhio di riguardo veniva loro elargito; qualcuno diveniva il cocco di nonna ed in famiglia conseguiva scandalosi ed invidiati privilegi. Sciascia ebbe a dire una volta che in Sicilia vigeva il matriarcato; la Maraini lo fulminò.
Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci trovammo a la Curma. Mia nonna aveva ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però, con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe oggi: la cammara, tre metri per tre metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte su pietra gessosa – la chiamavamo balata – e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni. Amplissima la mangiatoia. Proveniva dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della nostra terra alla Curma. Una parte comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar l’acqua fuori, come si dice.
Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”, una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due lenzuola legate ad un filo ad L che partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un lettino a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di cui abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e due altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per gli altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle aie fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già alle spalle.
Fu così che nella notte del 10 luglio 1943 facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi l’ “astratto”. Non morì nessuno per quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra, a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.
Svegliati di soprassalto, nulla capendo, stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire da mia zia monaca cosa era successo. Subito, subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bommi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la zia che dicemmo essere esperta.
Ci sdraiammo giù, all’ingresso, sopra la paglia antica frammezzata da pruni pungenti. I culetti di noi bambini ebbero dolorose pizzicate. Le anziane per decenza tacquero. Stemmo alquanto in attesa di chissà quale nuova deflagrazione. Per fortuna nulla ebbe a seguire. Allora, mia zia salì sopra, prese coperte e lenzuola. Sotto, tutto aggiustò al fioco lume di una “lumera” ad olio. Risistemati da cristiani, mia zia monaca prese il suo rosario e cominciò a biascicare le solite avemaria. “Ave Maria, piena di grazie, il Signore è teco. Tu sei la benedetta” ….. e noi di seguito: Santa Maria madre di Dio, prega per noi peccatori …Il salmodiare ad un tratto cominciò a venire frammezzato dalla sorella del cadetto che con stridulo pianto istericamente lamentava “mammuzza mia can un ti viiu cchiu”. Quando poi raccontavano la vicenda, a noi bambini piaceva celiare: “ Santa Maria Madre di Dio … Mammuzza mia can un ti viiu chhiu”.
Mia nonna ebbe un moto di stizza. “U cafè vuogliu”. Aveva voglia mia zia monaca a dire: Madre mia, non si può!. Se accendiamo il fuoco, ci bombardano. Mia nonna, perentoria: u cafè vuogliu. Paziente e remissiva mia zia monaca, salì di sopra, prese il caffè scese giù e lo versò nel pentolino di acqua. Ristoratici in qualche modo, la tardissima ora ci portò tutti in un sonno che almeno per noi bambi fu profondo e tranquillo.
Alle prime luci del giorno, giunse il fratello della cuginetta di mia madre e se la portò via. Subito dopo, giunsero mio zio Pietro e mio padre e tutti quanti, nonna e nipoti, ci riportarono in paese. A Sant’Antonino, mio fratello Luigi, il bambino di manco tre anni e lo zio Pietro videro volteggiare sopra di loro gli impazziti aerei americani. Scesero da cavallo, e ripararono sotto un rovo ai bordi della strada. Sopra gli aerei sparavano a vuoto, in continuazione. Quei piloti saranno stati drogati, che non vi era bisogno alcuno di sparare. Non c’erano militari, e lo sapevano, non c’erano tedeschi e lo sapevano. Vero è che Mussolini, o chi per lui, aveva fatto piazzare sopra il fortilizio del Castelluccio un gran cannone. Non vi erano però artificieri, non vi erano soldati. Anche a lu “Cannuni” avevano piazzato un cannone. Lì, i soldati c’erano, ma neppure un colpo ebbe a sparare. Inettitudini? Ordini segreti? Intesa col nemico? Mah! Un dubbio mi assale. Non c’era alcun bisogno di bruciare tanto carburante, di sprecare tante munizioni, di mettere a repentaglio tante vite umane; tanti loro soldati, anche e far tanto spreco di apparecchi, come a quel tempo li chiamavamo. Ed allora, nessuno mi toglie dalla mente che tutto dipese dagli interessi delle grandi industrie di armi americane. Cui si aggiunse, strategicamente, l’intento di tenere impegnate forze tedesche in Sicilia. Cui dopo seguì la folla sfida tra Patton e Montgomery a chi arrivava prima a Palermo. Tutta roba da tribunale di guerra. Ma gli americani vinsero e furono eroi e liberatori, i tedeschi persero ed ebbero l’ignominia di Norimberga. Poi il fratello piccolo di tre anni andava salmodiando “ bum bum bum … mi spararu ccà (a quel posto) m’acchiapparu”. Erano state, però, le spine del rovo.
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Dice Sciascia all’atto dell’entrata degli americani, i siciliani erano “servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido”. Noi non abbiamo tanto pessimismo, pensiamo semplicemente che i siciliani a cominciare dai loro “fasci” si scrollarono di dosso questa abitudine a considerarsi servi e furono cittadini dignitosi, magari un po’ accorti nei confronti della giustizia “romana”. Con la democrazia cristiana – bisogna riconoscerlo – Roma non fu più “nemica”, lo Stato non più nemico. Un pizzico di diffidenza, non guasta ma senza mai esagerare. Simile sentire non è perspicuo e la letteratura abbisogna di forti tinte. Ritornare, dopo millenni, alla “servitù della gleba” fa molto scic e fa vendere. Per quel che ricordiamo nella congiuntura dello sbarco americano a Gela, c‘era molto senso della congiuntura, molto prammatico senso del presente, del vivere giorno per giorno. Non si pensava più né a Roma né a Mussolini. Sicuramente non si sapeva di Stevens e neppure più “la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto”. Alla radio non ci si toglieva più il berretto al comunicato di mezzogiorno: c’era il problema del mezzogiorno da risolvere. Accortamente dai Racalmutesi, desolatamente per i tanti “sfollati” venuti soprattutto da Palermo. Suonarono davvero “sirene e campane a martello [per annunciare] l’emergenza”? Noi non ricordiamo, francamente ci pare svolazzo poetico. Non saremmo tanto propensi a vedere i siciliani celebrare una strana kermesse quella «dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido.» Non si attaglia a Racalmuto. Racalmuto fu sinceramente anche se in modo indolente fascista. La creme dirigenziale era in mano a galantuomini del primo liberalismo giolittiano e facevano più o meno bene i medici o gli insegnanti elementari. Ronzavano un po’ troppo i giovinastri venuti su dal basso, ma velleitari erano, dopo tutto innocui, note folkloristiche. Non abbiamo avuto martiri fascisti (e manco comunisti). Il fascismo a Racalmuto lo introdusse – sì, proprio così – Calogero Vizzini con don Ciccu Burruano, i figli di costui e Agostino Puma. Nacque da esigenze padronali: quelle dei conduttori di miniere associatisi in un sindacatino confindustriale per fronteggiare l’incipiente rivolta dei laboratori delle miniere. Calogero Vizzini non tardò, però, a subire l’onta della repressione del prefetto Mori, la cui sovrastima di sé ebbe a perderlo per diffidenza di Mussolini in persona. In quella caduta fu coinvolto il fascista della prima ora il tenentino Burruano, che per diventare colonnello, a tarda età, dovette aspettare la caduta del regime. Dopo, fu più che altro celebre per le sue suadenti doti di gran cerimoniere nei veglioni (promiscui) del Circolo Unione.
Diviene qui ancor più sapida la prosa mirabile di Sciascia. Dilettiamoci insieme a leggerla: «La mattina del dieci gli americani erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri: ma era compreso in una zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino della costa, erano entrati in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte veneti. I siciliani non si erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i carri armati; e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i margini della zona. Dunque i feriti giungevano: e finivano proprio là dove il regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi. Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente fasciava le loro ferite, ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare.
Non avevano niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancor meno il segretario politico. C’era, sì, una colonia della Gil piena di buone cose e dotata di buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei solati che perdevano la guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era ben altrimenti nero che l’orbace.
Allora i giovani cercarono di rimediare alla meglio, quei pochi giovani del paese che ancora erano capaci di sentire qualcosa d buono [ …] Così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo delle gallette e del corned beef americano.»
Riteniamo autobiografica l’ultima parte del nostro stralcio. Spiega bene come i commilitoni feriti a Racalmuto poterono aspettare, tutto sommato, la loro liberazione ‘americana’. Qualche chiosa: il podestà non c’era perché sotto le armi. Non si poteva destituirlo e così si pensò ad un Vice Podestà. So che fu fatta offerta ad uno zio di Sciascia: questi celestinianamente rifiutò. L’abbiamo scritto e tanto basta. La faccenda della Gioventù italiana del Littorio e soprattutto la faccenda delle buone cose e buone somme, ha purtroppo riscontri sgradevoli. Personaggi squallidi ebbero in mano quei beni e ne locupletarono. Nefasti prima, durante e dopo l’epoca fascista. Furono delatori fiscali e fecero impoverire certa brava gente su cui caddero strali tributari per inesistenti profitti di guerra. Di converso spalleggiarono quelli che i profitti di guerra li avevano davvero conseguiti. Comunque, figli e nipoti, dopo, condussero e o conducono vita esemplare e i meriti dei figli ricadano sui loro immeritevoli padri. Cose che comunque potranno venire alla luce solo ad apertura degli archivi per la caduta dell’attuale riserbo settantennale. Quei baldi giovani qualche peso sulla coscienza dovevano sentirlo: parlavano ancora di patria, di onore, di dedizione e se ne stavano caldi e sicuri mente i loro coetanei o poco più che coetanei perdevano sì la guerra ma con tanto onore e ne uscivano anche malconci nel corpo quando non perdevano le loro giovani vite. Io sono tutt’altro che patriottardo ma onore al merito … ed alla verità storica.
Sciascia, quando scriveva, non poteva disporre di informazioni come quelle che qui ritraiamo da WIKIPEDIA. Se avesse saputo, prudente com’era, sarebbe stato più accorto e puntuale. Accordiamogli di buon grado l’esimente della buonafede. Ma rileggiamo le note oggi disponibili in Internet.
Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.
E qui riprendiamo il bello e puntuale ricordo di Sciascia:
«Gli americani ancora non venivano. Passarono due autocarri carichi di soldati tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al piede, seduti per quattro avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed allucinato. L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una automobile munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che da più giorni non sentivamo; mangiarono tranquillamente, fumarono i loro sigari. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolarono nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale.»
Questa singolare sincronia tra due tedeschi, quasi pacifici, che se ne vanno e cinque americani che “sbucano improvvisamente nella piazza”, lascerebbe perplessi se non si sospettasse che tra invasori americani e tedeschi belligeranti intesa c’era. Qualcuno mi dice che per un certo tempo carri armati tedeschi bivaccarono sotto l’arco di Tulumello, mentre fanti in gran numero stazionavano ai bordi del Purgatorio, finché non giunsero autocarri a prelevarli. Subito dopo, come avvisati, arrivò la ronda americana liberatrice.
Soggiunge Sciascia: «La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come cannate di vino passate di mano in ano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di passare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. »
Aggiunge sempre Sciascia: «La kermesse era al suo vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo. Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di meticcio puntava dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un ammicco di intesa: ‘vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo tutte le buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola’. Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva la macchina fotografica di qualche soldato scattava. »
«Nel frattempo – soggiunge Sciascia – un contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra: ma la notizia non incrinò la generale allegria.»
A questo punto per Sciascia scatta il represso ricordo di ingiustizie patite. «..la danza di circostanza era in preparazione. Si chiamava il ballo delle spie. Le spie. Mentre il popolo si scatenava nella ebbrezza, il vecchio avvocato C. [e forse doveva dire B.], con mano tremante di gioia intestava una specie di supplica: ‘Onorevole Comando Militare Alleato di …’ [intendeva dire di Canicattì?], e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti locali [noi pensiamo oltre duecento] che, da ex massone passato al fascismo, mai l’avevano tenuto nella dovuta considerazione. [Diciamo gli avevano fatto torto, o così pensava, lui]. Il segretario politico, il podestà [rectius, il vice podestà che quello era ancora lontano, sotto le armi], il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie qualche mese dopo, da Orano.» Venenum in cauta, una stilettatina a Ballassaru Tinebra. Non molto tempo dopo, finito sotto i colpi di lupara in piena piazza, da Centoeddeci, disse il processo; innocente, invece, per Sciascia e per Tanu Savatteri. Sul debito di Sciascia per questo primo sindaco, imposto dagli americani, abbiamo già detto e non vogliamo ripeterci. Oltretutto potremmo avere torto.
Ci pare che qualche ripensamento Sciascia lo abbia avuto, prossimo alla morte, in Fuoco all’Anima. Parlando con Porzio, taluni ricordi di kermesse sembrano perduti, altri ne affiorano. Qualche rettifica ci pare di coglierla. Al lettore il confronto ed il giudizio.
Se ben leggiamo, come si vede la storia è ondivaga; dipende agli umori, dalle idee, dalle convinzioni, dalle età. C’è chi ricorda una ronda di tre americani che scendono dalla guardia, per San Giuliano, svoltando per via Fontana all’insù e chi è certo di una pattuglia di cinque militari che sbucano all’improvviso. E questo è solo un dettaglio. Chi è certo di occhi corruschi e di placidi sguardi di graduati tedeschi e chi presume avieri drogati delle Forze Alleate. Ma tanto collima e tanto basta per varare uno squarcio di storia racalmutese.
Noi licenziamo il nostro rincorrere i nostri ricordi infantili. Valgano per i nostri compaesani senza fisime letterarie, senza voglia di avere la certezza in tasca, senza assumere atteggiamenti censori, senza volere violentare chi la pensa diversamente. Soprattutto senza idolatrie preconcette e senza sarcasmi astiosi.
Per chi la storia la vuole come sta nella carta stampata (a dire il vero, oggi, prevale quella leggibile in Internet) forniamo una raccolta di appunti e contrappunti informatici.
Chiediamo scusa per la noia che nolenti, ma incapaci, vi abbiamo arrecato.
Calogero Taverna
APPENDICE
[da WIKIPEDIA]
Le forze in campo
Perdite circa 167.000 perdite totali: Germania: 12.000 morti e prigionieri 8.000 feriti[4]
Regno d'Italia: 147.000 perdite (soprattutto prigionieri)[4] 24.846 perdite
(5.837 morti, 15.683 feriti, 3.326 prigionieri)[5]:
USA: 2.899 morti e dispersi 6.471 feriti 598 prigionieri
Regno Unito: 2.376 morti 7.548 feriti 2.644 prigionieri
Canada: 562 morti 1.664 feriti 84 prigionieri
L'operazione Husky (colosso) fu la prima invasione alleata del suolo italiano che durante la seconda guerra mondiale permise, con l'utilizzo di sette divisioni di fanteria (tre britanniche, tre statunitensi e una canadese) l'inizio della campagna d'Italia. L'operazione Husky costituì una delle più grandi azioni navali mai realizzate fino ad allora. Le grandi unità impegnate appartenevano alla 7ª Armata USA al comando del generale George S. Patton, e l'8ª Armata britannica al comando del generale Bernard Law Montgomery, riunite nel 15º Gruppo di Armate, sotto la responsabilità del generale inglese Harold Alexander.
La campagna ebbe inizio con lo sbarco in Sicilia (a Licata, tra Gela e Scoglitti e tra Pachino e Siracusa) delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, a cui presero parte circa 160 000 uomini.
La pianificazione dello sbarco
L'attacco all'Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 (a tal proposito, celebre rimase la definizione dell'Italia di Winston Churchill: «L'Italia è il ventre molle dell'Asse») e la pianificazione e l'organizzazione venne affidata al generale Dwight Eisenhower.
Accordi preliminari
La preparazione allo sbarco interessò una trattativa tra i rappresentanti del governo alleato e chi realmente aveva in Sicilia una grande influenza, ovvero la mafia[6]. Dalla relazione conclusiva della Commissione parlamentare Antimafia presentata alle Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell'esercito americano furono inviati nell'isola, per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò un'apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione psicologica” della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell'isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori. Ma l'episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco dal gangster Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana, il quale stava scontando una condanna a 15 anni[7]. Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell'infiltrazione alleata in Sicilia prima dell'occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell'esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano” venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”, tornò a Napoli a fare contrabbando di sigarette e traffico di eroina.
E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, il generale Patton raggiunse Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...è storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsterismo americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro...”[7]. Ancora la Commissione antimafia: "la mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”[7].
Accordi fra Allen Dulles e Lucky Luciano
La trattativa fra servizi segreti americani e criminali mafiosi passò attraverso l'Office of Strategic Services, (OSS), diretto dal generale William Donovan: gerarchicamente, l’OSS in Europa dipendeva da Allen Dulles[8], che aveva la propria sede in Svizzera, il suo diretto dipendente in Italia era l’italoamericano Massimo Corvo, di origini siciliane, noto come "Max" e detto in codice "Maral", numero di matricola 45[9].
Max Corvo incominciò ad organizzare i propri uomini formando un'unità militare che, fra le forze armate americane era nota come the mafia circle (il circolo della mafia). Stabilì quindi ulteriori contatti con Victor Anfuso, Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e altre persone delle organizzazioni criminali italoamericane inserite nell’operazione Underworld, un giovane raccomandato dallo stesso Luciano, Michele Sindona, e anche un certo Licio Gelli[9].
Max Corvo e la sua squadra vengono sbarcati in Nord Africa a maggio 1943. Poi tre giorni dopo l’attacco, l’unità prende terra a Falconara, vicino a Gela, e si stabilisce nel castello della cittadina. A Melilla Corvo incontra padre Fiorilla, parente di uno dei suoi uomini e parroco di San Sebastiano, poi è ad Augusta, sua città natale, per reclutare collaboratori locali. Intanto gli agenti dell’OSS occuparono le isole piùà piccole intorno alla Sicilia, fra cui Favignana e liberarono dalla prigione numerosi boss della mafia, che furono arruolati nel servizio dell’OSS, circa 850 "uomini d'onore" raccomandati dai capi mafiosi siciliani, che dopo l'occupazione assunsero cariche pubbliche nell’amministrazione militare del colonnello Charles Poletti: in provincia di Palermo ci furono 62 sindaci mafiosi.[9].
Le forze contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato che la Sesta Armata italiana (generale Alfredo Guzzoni) poteva contare su circa 220.000 uomini, solo 170.000 dei quali erano però combattenti. Le grandi unità italiane erano inoltre carenti sotto tutti i punti di vista (armamento e motorizzazione soprattutto), e molte erano unità costiere prive di armamento pesante. Alcune eccezioni erano costituite da un battaglione di artiglieria semovente aggregato alla Divisione Livorno, che aveva in carico un certo numero di semoventi da 90/53, in grado di mettere fuori combattimento qualunque mezzo corazzato alleato. Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa ed al comando del generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio da Hans-Valentin Hube), a differenza degli italiani era perfettamente equipaggiato ed aveva sotto il suo controllo anche la Fallschirm-Panzer-Division 1 "Hermann Göring", dotata di alcuni carri pesanti Tiger I.
Pantelleria si arrende
I primi segnali dell'invasione si ebbero già un mese prima (11 giugno 1943), con la presa dell'isola di Pantelleria[10], primo lembo di terra italiana a cadere in mano alleata, seguita dalla caduta dell'isola di Lampedusa il 13 giugno.
A Pantelleria, dopo un violentissimo bombardamento aereo, il comandante italiano chiese e ottenne da Mussolini il permesso di arrendersi, facendo credere di non avere scorte idriche. In realtà le capaci caverne dell'isola, che già ospitavano degli hangar per l'aviazione, erano in grado di offrire un riparo sicuro a tutta la popolazione civile e militare dell'isola, e le scorte idriche e alimentari erano tutt'altro che esaurite. Gli alleati fecero circa 11.000 prigionieri tra le forze italiane.
Le forze navali [modifica]
Le forze da sbarco, precedute da uno sfortunato lancio di paracadutisti (nessuna delle unità scese nel luogo stabilito e molti parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota, lungo la rotta di ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti perché scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da una formidabile flotta combinata.
Supermarina non si assunse la responsabilità di inviare la flotta a difesa dell'isola, rischiandone la totale distruzione, quindi chiese capo di stato maggiore di prendere tale decisione; ne segui una serie di discussioni che non portarono ad alcuna azione operativa.[11] La decisione fu in qualche modo giustificata dal fatto che, in assenza di adeguata copertura aerea, le corazzate e gli incrociatori italiani sarebbero salpati per una missione suicida. Tuttavia neppure i numerosi sommergibili in agguato a sud della Sicilia ottennero risultati: nel corso della campagna di Sicilia la Regia Marina perse i sommergibili Ascianghi, Bronzo, Flutto, Nereide, Argento ed Acciaio con la morte in tutto di 152 uomini, ottenendo come unica contropartita i gravi danneggiamenti degli incrociatori leggeri Cleopatra e Newfoundland e l'affondamento della motocannoniera MGB 641[12][13].
La flotta alleata contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney, Warspite e Valiant, quest'ultima appena rientrata in servizio dopo l'attacco di Alessandria), più altre due di riserva ad Algeri ("Forza Z" con le corazzate Howe e King George V), le portaerei Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion, Newfoundland, Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope, Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le forze di appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly, 8 cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in batterie galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US Navy per parte sua schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS Savannah, USS Philadelphia, USS Brooklyn e USS Birmingham), oltre a 25 cacciatorpediniere e a un monitore britannico. Da notare anche la presenza tra queste forze di unità appartenenti a paesi occupati, come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime truppe toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.
Le forze terrestri [modifica]
Nave inglese colpita da un bombardiere tedesco durante lo sbarco a Gela l'11 luglio.
Le forze dell'8ª Armata (il XXX Corpo d'armata formato dalla 1ª Divisione canadese, la 51ª Divisione e la 231ª Brigata Malta, e il XIII Corpo d'armata costituito dalla 5ª e dalla 50ª Divisione) sbarcarono nei tratti di costa compresi tra la penisola di Pachino e la piazzaforte di Siracusa-Augusta, sul versante ionico, ad eccezione della 1ª Divisione canadese che sbarcò più a sud. Due brigate, la 1ª Brigata Paracadutisti e la 1ª Brigata Aviotrasportata (su alianti), distaccate dalla 1ª Divisione Aviotrasportata britannica furono aviosbarcate dietro le linee italiane per conquistare dei punti chiave.
La 7ª Armata di Patton sbarcò dapprima tre divisioni nel tratto di costa compreso tra Licata e Gela[14]. La 3' divisione sbarcò nella costa a ovest di Licata, località Torre di Gaffe e baia di Mollarella, 5-8 chilometri a ovest di Licata. La 1ª divisione sbarcò nei pressi di Gela e la 45ª divisione nei pressi di Scoglitti. L'82ª Divisione Aviotrasportata o paracadutisti fu invece aviosbarcata tra Gela e Scoglitti. Di fronte a queste forze c'erano le divisioni denominate costiere dell'Asse Germania Italia, in particolare la 206ª nell'estremo sud-est dell'isola, la 207ª a Licata in località Sant'Oliva o San Oliva o S.Oliva, e la 18ª Brigata costiera sulla costa di Gela. Furono queste unità, oltre alle batterie costiere, a sopportare l'urto dello sbarco americano. Il fuoco di controbatteria delle navi da guerra e l'appoggio aereo favorirono la rapida attestazione delle forze di invasione, anche se nei punti maggiormente muniti di artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra. Nei numerosi tratti di costa privi di difesa le truppe alleate poterono avanzare dai punti di sbarco senza difficoltà. Tuttavia a Licata furono combattute aspre battaglie porta a porta e la città fu interamente conquistata dagli Alleati il 21 luglio 1943 e quindi fu fatta sbarcare anche la 2' divisione corazzata. Nell'entroterra erano presenti la divisione Livorno e la divisione Hermann Göring, oltre alla male armata Napoli. In riserva momentanea la 15ª Divisione Panzergrenadier tedesca, divisa in gruppi tattici, non aveva più di 60 carri. A ovest erano schierate le divisioni italiane Aosta e Assietta. Al comando delle forze dell'Asse, da Berlino fu inviato Hans-Valentin Hube.
La Sicilia si arrende [modifica]
I combattimenti [modifica]
Il generale Patton a Palermo riceve il 28 luglio 1943 il gen. Montgomery all'aeroporto
Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.
Sul fiume Simeto fu combattuta un'altra durissima battaglia che impegnò gli inglesi dell'VIII Armata, bloccando la loro avanzata verso Catania. Il 16 luglio gli americani arrivarono ad Agrigento. Nonostante la combattività e il valore di gran parte delle forze dell'Asse (non solo le efficienti unità tedesche)[senza fonte], la Sicilia fu occupata in soli 38 giorni quando, il 17 agosto, le truppe Alleate entrarono a Messina, dopo aver conquistato Palermo il 22 luglio e Catania il 5 agosto.
I tedeschi con un ponte di barche riuscirono a trasferire in Calabria la gran parte delle loro truppe e dei loro mezzi, a differenza degli italiani che abbandonarono molti dei loro.
Lo sbarco a Licata [modifica]
Lo sbarco a Licata avvenne la notte tra il 9 e 10 luglio 1943 mediante la 7ª Armata statunitense comandata dal generale Patton che sbarcò la 3ª Divisione Fanteria (3rd Infantry Division), comandata dal Maggiore Gen. Lucian King Truscott (Joss Force). Lo sbarco avvenne nelle spiagge vicino Licata, poiché il Porto di Licata costituiva obiettivo strategico e quindi occupato dai militari dell'Asse (Germania nazista e Italia). L'ora "H" ebbe inizio alle ore 2.45 del 10 luglio 1943 e quindi iniziarono le operazioni di sbarco nelle spiagge prestabilite. Alle 2,57 nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra i primi carri armati americani. La 3ª divisione sbarcò contestualmente a ovest della città di Licata, nelle spiagge di Torre di Gaffi e Mollarella e ad est di Licata nelle spiagge di Falconara e nelle spiagge della Playa. Gli Alleati sbarcati a Licata furono bombardati dalle forze dell'Asse e furono colpite e affondate la nave Maddox e Sentinel delle forze Alleate. Gli Alleati comunque riuscirono a sbarcare tutti gli uomini dalle navi e conquistata completamente Licata già nella mattinata del 10 Luglio 1943, proseguirono verso Palma di Montechiaro e Campobello di Licata. Il faro del porto di Licata, data la notevole altezza, ha una portata di circa 21 miglia marine, costituiva un sicuro riferimento. Il porto di Licata nei giorni successivi allo sbarco, assicurava l'arrivo dei rifornimenti. Gli alleati la mattina del 10 luglio 1943, alle ore 8 circa, avevano già messo la bandiera stelle e strisce degli Stati Uniti d'America, a Licata, sulla montagna di Sant'Angelo. Il giorno 12 luglio gli Alleati erano nelle campagne circostanti la città, in località S.Oliva o Sant'Oliva o San Oliva, nei pressi dell'omonima stazione ferroviaria, distante circa 7 chilometri dalla città di Licata. Nella piana di Licata gli Alleati approntarono qualche giorno dopo lo sbarco, una pista di atterraggio.
L'occupazione alleata [modifica]
A capo dell'amministrazione militare alleata della Sicilia occupata, di competenza dell'AMGOT che venne battezzata in questa occasione, fu indicato Charles Poletti.
Solamente il 3 settembre iniziò lo sbarco e quindi l'invasione alleata nella penisola italiana con l'Operazione Baytown, in concomitanza con la firma dell'armistizio. Armistizio che fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa.
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Alfio Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi, 2006, ISBN 978-88-502-1100-5
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Carloni Fabrizio Gela 1943 Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia Mursia ISBN 978-88-425-4742-6
Costanzo Ezio Sicilia 1943. Le nove muse.
Costanzo Ezio, Mafia e Alleati, Le Nove Muse Editrice, Catania 2006
D'Este, C. 1943. Lo sbarco in Sicilia. Milano, Mondadori 1990. ISBN 978-88-04-33046-2
Li Gotti, C. Gli americani a Licata. Dall'amministrazione militare alla ricostruzione democratica (capitolo I - L'operazione Husky). Civitavecchia, Prospettiva editrice 2008. ISBN 978-88-7418-377-7
Maltese, P. Sbarco in Sicilia. Milano, Mondadori 1981.
Mangiameli, R. "La regione in guerra (1943-1950)" in Storia d'Italia - Le regioni dall'Unità ad oggi, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo. Torino 1987
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Renda F., Storia della Sicilia (1860-1970), Sellerio, Palermo 1987
Santoni, A. Le operazioni in Sicilia e Calabria. Roma, S.M.E. 1983.
Tranfaglia N., Mafia, politica , affari nell’Italia repubblicana (1943-1991), Laterza, Roma 1992
Zingali, G. L'invasione della Sicilia. Catania 1962.
Zangara Carmela 10 Luglio 1943 Lo sbarco degli Americani nelle testimonianze dei Licatesi. "La Vedetta" Editrice.
Fu così che ai primi caldi di luglio 1943 ci trovammo a la Curma. Mia nonna aveva ereditato una piccola proprietà, manco due tumoli di terra, bonificati, però, con alberi di pero, di pesco, di fico. Grande il castello di fichidindia che faceva da pudica cortina alla “robba”. C’era un casolare siciliano con feritoie per scrutare e se del caso sparare. Era dell’Ottocento. Tre ambienti si direbbe oggi: la cammara, tre metri per tre metri, l’ingresso giù con scala d’accesso e sotto la scala la mangiatoia; di fronte, la cucina all’antica; adiacente una stalla grande. L’ingresso era parte su pietra gessosa – la chiamavamo balata – e parte sulla nuda terra, battuta comunque e con sopra residui di paglia da tempo immemorabile; frammisti rami secchi di pruni. Amplissima la mangiatoia. Proveniva dall’ampia proprietà di mio bisnonno. Questi nell’ottocento si era dato alla speculazione zolfifera. Non aveva avuto molta fortuna. Bucava la terra, cercava zolfo. Quasi mai lo trovava, debiti contraeva. Sul letto di morte fece testamento, lo dettò al notaio che riservò per se stesso una buona fetta della nostra terra alla Curma. Una parte comunque pervenne a mia nonna. A quella casa non piccola, non grande, ero affezionato. Pervenuta a mia madre, fu venduta in un momento di nostre difficoltà economiche. Non sono riuscito a recuperarla. Ora, spalla; i proprietari attuali sparsi per il mondo non hanno tempo e voglia di buttar l’acqua fuori, come si dice.
Appena si arrivava si faceva subito la “ittena”, una rudimentale panca in pietra; v’era dentro una sorta di nicchia grande e vi si affiggeva una immagine sacra grande; di solito il sacro cuore di Gesù. Il miracolo avveniva nella “cammara”. In quei pochi metri quadri mia nonna faceva disporre il suo grande letto matrimoniale. Nell’angolo di fronte si apparecchiava il lettino per mia zia monaca che aveva per paravento due lenzuola legate ad un filo ad L che partiva da un chiodo alla parente di fronte, si attorcigliava ad un bastone che faceva da angolo e si fissava ad un altro chiodo alla parete di lato. Un lettino a terra nel mezzo ci usciva. Vi si coricava la sorella del cadetto di cui abbiamo parlato. Nel letto grande dormivano mia nonna due nipoti accanto e due altri ai piedi del letto. Mia nonna il suo materasso lo voleva di lana, per gli altri il materasso era un ripieno di paglia che si andava a prendere dalle aie fresche della tradizionale trebbiatura con le bestie. La raccolta era già alle spalle.
Fu così che nella notte del 10 luglio 1943 facemmo la tremenda esperienza di una bomba americana esplosa là vicino, a Piru. Si disse che a tarda notte avevano acceso il fuoco per cuocere i pomodori nel grande pentolone di rame e farne poi l’ “astratto”. Non morì nessuno per quell’incauto richiamo del volteggiante aereo americano, pronto a sganciare una bomba su innocui contadini alle prese con le conserve di pomodoro. Dopo guerra, a dignità nazionale ripresa, una denuncia penale occorreva fare contro quei nostri liberatori, figli o imparentati di emigranti compaesani.
Svegliati di soprassalto, nulla capendo, stropicciandoci gli occhi impauriti, non avemmo neppure il tempo di farci dire da mia zia monaca cosa era successo. Subito, subito, iusu, intimò con voce strozzata mia zia monaca. Bommi ittaru, bummi ittaru, soggiunse la zia che dicemmo essere esperta.
Ci sdraiammo giù, all’ingresso, sopra la paglia antica frammezzata da pruni pungenti. I culetti di noi bambini ebbero dolorose pizzicate. Le anziane per decenza tacquero. Stemmo alquanto in attesa di chissà quale nuova deflagrazione. Per fortuna nulla ebbe a seguire. Allora, mia zia salì sopra, prese coperte e lenzuola. Sotto, tutto aggiustò al fioco lume di una “lumera” ad olio. Risistemati da cristiani, mia zia monaca prese il suo rosario e cominciò a biascicare le solite avemaria. “Ave Maria, piena di grazie, il Signore è teco. Tu sei la benedetta” ….. e noi di seguito: Santa Maria madre di Dio, prega per noi peccatori …Il salmodiare ad un tratto cominciò a venire frammezzato dalla sorella del cadetto che con stridulo pianto istericamente lamentava “mammuzza mia can un ti viiu cchiu”. Quando poi raccontavano la vicenda, a noi bambini piaceva celiare: “ Santa Maria Madre di Dio … Mammuzza mia can un ti viiu chhiu”.
Mia nonna ebbe un moto di stizza. “U cafè vuogliu”. Aveva voglia mia zia monaca a dire: Madre mia, non si può!. Se accendiamo il fuoco, ci bombardano. Mia nonna, perentoria: u cafè vuogliu. Paziente e remissiva mia zia monaca, salì di sopra, prese il caffè scese giù e lo versò nel pentolino di acqua. Ristoratici in qualche modo, la tardissima ora ci portò tutti in un sonno che almeno per noi bambi fu profondo e tranquillo.
Alle prime luci del giorno, giunse il fratello della cuginetta di mia madre e se la portò via. Subito dopo, giunsero mio zio Pietro e mio padre e tutti quanti, nonna e nipoti, ci riportarono in paese. A Sant’Antonino, mio fratello Luigi, il bambino di manco tre anni e lo zio Pietro videro volteggiare sopra di loro gli impazziti aerei americani. Scesero da cavallo, e ripararono sotto un rovo ai bordi della strada. Sopra gli aerei sparavano a vuoto, in continuazione. Quei piloti saranno stati drogati, che non vi era bisogno alcuno di sparare. Non c’erano militari, e lo sapevano, non c’erano tedeschi e lo sapevano. Vero è che Mussolini, o chi per lui, aveva fatto piazzare sopra il fortilizio del Castelluccio un gran cannone. Non vi erano però artificieri, non vi erano soldati. Anche a lu “Cannuni” avevano piazzato un cannone. Lì, i soldati c’erano, ma neppure un colpo ebbe a sparare. Inettitudini? Ordini segreti? Intesa col nemico? Mah! Un dubbio mi assale. Non c’era alcun bisogno di bruciare tanto carburante, di sprecare tante munizioni, di mettere a repentaglio tante vite umane; tanti loro soldati, anche e far tanto spreco di apparecchi, come a quel tempo li chiamavamo. Ed allora, nessuno mi toglie dalla mente che tutto dipese dagli interessi delle grandi industrie di armi americane. Cui si aggiunse, strategicamente, l’intento di tenere impegnate forze tedesche in Sicilia. Cui dopo seguì la folla sfida tra Patton e Montgomery a chi arrivava prima a Palermo. Tutta roba da tribunale di guerra. Ma gli americani vinsero e furono eroi e liberatori, i tedeschi persero ed ebbero l’ignominia di Norimberga. Poi il fratello piccolo di tre anni andava salmodiando “ bum bum bum … mi spararu ccà (a quel posto) m’acchiapparu”. Erano state, però, le spine del rovo.
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Dice Sciascia all’atto dell’entrata degli americani, i siciliani erano “servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido”. Noi non abbiamo tanto pessimismo, pensiamo semplicemente che i siciliani a cominciare dai loro “fasci” si scrollarono di dosso questa abitudine a considerarsi servi e furono cittadini dignitosi, magari un po’ accorti nei confronti della giustizia “romana”. Con la democrazia cristiana – bisogna riconoscerlo – Roma non fu più “nemica”, lo Stato non più nemico. Un pizzico di diffidenza, non guasta ma senza mai esagerare. Simile sentire non è perspicuo e la letteratura abbisogna di forti tinte. Ritornare, dopo millenni, alla “servitù della gleba” fa molto scic e fa vendere. Per quel che ricordiamo nella congiuntura dello sbarco americano a Gela, c‘era molto senso della congiuntura, molto prammatico senso del presente, del vivere giorno per giorno. Non si pensava più né a Roma né a Mussolini. Sicuramente non si sapeva di Stevens e neppure più “la voce di Palazzo Venezia manteneva una sua tenue ragnatela d’incanto”. Alla radio non ci si toglieva più il berretto al comunicato di mezzogiorno: c’era il problema del mezzogiorno da risolvere. Accortamente dai Racalmutesi, desolatamente per i tanti “sfollati” venuti soprattutto da Palermo. Suonarono davvero “sirene e campane a martello [per annunciare] l’emergenza”? Noi non ricordiamo, francamente ci pare svolazzo poetico. Non saremmo tanto propensi a vedere i siciliani celebrare una strana kermesse quella «dei servi che finalmente si liberano da un padrone ed un altro ne attendono che sperano più largo, più generoso, più stupido.» Non si attaglia a Racalmuto. Racalmuto fu sinceramente anche se in modo indolente fascista. La creme dirigenziale era in mano a galantuomini del primo liberalismo giolittiano e facevano più o meno bene i medici o gli insegnanti elementari. Ronzavano un po’ troppo i giovinastri venuti su dal basso, ma velleitari erano, dopo tutto innocui, note folkloristiche. Non abbiamo avuto martiri fascisti (e manco comunisti). Il fascismo a Racalmuto lo introdusse – sì, proprio così – Calogero Vizzini con don Ciccu Burruano, i figli di costui e Agostino Puma. Nacque da esigenze padronali: quelle dei conduttori di miniere associatisi in un sindacatino confindustriale per fronteggiare l’incipiente rivolta dei laboratori delle miniere. Calogero Vizzini non tardò, però, a subire l’onta della repressione del prefetto Mori, la cui sovrastima di sé ebbe a perderlo per diffidenza di Mussolini in persona. In quella caduta fu coinvolto il fascista della prima ora il tenentino Burruano, che per diventare colonnello, a tarda età, dovette aspettare la caduta del regime. Dopo, fu più che altro celebre per le sue suadenti doti di gran cerimoniere nei veglioni (promiscui) del Circolo Unione.
Diviene qui ancor più sapida la prosa mirabile di Sciascia. Dilettiamoci insieme a leggerla: «La mattina del dieci gli americani erano sulla costa tra Gela e Licata. Il paese in cui mi trovavo, e che era il mio, distava da Licata una cinquantina di chilometri: ma era compreso in una zona rimasta alle semplici operazioni di rastrellamento. Così gli americani non giunsero che una settimana dopo. Giungevano alla spicciolata i feriti di un reggimento di bersaglieri che, nel punto più vicino della costa, erano entrati in contatto isolato con gli americani. Non erano siciliani, ma in gran parte veneti. I siciliani non si erano fatti cogliere, sapevano dove andare, si sbandarono al primo urto: che era in realtà urto insostenibile e grottesco, se si pensa che si contava su fossi mal scavati e in gran fretta per arrestare i carri armati; e che soltanto un paio di aerei si videro timidamente sorvolare i margini della zona. Dunque i feriti giungevano: e finivano proprio là dove il regime in vent’anni non aveva speso una lira né sostenuto i muri poco saldi. Finivano nell’inutile e vuoto ospedale del paese dove un medico frettolosamente fasciava le loro ferite, ma in quanto a mangiare, proprio niente da fare.
Non avevano niente le suore, niente sapeva che fare il podestà, ancor meno il segretario politico. C’era, sì, una colonia della Gil piena di buone cose e dotata di buone somme; ma via, proprio in quel momento, per dei solati che perdevano la guerra – mica si poteva perdere di vista il futuro, che era ben altrimenti nero che l’orbace.
Allora i giovani cercarono di rimediare alla meglio, quei pochi giovani del paese che ancora erano capaci di sentire qualcosa d buono [ …] Così i feriti poterono mangiare qualcosa, fino all’arrivo delle gallette e del corned beef americano.»
Riteniamo autobiografica l’ultima parte del nostro stralcio. Spiega bene come i commilitoni feriti a Racalmuto poterono aspettare, tutto sommato, la loro liberazione ‘americana’. Qualche chiosa: il podestà non c’era perché sotto le armi. Non si poteva destituirlo e così si pensò ad un Vice Podestà. So che fu fatta offerta ad uno zio di Sciascia: questi celestinianamente rifiutò. L’abbiamo scritto e tanto basta. La faccenda della Gioventù italiana del Littorio e soprattutto la faccenda delle buone cose e buone somme, ha purtroppo riscontri sgradevoli. Personaggi squallidi ebbero in mano quei beni e ne locupletarono. Nefasti prima, durante e dopo l’epoca fascista. Furono delatori fiscali e fecero impoverire certa brava gente su cui caddero strali tributari per inesistenti profitti di guerra. Di converso spalleggiarono quelli che i profitti di guerra li avevano davvero conseguiti. Comunque, figli e nipoti, dopo, condussero e o conducono vita esemplare e i meriti dei figli ricadano sui loro immeritevoli padri. Cose che comunque potranno venire alla luce solo ad apertura degli archivi per la caduta dell’attuale riserbo settantennale. Quei baldi giovani qualche peso sulla coscienza dovevano sentirlo: parlavano ancora di patria, di onore, di dedizione e se ne stavano caldi e sicuri mente i loro coetanei o poco più che coetanei perdevano sì la guerra ma con tanto onore e ne uscivano anche malconci nel corpo quando non perdevano le loro giovani vite. Io sono tutt’altro che patriottardo ma onore al merito … ed alla verità storica.
Sciascia, quando scriveva, non poteva disporre di informazioni come quelle che qui ritraiamo da WIKIPEDIA. Se avesse saputo, prudente com’era, sarebbe stato più accorto e puntuale. Accordiamogli di buon grado l’esimente della buonafede. Ma rileggiamo le note oggi disponibili in Internet.
Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.
E qui riprendiamo il bello e puntuale ricordo di Sciascia:
«Gli americani ancora non venivano. Passarono due autocarri carichi di soldati tedeschi, bagnati di sudore e con le armi al piede, seduti per quattro avevano lo sguardo fisso in avanti, stanco ed allucinato. L’indomani a mezzogiorno passarono ancora due tedeschi con una automobile munita di radio. Fecero sentire il bollettino trasmesso da Roma che da più giorni non sentivamo; mangiarono tranquillamente, fumarono i loro sigari. Due ore dopo la loro partenza, cinque soldati col lungo fucile abbassato sbucarono improvvisamente nella piazza, indecisi. Videro, davanti una porta semiaperta, qualche uomo in divisa; e si mossero sicuri. I carabinieri si trovarono puntati addosso i fucili senza capire che gli americani erano finalmente arrivati. Le loro pistole penzolarono nelle mani di uno della pattuglia. Un applauso scoppiò. Una voce chiese sigarette; e il caporale americano tastò le tasche del brigadiere dei carabinieri, ne tirò un pacchetto di Africa e lo lanciò agli spettatori. Come in un salotto quando fiorisce una battuta di spirito, un senso di amenità si diffuse al gesto del caporale.»
Questa singolare sincronia tra due tedeschi, quasi pacifici, che se ne vanno e cinque americani che “sbucano improvvisamente nella piazza”, lascerebbe perplessi se non si sospettasse che tra invasori americani e tedeschi belligeranti intesa c’era. Qualcuno mi dice che per un certo tempo carri armati tedeschi bivaccarono sotto l’arco di Tulumello, mentre fanti in gran numero stazionavano ai bordi del Purgatorio, finché non giunsero autocarri a prelevarli. Subito dopo, come avvisati, arrivò la ronda americana liberatrice.
Soggiunge Sciascia: «La festa era cominciata. Da tutte le strade la popolazione affluiva. Non si sa come cannate di vino passate di mano in ano sorvolarono la folla, bicchieri si arrubinarono, pieni e grondanti venivano offerti con dolce violenza alla pattuglia che li rifiutava. L’inglese degli emigranti sciamava goffo e servile intorno a quei cinque uomini stupefatti: tutti coloro che in America avevano guadagnato quel po’ di denaro che in patria era divenuto casa o podere, erano corsi come ad un appuntamento felice. Una enorme bandiera di seta lacera, la bandiera degli Stati Uniti, fu tolta di mano a quel pover’uomo che l’aveva tirata fuori: passò saldamente nelle mani di un altro che per caso, proprio in quei giorni, aveva lasciato le carceri regie. Fu allora il momento di passare alle insegne della casa del fascio. Tirate giù, furono accompagnate a calci per tutte le strade: e l’indomani si trovarono galleggianti dentro un abbeveratoio. Sembravano di bronzo, ma in realtà erano di latta. »
Aggiunge sempre Sciascia: «La kermesse era al suo vertice. Camionette e carri blindati affluivano tra ali plaudenti di popolo. Alquanto nervoso, e nervosamente sorridendo, un soldato dalla faccia di meticcio puntava dall’alto di un carro, la mitragliatrice sulla folla. In cambio ne riceveva un sorriso cordiale riflesso su centinaia di facce, un ammicco di intesa: ‘vuoi scherzare, lo sappiamo, ma domani mangeremo tutte le buone cose che ti porti dietro, i biscotti salati e gli spaghetti in scatola’. Qualche sigaretta pioveva sulla generale letizia, e alla mischia che ne seguiva la macchina fotografica di qualche soldato scattava. »
«Nel frattempo – soggiunge Sciascia – un contadino che, vedendo in campagna spuntare una pattuglia di americani, tentava chissà perché di fuggire, veniva raggiunto ed ucciso da una scarica di mitra: ma la notizia non incrinò la generale allegria.»
A questo punto per Sciascia scatta il represso ricordo di ingiustizie patite. «..la danza di circostanza era in preparazione. Si chiamava il ballo delle spie. Le spie. Mentre il popolo si scatenava nella ebbrezza, il vecchio avvocato C. [e forse doveva dire B.], con mano tremante di gioia intestava una specie di supplica: ‘Onorevole Comando Militare Alleato di …’ [intendeva dire di Canicattì?], e chiedeva la testa di una cinquantina di fascisti locali [noi pensiamo oltre duecento] che, da ex massone passato al fascismo, mai l’avevano tenuto nella dovuta considerazione. [Diciamo gli avevano fatto torto, o così pensava, lui]. Il segretario politico, il podestà [rectius, il vice podestà che quello era ancora lontano, sotto le armi], il maresciallo dei carabinieri furono l’indomani prelevati: e loro notizie giunsero alle famiglie qualche mese dopo, da Orano.» Venenum in cauta, una stilettatina a Ballassaru Tinebra. Non molto tempo dopo, finito sotto i colpi di lupara in piena piazza, da Centoeddeci, disse il processo; innocente, invece, per Sciascia e per Tanu Savatteri. Sul debito di Sciascia per questo primo sindaco, imposto dagli americani, abbiamo già detto e non vogliamo ripeterci. Oltretutto potremmo avere torto.
Ci pare che qualche ripensamento Sciascia lo abbia avuto, prossimo alla morte, in Fuoco all’Anima. Parlando con Porzio, taluni ricordi di kermesse sembrano perduti, altri ne affiorano. Qualche rettifica ci pare di coglierla. Al lettore il confronto ed il giudizio.
Se ben leggiamo, come si vede la storia è ondivaga; dipende agli umori, dalle idee, dalle convinzioni, dalle età. C’è chi ricorda una ronda di tre americani che scendono dalla guardia, per San Giuliano, svoltando per via Fontana all’insù e chi è certo di una pattuglia di cinque militari che sbucano all’improvviso. E questo è solo un dettaglio. Chi è certo di occhi corruschi e di placidi sguardi di graduati tedeschi e chi presume avieri drogati delle Forze Alleate. Ma tanto collima e tanto basta per varare uno squarcio di storia racalmutese.
Noi licenziamo il nostro rincorrere i nostri ricordi infantili. Valgano per i nostri compaesani senza fisime letterarie, senza voglia di avere la certezza in tasca, senza assumere atteggiamenti censori, senza volere violentare chi la pensa diversamente. Soprattutto senza idolatrie preconcette e senza sarcasmi astiosi.
Per chi la storia la vuole come sta nella carta stampata (a dire il vero, oggi, prevale quella leggibile in Internet) forniamo una raccolta di appunti e contrappunti informatici.
Chiediamo scusa per la noia che nolenti, ma incapaci, vi abbiamo arrecato.
Calogero Taverna
APPENDICE
[da WIKIPEDIA]
Le forze in campo
Perdite circa 167.000 perdite totali: Germania: 12.000 morti e prigionieri 8.000 feriti[4]
Regno d'Italia: 147.000 perdite (soprattutto prigionieri)[4] 24.846 perdite
(5.837 morti, 15.683 feriti, 3.326 prigionieri)[5]:
USA: 2.899 morti e dispersi 6.471 feriti 598 prigionieri
Regno Unito: 2.376 morti 7.548 feriti 2.644 prigionieri
Canada: 562 morti 1.664 feriti 84 prigionieri
L'operazione Husky (colosso) fu la prima invasione alleata del suolo italiano che durante la seconda guerra mondiale permise, con l'utilizzo di sette divisioni di fanteria (tre britanniche, tre statunitensi e una canadese) l'inizio della campagna d'Italia. L'operazione Husky costituì una delle più grandi azioni navali mai realizzate fino ad allora. Le grandi unità impegnate appartenevano alla 7ª Armata USA al comando del generale George S. Patton, e l'8ª Armata britannica al comando del generale Bernard Law Montgomery, riunite nel 15º Gruppo di Armate, sotto la responsabilità del generale inglese Harold Alexander.
La campagna ebbe inizio con lo sbarco in Sicilia (a Licata, tra Gela e Scoglitti e tra Pachino e Siracusa) delle forze alleate, tra il 9 e il 10 luglio 1943, a cui presero parte circa 160 000 uomini.
La pianificazione dello sbarco
L'attacco all'Italia fu deciso da americani ed inglesi durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 (a tal proposito, celebre rimase la definizione dell'Italia di Winston Churchill: «L'Italia è il ventre molle dell'Asse») e la pianificazione e l'organizzazione venne affidata al generale Dwight Eisenhower.
Accordi preliminari
La preparazione allo sbarco interessò una trattativa tra i rappresentanti del governo alleato e chi realmente aveva in Sicilia una grande influenza, ovvero la mafia[6]. Dalla relazione conclusiva della Commissione parlamentare Antimafia presentata alle Camere il 4 febbraio 1976: “Qualche tempo prima dello sbarco angloamericano in Sicilia numerosi elementi dell'esercito americano furono inviati nell'isola, per prendere contatti con persone determinate e per suscitare nella popolazione sentimenti favorevoli agli alleati. Una volta infatti che era stata decisa a Casablanca l'occupazione della Sicilia, il Naval Intelligence Service organizzò un'apposita squadra (la Target section), incaricandola di raccogliere le necessarie informazioni ai fini dello sbarco e della “preparazione psicologica” della Sicilia. Fu così predisposta una fitta rete informativa, che stabilì preziosi collegamenti con la Sicilia, e mandò nell'isola un numero sempre maggiore di collaboratori e di informatori. Ma l'episodio certo più importante è quello che riguarda la parte avuta nella preparazione dello sbarco dal gangster Lucky Luciano, uno dei capi riconosciuti della malavita americana di origine siciliana, il quale stava scontando una condanna a 15 anni[7]. Si comprende agevolmente, con queste premesse, quali siano state le vie dell'infiltrazione alleata in Sicilia prima dell'occupazione. Il gangster americano, una volta accettata l'idea di collaborare con le autorità governative, dovette prendere contatto con i grandi capimafia statunitensi di origine siciliana e questi a loro volta si interessarono di mettere a punto i necessari piani operativi, per far trovare un terreno favorevole agli elementi dell'esercito americano che sarebbero sbarcati clandestinamente in Sicilia per preparare all'occupazione imminente le popolazioni locali. “Luciano” venne graziato nel 1946 “per i grandi servigi resi agli States durante la guerra”, tornò a Napoli a fare contrabbando di sigarette e traffico di eroina.
E un fatto che quando il 10 luglio 1943 gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia, il generale Patton raggiunse Palermo in soli sette giorni. Scrisse Michele Pantaleone: “...è storicamente provato che prima e durante le operazioni militari relative allo sbarco degli alleati in Sicilia, la mafia, d'accordo con il gangsterismo americano, s'adoperò per tenere sgombra la via da un mare all'altro...”[7]. Ancora la Commissione antimafia: "la mafia rinascente trovava in questa funzione, che le veniva assegnata dagli amici di un tempo, emigrati verso i lidi fortunati degli Stati Uniti, un elemento di forza per tornare alla ribalta e per far valere al momento opportuno, come poi effettivamente avrebbe fatto, i suoi crediti verso le potenze occupanti”[7].
Accordi fra Allen Dulles e Lucky Luciano
La trattativa fra servizi segreti americani e criminali mafiosi passò attraverso l'Office of Strategic Services, (OSS), diretto dal generale William Donovan: gerarchicamente, l’OSS in Europa dipendeva da Allen Dulles[8], che aveva la propria sede in Svizzera, il suo diretto dipendente in Italia era l’italoamericano Massimo Corvo, di origini siciliane, noto come "Max" e detto in codice "Maral", numero di matricola 45[9].
Max Corvo incominciò ad organizzare i propri uomini formando un'unità militare che, fra le forze armate americane era nota come the mafia circle (il circolo della mafia). Stabilì quindi ulteriori contatti con Victor Anfuso, Lucky Luciano, Vito Genovese, Albert Anastasia e altre persone delle organizzazioni criminali italoamericane inserite nell’operazione Underworld, un giovane raccomandato dallo stesso Luciano, Michele Sindona, e anche un certo Licio Gelli[9].
Max Corvo e la sua squadra vengono sbarcati in Nord Africa a maggio 1943. Poi tre giorni dopo l’attacco, l’unità prende terra a Falconara, vicino a Gela, e si stabilisce nel castello della cittadina. A Melilla Corvo incontra padre Fiorilla, parente di uno dei suoi uomini e parroco di San Sebastiano, poi è ad Augusta, sua città natale, per reclutare collaboratori locali. Intanto gli agenti dell’OSS occuparono le isole piùà piccole intorno alla Sicilia, fra cui Favignana e liberarono dalla prigione numerosi boss della mafia, che furono arruolati nel servizio dell’OSS, circa 850 "uomini d'onore" raccomandati dai capi mafiosi siciliani, che dopo l'occupazione assunsero cariche pubbliche nell’amministrazione militare del colonnello Charles Poletti: in provincia di Palermo ci furono 62 sindaci mafiosi.[9].
Le forze contrapposte erano sulla carta di consistenza quasi pari, dato che la Sesta Armata italiana (generale Alfredo Guzzoni) poteva contare su circa 220.000 uomini, solo 170.000 dei quali erano però combattenti. Le grandi unità italiane erano inoltre carenti sotto tutti i punti di vista (armamento e motorizzazione soprattutto), e molte erano unità costiere prive di armamento pesante. Alcune eccezioni erano costituite da un battaglione di artiglieria semovente aggregato alla Divisione Livorno, che aveva in carico un certo numero di semoventi da 90/53, in grado di mettere fuori combattimento qualunque mezzo corazzato alleato. Il contingente tedesco, forte di 30.000 uomini circa ed al comando del generale Frido von Senger und Etterlin (sostituito il 15 luglio da Hans-Valentin Hube), a differenza degli italiani era perfettamente equipaggiato ed aveva sotto il suo controllo anche la Fallschirm-Panzer-Division 1 "Hermann Göring", dotata di alcuni carri pesanti Tiger I.
Pantelleria si arrende
I primi segnali dell'invasione si ebbero già un mese prima (11 giugno 1943), con la presa dell'isola di Pantelleria[10], primo lembo di terra italiana a cadere in mano alleata, seguita dalla caduta dell'isola di Lampedusa il 13 giugno.
A Pantelleria, dopo un violentissimo bombardamento aereo, il comandante italiano chiese e ottenne da Mussolini il permesso di arrendersi, facendo credere di non avere scorte idriche. In realtà le capaci caverne dell'isola, che già ospitavano degli hangar per l'aviazione, erano in grado di offrire un riparo sicuro a tutta la popolazione civile e militare dell'isola, e le scorte idriche e alimentari erano tutt'altro che esaurite. Gli alleati fecero circa 11.000 prigionieri tra le forze italiane.
Le forze navali [modifica]
Le forze da sbarco, precedute da uno sfortunato lancio di paracadutisti (nessuna delle unità scese nel luogo stabilito e molti parà vennero catturati; inoltre 23 dei 144 Dakota, lungo la rotta di ritorno, sorvolarono le navi alleate e vennero abbattuti perché scambiati per bombardieri dell'Asse) erano protette e scortate da una formidabile flotta combinata.
Supermarina non si assunse la responsabilità di inviare la flotta a difesa dell'isola, rischiandone la totale distruzione, quindi chiese capo di stato maggiore di prendere tale decisione; ne segui una serie di discussioni che non portarono ad alcuna azione operativa.[11] La decisione fu in qualche modo giustificata dal fatto che, in assenza di adeguata copertura aerea, le corazzate e gli incrociatori italiani sarebbero salpati per una missione suicida. Tuttavia neppure i numerosi sommergibili in agguato a sud della Sicilia ottennero risultati: nel corso della campagna di Sicilia la Regia Marina perse i sommergibili Ascianghi, Bronzo, Flutto, Nereide, Argento ed Acciaio con la morte in tutto di 152 uomini, ottenendo come unica contropartita i gravi danneggiamenti degli incrociatori leggeri Cleopatra e Newfoundland e l'affondamento della motocannoniera MGB 641[12][13].
La flotta alleata contava quattro navi da battaglia (Nelson, Rodney, Warspite e Valiant, quest'ultima appena rientrata in servizio dopo l'attacco di Alessandria), più altre due di riserva ad Algeri ("Forza Z" con le corazzate Howe e King George V), le portaerei Formidable e Indomitable, gli incrociatori Orion, Newfoundland, Mauritius e Uganda, gli incrociatori contraerei Aurora, Penelope, Euryalus, Cleopatra, Sirius e Dido, e 27 cacciatorpediniere. Le forze di appoggio diretto contavano 2 monitori, l'incrociatore Dehly, 8 cacciatorpediniere, 4 cannoniere, 5 mezzi da sbarco trasformati in batterie galleggianti, e 6 mezzi da sbarco con lanciarazzi. La US Navy per parte sua schierava cinque incrociatori (USS Boise, USS Savannah, USS Philadelphia, USS Brooklyn e USS Birmingham), oltre a 25 cacciatorpediniere e a un monitore britannico. Da notare anche la presenza tra queste forze di unità appartenenti a paesi occupati, come Olanda e Grecia. Con l'appoggio di queste forze le prime truppe toccarono terra nelle prime ore del 10 luglio.
Le forze terrestri [modifica]
Nave inglese colpita da un bombardiere tedesco durante lo sbarco a Gela l'11 luglio.
Le forze dell'8ª Armata (il XXX Corpo d'armata formato dalla 1ª Divisione canadese, la 51ª Divisione e la 231ª Brigata Malta, e il XIII Corpo d'armata costituito dalla 5ª e dalla 50ª Divisione) sbarcarono nei tratti di costa compresi tra la penisola di Pachino e la piazzaforte di Siracusa-Augusta, sul versante ionico, ad eccezione della 1ª Divisione canadese che sbarcò più a sud. Due brigate, la 1ª Brigata Paracadutisti e la 1ª Brigata Aviotrasportata (su alianti), distaccate dalla 1ª Divisione Aviotrasportata britannica furono aviosbarcate dietro le linee italiane per conquistare dei punti chiave.
La 7ª Armata di Patton sbarcò dapprima tre divisioni nel tratto di costa compreso tra Licata e Gela[14]. La 3' divisione sbarcò nella costa a ovest di Licata, località Torre di Gaffe e baia di Mollarella, 5-8 chilometri a ovest di Licata. La 1ª divisione sbarcò nei pressi di Gela e la 45ª divisione nei pressi di Scoglitti. L'82ª Divisione Aviotrasportata o paracadutisti fu invece aviosbarcata tra Gela e Scoglitti. Di fronte a queste forze c'erano le divisioni denominate costiere dell'Asse Germania Italia, in particolare la 206ª nell'estremo sud-est dell'isola, la 207ª a Licata in località Sant'Oliva o San Oliva o S.Oliva, e la 18ª Brigata costiera sulla costa di Gela. Furono queste unità, oltre alle batterie costiere, a sopportare l'urto dello sbarco americano. Il fuoco di controbatteria delle navi da guerra e l'appoggio aereo favorirono la rapida attestazione delle forze di invasione, anche se nei punti maggiormente muniti di artiglieria costiera la lotta fu piuttosto aspra. Nei numerosi tratti di costa privi di difesa le truppe alleate poterono avanzare dai punti di sbarco senza difficoltà. Tuttavia a Licata furono combattute aspre battaglie porta a porta e la città fu interamente conquistata dagli Alleati il 21 luglio 1943 e quindi fu fatta sbarcare anche la 2' divisione corazzata. Nell'entroterra erano presenti la divisione Livorno e la divisione Hermann Göring, oltre alla male armata Napoli. In riserva momentanea la 15ª Divisione Panzergrenadier tedesca, divisa in gruppi tattici, non aveva più di 60 carri. A ovest erano schierate le divisioni italiane Aosta e Assietta. Al comando delle forze dell'Asse, da Berlino fu inviato Hans-Valentin Hube.
La Sicilia si arrende [modifica]
I combattimenti [modifica]
Il generale Patton a Palermo riceve il 28 luglio 1943 il gen. Montgomery all'aeroporto
Dopo una serie di bombardamenti dalle navi e di attacchi aerei la settima armata americana, comandata dal Generale Patton, sbarcò la 3ª Divisione fanteria comandata dal generale Truscott. Alle 2,45 della notte tra il 9 e il 10 luglio 1943 iniziò lo sbarco di 20 000 uomini a Licata, Spiaggia o Baia di Mollarella e Poliscia ore 2,57. Gli altri sbarchi avvennero a Gela, dove tremila paracadutisti furono lanciati nell'entroterra, e a Scoglitti, nel ragusano. In 24 ore 160 000 uomini furono sbarcati. Tra il 10 e l'11 luglio la divisione tedesca "Hermann Goering" e quella italiana "Livorno" contrattaccarono gli americani nella piana di Gela, dove fu combattuta una terribile battaglia: i contrattacchi dei "gruppi mobili" italiani, reparti di formazione motocorazzati costituiti ciascuno da circa 1.500-2.000 uomini, una dozzina di carri o semoventi ed una batteria d'artiglieria misero in seria crisi le posizioni alleate; significativa la carica dei circa 20-30 carri Renault R-35 di preda bellica del 131º Reggimento carri, che da soli attraversarono quasi tutta la testa di ponte americana mettendo, insieme ai vigorosi contrattacchi della "Livorno" (l'unica fra le divisioni italiane parzialmente motorizzata) e della "Hermann Goering", a serissimo rischio tutto il piano d'invasione della 5ª Armata USA; tutta l'operazione di sbarco fu salvata solo dall'imprevista efficacia del tiro navale, che si abbatteva inesorabile sugli italotedeschi. Anche gli assalti di un raccogliticcio ma coraggioso CCCCXXIX battaglione costiero, male armato, poco addestrato e addirittura deficiente nelle dotazioni di base (ad esempio, non tutti avevano scarpe, che si passavano a chi doveva fare i turni di guardia) furono così energici da arrestare l'impeto americano.
Sul fiume Simeto fu combattuta un'altra durissima battaglia che impegnò gli inglesi dell'VIII Armata, bloccando la loro avanzata verso Catania. Il 16 luglio gli americani arrivarono ad Agrigento. Nonostante la combattività e il valore di gran parte delle forze dell'Asse (non solo le efficienti unità tedesche)[senza fonte], la Sicilia fu occupata in soli 38 giorni quando, il 17 agosto, le truppe Alleate entrarono a Messina, dopo aver conquistato Palermo il 22 luglio e Catania il 5 agosto.
I tedeschi con un ponte di barche riuscirono a trasferire in Calabria la gran parte delle loro truppe e dei loro mezzi, a differenza degli italiani che abbandonarono molti dei loro.
Lo sbarco a Licata [modifica]
Lo sbarco a Licata avvenne la notte tra il 9 e 10 luglio 1943 mediante la 7ª Armata statunitense comandata dal generale Patton che sbarcò la 3ª Divisione Fanteria (3rd Infantry Division), comandata dal Maggiore Gen. Lucian King Truscott (Joss Force). Lo sbarco avvenne nelle spiagge vicino Licata, poiché il Porto di Licata costituiva obiettivo strategico e quindi occupato dai militari dell'Asse (Germania nazista e Italia). L'ora "H" ebbe inizio alle ore 2.45 del 10 luglio 1943 e quindi iniziarono le operazioni di sbarco nelle spiagge prestabilite. Alle 2,57 nella spiaggia di Mollarella e Poliscia toccarono terra i primi carri armati americani. La 3ª divisione sbarcò contestualmente a ovest della città di Licata, nelle spiagge di Torre di Gaffi e Mollarella e ad est di Licata nelle spiagge di Falconara e nelle spiagge della Playa. Gli Alleati sbarcati a Licata furono bombardati dalle forze dell'Asse e furono colpite e affondate la nave Maddox e Sentinel delle forze Alleate. Gli Alleati comunque riuscirono a sbarcare tutti gli uomini dalle navi e conquistata completamente Licata già nella mattinata del 10 Luglio 1943, proseguirono verso Palma di Montechiaro e Campobello di Licata. Il faro del porto di Licata, data la notevole altezza, ha una portata di circa 21 miglia marine, costituiva un sicuro riferimento. Il porto di Licata nei giorni successivi allo sbarco, assicurava l'arrivo dei rifornimenti. Gli alleati la mattina del 10 luglio 1943, alle ore 8 circa, avevano già messo la bandiera stelle e strisce degli Stati Uniti d'America, a Licata, sulla montagna di Sant'Angelo. Il giorno 12 luglio gli Alleati erano nelle campagne circostanti la città, in località S.Oliva o Sant'Oliva o San Oliva, nei pressi dell'omonima stazione ferroviaria, distante circa 7 chilometri dalla città di Licata. Nella piana di Licata gli Alleati approntarono qualche giorno dopo lo sbarco, una pista di atterraggio.
L'occupazione alleata [modifica]
A capo dell'amministrazione militare alleata della Sicilia occupata, di competenza dell'AMGOT che venne battezzata in questa occasione, fu indicato Charles Poletti.
Solamente il 3 settembre iniziò lo sbarco e quindi l'invasione alleata nella penisola italiana con l'Operazione Baytown, in concomitanza con la firma dell'armistizio. Armistizio che fu firmato a Cassibile, in provincia di Siracusa.
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Alfio Caruso, Arrivano i nostri, Longanesi, 2006, ISBN 978-88-502-1100-5
Bartolone Giovanni, Le altre stragi. Le stragi alleate e tedesche nella Sicilia 1943-1944, Bagheria (Palermo), Tipografia Aiello & Provenzano, 2005.
Carloni Fabrizio Gela 1943 Le verità nascoste dello sbarco americano in Sicilia Mursia ISBN 978-88-425-4742-6
Costanzo Ezio Sicilia 1943. Le nove muse.
Costanzo Ezio, Mafia e Alleati, Le Nove Muse Editrice, Catania 2006
D'Este, C. 1943. Lo sbarco in Sicilia. Milano, Mondadori 1990. ISBN 978-88-04-33046-2
Li Gotti, C. Gli americani a Licata. Dall'amministrazione militare alla ricostruzione democratica (capitolo I - L'operazione Husky). Civitavecchia, Prospettiva editrice 2008. ISBN 978-88-7418-377-7
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Mangiameli, R. "La regione in guerra (1943-1950)" in Storia d'Italia - Le regioni dall'Unità ad oggi, a cura di M. Aymard e G. Giarrizzo. Torino 1987
Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi, Torino 1978
Renda F., Storia della Sicilia (1860-1970), Sellerio, Palermo 1987
Santoni, A. Le operazioni in Sicilia e Calabria. Roma, S.M.E. 1983.
Tranfaglia N., Mafia, politica , affari nell’Italia repubblicana (1943-1991), Laterza, Roma 1992
Zingali, G. L'invasione della Sicilia. Catania 1962.
Zangara Carmela 10 Luglio 1943 Lo sbarco degli Americani nelle testimonianze dei Licatesi. "La Vedetta" Editrice.
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